Emile Pouget
Emile Pouget
CNT
LA TAVOLA ORIGINALE
La Giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa
Il sesto studio, intitolato "il lavoro", contiene molte digressioni. Ecco quanto possiamo trarne. Il Cristo ha detto: "Amatevi l'un l'altro". Belle parole, ma se ne sarebbe dovuto dedurre questo corollario: "Servitevi l'un l'altro". La deduzione non è stata fatta perché il Cristo, messaggero d'amore, vittima espiatoria, non riconosceva il Diritto dell'uomo. Il lavoro era ritenuto, secondo il dogma antico, afflittivo e infamante: il cristianesimo cercherebbe di ripartirne il fardello e la vergogna? Sarebbe stato ammettere un diritto anteriore alla caduta, superiore alla redenzione. Il lavoro sollevava la domanda: il cristianesimo avrebbe effettuato una ripartizione della terra? Avrebbe fatto una legge agraria? Sarebbe stato negare la predestinazione, la provvidenza, la distinzione dei ricchi e dei poveri, infine il peccato originale. La classe lavoratrice sarà dunque sempre la classe sacrificata. Ma uno spirito nuovo agita il mondo. Come un tempo, i popoli aspirano alla libertà; le masse lavoratrici reclamano la fine dello sfruttamento egoista, la giustizia nel lavoro; come un tempo ricompaiono anche per combattere queste pretese, i privilegi antiquati, l'arbitrio delle fortune, la cattiva volontà dello Stato. Non è più la tribù ebraica con le sue due categorie di schiavi, né il patriziato romano con il suo sistema di clientele, né il feudalesimo del medioevo con la sua sapiente e teologale gerarchia: è la comunità capitalista, con concessione del principe e sovvenzione dello Stato, fondata sulle spalle del lavoratore.
A questo stato lamentevole gli economisti della Rivoluzione oppongono un programma: la terra a chi la coltiva; il mestiere a colui che l'esercita; il capitale a colui che l'impiega; il prodotto al produttore; il beneficio della forza collettiva per tutti coloro che vi concorrono e il salario modificato attraverso la partecipazione: in poche parole, la fatalità della natura domata dalla libertà dell'uomo. Come conseguire questo scopo? Dando al lavoratore due garanzie indispensabili: 1° invece di pietrificarlo in un apprendistato speciale, lo si inizierà ai principi generali e ai segreti dell'industria umana [20]: 2° si organizzeranno le funzioni del laboratorio sui principi dei gradi massonici [21]. Fuori da tutto ciò, non vi è che menzogna e verbosità. Il lavoro diventerà per il popolo una fonte di gioia infinita non appena esso lavorerà per se stesso, diventerà padrone delle proprie operazioni, la grandezza e varietà dell'opera ne elimineranno il disgusto. Un appello alla rivolta completa e corona queste considerazioni [22].
Le idee, questa è la rubrica, abbastanza vaga del settimo studio. Proudhon dichiara guerra all'assoluto. Il cardinale Mathieu, dottore in speculazioni metafisiche e trascendentali, incaricato dall'autorità divina dell'insegnamento di cose non evidenti, è un ministro dell'assoluto. Tutte i filosofi, materialisti, panteisti, idealisti, appartengono d'altronde allo stesso ministero. La Rivoluzione ci invita a lasciare il lato ontologico delle cose per non collegarci che al loro lato fenomenico. Salutiamo dunque con un trasporto di ammirazione questa eliminazione delle entità metafisiche, senza esempio nella storia, che caratterizza la nostra epoca: purificazione dalle idee religiose, teismo, panteismo, ateismo anche, cattolicesimo, protestantesimo, naturalismo, illuminismo, teofilantropia, messianismo, ecc.; purificazione dalle idee politiche: aristocrazia, borghesia, teocrazia, monarchia, democrazia, impero, suffragio universale, dualità di rappresentazione, federalismo; purificazione dalle idee economiche, ecc. Si tratta di costituire attraverso l'equazione o bilancio reciproco dei pensieri individuali la ragione collettiva che reclama con un aumento di energia la Rivoluzione, ma che il Cristo e la sua chiesa respingono allo stesso tempo con tutta la potenza della loro fede. E' questa Ragione collettiva, teorica e pratica, che da tre secoli ha cominciato a dominare il mondo. E' essa che i nostri padri, in un giorno di entusiasmo fecero salire sull'altare del Cristo e salutarono come la loro dea e regina: en dii tui, Israel! Non che questa figura rappresentasse ai loro occhi un genio, un Verbo, uno Spirito, un Dio, come quello di cui gli imperatori e i papi si dissero gli araldi; vi è l'infinito tra la Ragione del '98 e l'Essere supremo del '94. Era l'Umanità giusta, intelligente e libera, che essi ponevano al posto del vecchio idolo. Proudhon non se ne accorge che al momento stesso in cui intona quest'inno trionfale, egli rovina con le sue proprie mani l'impalcatura dei suoi sofismi: il nuovo idolo non si eresse sulle rovine dell'assoluto se non troneggiando su quelle della giustizia, e inciampò nel sangue dopo la più mostruosa accumulazione di iniquità che abbia insozzato la storia della nazione francese.
