Le due rappresentazioni dello Stato
Eduardo Colombo
È lo Stato, l'altare della religione politica
sulla quale la società naturale è sempre immolata:
Una universalità divoratrice, che vive di sacrifici umani, come la Chiesa.
Lo Stato, lo ripeto un'altra volta, è il fratello cadetto della Chiesa
Bakunin [1]
Gli anarchici sono i nemici dello Stato, si sa. Pierre-Joseph Proudhon pensava che l'idea di governo politico affondava le sue radici molto in profondità nella storia, traendo le sue forze dall'organizzazione domestica; così "il pregiudizio governativo, penetrando nel più profondo delle coscienze, colpendo la ragione con il suo stampo, ogni concezione altra è stata a lungo resa impossibile, e i più arditi tra i pensatori sono giunti a sostenere che il Governo era indubbiamente un flagello, un castigo per l'umanità, ma che era un male necessario! Ecco perché, sino ai nostri giorni, le rivoluzioni più emancipatrici, e tutte le effervescenze della libertà, sono sfociate costantemente in un atto di fede e di sottomissione al potere" [2].
Proudhon getta uno sguardo trasversale sulla natura dello Stato, bisognerebbe immaginare innanzitutto la realtà sociale e mostrare ciò che rende possibile l'emergere di un potere politico. In Les Confessions d'un révolutionnaire [Confessioni di un rivoluzionario] pone la domanda: Qual è la legittimità di questa idea? "Perché crediamo nel governo? Da dove proviene, nella società umana, quest'idea di Autorità, di Potere; questa finzione di una Persona superiore, chiamata lo Stato? Non accade per il Governo la stessa cosa per Dio e l'Assoluto?" Non è ancora una di quelle concezioni "che, senza realtà, senza realizzazione possibile, non esprimono che un indefinito, che non hanno per essenza che l'arbitrio?" [3].
Perché il potere politico non ha una realtà in sé. Che si tratti di monarchia, di patriarcato, di repubblica, non è che la realizzazione di una "alienazione della forza collettiva". Il potere è immanente alla società, emana dalla pluralità delle pratiche e dei gruppi, è la forza che risulta dall'attività collettiva. Ma, differenziandosi dal sociale, la rappresentazione del politico ha invertito il rapporto. "Nell'ordine naturale - ci dice De la Justice dans la Révolution et dans l'Eglise [Della giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa] - il potere nasce dalla società, è la risultante di tutte le forze particolari raggruppate per il lavoro, la difesa e la Giustizia. Secondo la concezione empirica suggerita dall'alienazione del potere, è la società al contrario che nasce da esso" [4]. È, allora, in termini di appropriazione della potenza collettiva che si deve comprendere la genesi del potere politico.
Lo Stato, finché esisterà, sarà sempre la rappresentazione di un'alienazione e di una appropriazione.
"Nessuno Stato, per quanto democratiche siano le sue forme, persino la repubblica politica la più rossa, popolare unicamente nel senso di quella menzogna conosciuta con il nome di rappresentazione del popolo, non è in grado di dare a quest'ultimo ciò di cui ha bisogno, e cioè la libera organizzazione dei suoi propri interessi, dal basso verso l'alto, senza alcuna ingerenza, tutela o costrizione," scriveva Michail Bakunin in Stato e Anarchia. Così, le classi possidenti e dirigenti, non potendo mai soddisfare la passione e le aspirazioni popolari, faranno appello al solo mezzo a loro disposizione per restare dominanti, "la costrizione governativa, in una parola lo Stato". Né le forme democratiche più ampie né il suffragio universale saranno delle garanzie per i proletari, al contrario "il dispotismo governativo non è mai così temibile e così violento quando poggia sulla pretesa rappresentazione della pseudo-volontà del popolo" [5].
Errico Malatesta, durante un breve soggiorno a Paterson (New Jersey, Stati Uniti) si fa carico della redazione del giornale La Questione Sociale e, in quattro numeri dal settembre 1899, pubblica Il nostro programma, un testo diventato classico [6]. Noi anarchici, dice Malatesta in sostanza, vogliamo cambiare radicalmente lo stato di miseria e d'oppressione sofferti dai lavoratori, e farla finita con tutti i mali che ne derivano: "ignoranza, delinquenza, prostituzione, deterioramento fisico, abiezione morale, morte prematura". E per uscire dall'odio, per sostituire alla concorrenza la solidarietà, all'oppressione la libertà, alla menzogna religiosa la verità, gli anarchici propongono un programma:
1) Abolizione della proprietà privata della terra, delle materie prime e degli strumenti di lavoro, affinché nessuno abbia la possibilità di vivere sfruttando il lavoro degli altri [...].
