Proudhon, Carl Schmitt e la sinistra radicale
la posta in gioco intorno a una critica del liberalismo
di Edouard Jourdain
Il decennio successivo alla caduta del muro di Berlino, che si accompagna ad un tentativo di rinnovamento teorico per un progetto politico alternativo al capitalismo e alla democrazia liberale, costituisce un periodo in cui i pensatori di sinistra sono alla ricerca degli strumenti adeguati allo stesso tempo sia di diagnosticare il nuovo dato politico mondiale sia di pensare un socialismo che abbia tratto le dovute lezioni dal XX secolo. Mentre il decennio viene a confermare la nascita di un nuovo ordine mondiale in cui liberalismo e democrazia liberale sembrano consolidare la loro egemonia, hanno luogo gli attentati dell'11 settembre.
Quest'avvenimento ha diverse notevoli ripercussioni sulla maggior parte dei teorici critici di sinistra; innanzitutto, pone fine al mito della fine della storia, e mostra, certo per il peggio, che democrazia liberale e capitalismo non permettono la pacificazione del mondo. D'altra parte, rilancia l'interesse per il diritto, soprattutto nel suo rapporto con lo stato d'eccezione, e per le conseguenze politiche implicate dalla designazione del terrorista come nuovo nemico della democrazia. Qui si svelerebbe la vera natura della democrazia liberale nella necessità che essa avrebbe nel designare un nemico interno o esterno (è il caso della designazione degli "Stati canaglia"). La sicurezza rimarrebbe così più che mai il paradigma centrale mobilitato allo scopo di preservare un ordine nazionale e internazionale minacciato dalle sue proprie contraddizioni (le contraddizioni del capitalismo sono così estese o trasposte alla democrazia liberale). Inoltre, l'11 settembre segna ciò che si è voluto chiamare, a torto o a ragione, il "ritorno del religioso" incarnato soprattutto dai fondamentalismi monoteistici. Si tratta allora per i pensieri critici di collocarsi sul terreno di questi fondamentalismi sia per meglio combatterli, sia per meglio appropriarsi del loro potenziale rivoluzionario. Anche qui la revisione del marxismo si compie nel senso di un'attenzione del tutto particolare al fenomeno religioso: non si tratta più di considerarlo come un semplice prodotto dell'infrastruttura. La teologia è di nuovo presa sul serio, permettendo al contempo di fornire gli strumenti concettuali per una nuova interpretazione e una nuova trasformazione del mondo.
Questi nuovi dati politici e intellettuali sono altrettante ragioni che spiegano la riappropriazione critica da parte di alcuni teorici della "sinistra radicale" di Carl Schmitt (1888-1985), giurista sulfureo soprattutto per il suo sostegno al regime nazista. La tradizione del marxismo ortodosso aveva preso poco in considerazione la complessità del diritto, considerandolo come un semplice prodotto dei rapporti di produzione.
Tuttavia la fine della guerra fredda e la guerra contro il terrorismo incitano i teorici politici di sinistra a preoccuparsi dei problemi di diritto internazionale e delle strutture complesse dello stato d'eccezione che viene a caratterizzare il nuovo contesto politico internazionale. D'altra parte, la democrazia diventa una nozione rivalorizzata per rilegittimare la volontà del popolo ora che il concetto di "dittatura del proletariato" è diventato desueto. Si tratta allora di opporre la democrazia, intesa come un regime in cui l'azione collettiva e la partecipazione alla cosa pubblica sono sostenute da una coesione e una solidarietà in lotte comuni. In questo senso la democrazia si oppone al liberalismo concepito come una filosofia individualista in cui la volontà del popolo è limitata dal sistema di equilibrio dei poteri (checks and balance), il parlamentarismo e la consacrazione della proprietà privata. Questa opposizione recentemente reinvestita da alcuni teorici della sinistra radicale si ispira così ai lavori di Carl Schmitt riuniti soprattutto nell'opera Parlamentarismo e democrazia.