Infine, se il governo emerso dal 2 Dicembre avesse meno coltivato l'assoluto, avrebbe, nel 1853, nominato Proudhon senatore [23]: è l'ultima parola e la conclusione del settimo studio.
Nell'ottavo studio si parla della coscienza e della libertà. Proudhon pretende dapprima di difendervi la realtà del senso morale contro "il pirronismo teologico". Secondo lui, il cristiano non crede affatto alla giustizia, e la filosofia spiritualista è su questo punto d'accordo con lui. Ogni teoria del dovere e del diritto, che implica nei suoi termini, "come principio, condizione, postulato "o ammennicolo" la nozione, anche la più depurata, di un essere metafisico è una teoria religiosa, il che significa una teoria di scetticismo e di immoralità. Ciò posto, Proudhon trae la nozione "della coscienza morale dal fenomeno della funzione", e cioè prova la realtà del senso morale attraverso il metodo psicologico, così come farebbe d'altronde non importa quale filosofo spiritualista o cristiano. Ma, a differenza del primo o del secondo, egli separa da Dio l'essere morale, perché la giustizia è "una legge necessaria della collettività umana", perché "ogni teodicea è una cancrena per la coscienza". Sia pure, rispondiamo noi, la giustizia è nell'uomo allo stato non soltanto di nozione, ma di facoltà; non si tratta non di meno di sapere chi ve l'abbia posta.
L'uomo è un assemblaggio meraviglioso di elementi sconosciuti, solidi, liquidi, gassosi, ponderabili, imponderabili, di essenze sconosciute, materia, vita, spirito, ecc. Ora, ovunque vi sia un gruppo, si produce una risultante che è la potenza del gruppo, distinta non soltanto dalle forze o potenze particolari che compongono il gruppo, ma anche dalla loro somma, e che ne esprime l'unità sintetica. Qual è nell'uomo, questa risultante? La libertà. L'uomo è libero, perché è un composto, perché la legge di ogni composto è di produrre una risultante, che è la sua potenza propria; perché, il composto umano essendo formato di corpo, di vita, di spirito suddiviso in facoltà sempre più speciali, la risultante proporzionale al numero e alla diversità dei principi costitutivi deve essere una forza emanata dalle leggi del corpo, della vita e dello spirito, precisamente ciò che chiamiamo libero arbitrio. Ma questo ragionamento è una petizione di principio, la suddivisione in facoltà sempre più speciali non implica che il libero arbitrio provenga da questa risultante proporzionale.
Proudhon conclude: "Finché la libertà fu, come la giustizia, rapportata a un soggetto divino, essa rimase così come la giustizia una nozione fantastica. Ne abbiamo fatta una realtà; facciamo di meglio anche, proviamo che questa realtà è esclusivamente umana, incompatibile con l'idea di Dio". Tuttavia, se le cose stanno così, è perché l'ordine nella creazione dipende non più da un'influenza divina, da un'azione divina, da un'anima del mondo o vita universale, elaborante unitariamente la materia che essa crea, ma delle qualità simili e contrarie degli atomi che si attirano, si assemblano, si respingono, si bilanciano, si ordinano e si subordinano in ragione delle loro qualità. Ora, questa spiegazione dell'ordine nella creazione è puramente congetturale e non spiega nulla, perché si è indotti a chiedersi dapprima se gli atomi si sono essi stessi dotati di queste qualità contrarie o similari e di queste proprietà stupefacenti, in seguito se hanno fatto, attraverso le loro forze o la loro volontà, scaturire dalle loro combinazioni l'ordine supremo.