2) Abolizione del governo e di ogni potere dettante legge e che l'impone agli altri, dunque abolizione delle monarchie, repubbliche, parlamenti, eserciti, polizie, magistrature, e di ogni altra istituzione dotata di mezzi coercitivi [7].
Malatesta, Bakunin, Proudhon, tre autori e militanti riconosciuti dell'anarchismo - scelti tra altri, numerosi - criticano le forme sociali, istituzionali e coercitive, che il potere politico assume, e utilizzano quasi indistintamente le parole "Stato" o "governo" per nominarle. Ma, con l'evoluzione riformista della lotta ideologica e l'accettazione quasi generale della collaborazione di classe, la denominazione più astratta di "Stato" si è imposta lasciando perdere qualunque luce alla parola "governo" che, nell'attuale contesto neoliberale, trascina nella sua caduta anche lo Stato - in ogni caso il lato oscuro dello Stato - soppiantati, l'uno e l'altro, da un del tutto nuovo concetto, che non si riferisce più a un'istituzione ma a un risultato delle pratiche anonime, la "governabilità".
Ad ogni modo c'è qualcosa che non cambia, il potere politico è sempre tra le mani di una classe dominante. Allora, che cos'è lo Stato? E se parliamo di governo, utilizziamo un sinonimo? Perché gli anarchici hanno tendenza a trattarli come un concetto unificato?
Lo Stato moderno
Forse i primi segni annunciatori dello Stato moderno si trovano nel riconoscimento della sovranità nell'ordine temporale che il Papato accorda a dei principi che si separano dall'Impero. Riconoscimento che, nel XIII secolo, sarà inscritta nella formula definitiva: rex in regno suo est imperatur [8].
Le istituzioni che daranno corpo allo Stato nascente si andranno stabilizzando progressivamente tra il XIV e XVI secolo. E' durante questo periodo che la parola latina status, da cui proviene Stato, assumerà le connotazioni che lo legano al governo e diventerà un sinonimo di potestas, regimen, gubernatio. Ed è soltanto dopo Machiavelli che il termine Stato sarà riconosciuto come designazione di un'organizzazione istituzionale alla quale i moderni attribuiscono il monopolio della forza legittima su un popolo e un determinato territorio. Le istituzioni dello Stato si sviluppano con la creazione delle imposte indirette, come la "gabella del sale", i diritti di dogana che rafforzano le frontiere nazionali, e soprattutto con l'imposizione delle imposte dirette, misure che congiuntamente con l'amministrazione della giustizia danno nascita a un corpo stabile di funzionari specializzati che registrano e archiviano [9].
Tuttavia, i corpi istituzionali, agenti e concreti, non bastano; il passo decisivo, "il più importante e il più nebuloso" [10] nella costruzione dello Stato nazionale, fu compiuto quando questa entità in gestazione giunse ad ottenere il trasferimento su se stessa dei legami primari, questi sentimenti primitivi di lealtà che uniscono l'individuo al gruppo, alla tribù, alla famiglia, alla comunità locale, e che d'ora in poi saranno al servizio di una autorità suprema e astratta capace di identificare la sua azione con la legge, di legittimare tutto, e di decidere per tutti, disponendo dei meccanismi di divieto e di sanzione [11].
Indubbiamente, è da questa dimensione di partecipazione inconscia alla costruzione immaginaria dello Stato che deriva la difficoltà di definirla in modo soddisfacente. Strayer scrive: "Lo Stato esiste essenzialmente nel cuore e nello spirito dei suoi cittadini; se essi non credono nella sua esistenza, nessun esercizio di logica potrà dargli vita" [12]. Numerosi autori insistono in questo senso, daremo un esempio tratto dalla Encyclopedia Universalis: "Lo Stato è un'idea... esiste in quanto è pensato". Ed è costruito dallo spirito umano "a titolo di spiegazione e di giustificazione del fatto sociale qual è il potere politico" [13].
