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31 marzo 2015 2 31 /03 /marzo /2015 05:00

La Rivoluzione degiacobinizzataLes_Temps_modernes_aprile_1957.jpg

 

Daniel Guérin

 

La tradizione "giacobina"

È, non dimentichiamolo, nella Rivoluzione francese, nell'esperienza del 1793-94, che Proudhon aveva attinto la sua folgorante diatriba contro la restaurazione dello Stato. E Bakunin, suo discepolo, sottolinea che il loro pensiero essendosi "nutrito di una certa teoria" che "non è altro che il sistema politico dei Giacobini modificato più o meno ad uso dei socialisti rivoluzionari", "gli operai socialisti della Francia" ("non hanno mai voluto... capire" che "quando, in nome della Rivolzione, si vuole fare dello Stato, non fosse che dello Stato provvisorio, si fa... della reazione e si lavora per il dispotismo" [56]. Il disaccordo tra marxisti e libertari deriva, in una certa misura, dal fatto che i primi non naffrontano sempre la Rivoluzione francese sotto lo stesso angolo dei secondi. Deutscher ha percepito che esiste nel bolscevismo  un conflitto tra due spiriti, lo spirito marxista e lo spirito "giacobino", un conflitto che non sarà mai completamente risolto, né da Lenin, né dallo stesso Trotsky [57]. Nel bolscevismo, ritroviamo infatti, come vedremo, delle sequenze di giacobinismo più accentuate che nel marxismo originale. Ma credo che il marxismo stesso non ha mai del tutto superato una contradizione analoga. Vi è in esso un lato di spirito libertario e una lato di spirito "giacobino" o autoritario.

Questa dualità trae, a mio avviso, la sua origine, per un'ampia parte, in un apprezzamento a volte giusto, ma a volte anche erroneo, del vero contenuto della Rivoluzione francese. I marxisti vedono bene che quest'ultima ha tradito le aspirazioni popolari per il fatto stesso che essa è stata, oggettivamente e nei suoi risultati immediati, una rivoluzione borghese. Ma, allo stesso tempo, accade loro di essere obnubilati da un'applicazione abusiva della concezione materialista della storia, che la fa considerare loro a volte soltanto sotto l'angolo e nei limiti della rivoluzione borghese. Essi hanno ragione, sicuramente, di sottolineare i tratti relativamente (tutt'altro che indiscutibili) progressivi della rivoluzione borghese, ma questi tratti (che per di più anche dei libertari come Bakunin e Kropotkin, se non Proudhon, hanno esaltato come loro), vi sono dei momenti in cui essi li presentano in modo troppo unilaterale, in cui li sopravvalutano, in cui li idealizzano.

Boris Nicolaïevski pone certamente in modo esagerato l'accento, perché è un menscevico, su questa tendenza del marxismo. Ma c'è qualcosa di vero nella sua analisi. E l'estremista di sinistra tedesca del 1848, Gottschalk, non aveva torto di non essere disposto davanti alla prospettiva marxista "di sfuggire all'inferno del Medioevo" per "precipitarsi volontariamente nel purgatorio" del capitalismo [58]. Ciò che Isaac Deutscher dice dei marxisti russi di prima del 1917 (perché, oh paradosso, vi era molto menscevismo presso questi "bolscevichi"!) è valido, io credo, in una certa misura, per i fondatori stessi del marxismo "perché vedevano nel capitalismo una tappa sul cammino che portava dal feudalesimo al socialismo, essi esageravano i vantaggi di questa tappa, i suoi caratteri progressivi, la sua influenza civilizzatrice..." [59].