Il terzo volume inizia con un nono studio, intitolato "Progresso e decadenza".
Chi dunque aveva capito il progresso prima di Proudhon? Nessuno [24]. Soltanto lui, infatti, ha scoperto che il progresso consiste unicamente nella "epurazione dall'assoluto". Là dove gli istinti dominano, qualunque nome si diano essi, interessi, gloria e vittoria, religione, ideale, l'esistenza politica e la vita nazionale si divideranno sempre in due periodi: ascesa e decadenza. Là, al contrario, dove la giustizia è preponderante (non si tratta, ben inteso, che della giustizia modellata da Proudhon), il progresso sarà continuo.
Fortunatamente il regno dell'assoluto volge alla fine; gli dei sono partiti. Ogni anno di virtù aggiungerà oramai al capitale sociale e alle forze produttrici, di modo che l'essere collettivo potrà godere attraverso la giustizia di una recrudescenza perpetua di salute, di bellezza, di genio e d'onore. Ogni società progredisce attraverso il lavoro, la scienza e il diritto; ogni società regredisce attraverso l'ideale. La Chiesa è la grande nemica del progresso, essendo il ministro visibile dell'ideale assoluto e invisibile. La trascendenza, ponendo Dio, e cioè la categoria dell'ideale, come soggetto, rivelatore e garante della giustizia, è approdata, attraverso il culto di questo ideale, al declino della dignità umana; attraverso la predestinazione e la grazia alla negazione dell'eguaglianza; attraverso la Provvidenza, al fatalismo della ragione di Stato; attraverso lo spiritualismo all'asservimento del lavoratore; attraverso l'odio della natura, la paura dell'inferno, la promessa del paradiso, alle miserie della vita e alle vigliaccherie della morte. Il cristianesimo non era che un idealismo, cento volte più temibile di quello degli imperatori; esso aggiornò per quindici secoli la rigenerazione sociale. Qualunque sia la religione, si tratta sempre, in nome dell'assoluto, di umiliare l'uomo, di governare attraverso la ragione di Stato e di mantenere, attraverso l'autorità del misticismo, l'ineguaglianza.
Proudhon collega a questi sviluppi principali due interminabili capitoli, dove tratta "della letteratura nei suoi rapporti con il progresso e la decadenza delle nazioni". Il suo quadro della letteratura antica e della nostra letteratura classica è una pura digressione. Non entriamo veramente in argomento che nel momento in cui, secondo l'espressione stessa dell'autore, la Rivoluzione ci lancia in piena epopea. "Tutti quanti siamo," egli esclama, "letterati e illetterati, operai, contadini, soldati, borghesia e plebe, facciamo materia epica". Ma ecco che la letteratura, al contrario, compie di colpo un voltafaccia, "rinnega il suo oggetto, disconosce il suo principio e non smette più, dall'inizio del secolo, di combattere le due grandi forze dell'umanità: la libertà e il diritto". Chi, tra tanti scrittori nati dopo la grande lotta, ha capito il Diritto, l'Eguaglianza, il Lavoro, chi ha veramente voluto la Rivoluzione e amato il proletario? Ahimè! il loro cuore è rimasto fedele agli idoli di un tempo. Sotto l'influenza di Rousseau, filosofi, oratori, letterati, a cui era scaduto il compito di distaccare dalla causa della religione quella del diritto, non trovarono nulla di meglio da fare che di consegnare di nuovo la nazione alla fede. La controrivoluzione si realizzò nelle intelligenze. La letteratura contemporanea è in rotta completa; non ha capito nulla del movimento degli ultimi due secoli; incapace di liberare l'idea rivoluzionaria, essa si è collegata a dei tipi fuori servizio, non è servita che a glorificare la reazione e a illuminare le nostre dissolutezze. Proudhon aggiunge: avendo fatto soltanto della letteratura rivoluzionaria, ho fatto soltanto della vera letteratura; ma è pura modestia.
