Le divergenze di principio tra Rosa Luxemburg e Lenin
Paul Mattick
Rosa Luxemburg e Lenin si sono formati entrambi all'interno della socialdemocrazia di cui furono figure eminenti. Le loro opere individuali dovevano non soltanto esercitare una notevole influenza sui movimenti operai russi, polacchi e tedeschi, ma avere anche una portata storica universale. Perché entrambi incarnarono l'opposizione al revisionismo e al riformismo insiti nella Seconda Internazionale, e i loro nomi restano indissolubilmente legati alla riorganizzazione del movimento operaio durante e dopo la guerra mondiale. Questi marxisti, dalla personalità eccezionale, che non separarono mai la teoria dalla pratica, furono – per riprendere un'espressione cara a Rosa Luxemburg – delle «candele accese da entrambi i lati».
Pur essendosi assegnati una missione identica – e cioè, far uscire il movimento operaio dalla palude in cui si trovava impantanato e lanciarlo all'assalto del capitalismo – Luxemburg e Lenin presero strade diverse, se non addirittura opposte. Senza che la stima reciproca che hanno sempre avuto l'uno per l'altro si indebolisse, essi si scontrarono aspramente sulle questioni fondamentali della strategia e dei principi rivoluzionari. È lecito affermare sin d'ora che su molti punti essenziali le loro rispettive concezioni differiscono come il giorno dalla notte o, più esattamente, come i problemi della rivoluzione borghese e i problemi della rivoluzione proletaria. Ora che entrambi sono scomparsi, non è raro vedere dei leninisti incoerenti tentare, per ragioni politiche, di riconciliare Lenin e Rosa Luxemburg, e di minimizzare ciò che li opponeva l'un l'altro; ma non si tratta che di incredibili falsificazioni della storia, che servono soltanto ai falsificatori e soltanto per un certo periodo di tempo.
Ciò che unì Luxemburg e Lenin, fu la lotta contro il riformismo di prima del 1914 e contro lo sciovinismo in cui la socialdemocrazia internazionale oscillò sin dalla dichiarazione di guerra. Ma questa identità di vedute non doveva impedire alla controversia di manifestarsi con il massimo vigore tra di loro. Le loro divergenze riguardavano il corso che la rivoluzione doveva seguire e dunque, la tattica essendo essa inseparabile dai principi, il contenuto e la forma del nuovo movimento operaio. Se è noto che entrambi furono nemici giurati del revisionismo (il che spesso portò ad associare i loro nomi), non per questo oggi non si può farsi un'idea precisa di queste divergenze. Da una decina di anni, la Terza Internazionale ha senza dubbio usato e abusato il nome di Rosa Luxemburg, nel quadro delle crisi politiche che la scuotono continuamente e, più in particolare, dell'offensiva da essa lanciata contro il “lussemburghese controrivoluzionario”, come ci compiace a chiamarlo [1]. Ma nulla è stato fatto per chiarire la controversia. In generale, non si tiene a «disseppellire» il passato. Come la socialdemocrazia tedesca che, adducendo la «mancanza di denaro», rifiutò un giorno di pubblicare le opere del Lussemburgo [2], la Terza Internazionale finì per rinnegare la promessa - fatta a suo nome da Clara Zetkin [3] - di assicurare la pubblicazione di queste stesse opere. Tuttavia, di fronte alla concorrenza, la Terza Internazionale non manca di reclamare a sé Rosa Luxemburg, ogni volta che ciò le sembra opportuno.
In quanto alla socialdemocrazia, ha spesso il coraggio di parlare con voce spezzata dalla commozione della "grande rivoluzionario che si è ingannata" e che è caduta vittima della sua «foga» e non degli infami mercenari di Noske, il vecchio compagno di partito [4]. Quando, dopo l'esperienza di queste due Internazionali, alcuni pretendono non soltanto di costruire un movimento nuovo e veramente rivoluzionario, ma anche di trarre profitto dalle lezioni del passato, si limitano a ridurre le divergenze in questione a un disaccordo sulla questione nazionale, la quale, peraltro, avrebbe toccato esclusivamente dei problemi di ordine tattico relativo all'indipendenza della Polonia. A tal fine, ci si dà da fare per attenuare la controversia, per farne un caso emblematico e per concludere proclamando, contrariamente all'evidenza, che Lenin è uscito vittorioso dalla polemica.