Ritroviamo anche in una prospettiva di revisione del marxismo una rilettura della nozione di conflitto in accordo con Carl Schmitt. Questa lettura è di due ordini: essa riguarda i conflitti interni a uno Stato o più ampiamente a una società, fosse anche mondiale, e i conflitti tra unità politiche, soprattutto le guerre. Per i primi, la teoria marxista della lotta di classe è stata riveduta basandosi su Machiavelli, con la lotta del popolo contro i "grandi", ma anche da Carl Schmitt per alcune ragioni: innanzitutto, il fallimento del regime sovietico ha posto in rilievo il fatto che l'estinzione definitiva dei conflitti è un'utopia che, posta in atto, è liberticida. Il conflitto, se non è sempre militarizzato o sostanzializzato da alcuni pensatori della sinistra radicale come è il caso in Carl Schmitt, non per questo non rimane per essi una componente fondamentale e irriducibile del politico.
Sia in Karl Marx sia in Carl Schmitt, ritroviamo il modello dell'ascesa agli estremi che sfocia nell'egemonia di un gruppo su un altro, ma in Carl Schmitt non può esservi vittoria definitiva: il conflitto rimane un orizzonte potenziale (lezione realista che ripresero per loro conto molti teorici della sinistra radicale). D'altra parte, la teoria del conflitto in Carl Schmitt è riscoperta nel momento in cui la revisione del marxismo suppone la presa in considerazione dei nuovi movimenti sociali e culturali che non si limitano allo schema ortodosso della lotta di classe, è il caso soprattutto della lotta delle donne, la lotta dei colonizzati, la lotta delle minoranze discriminate, ecc. È soprattutto questo potenziale di ubiquità della lotta che ne fa il suo successo presso gli autori post-marxisti che hanno tenuto conto dei lavori dei filosofi postmoderni nella scia di Foucault.
La riappropriazione critica di Carl Schmitt per quel che riguarda la teoria del conflitto è anche legata alla sua teoria della guerra che può essere letta come una critica dell'imperialismo in nome di principi umanitari e universalistici. In una problematica ampiamente posta in evidenza dall'11 settembre, si tratta di mostrare come la sovranità designa e identifica l'amico e il nemico, ciò nel contesto di una guerra civile caratterizzata dalla sospensione del diritto. Si tratta allora per il pensiero radicale di riappropriarsi di Carl Schmitt contro Carl Schmitt riprendendo il rapporto del diritto alla violenza, la categoria amico/nemico, la nozione di guerra giusta e di stato d'eccezione per meglio poter smorzare le contraddizioni e infine la strada senza uscita nella quale si trova l'ordine liberale mondiale.
Oltre a un contesto politico particolare, la riappropriazione critica di Carl Schmitt trova la sua origine in una filiazione sotterranea che risorge in occasione di una crisi globale del socialismo simile in numerosi punti a quella che ebbe luogo alla fine del XIX secolo e all'inizio del XX, concernente soprattutto la questione del soggetto rivoluzionario (legato in parte allo sviluppo delle nazionalità) e la critica del razionalismo. Oggi, la messa in causa delle tesi di un Rawls o di un Habermas si realizza grazie alla considerazione di fenomeni raramente afferrate dal liberalismo nella loro dimensione politica, soprattutto la guerra o i conflitti, il religioso, ecc.