Se si confrontano i numerosi passi degli scritti di Marx e Engels riguardanti la Rivoluzione francese (di cui ho dato, nel mio libro alcuni estratti) non si può non constatare che a volte si accorgono mentre altre volte invece perdono di vista il suo carattere di "rivoluzione permanente". La rivoluzione dal basso, essi la vedono certa, ma soltanto per eclissi. Come hanno la tendenza a fare, nel loro zelo, i discepoli di ogni maestro, ho avuto il torto, nel mio libro, di presentare le vedute di Marx e di Engels sulla Rivoluzione francese come una "sintesi" coerente, di "dogmatizzarli", mentre in realtà esse presentavano delle contraddizioni difficilmente conciliabili (e che non sono soltanto dialettiche", e cioè riflettenti delle contraddizioni che esistono nella natura). Per dare un solo esempio (perché sarebbe troppo lungo ricapitolarle qui) Marx non esita a presentare gli umili sostenitori di Jacques Roux e di Varlet nei sobborghi come i "principali rappresentanti" del movimento rivoluzionario [60], ma sfugge ad Engels di scrivere che al "proletariato" del 1793 "poteva, tutt'al più, essere portato un aiuto dall'alto" [61].

Si capisce già meglio ciò che si deve intendere con questo spirito "giacobino" di cui parla Deutscher. A prima vista, il termine è privo di senso, perché chi potrebbe dire ciò che era veramente il "giacobinismo" nel 1793? La lotta di classe (benché ancora embrionale) passava attraverso la Società dei Giacobini. I suoi capi erano dei borghesi di sinistra difidenti, in fondo, nei confronti delle masse popolari e il cu obiettivo più o meno cosciente era di non superare i limiti della rivoluzione borghese. I Giacobini popolari erano dei plebei che, più o meno coscientemente, volevano varcare questi limiti. Alla fine, le due tendenze antagoniste divennero, per il fatto stesso del loro conflitto aperto, molto più coscienti e i Giacobini che erano in alto spedirono al patibolo i Giacobini che erano in basso (aspettando di esservi spediti essi stessi sotto la mannaia da borghesi più reazionari). Con "spirito giacobino", credo che si debba intendere la tradizione della rivoluzione borghese, della "dittatura" dall'alto del 1793, un po' idealizzata e insufficientemente differenziata dalla dittatura dal basso. E per estensione, si deve intendere anche la tradizione del cospirativismo babuvista e blanchista, che riprende dalla rivoluzione borghese le sue tecniche dittatorialio e minoritarie per porle al servizio di una nuova rivoluzione.

Si capisce perché i libertari vedono nel socialismo (o comunismo) del XIX secolo una certa tendenza "giacobina", "autoritaria", "governativa", una propensione al "culto della disciplina dello Stato" ereditata da Robespierre e dai Giacobini, che essi definiscono un'"umore borghese", una "eredità politica del rivoluzionarismo borghese", a cui oppongono l'affermazione che "le Rivoluzioni sociali dei nostri giorni non hanno nulla o quasi nulla da imitare nelle procedure rivoluzionarie dei Giacobini del 1793" [62].

Marx e Engels cadono, certamente, molto meno in questo rimprovero rispetto alle altre correnti socialiste, autoritarie e statiste, del XIX secolo. Ma ebbero essi stessi molte difficoltà dal liberarsi dalla tradizione giacobina. È per questo, per fare un solo esempio, che essi sono stati lenti nel disfarsi del mito "giacobino" della "centralizzazione rigorosa offerta come modello dalla Francia del 1793". L'hanno infine respinta, sotto la pressione dei libertari, ma non senza aver barcollato, esitato, rettificato il loro tiro e, anche nel loro ravvedimento, effettuato ancora un falso percorso [63]. Questo esitazione doveva permettere a Lenin di dimenticare i passi anticentralizzatori dei loro scritti - soprattutto una messa a punto fatta da Engels nel 1885 e che ho citato nel mio libro [64] - per non rotenere che "i fatti citati da Engels e riguardanti la Repubblica francese, centralizzata, dal 1792 al 1799" e per battezzare Marx un "centralista" [65].