Tuttavia, la questione nazionale rimane inseparabile dagli altri problemi sui quali Luxemburg e Lenin si sono combattuti. Essa è, infatti, più strettamente connessa con tutte le altre questioni riguardanti la rivoluzione mondiale; ma ha il vantaggio di far risaltare meglio la divergenza fondamentale: l'antagonismo inconciliabile della concezione giacobina della rivoluzione e della sua concezione proletaria. Quando, di fronte agli errori nazionalisti dell'era stalinista della Terza Internazionale, riteniamo opportuno, sull'esempio di Max Shachtman [5], di riprendere le idee di Rosa Luxemburg, dobbiamo anche considerarle giustificate in relazione a quelle di Lenin. La politica della Terza Internazionale è indubbiamente cambiata su molti punti dalla morte di Lenin, ma sulla questione nazionale è rimasta fondamentalmente leninista. Un leninista non può che prendere una posizione opposta a quella della Luxemburg, di cui non è soltanto l'avversario in materia di teoria, ma anche il nemico mortale. Al contrario, la posizione della Luxemburg è incompatibile con il bolscevismo leninista e, di conseguenza, chiunque si rifaccia a Lenin non potrebbe allo stesso tempo invocare Rosa Luxemburg a sostegno delle sue tesi.
L'opposizione al riformismo
Lo sviluppo del capitalismo mondiale, l'espansione imperialista, la graduale monopolizzazione dell'economia e i sovraprofitti ad essa collegati, dovevano permettere la formazione provvisoria di un'aristocrazia operaia, l'instaurazione di una legislazione del lavoro e un miglioramento generale della condizione proletaria. Da qui l'ascesa del revisionismo e i progressi del riformismo all'interno del movimento operaio. Al marxismo rivoluzionario – invalidato, si diceva, dalla prosperità capitalista – si sostituì la teoria della realizzazione progressiva del socialismo grazie alla democrazia. Da quel momento il movimento operaio ufficiale poté svilupparsi e raccogliere l'adesione di una massa di piccoli borghesi; quest'ultimi presero presto la direzione intellettuale e condivisero, con gli operai privilegiati, i vantaggi materiali legati alle carriere che si offrivano così alle loro ambizioni. Verso la fine del secolo, i cosiddetti “marxisti ortodossi”, guidati da Kautsky, condussero una lotta contro questa evoluzione una lotta che rimase puramente verbale e che d'altronde fu presto abbandonata. Tra i più importanti teorici di quest'epoca, Luxemburg e Lenin furono tra i pochi che proseguirono senza sosta, a favore di un movimento operaio realmente marxista, una lotta implacabile, prima contro il riformismo dichiarato, poi anche contro il riformismo «ortodosso».
Non è esagerato affermare che di tutte le critiche al revisionismo, l'attacco lanciatogli contro dalla Luxemburg fu il più vigoroso e il più efficace. Polemizzando con Bernstein [6], sottolineò ancora una volta, di fronte alle tesi assurde dei sostenitori del legalismo a tutti i costi, «che è impossibile trasformare i rapporti fondamentali della società capitalista, che sono quelli del dominio di una classe sull'altra, per mezzo di riforme giuridiche che ne rispetterebbero il fondamento borghese» [7]. La riforma sociale, sostenne inoltre, ha come funzione non di «limitare la proprietà capitalista, ma al contrario di proteggerla. O ancora – economicamente parlando – non costituisce un attacco allo sfruttamento capitalista, ma un tentativo di normalizzarlo” [8]. Lungi dal condurre al socialismo, il capitalismo sta crollando, sostiene Rosa Luxemburg, ed è questo crollo che i lavoratori devono affrontare, non attraverso la riforma, ma attraverso la rivoluzione. Ciò non significa che si debbano trascurare le questioni del momento; i marxisti rivoluzionari sostengono anch'essi le lotte quotidiane dei lavoratori ma, a differenza dei revisionisti, essi si interessano al modo in cui la lotta è condotta molto più che ai suoi obiettivi immediati. Per i marxisti, il problema del momento consiste nel far progredire i fattori soggettivi, la coscienza di classe rivoluzionaria, attraverso le lotte sindacali e politiche. Porre la questione della riforma e della rivoluzione come termini che si escludono a vicenda significa porre il problema in modo errato; per quanto vi sia opposizione tra di loro, si deve posizionarla nel suo giusto contesto, il progresso sociale. La lotta per le rivendicazioni immediate non deve farci perdere di vista l'obiettivo finale: la rivoluzione proletaria [9].