È per mezzo di queste falle nella teoria liberale, e a volte marxista, che vanno a urtare i nuovi teorici critici mobilitando dei pensatori essi stessi influenzati da teorici della fine del XIX secolo che segnarono la prima crisi del socialismo (Nietzsche, Bergson, Sorel,…), all’occorrenza Benjamin, Foucault, Deleuze, e naturalmente Schmitt. Carl Schmitt considerava Sorel come il Machiavelli del XX secolo, ammirava Lenin, corrispondeva con Benjamin, Taubes, manteneva anche delle strette relazioni con una sinistra radicale che egli ha sempre stimato di più intellettualmente e politicamente dei moderati di destra o di sinistra. L'impatto delle teorie di Schmitt è dunque "non soltanto diretto, ma è anche 'mediato' dall'influenza che egli ha esercitato su dei pensatori che influiscono su di esse" [1]. La sua ricezione è dunque complessa, plurale, contraddittoria, e costituisce innanzitutto un confronto ineluttabile legato a delle tematiche che superano ampiamente il suo quadro di pensiero. La maggior parte degli autori che riprendono Carl Schmitt, come Agamben, Balibar, Negri, Derrida, Mouffe, sono improntati al marxismo.
Il fatto è che le figure di Carl Schmitt e di Karl Marx, nella loro comune critica della democrazia liberale e della morale "piccolo borghese", e nel loro approccio "materialista" o "concreto" del mondo che pretende di svelare i rapporti di forza dietro il diritto, hanno più di un punto in comune per suscitare il loro incontro. È Mario Tronti [2] che ha indubbiamente espresso nel migliore dei modi questo accostamento operato dalla forza della storia: "Entrambi vedendo erigersi davanti a loro la forza inattacabile di una ragione storica nemica cercano i mezzi del conflitto con essa a questo livello. E più traggono la grandezza tragica di questo compito dall'analisi realista della situazione dell'epoca, più si sono costretti a radicalizzare gli estremi della decisione politica. Due forme di pensiero agoniste, "polemiche": non soltanto l'azione pratica, ma la ricerca teorica come guerra" [3].
Non si tratta qui di operare dei dubbi amalgama sul modo della "reductio ad hitlerum" che permetta di porre all'indice degli autori senza alcuna forma di processo. Tenteremo inoltre di spiegare in cosa Schmitt fu spinto allo scopo di revisionare il marxismo in una prospettiva che a priori può intersecare la tradizione anarchica: riscoperta del religioso e del politico che non si riducono a una superstruttura, rivalutazione della nozione di democrazia, riconcettualizzazione del conflitto la cui dimensione irriducibile, è riconociuta, ecc. Altrettanti temi sviluppati da Proudhon di cui ci chiederemo perché non sia stato mobilitato per le stesse ragioni di Schmitt. Vedremo che quest'ignoranza non è anodina e che se le teorie di Schmitt sono stimolanti su numerosi punti, compresi in una prospettiva anarchica, la valutazione critica della sua opera e degli scritti di coloro che si sono potuti qualificare (a volte abusivamente) come "schmittiani di sinistra" richiede un'attenzione maggiore.
Teologia politica e eccezione
"Tutti i concetti pregnanti della teoria moderna dello Stato sono dei concetti teologici secolarizzati" [4]. Questa forma lapidaria che ritroviamo nel famoso Teologia politica di Carl Schmitt, è oggetto di una riscoperta nella teoria politica, che apre allo stesso tempo a nuove riflessioni sul problema dello stato d'eccezione, poiché come afferma Scmitt, "la situazione eccezionale ha per la giurisprudenza lo stesso significato del miracolo per la teologia. È soltanto prendendo coscienza di questa posizione analoga che possiamo percepire l'evoluzione che hanno conosciuto le idee concernenti la filosofia dello Stato nel corso degli ultimi secoli" [5]. Questa tematica del teologico-politico, che fu anche sviluppata da autori come Proudhon o Bakunin (soprattutto con il suo celebre Dio e lo Stato) è oggi riscoperta da autori "radicali" come Agamben che riprende l'ipotesi di Carl Schmitt emendandolo con il concetto di governomentalità di Foucault. Agamben svela le tracce di questa governomentalità nella teologia cristiana che consacra il principio di oikonomia [6].