Tra le migliaia di pagine scritte sul tema si ritrovano delle formule che sono state ben accette, come quella proposta da Max Weber: Lo Stato è un'istituzione politica di attività continua in quanto che, e soltanto se il suo quadro amministrativo mantiene con successo la sua pretesa al monopolio della coazione (costrizione) fisica per la conservazione dell'ordine stabilito [14]. Si dice correntemente: il monopolio della violenza legittima.
Ma Weber aggiunge un tratto di taglia. Il concetto di Stato corrisponde al suo pieno sviluppo che è moderno, ed abbiamo segnalato l'importanza in questo processo del transfert verso esso dei legami primari, legami inconsci impregnati dell'arcaico dominio patriarcale. La coercizione legittima esercitata dall'ordine statale, scrive Max Weber, lascia al "padre" il potere disciplinare": una reliquia di ciò che è stato ai suoi tempi la potestas del "padrone di casa" (pater familias) che disponeva della vita dei figli e degli schiavi. Questo carattere dell'ordine dello Stato gli è tanto essenziale quanto il fatto di essere un'istituzione razionale [15].
Malgrado questo, per Weber, ciò che caratterizza lo Stato è l'uso esclusivo della costrizione legittima. Egli aveva già scritto in La scienza e la politica come professione che uno Stato "non si lascia definire sociologicamente che attraverso il mezzo specifico che gli è proprio, così come ad ogni altro gruppo politico", e cioè la violenza fisica.
"Tutti gli Stati sono fondati sulla forza", disse un giorno Trotsky a Brest-Litovsk. In effetti, cioè è vero. Se non esistessero che delle strutture sociali da cui ogni violenza fosse assente, il concetto di Stato sarebbe sparito e non sussisterebbe che ciò che chiamiamo, nel senso proprio del termine, l'"anarchia" [...]. "Ciò che infatti è peculiare della nostra epoca, è che essa non accorda a tutti gli altri raggruppamenti o agli individui, il diritto di far appello alla violenza che nella misura in cui lo Stato la tollera: quest'ultimo passa dunque per l'unica fonte del "diritto" alla violenza" [16].
Nel mondo delle cose pensate, allora, lo Stato non esiste se non si crede in lui, ma non si sfugge alla realtà delle conseguenza di questa idea, perché quest'idea è generatrice o creatrice o co-determinante della realtà istituzionale del potere politico, e cioè formatrice dei corpi costituiti del governo.
Il mondo è molto cambiato dalla prima metà del XX secolo, epoca che aveva visto lo Stato-nazione espandere ampiamente i suoi limiti con l'installazione dei regimi totalitari, e adattarsi in seguito alla divisione imperialista dei territori dopo la guerra.
Quando Weber scriveva i testi che abbiamo citato iniziava l'esilio di coloro che, perseguitati da tutti i poteri, dovevano fuggire il fascismo, la repressione bolscevica della sinistra dissidente, le leggi e i lager nazisti.
Foucault, nel suo corso al Collège de France del gennaio 1979, segnala che quest'esilio politico è stato "un agente di diffusione considerevole di ciò che si potrebbe chiamare l'anti-statismo o la fobia di Stato" [17]. L'anti-statismo delle persone umiliate, suppliziate, braccate dal potere politico sembrerebbe logico, ma perché qualificare la loro reazione - o i sentimenti che questa migrazione propagava - come "fobica"? Una fobia è una paura irrazionale, un'angoscia non giustificata da un pericolo reale, un rigetto ingiusto o nevrotico. Allora, l'anti-statismo non sarebbe, dunque, che un segno, un sintomo, di una "crisi di governabilità".
Se lo si accusa di fare l'economia di una teoria dello Stato, Foucault risponde che è vero, che deve fare l'economia di un'analisi dello Stato in sé, della sua natura, delle sue funzioni, che si deve smettere di vedere in esso una specie di universale politico, e abbandonare la pretesa di dedurre da ciò che sarebbe la sua essenza l'insieme delle sue pratiche sociali. Si deve fare l'economia di una simile analisi per una ragione importante e grave: "per il fatto che lo Stato non ha essenza", "lo Stato non è in se stesso una fonte autonoma di potere" [18].