Poco tempo dopo, Lenin a sua volta attaccò il revisionismo in un modo sostanzialmente simile. Anche lui vedeva nelle riforme dei sottoprodotti, in un certo senso, della lotta per la conquista del potere politico. Per quanto riguarda sia la lotta contro la mutilazione del marxismo che la lotta rivoluzionaria per la conquista del potere politico, le sue concezioni concordavano dunque con quelle di Rosa Luxemburg. E' soltanto nel quadro generale della rivoluzione russa del 1905, quando la situazione pose all'ordine del giorno la lotta rivoluzionaria per il potere e ne fece una questione scottante, da affrontare da un punto di vista più concreto, che delle divergenze si manifestarono per la prima volta tra di loro. Ecco perché il conflitto esplose a proposito di questioni di natura tattica: i problemi organizzativi e la questione nazionale.
La questione nazionale
Come Kautsky, che fu per molti aspetti il suo mentore, Lenin era convinto del carattere progressista dei movimenti di indipendenza nazionali, aspettandosi – diceva – che «lo Stato nazionale offra indiscutibilmente le migliori condizioni per lo sviluppo del capitalismo» [10]. Sostenendo al contrario di Luxemburg che la parola d'ordine dell'autodeterminazione dei popoli è rivoluzionaria perché si tratta «di una rivendicazione che non differisce in alcun modo dalle altre rivendicazioni democratiche», Lenin proclamava: «In ogni nazionalismo borghese di una nazione oppressa, esiste un contenuto democratico, ed è questo contenuto che sosteniamo senza restrizioni» [11].
Come dimostrano numerosi passi delle sue opere, [12] l'atteggiamento di Lenin nei confronti della libera disposizione dei popoli e della questione nazionale è coerente con la sua posizione sulla conquista dei diritti democratici. Quest'ultima permette di capire la prima. Basterà citare a questo proposito quanto scrisse Lenin nelle sue «La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all'autodeterminazione (Tesi)": «Sarebbe radicalmente errato pensare che la lotta per la democrazia possa distogliere il proletariato dalla rivoluzione socialista, oppure farla dimenticare, oscurarla, ecc. Al contrario, come il socialismo non può essere vittorioso senza attuare una piena democrazia, così il proletariato non può prepararsi alla vittoria sulla borghesia senza condurre in tutti i modi una lotta conseguente e rivoluzionaria per la democrazia» [13].
Appare così chiaramente che agli occhi di Lenin movimenti e guerre a tendenze nazionaliste hanno come solo scopo di instaurare la democrazia, alle quali il proletariato deve partecipare perché, sempre secondo Lenin, la democrazia è un prerequisito obbligato alla lotta per il socialismo. «se si sviluppa la lotta per la democrazia, è possibile anche una guerra per la democrazia», egli dice, e, di conseguenza, “in una vera guerra nazionale, le parole 'difesa della patria' non sono affatto un inganno” [ 14]. Per questo Lenin afferma che in tal caso e «nella misura in cui la borghesia di una nazione oppressa lotta contro la nazione oppressore, noi siamo sempre “per”, in ogni caso e più risolutamente di chiunque altro»; e aggiunge: «perché noi siamo il nemico più audace e più coerente dell'oppressione» [15].
Lenin rimase fedele a questa concezione sino alla fine dei suoi giorni, e i suoi discepoli sino ad oggi, almeno nella misura in cui il potere bolscevico non correva (e non corre) il rischio di esserne danneggiato. La sola differenza, sicuramente lieve, tra il maestro e i suoi discepoli, è che se Lenin, prima della rivoluzione russa, considerava le guerre e i movimenti di liberazione nazionale come degli elementi del movimento generale per instaurare la democrazia, queste guerre e questi movimenti furono in seguito promossi come parti integranti del processo della rivoluzione proletaria mondiale.