La modernità democratica è dunque erede di una tradizione di svelamento dello stato d'eccezione peculiare al potere e al sacro. D'altra parte, Agamben corregge la teoria dello stato d'eccezione di Carl Schmitt rileggendola in considerazione delle tesi di Walter Benjamin per meglio mettere in causa lo Stato democratico e più ampiamente il diritto che è sempre legato secondo lui al sacro. Secondo Benjamin esiste la possibilità di una violenza divina, rivoluzionaria, che può spezzare il circolo tra la violenza che fonda il diritto e la violenza che lo conserva. Si tratterebbe allora di una violenza al di fuori del diritto che consiste nel "deporlo". La differenza tra Benjamin e Schmitt riguarda il loro modo di considerare la figura del sovrano: mentre per Benjamin il sovrano barocco lascia lo stato d'eccezione al di fuori dell'ordine giuridico, di modo che la decisione verte su un indecidibile, Schmitt include lo stato d'eccezione nell'ordine giuridico, il che gli permette di fondare il suo decisionismo sulla trascendenza del sovrano. Mentre in Schmitt lo stato d'eccezione equivale al miracolo, diventa in Benjamin una catastrofe configurata da una "escatologia bianca" che spezza la "corrispondenza tra sovranità e trascendenza, tra il monarca e Dio, che definiva il teologico-politico schmittiano" [7].
Questa catastrofe presunta è legata al fatto, secondo Agamben, che lo stato d'eccezione è un dispositivo incaricato di articolare l'anomia e il nomos, la vita e il diritto, l'autorictas e la potestas che furono rispettivamente nella Roma repubblicana il Senato e il popolo o nell'Europa medievale il potere spirituale e il potere temporale, ora l'"antica dimora del diritto è fragile e, nella sua tensione per mantenere il suo ordine proprio, è sempre già inserita in un processo di rovina e di decomposizione" [8], perché quando i due elementi tendono a confondersi come è il caso durante il XX secolo allora il sistema giuridico-politico diventa una macchina di morte [9].
Questa visione dello stato d'eccezione in quanto zona anomica, distaccato dall'ordine giuridico, permette a Benjamin, ripreso da Agamben, di concettualizzare allora una violenza pura distaccata da ogni fine, da ogni diritto, e con ciò distinta da ogni violenza mitico-giuridica. Mentre la violenza fondatrice e conservatrice del diritto è sempre in una relazione di mezzo in rapporto ad un fine, la violenza davanti alla quale la libertà può svanire erigendo dei limiti non arbitrari (perché naturali e indipendenti da ogni volontà umana). Ora, a questo pensiero della trascendenza radicale del liberalismo, Schmitt oppone l'immanenza radicale della democrazia: "Ogni pensiero democratico si muove necessariamente in un campo di rappresentazioni immanenti. Ogni serie fuori dall'immanenza negherebbe l'identità. Ogni forma di trascendenza introdotta nella vita politica di un popolo conduce a delle distinzioni qualitative tra alto e basso, sopra e sotto, eletti e non eletti, ecc." [10].
Il pensiero liberale impone dunque, secondo Schmitt, una trascendenza alla democrazia e si oppone alla nozione democratica della legge, che non è nient'altro che l'espressione della volontà del popolo. Il liberale non potrebbe concepire un diritto del popolo a decidere assolutamente ciò che vuole, senza dover tener conto di una qualche norma. La dottrina liberale non suppone dunque unicamente di limitare il potere costituito per proteggere gli individui dagli abusi del potere, erige anche degli ostacoli al potere costituente, detto anche potere sovrano, in nome del principio di legalità. "La nozione di legalità è, storicamente e per sua natura, in rapporto stretto con lo Stato legislatore parlamentare e il normativismo che gli è proprio. Essa approfitta della situazione creata sotto l'impero dei principi assoluti, in particolare della negazione del diritto d'opposizione e del diritto di obbedienza senza limiti; essa li circonda del prestigio della legalità che deve alla sua codificazione preparata anticipatamente" [11].