Ciò che si impone, ci dice Foucault, è "la presenza e l'effetto dei meccanismi statali", e la sua propria preoccupazione è sempre stata, utilizzando dispositivi e tecnologie, "il perseguimento della statizzazione progressiva, frazionata a colpo sicuro, ma costante, di un certo numero di pratiche, di modi di fare e se volete di governatività" [19].
Di nuovo, come dicevamo di Proudhon, la procedura obliqua è fruttuosa, tuttavia il problema del potere politico ritorna con forza. Barattando "Stato" e "governo" con la parola governatività, la scena pubblica si svuota, non vi sono più attori, vi sono soltanto delle marionette i cui fili si intrecciano senza che nessuno si occupi di farli ballare. La domanda: Chi si appropria della potenza collettiva? Chi ha interesse a mantenere nel loro stato dominati e sfruttati? Chi si avvantaggia della gerarchia sociale? Gruppo, élite, classe? Per quale miracolo il governo si fa obbedire? Domande senza pertinenza perché "lo Stato non è nient'altro che l'effetto mobile di un regime di governatività molteplici" [20], processo anonimo, senza volto.
Volendosi premunirsi, a giusto titolo, contro un'immagine essenzialista o sostanzialista dello Stato, si corre il pericolo di perdere per la strada la realtà del potere politico, di dissolverlo nelle reti delle pratiche e delle tattiche che, incastrandosi le une con le altre, disegnano infine dei dispositivi d'insieme, di grandi strategie implicite, di cui "non vi è più nessuno ad averle concepite" [21].
Ma questo pericolo non è isolato; Pierre Bourdieu segnala un altro rischio, trappola temibile, che si nasconde nelle categorie inconsce che strutturano il nostro pensiero, "e che hanno delle buone probabilità di essere il prodotto dello Stato". Come fare per non avere un pensiero di Stato quando si vuole analizzare o pensare lo Stato? Non ci resta che il ricorso al sospetto, lo spirito critico, come all'epoca della lotta contro il dominio della Chiesa.
Lo Stato è un'illusione ben fondata, riconosce Bourdieu, ed esiste attraverso gli effetti della credenza collettiva nella sua esistenza. Allora, utilizzare la parola Stato come soggetto di azioni "è una finzione del tutto pericolosa che ci impedisce di pensare lo Stato". Facendo della parola Stato un'entità sostanziale, una ipostasi, la lingua dà corpo a un oggetto inesistente che diventa un referente capace di essere l'agente di proposizioni e di azioni. E per questo che si deve dire: "Attenzione, tutte le frasi che hanno come soggetto lo Stato sono delle frasi Teologiche" [22].
Lo Stato è così un principio di ortodossia, una specie di monopolio della legittimazione simbolica - e non soltanto della violenza fisica -, una forza di conservazione sociale. Le analogie tra Stato e religione sono considerevoli. Così pensava Proudhon, così pensava Bakunin.
Potremmo definirlo dicendo che "lo Stato è il nome che diamo ai principi nascosti, invisibili - per designare una specie di deus absconditus - dell'ordine sociale" [23], e con ciò stesso, il nome delle ragioni occulte del dominio al contempo fisico e simbolico.
"La macchina amministrativa e governativa dello Stato, essendo diventata impotente, è abolita", proclamava il manifesto rosso della Comune insurrezionale di Lione [24].
"Abolizione del governo e di ogni potere che detta la legge e la impone agli altri", scriveva Malatesta ventinove anni dopo.
Gli anarchici hanno affrontato dapprima, nella loro critica, le forme istituzionali concrete, stabilite, agenti e costrittive del potere politico: il governo, il potere esecutivo, l'amministrazione, il catasto [25], il parlamento, i corpi repressivi. Non hanno risparmiato né la scuola né la famiglia.
Senza dimenticare che lo Stato, sull'esempio del dio bifronte, non si lascia definire dalle sole forme visibili del potere istituito, e che si deve guardare l'altra faccia, quella che rivela gli effetti dell'alienazione e dell'espropriazione della potenza sociale. E' a questo titolo - in quanto accaparratore o usurpatore occulto della forza collettiva - che lo Stato deve poggiare su un'idea, un'astrazione autoreferenziale, che esprimerebbe questo transfert, implicito o inconscio, del popolo verso il sovrano; transfert che dà a quest'entità artificiale che esso costruisce la capacità di esistere ottenendo da ognuno il dovere di obbedienza e l'obbligo politico di tutti.