Rosa Luxemburg considerava come fondamentalmente errate le tesi di Lenin, così come le abbiamo appena ricostituite. La Junius-broschüre, uscita durante la guerra, riassume così la sua concezione:«Finché esistono gli Stati capitalisti, finché soprattutto la politica imperialista universale determina e modella la vita interna ed esterna degli Stati, il diritto delle nazioni all'autodeterminazione è soltanto una parola vuota, in tempo di guerra come in tempo di pace. Molto di più: nell'attuale atmosfera imperialista non può esserci guerra di difesa nazionale e qualsiasi politica socialista che prescinda da questa atmosfera storica, che non vuole lasciarsi guidare, nel vortice universale, che dai punti di vista di un solo paese, è condannato in anticipo alla sconfitta» [16].
Mai, assolutamente mai, Rosa Luxemburg, fece la minima concessione a Lenin su questo argomento. Così, quando il diritto all'autodeterminazione fu posto in pratica, dopo la rivoluzione russa, si è domandata perché i bolscevichi mantenessero contro ogni grande difficoltà, con tanta caparbietà, una parola d'ordine «in palese contraddizione, non soltanto con il centralismo d'altronde manifesto della loro politica , ma anche con l'atteggiamento che hanno adottato nei confronti di altri principi democratici (…). Questa flagrante contraddizione è tanto meno comprensibile in quanto le forme democratiche della vita politica in ogni paese (...) costituiscono effettivamente le basi più preziose, le basi indispensabili anche della politica socialista, mentre l'illustre "diritto delle nazioni all'autodeterminazione" è il dominio della vuota fraseologia e della mistificazione piccolo-borghese» [17].
Si trattava, a suo avviso, di una «varietà di opportunismo» avente lo scopo di «legare le molte nazionalità allogene, che costituivano l'impero russo, alla causa della rivoluzione», in breve un altro aspetto della politica opportunista adottato dai bolscevichi nei confronti dei contadini russi: «Si voleva soddisfare la loro fame di terra con la parola d'ordine di sequestro diretto delle proprietà signorili e di allearli così alla bandiera della rivoluzione e del governo proletario».
Sfortunatamente, proseguiva Rosa Luxemburg,«in entrambi i casi, il calcolo era totalmente sbagliato. Difensori dell'indipendenza nazionale, anche sino al separatismo, Lenin e i suoi amici pensavano chiaramente di fare della Finlandia, dell'Ucraina, della Polonia, della Lituania, dei paesi baltici, del Caucaso, ecc., altrettanti fedeli alleati della Rivoluzione russa. Ma abbiamo assistito allo spettacolo opposto: una dopo l'altra, queste “nazioni” hanno usato la libertà appena offerta per allearsi, come nemici mortali della rivoluzione russa, con l'imperialismo tedesco (…). Certamente, in tutti i casi citati, non sono le "nazioni" che praticano questa politica reazionaria, ma le classi borghesi e piccolo-borghesi che, in violenta opposizione con le loro masse proletarie, hanno trasformato il "diritto all'autodeterminazione nazionale" in strumento della loro politica di classe controrivoluzionaria. Ma - e qui tocchiamo il cuore del problema - questa formula nazionalista rivela il suo carattere utopico e piccolo-borghese, perché, nella dura realtà della società di classe, e soprattutto in un'epoca di esacerbati antagonismi, si trasforma in un mezzo di dominio delle classi borghesi» [18].
I bolscevichi non avevano dunque esitato ad agitare, in piena lotta rivoluzionaria, la questione delle aspirazioni nazionali e delle tendenze separatiste; ecco cosa, secondo Rosa Luxemburg, aveva «gettato confusione nei ranghi del socialismo». Ed in seguito effettuava questa dichiarazione: «“I bolscevichi hanno fornito l'ideologia per mascherare l'offensiva controrivoluzionaria; hanno rafforzato la posizione della borghesia e indebolito quella del proletariato (…). Era riservato agli antipodi dei socialisti di governo, ai bolscevichi, di condurre, grazie alla bella formula dell'autodeterminazione, l'acqua al mulino della controrivoluzione e di fornire così un'ideologia che permettesse non solo di schiacciare la stessa rivoluzione russa, ma anche di liquidare la guerra mondiale nel suo conformemente ai piani controrivoluzionari» [19].