Anche la decisione originaria, quella che esprime la volontà di un popolo di formare un'unità politica, deve dunque essere pensata come sottoposta a delle norme giuridiche. Ora, quest'ultime non sono per natura positive: esse devono trovare la loro origine in qualcosa di sovrapositivo, la natura o Dio. Qui le critiche di un Schmitt possono collegarsi a una critica anarchica del liberalismo, ma esse lasciano immediatamente posto a una teoria della democrazia fondata sull'identità e l'omogeneità che non hanno nulla di libertario. Secondo Schmitt, una democrazia "autentica" non può fare l'economia dell'identità tra il popolo e il potere. Questa identità dovrebbe cortocircuitare gli intermediari (soprattutto il parlamento) per meglio esprimere la volontà del popolo che dà allora una legittimità assoluta alle decisioni del capo dello Stato grazie all'acclamazione e al plebiscito.
L'ambizione di Carl Schmitt qui è chiara: ciò che egli cerca innanzitutto è la possibilità di conferire un margine di manovra assoluta per il potere di modo che esso non sia ostacolato nelle sue azioni e decisioni (da qui la necessità di una legittimità assoluta che non può provenire che da un sovrano non meno assoluto che è nei tempi moderni il popolo, e di una legittimazione di mezzi d'azione e di normalizzazione che passano attraverso la facoltà di decretare lo stato d'eccezione). Alcuni filosofi di sinistra, nella prospettiva di teorizzazione di una democrazia radicale, sono portati esplicitamente a confrontarsi a queste tematiche utilizzando sempre Carl Schmitt contro Carl Schmitt secondo dei punti di vista che spesso si oppongono malgrado la loro critica comune, ma là ancora eterogenee, della democrazia liberale. È così che un Negri intende rifondare la teoria di un potere costituente capace di sovvertire l'Impero grazie alla potenza della moltitudine. Egli riprende così Spinoza, come ha potuto farlo Carl Schmitt in una prospettiva leggermente diversa, e intraprende di rintracciare la genealogia del potere costituente (che risulta dalla tradizione dei Lumi "radicale") per meglio affrontare le possibilità di un decisionismo della moltitudine.
Zizek, in quanto a lui, si oppone alla filosofia dell'immanenza di Negri così come all'anti-istituzionalismo di un Agamben. Critico della democrazia liberale in quanto dissolvitrice dei punti di riferimento della certezza, egli intende riabilitare una trascendenza nell'immanenza che passa attraverso la ricostruzione del simbolico che trova il suo punto di ancoraggio nella figura di un capo che incarna il partito preso della rivoluzione. Contro questa riabilitazione del decisionismo, Derrida rivede le nozioni di giustizia e di giudizio sul metro di paragone dell'indecidibile. Anche qui la teoria di Derrida fa esplicitamente riferimento all'opera di Carl Schmitt, al contempo con e contro di lui come farà con la sua lettura della sua teoria dell'amico e del nemico: a seconda delle situazioni (che implicano il tener in conto l'eccezione) la transazione tra il calcolabile e l'incalcolabile implica un indecidibile che, facendo appello all'eterogeneo, permetterà la decisione. Infine, Mouffe e Laclau prospettano una democrazia che, per non dissolversi, ha bisogno di un esterno costitutivo che permette di tener insieme le logiche di differenza e di equivalenza che sono altrettanti componenti di un progetto di emancipazione che passa attraverso il riconoscimento della pluralità dei componenti della società. Si tratta allora per essi di riannodare con una teoria del populismo emendata dalla teoria dell'egemonia di Gramsci che può passare attraverso le forme parlamentari ma soprattutto attraverso il conflitto risultante dalla pluralità del corpo sociale.