Da un punto di vista analitico si può benissimo differenziare il concetto di Stato con la realtà del governo, considerando che, nelle società complesse che hanno fatto nascere lo Stato moderno, il potere politico si nasconde dietro l'ambiguità della sua definizione per impedire il riconoscimento del vuoto di ogni giustificazione della sua esistenza.
Crediamo che la posizione storica dell'anarchismo, che tratta lo Stato in quanto concetto unificato, sia ragionevole. Nessun governo potrebbe mai ottenere l'obbedienza dei "suoi sudditi" senza l'idea astratta dello Stato, e a cosa servirebbe, quest'idea, senza un potere politico istituito da sostenere? La partecipazione inconscia e l'istituzione costruiscono insieme il paradigma del dominio. Gli anarchici non dubitano della solidità dell'affermazione di Saint-Just: "Un popolo non ha che un nemico pericoloso: il suo governo".
Tuttavia, la forma astratta e illusoria dello Stato e la sua forma istituita e fisica, come potremmo dire, non si modificano, nei movimenti della storia, allo stesso modo né all'unisono.
In questi primi anni del XXI secolo la sensazione di un'accelerazione dei cambiamenti di ogni genere è comune per un grande numero di persone. E, anche se i mutamenti profondi, le tendenze pesanti di una società, sono opache per i contemporanei, possiamo pensare, e temere, che lo Stato moderno nella sua dimensione metafisica o teologica, non accresca costantemente la sua morsa.
Nelle nostre società neoliberali, il soggetto in quanto agente dei suoi atti perde insidiosamente le sue prerogative: agire per se stesso è sconsigliato se non proibito, si deve far appello all'esperto, all'autorità competente, all'agente designato come legittimo da parte dello Stato. Il polo inconscio, teocratico - o patriarcale se si vuole - dello Stato si rafforza nella misura in cui l'autonomia del soggetto si riduce.
E' così che i legami sociali locali [26] si allentano mentre aumenta la giurisdizione delle relazioni interpersonali.
Probabilmente le modificazioni più visibili dello Stato-nazione lasciano credere, a torto, che lo Stato perde funzioni e privilegi.
Tutti possono vedere che lo Stato-nazione cede progressivamente delle parti della sua sovranità politica o territoriale, che la macchina governativa diventa più duttile alle esigenze delle finanze internazionali, e che altre modificazioni riguardanti il controllo delle frontiere e dei flussi migratori esigono sempre più delle decisioni sovranazionali. Nello stesso senso si situano gli interventi armati professionali con una funzione di polizia nei territori un tempo nazionali. Ma se gli Stati nazionali modificano le loro strutture, non è lo Stato a soffrire. Questi mutamenti consolidano il potere politico a livello internazionale.
Se sono le condizioni politiche e sociali ad imporre i cambiamenti governativi, i rapporti di forza, la lotta di classe, e se sono esse a determinare le lotte quotidiane, ogni movimento che si ritiene emancipatore non può fare a meno di affrontare ai fondamenti dello Stato.
Confrontati alla violenza dello Stato gli anarchici chiamano alla resistenza e alla ribellione aspettando la rivolta che abbatterà il Trono e l'Altare.
[Traduzione di Ario Libert]
NOTE
[1] Michail Bakunin, Aux compagnons de l'Association Internationale des Travailleurs au Locle et à la Chaux-de-Fonds [Ai compagni dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori di Locle e di la Chaux-de-Fonds], Le Progrès, Le Locle, 1° maggio 1869, scritto il 28 aprile 1869.
[2] P.-J. Proudhon, Idée générale de la révolution au XIXe siècle [Idea generale della rivoluzione nel XIX secolo], Parigi, Garnier Frères, 1851, pp. 117-118.
[3] P.-J. Proudhon, Les Confessions d'un révolutionnaire [Le Confessioni di un rivoluzionario], Parigi, Garnier Frères, 1851, p. 10.