Ci si può interrogare, dopo Rosa Luxemburg, sulle ragioni che hanno spinto Lenin a rimanere fedele alla formula del diritto dei popoli all'autodeterminazione e alla liberazione delle nazionalità oppresse. Questo slogan non era in palese contraddizione con le richieste della rivoluzione mondiale? E Lenin, come Rosa Luxemburg, era impegnato per innescare questa rivoluzione. Come tutti i marxisti del suo tempo, non credeva che la Russia, abbandonata a se stessa, fosse in grado di portare avanti fino in fondo la lotta rivoluzionaria. Ha condiviso la tesi di Marx-Engels secondo la quale «se la rivoluzione russa diventa il segnale di una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che le due rivoluzioni si completino, l'attuale proprietà comune russa può diventare il punto di partenza di un'evoluzione comunista» [20]. Lenin non era dunque soltanto convinto che i comunisti dovevano prendere il potere in Russia; era altrettanto convinto che la rivoluzione russa non poteva portare al socialismo che alla condizione di conquistare l'Europa e, oltre essa, il mondo intero. Data la situazione oggettiva creata dalla guerra, l'idea di una Russia che resistesse alle potenze imperialiste da sola, senza il sostegno di una rivoluzione in Europa occidentale, non poteva sfiorarlo, non più di Rosa Luxemburg. Quest'ultima era d'altronde categorica: «Beninteso, essi [i Russi] non potranno mantenersi in questo sabba infernale» [21]. Questa diagnosi non aveva semplicemente come base ciò di cui sapeva essere capaci Lenin e Trotsky, sulla sfiducia che le loro sparate aberranti sul diritto dei popoli all'autodeterminazione, la loro politica di concessioni ai contadini e al resto. Non gli era dettato nemmeno dal rapporto di forze esistente tra la Russia rivoluzionaria e le potenze imperialiste, e non derivava affatto da una concezione analoga a quella dei socialdemocratici che, statistiche in mano, si divertivano a dimostrare che lo stato arretrato dell'economia russa non giustificava né una rivoluzione né le permetteva il socialismo.
La ragione profonda del suo pessimismo era soprattutto il fatto che "la socialdemocrazia di questo Occidente sviluppato in modo superiore è composta da abietti codardi che, come pacifici spettatori, faranno perdere tutto il sangue ai Russi" Inoltre, pur criticando i bolscevichi per via delle esigenze della rivoluzione mondiale; lei ha sostenuto la loro causa; non ha mancato di sottolineare, ad esempio, che se i bolscevichi hanno subito gravi rovesci economici, è perché il proletariato dell'Europa occidentale non ha fatto niente per aiutarli. "Oh si! i bolscevichi!" esclamava. "Naturalmente non mi incantano affatto con il loro fanatismo per la pace [allusione a Brest-Litovsk. PM]. Ma in fin dei conti, non è colpa loro. Sono in una situazione di costrizione: non possono scegliere che tra due mali e scelgono il minore. Altri sono responsabili del fatto che il diavolo a trarre profitto dalla rivoluzione russa" [22].
Paul Mattick, 1935
NOTE
* Articolo di Paul Mattick pubblicato in Rätekorrespondenz (settembre 1935) e in International Coucil Correspondence (luglio 1936). Tradotto dall'inglese da Serge Bricianer e pubblicato in Intégration capitaliste et rupture ouvrière (EDI, 1972).
[1] Sappiamo che durante gli anni 30 era comune, nella Russia stalinista, assimilare al "luxemburghismo", il "trotskismo", il "menscevismo" e ad altre correnti di opposizione, e che il crimine del "luxemburghismo" era punibile con la pena di morte; Stalin stesso elencò gli "errori" di Rosa Luxemburg in una lettera che indirizzò nel 1931 alla rivista Proletarskaya Revoliutsia (N.d.T. francese).
[2] Cfr. la lettera indirizzata il 6 gennaio 1916 da Rosa Luxemburg alla redazione della Neue Zeit.