Democrazia e liberalismo
Secondo Carl Schmitt, lo sforzo di uno Stato di diritto conseguente mira a respingere la nozione politica della legge [12] allo scopo di sostituire la sovranità realmente esisitente con una "sovranità della legge", eludendo così la questione di sapere quale volontà politica fa della norma un ordine che ha una validità positiva. Il liberalismo vuole dunque creare una grave difficoltà sulla questione della sovranità allo scopo di proteggere la libertà individuale contro una decisione che non può giudicare come arbitraria, poiché essa non è legittimabile nel quadro dell'ordine giuridico, e cioè che essa non può essere dedotta da nessuna norma esistente. In un'ottica liberale classica, la libertà individuale non può in effetti che essere garantita soltanto se esiste qualche cosa di assolutamente trascendente ad ogni volontà umana. Questo spiega perché i grandi pensatori liberali - da Locke a Tocqueville, passando per Montesquieu e Constant - facevano riferimento ad una normativa trascendente, a una legge naturale o un principio naturale di giustizia. Il liberalismo classico è anche segnato da un discorso giusnaturalistico che è esso stesso segnato da una forte dimensione religiosa (poiché emanante da una volontà "immanente" del sovrano). Le allusioni di Schmitt al diritto naturale sono abbastanza rare, ma esse non lasciano alcun dubbio sulla sua opinione nei confronti delle teorie giusnaturaliste. Nella sua Teoria della costituzione, egli constata che l'idea liberale dello Stato di diritto non era possibile finché "i pressupposti metafisici del diritto naturale erano accettati" [13].
Schmitt afferma dunque un legame tra pensiero liberale e pensiero giusnaturalista, quest'ultimo costituendo in qualche modo l'armatura metafisica della filosofia liberale, l'orizzonte normativo puro è una manifestazione, come può esserlo la collera, che taglia la relazione tra violenza e diritto. Il diritto non è più allora "praticato": con l'evento della violenza pura che coincide con il compimento messianico della legge e la società senza classe, il diritto diventa l'oggetto di uno studio o di un gioco. Così, ciò che "scava un passaggio verso la giustizia non è l'annullamento, ma la disattivazione e l'inoperosità del diritto - e cioè un altro uso di quest'ultimo" [14]. Possiamo avere un esempio di questo gioco con il diritto durante le feste anomiche come il "charivari" durante il Medioevo, in cui le gerarchie giuridiche erano rovesciate, i padroni servivano gli schavi, gli uomini e le donne invertivano i loro ruoli per meglio parodiare il nomos. Parodia che paradossalmente può verificarsi tanto arbitraria e tanto violenta come lo stato d'eccezione che Agamben intende denunciare. L'analisi dello stato d'eccezione rimane tanto fondamentale quanto complessa per comprendere la struttura dello Stato, e Schmitt ha ben mnostrarto che rimaneva presente, compreso nella sua versione liberale. Soltanto, la maggior parte degli autori che riprendono le analisi di Schmitt approdano velocemente in un antigiuridicismo per lo meno pericoloso, respingendo il diritto in quanto tale. Problema del diritto che ritroviamo nella critica del liberalismo da parte di Schmitt, che l'oppone alla democrazia. Questa dicotomia costituisce anche uno dei leitmotiv di alcuni pensatori di sinistra che intendono rifondare una teoria della democrazia radicale.
Perché è il conflitto che costituisce senz'altro un oggetto fondamentale nella revisione del marxismo e la ripresa critica di Carl Schmitt. Nel momento in cui la lotta di classe nel senso marxista del termine è diventato desueto, si tratta infatti per i nostri autori di rifondare una teoria del conflitto che vada di pari passo con una nuova teoria della democrazia radicale. Il conflitto non è più considerato come una fase di transizione che approda a uno stato sociale armonioso, né come la risultante dell'unica lotta di classe sempre più dura da definire. Da qui la ripresa critica di Carl Schmitt che sostiene che il conflitto, e più particolarmente la discriminazione amico-nemico, costituisce il criterio del politico. Per di più, ogni campo della vita sociale (religioso, economico, ...) è potenzialmente politico non appena si giunge ad un'ascesa agli estremi che sfocia al conflitto e alla vittoria di una delle parti sull'altra, vittoria non definitiva che resta presa nell'orizzonte della possibilità della guerra. Da qui il nuovo interesse per Carl Schmitt che teorizza l'ubiquità del politico attraverso la potenzialità conflittuale che permette l'allargamento da una lettura economicistica dei conflitti a un insieme più ampio di lotte (culturali, delle minoranze,...).