Sui bolscevichi russi, infatti, l'impresa "giacobina è ancora più accentuata che sui fondatori del marxismo. E, per un'ampia parte, questa deviazione prende la sua origine in un'interpretazione a volte inesatta e unilaterale della Rivoluzione francese. Lenin, certo, ha molto bene rilevato il suo aspetto di "rivoluzione permanente". Ha dimostrato che il movimento popolare (che egli chiama impropriamente "rivoluzione democratica borghese") è stata lungi dal raggiungere nel 1794 i suoi obiettivi e che non vi perverrà, nei fatti, soltanto nel 1871 [66]. Se la vittoria completa non è stata conseguita sin dalla fine del XVIII secolo, è perché le "basi materiali del socialismo" facevano ancora difetto [67]. Il regime borghese non è progressivo che in rapporto all'autocrazia che l'ha preceduto, che come forma ultima di dominio e "l'arena più comoda per la lotta del proletariato contro la borghesia" [68]. Solo il proletariato è capace di spingere la rivoluzione sino in fondo "perché va molto oltre alla rivoluzione democratica" [69].

Ma, d'altronde, Lenin ha a lungo respinto la concezione della rivoluzione permanente e sostenuto che il proletariato russo dovrebbe, dopo la conquista del potere, limitarsi volontariamente a un regime di democrazia borghese. È perché ha spesso tendenza a sopravvalutare l'eredità della Rivoluzione francese, affermando che resterà "forse per sempre il modello di certi metodi rivolzuionari" e che gli storici del proletariato, devono vedere nel giacobinismo "uno dei punti culminanti che la classe oppressa raggiunge nella lotta per la sua emancipazione," i "migliori esempi di rivoluzione democratica" [70]. È per questo che idealizza Danton [71] e non esita a proclamarsi egli stesso un "Giacobino" [72]

Gli atteggiamenti giacobini di Lenin gli attirarono, nel 1904, una viva replica del giovane Trotsky. Per quest'ultimo (che non si era ancora allineato al bolscevismo), il giacobinismo, "è il massimo grado di radicalismo che possa essere fornito dalla società borghese". I rivoluzionari moderni devono difendersi dal giacobinismo quanto dal riformismo. Giacobinismo e socialismo proletario sono "due mondi, due dottrine, due tattiche, due psicologie separate da un abisso". Se entrambi sono intransigenti, le loro intransigenze sono qualitativamente diverse. Il tentativo per introdurre i metodi giacobini nel movimento di classe del proletariato, nelle rivoluzioni proletarie del XX secolo, non è altro che opportunismo. Essa esprime, allo stesso titolo del riformismo, "una tendenza a legare il proletariato ad un'ideologia, una tattica e infine una psicologia estranea e nemica dei suoi interessi di classe". A cosa serve, chiedeva il giovane Trotsky, aggiungere alla parola "Giacobino", come faceva Lenin, il correttivo "legato indissolubilmente all'organizzazione del proletariato" se si conservava allo stesso tempo una psicologia giacobina di sfiducia verso le masse? Indubbiamente lo stadio del "giacobinismo" o "blanquismo" corrispondeva allo stato arretrato della Russia. Ma, continuava Trotsky, "Non c'è da essere fieri se, in conseguenza del nostro ritardo politico, siamo ancora al giacobinismo" [73]. Sono tuttavia i metodi rivoluzionari borghesi e giacobini [74] derivanti da questo "ritardo politico" della Russia e poggianti "su vecchie tradizioni, su abitudini superate" [75] che più tardi saranno imposte in blocco come un dogma al proletariato mondiale...