[3] Cfr. C. Zetkin, Um Rosa Luxemburgs Stellung zur russischen Revolution (pubblicato nel 1921 dalla casa di edizioni dell'Internazionale comunista, C. Hoym ad Hambourg). [Il Comitato centrale della S.E.D., il partito dirigente della Germania dell'Est, ha infine cominciato la pubblicazione delle opere complete di Rosa Luxemburg. Gli altri due tomi del primo volume sono usciti nel 1970, N. d. A., 1971].
[4] Comme une foule d’articles commémoratifs parus dans la presse social-démocrate l’atteste.
[5] M. Shachtman, «Lenin and the Rosa Luxemburg», The New International, mars 1935 [Rivista teorica del partito trotskista americano, di cui Shachtman fu uno dei «padri fondatori». N.d.T. francese].
[6], [7], [8], [9] Riforma sociale o rivoluzione?
[10] e [11] Du doit des nations à disposer d’elles-mêmes (1914), in: Lénine, Questions de la politique nationale et de l’internationalisme prolétarien, Moscou, 1968; (Sul diritto delle nazioni all’autodecisione).
[12] Cfr., ad esempio: Une caricature du marxisme et à propos de l’ «économisme impérialiste» (1916) in: Lénine, Œuvres, Moscou-Paris (s.d.), tome 23; (Intorno a una caricatura del marxismo e all’“economicismo imperialistico").
[13] cfr. Lenin, La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all'autodecisione (Tesi), in: Opere complete, vol. 22, pp. 147-160 (scritto nel gennaio-marzo 1916. Pubblicato nel Vorbote, n. 2, aprile 1916. Pubblicato in russo nel Sbornik Sotsial-Demokrata, n. 1, ottobre 1916).
[14] Lenin, Intorno a una caricatura del marxismo e all’“economicismo imperialistico".
[15] Lenin, Sul diritto delle nazioni all’autodecisione, Opere Scelte, vol. 1, Edizioni in lingue estere, Mosca, 1947, pag 538-583 (pubblicato nella rivista Prosvestcenie, n. 4-5-6, nel 1914).
[16] R. Luxemburg, La crise de la démocratie socialiste (1916). Raymond Renaud, Paris, 1934, p. 121.
[17], [18], [19] Rosa Luxemburg, La Révolution russe (La Rivoluzione russa).
[20] K. Marx e F. Engels, prefazione alla seconda edizione russa (1882) del Manifesto comunista, trad. Molitor, Paris, p. 46.
[21] Cfr., Rosa Luxemburg, Lettres à Karl et Louise Kautsky, trad. Stchoupak et Desrousseaux, Paris, 1925, p. 244.
[22] Id., p. 255.
[23] La Révolution russe, p. 89.
[24] Karl Liebknecht, Militarisme, guerre, révolution (Militarismo, guerra, rivoluzione).
[25] E. Varga, Die wirtschaftspolitischen Probleme der proletarischen Diktatur, Hambourg, 1921.
[26] La Tragédie russe, (La tragedia russa), Spartakusbriefe, 11, settembre 1918, trad. francese in: Œuvres II, pp. 50-52.
[27] Queste righe, non lo si dimentichi, furono scritte poco tempo dopo l'entrata in guerra della Russia alla Società delle Nazioni e la firma del patto Stalin-Laval (N. d. T. francese).
[28] N. Bucharin, discorso au IV Congresso dell'Internazionale communista (novembre 1922).
[29] M. Shachtman, «Lenin and Rosa Luxemburg», op. cit.
[30] «Du Défaitisme dans la guerre impérialiste» (1915), in: N. Lénine e G. ZINOVIEV, Contre le courant, trad. V. Serge et M. Parijanine, Parti, 1927, I, p. 116.
[31] Lénine, «Sur le rôle de l’or…», Œuvres, 33, p. 107.
[32] La Révolution russe, p. 67.
[33] La révolution russe, p. 89.
Les divergences de principe entre Rosa Luxemburg et Lénine (Mattick, 1935)
Article de Paul Mattick publié dans Rätekorrespondenz (septembre 1935) et dans International Council Correspondence (juillet 1936). Traduit de l'anglais par Serge Bricianer et publié dans ...