Contro un tentativo di falsa pacificazione che comporta una riaccutizzazione di violenza e l'ascesa dell'estrema destra, i nostri autori intendono contrastare la depoliticizzazione liberale che si accompagna ad un indebolimento della democrazia. Il conflitto, che passa così spesso attraverso una lettura di Machiavelli, permette anche ai nostri autori di sviluppare la loro teoria di una democrazia radicale in prospettive che rimangono sempre tuttavia ampiamente eterogenee. È senz'altro Mouffe e Laclau che fanno maggiormente riferimento a Carl Schmitt nella loro ripresa della sua teoria del conflitto, e che paradossalmente si allontanano forse di più: secondo loro il conflitto è una realtà irriducibile che consiste nell'articolare le catene di equivalenza e di differenza in una prospettiva che consiste nel fondare un'egemonia che contiene un'ascesa agli estremi degenerando in guerra.
Tutta la posta in gioco è allora dio passare dall'antagonismo schmittiano all'antagonismo che suppone l'assenza di distruzione del nemico. Balibar, in quanto a lui, mobilita numerosi autori per ripensare l'antagosnismo e il conflitto: Marx, Machiavel, Clausewitz, Spinoza, Foucault, che gli permettono allo stesso tempo di revisionare la teoria dell'ascesa agli estremi che ritroviamo in Schmitt e Marx per concepire una politica della civiltà in cui il politico costituisce innanzitutto la determinazione di una soglia oltre la quale l'umanità e la dignità non hanno più senso (il che lo porta a occuparsi da vicino della questione del male radicale). Derrida si è in quanto a lui particolarmente occupato a decostruire la teoria schmittiana dell'amico e del nemico sia criticando la nozione di nemico concreto e la dimensione fraterna che rinvia all'amico (e dunque anche la fraternocrazia).
La guerra e la pace sono pensate nella loro differenza in Derrida in un modo che si distingue da una teoria politica schmittiana sempre intaccata da una dimensione hegeliana per via della sua teleologia: la negatività è tanto più interna in quanto è politica.Ciò non significa necessariamente che Derrida nega l'esistenza del nemico, sottolineando soprattutto il pericolo esisitente non appena il nemico non ha nome. Si tratta allora per lui di pensare una nuova politica dell'antagonismo in cui l'amico e il nemico non sono più essenzializzati né iscritti in una teleologia. Infine, Zizek è tra coloro che restano il più fedelmente all'eredità marxista e in una certa misura schmittiana nella sua difesa dell'antagonismo compreso come lotta di classe che determina in ultima istanza tutte le altre lotte. Questa difesa si inscrive in una severa critica della democrazia liberale e in un certo modo della modernità caratterizzate allo stesso tempo dall'avvento dell'ultimo uomo che ha paura dell'avvenimento e della morte, ma anche dalla depoliticizzazione che consiste nel neutralizzare ogni lotta in favore dell'emancipazione economica e sociale.
Edouard Jourdain
[Traduzione di Ario Libert]
Titolo originale del saggio tratto dal semestrale Réfractions. Recherches et expressions anarchistes, non ancora on-line:
Poudhon, Carl Schmidt et la gauche radicale: enjeux autour d'une critique du libéralisme.
NOTE
[1] Razmig Keucheyan, Hémisphère gauche. Une cartographie des nouvelles pensées critiques [Emisfero sinistro. Una cartografia dei nuovi pensieri critici], Parigi, Zones, 2010, p. 36.