[4] P.-J. Proudhon, De la Justice dans la Révolution et dans l'Église [Della Giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa], Parigi, Garnier Frères, 1858, Tomo I, quarto studio "L'État", p. 491; tr. it. parziale: Della Giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa, Utet, Torino, 1968; Lo Stato, pp. 451/601.
[5] Michail Bakunin, Oeuvres complètes, Paris, Champs Libre, 1976, vol. 4, Etatisme et anarchie [1973], (Stato e anarchia) p. 220/221. Scritto in russo e pubblicato senza nome dell'autore, questo libro è l'ultimo dei testi di Bakunin editi prima della sua morte avvenuta nel 1876.
[6] Errico Malatesta, Opere complete, "Verso l'Anarchia", Malatesta in America, 1899, 1900, La Fiaccola e Zero in Condotta, Milano, 2012, p. 29. [Nel 1920 "Il nostro programma" diventa il programma della Unione Anarchica Italiana]. All'inizio dell'anno 1899 Malatesta era in domicilio coatto all'isola di Lampedusa; la notte del 9 maggio fuggì a nuoto, e raccolto da un battello da pesca che lo attendeva, giunse a Londra alcuni giorni dopo, da cui continuò il suo viaggio per ritrovarsi a Paterson ad agosto. Malatesta è di ritorno a Londra nell'aprile del 1900 (vedere Luigi Fabbri, Malatesta, Ed. Americane e Buenos Aires, 1945, pp. 111-115). Traduciamo qui, in parte, i primi due punti dei sette che contengono il programma.
[7] Ibid., pp. 30-31.
[8] Bernard Guenée, L'Occident aux XIVe et XVe siècles, Les Etats, Paris, PUF, 1971, p. 64.
[9] Eduardo Colombo, "L'Etat comme paradigme du Pouvoir. La naissance de l'Etat", L'Espace politique de l'anarchie, ACL, Lione, 2008, p. 55.
[10] Joseph R. Strayer, Les origines médiévales de l'Etat moderne, Parigi, Payot, 1979, p. 22.
[11] Eduardo Colombo, "L'Etat comme paradigme du Pouvoir. La naissance de l'Etat", Op. cit., Lione, 2008, p. 62.
[12] Joseph R. Strayer, Op. cit., p. 16.
[13] Articolo "Stato", di Georges Bourdeau.
[14] Max Weber, Economia e società.
[15] Ibid.
[16] Max Weber, La scienza e la politica come professione, Edizioni di Comunità, Torino, 2001; Einaudi, Torino, 2004.
[17] Michel Foucault, Naissance de la bio-politique, Paris, Gallimard/Seuil, 2004, p. 78; Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano, 2005.
[18] Ibid., p. 79. Come aveva posto in evidenza Proudhon, e prima di lui, Etienne de la Boétie.
[19] Ibid.
[20] Ibid.
[21] M. Foucault, La volonté de savoir, Paris, Gallimard, 1976, p. 125.
[22] Pierre Bourdieu, Sur l'Etat, Cours au Collège de France 1989-1992, Raisons d'agire / Seuil, Parigi 2012, p. 25.
[23] Ibid., p. 19.
[24] Fédération révolutionnaire des Communes, Lione, 1870. Stampato in 600 copie e stampato su carta rossa, il manifesto fu affisso sui muri della città la notte del 26 settembre. Cfr. Michail Bakunin, Oeuvres complètes, op. cit., vol. VII, p. 143.
[25] Quando Cafiero, Malatesta, Ceccarelli e i loro compagni della "Banda del Matese" occupano il municipio di Letino l'8 aprile del 1877, come atto simbolico della rivoluzione sociale, bruciano sulla pubblica piazza gli archivi, il catasto, molti titoli di proprietà, e il registro delle imposte.
[26] Quei legami locali che esistevano ancora sino a non molto tempo fa, quella morale implicita del rispetto dell'altro, che si esprimeva in "quel codice della strada, il solo disinteressato che io conosca", diceva Camus: "non ci si avventa in due su di un avversario, perché la cosa 'è da malvagi'" (Albert Camus, Noces, in Essais, Parigi, Gallimard, La Pléiade, 1965, p. 72]. Non si colpisce un uomo a terra. Si protegge il debole. Non si dà una coltellata alla schiena.
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