 

Verso una sintesi

In conclusione, la Rivoluzione francese è stata la fonte di due grandi correnti di pensiero socialista che, attraverso tutto il XIX secolo, si sono perpetuate sino ai nostri giorni, una corrente giacobina autoritaria e una corrente libertaria. La prima di "umore borghese", orienta dall'alto in basso, è soprattutto preoccupata di efficacia rivoluzionaria e vuole tener conto soprattutto della "necessità", l'altra, di spirito essenzialmente proletario, orienta dall'alto in basso, pone in primo piano la salvaguardia della libertà. Tra queste due correnti sono stati elaborati numerosi compromessi, più o meno traballanti. Il collettivismo libertario di Bakunin cercava di conciliare Proudhon e Marx. Il marxismo si sforzò di trovare, nella Prima Internazionale, una via di mezzo tra Blanqui e Bakunin. La Comune del 1871 fu una sintesi, empirica del giacobinismo e il federalismo. Lenin stesso, in Stato e rivoluzione, è diviso tra l'anarchismo e il comunismo di Stato, tra la spontaneità delle masse e la "disciplina di ferro" del giacobinismo. Tuttavia la vera sintesi di queste due correnti rimane da fare. Come scrive H. E, Kaminsky, essa non è soltanto necessaria, ma inevitabile. "La storia... costruisce essa stessa i suoi compromessi" [76]. La degenerazione della Rivoluzione russa, il collasso e la bancarotta storica dello stalinismo la mettono, più che mai, all'ordine del giorno. Essa soltanto può permetterci di rifare il nostro bagaglio idee e evitare per sempre che le nostre rivoluzioni siano confiscate da nuovi "Giacobini" che dispongono di blindati in confronto dei quali la ghigliottina del 1793 fa la figura di un giocattolino.

 

Daniel Guerin

 

 

[Traduzione di Ario Libert]

 

NOTE

 

[56] Bakunin, Oeuvres, II, p. 108, 232, - È accaduta la stessa cosa per i socialisti tedeschi: Rudolf Rocker ha evidenziato (nel suo Johann Most, Berlino, 1924, p. 53) quanto Wilhelm Liebknecht fosse "influenzato dalle idee dei vecchi giacobini comunisti".

[57] Deutscher, The Prophet, cit., p. 95.

[58] Boris Nicolaïevski, Karl Marx, 1937, p. 146, 158...

[59] Deutscher, Stalin, cit., p. 39; - Cfr. anche Sir John Maynard, Russia in flux, New York, 1955, p. 118.

[60] Marx, La sainte famille, Oeuvres philosophiques, (Costes) II, p. 213.

[61] Engels, Anti-Duhring, 1878, (Costes) III, p. 8.

[62] Proudhon, Idée générale de la Révolution au XIX siècle, cit., p. 234-323; - Bakunin, Oeuvres, II, p. 108, 228, 296, 361-362; VI, p. 257.

[63] Engels, Karl Marx devant les jurés de Cologne (Ed. Costes), p. 247 e note; - Marx, Dix-Huit Brumaire de Louis-Bonaparte (Ed. Schleicher), p. 342-344; Marx, La Guerre Civile en France, cit., p. 16, 46, 49; Engels, Critique du Programme d'Erfurt, op. cit.

[64] Daniel Guérin, II, p. 4.

[65] Lénine, L'Etat et la Révolution, 1917, Petite Bibliothèque Lénine, 1933, p. 62, 84-85.

[66] Lénine, Pages choisies, (Ed. Pascal), II, p. 372-373.

[67] Lénine, Oeuvres (in francese), XX, p. 640.

[68] Pages..., II. p. 93.

[69] Ibid., II, p. 115-116.

[70] Pages..., II, p. 296: - Oeuvres, XX, p. 640.

[71] Pages..., III, p. 339.

[72] Oeuvres, XX, p. 640; Pages choisies, I, p. 192 (1904).

[73] Trotsky, Nos tache politiques, cit.

[74] Rosa Luxemburg, La Révolution Russe, 1918, edizione francese 1937, p. 27.

[75] Voline, La Révolution inconnue (1917-1921), 1947, p. 154-156, 212; [tr. it.: La rivoluzione sconosciuta, Savelli, Roma, 1970].

[76] H. E. Kaminski, Bakounine, 1938, p. 17.

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