[2] Nato nel 1931, Mario Tronti fu militante del Partito comunista italiano negli anni cinquanta ed è uno dei fondatori dell'operaismo di cui Toni Negri fu uno degli animatori.
[3] Mario Tronti, La politique au crépuscule [La politica al crepuscolo], Parigi, L’éclat, 2000, citato a partire dal testo integrale disponibile in rete. Quest'aspetto polemico ha anche una dimensione euristica sia da un punto di vista teorico sia storico nella misura in cui il fenomeno dell'ascesa agli estremi di cui è stato testimone il XX secolo conferma la possibilità della loro comprensione grazie agli scritti dei nostri due autori: "impossibile, nel ventesimo secolo, leggere politicamente Marx senza Schmitt. Ma leggere Schmitt senza Marx non è nemmeno possibile storicamente, perché, senza Marx, Schmitt non esisterebbe". È per questo che Mario Tronti può affermare che "Karl Marx e Carl Schmitt sono un'archeologia politica del moderno più di quanto non lo siano Niccolò Machiavelli e Thomas More. Questi ultimi, l'eternità moderna li ha accolti, inoffensivi, nel paradiso della cultura. I primi due, li ha precipitati, maledetti, nell'inferno della politica". Ora la politica della fine del XX secolo e dell'inizio del XXI, segnata da una grave crisi del socialismo, avrebbe confermato la revisione indispensabile del marxismo da parte di Schmitt: "Il pensiero della politica ha avuto l'opportunità di rompere gli schemi ortodossi rigidi della tradizione marxista. Era, in sostanza, l'operazione Marx-Schmitt".
[4] Carl Schmitt, Théologie politique, Gallimard, 1922, 1988, p. 46.
[5] Ibid.
[6] Ossia i dispositivi di amministrazione delle cose o degli esseri.
[7] Agamben, État d’exception [Stato di eccezione], Seuil, 2003, p. 97.
[8] Ibid., p. 144.
[9] Secondo Agamben, lo stato d'eccezione che svela il vero volto del potere nel XX secolo mostra che la posta in gioco fondamentale degli Stati consiste oramai nell'amministrare la "vita nuda" dopo aver abbandonato l'eredità aristotelica dell'opera (l'uomo che ha compiuto il suo telos). Così, "sarebbe misconoscere del tutto la natura delle grandi esperienze totalitarie del XX secolo vedere in esse la semplice continuazione degli ultimi grandi compiti degli Stati-nazione del XIX secolo: il nazionalismo e l'imperialismo. La posta in gioco è allora ben altra e più estrema, poiché si tratta di assumere come missione la stessa esistenza fattizia dei popoli - e cioè, in ultima analisi, la loro vita nuda. In questo, i totalitarismi del nostro secolo costituiscono veramente l'altra faccia dell'idea hegelo-kojèviana di una fine della storia: l'uomo ha oramai raggiunto il suo telos storico e non rimane che la spoliazione della società umana attraverso l'espansione senza condizioni del regno dell'oikonomia, o l'assunzione della vita biologica stessa come missione politica suprema. Ma quando il paradigma politico - come è vero nei due casi - diventa la casa, allora il proprio, la più intima fatticità dell'esistenza rischia di trasformarsi in uno scacco fatale" (Agamben, La puissance de la pensée [La potenza del pensiero], Rivages, 2006, p. 279).
[10] Agamben, État d’exception [Lo stato d'eccezione], op.cit., p. 109.
[11] Intendiamo con "nozione politica della legge" il fatto che per Schmitt è iul sovrano che deve decidere della legge senza nessuna costrizione normativa trascendente (anche in un senso laico e umanistico).
[12] Carl Schmitt, Théorie de la constitution [Teoria della costituzione], PUF, 1928, 1993, p. 11.
[13] Ibid., p. 237.
[14] Carl Schmitt, "Légalité et légitimité" in: Du politique, "Légalité et légitimité" et autres essais, Pardès, 1996, p. 47.