Dopo di che il pubblicista affronta, nel suo decimo studio, che abbraccia non meno di centocinquantacinque pagine, la questione dell'amore e del matrimonio. Egli considerava il matrimonio come "necessario, di necessità sociale", e lo voleva indissolubile; ma, contraddicendo su questo punto la democrazia moderna [25], doveva farsi perdonare la sua audacia. Otterrà questo perdono compiendo uno sforzo disperato per disonorare il matrimonio cristiano. Omettiamo di proposito di trattare diversi sviluppi odiosi: sull'unisessualità prodotta dalla sovreccitazione dell'idealismo, sulle contemplazioni erotico-teologiche dei monaci e delle religiose, sulle depravazioni del clero cattolico, sugli incesti e gli adulteri spirituali, ecc., e ci rifiutiamo di esaminare se i gesuiti hanno da rimproverarsi le descrizioni lascive contenute in alcuni romanzi di George Sand. Ci limitiamo a evidenziare da questo caos, per quanto possibile, la trama di un ragionamento.
Proudhon insegna che "la teologia cristiana ha fatto scendere il matrimonio dall'altezza in cui l'ispirazione "politeista l'aveva posta". E', a volerlo credere, un fatto che la storia della Chiesa, le sue scritture, la sua definizione, la sua pratica e tutte le sue autorità dimostrano in tutta evidenza. Egli rimprovera al cristianesimo di aver gettato, senza alcun processo formale, la donna alla gogna che un tempo, sotto la protezione del culto pubblico, si votava all'amore libero. Lo stato medio del concubinato, "espressione esatta dell'idea cristiana", sembrava dover ottenere grazia; non se ne è fatto nulla. Il suo nome era impuro; dovette optare tra la benedizione del sacerdote e la dichiarazione d'infamia [26].
La Chiesa, pudibonda e severa, non ha voluto conservare che il sacramento. Proudhon la biasima di non preoccuparsi del contratto civile e di ignorarne le conseguenze; essa unisce dunque dei semplici "concubinari" che respingono l'intervento della società con le sue conseguenze legali. Un poco oltre, scopre che, secondo l'ideale cristiano, "il più falso che si possa concepire", il matrimonio non ha nulla in comune con l'amore; esso diventa semplicemente una funzione sociale in cui tutto è regolamentato in vista della linea di successione, dell'alleanza, degli interessi. E' soprattutto dall'instaurazione del cristianesimo che l'adulterio, uno dei più grandi crimini per gli antichi, ha perso la sua gravità e si è moltiplicato in un modo così deplorevole. Non esiste più nessuna considerazione né di rango, né di età, né di amicizia, né di morale pubblica, davanti a una dissoluzione eretta in una specie di mutualità, e di cui i rischi sono accettati dalla pubblica opinione. La risposta è semplice. Ciò che l'opinione pubblica può accettare, la Chiesa lo riprova con tutta l'energia possibile: l'indissolubilità, la santità del matrimonio non sono mai stati meglio protetti se non da essa: tutte le brecce fatte all'istituzione del matrimonio sono dirette contro il matrimonio cristiano, contro il cristianesimo stesso. Infine la religione cristiana benedice l'unione delle anime benedicendo l'unione dei corpi: basta citare quell'epistola di san Paolo agli Efesini, che raccomanda ai mariti di amare le loro donne così come il Cristo ha amato la sua Chiesa.
Nello studio successivo, posto sotto lo stesso titolo, Proudhon si calma: intraprende, infatti, dopo aver demolito il matrimonio cristiano, a edificare il matrimonio moderno. E' già tanto se egli spezza ancora una lancia contro la chiesa per rimproverarle di ammettere l'eguaglianza dei sessi e di emancipare a oltranza, per il suo proprio interesse, il sesso femminile. Egli si sforza di dimostrare, in un primo capitolo, non soltanto l'inferiorità fisica della donna, "specie di termine medio tra l'uomo e il regno animale", ma anche la sua inferiorità intellettuale e la sua inferiorità morale. Egli stabilisce in seguito, con grande sostegno di esempi, che ogni letteratura in sviluppo ha come carattere il movimento dell'idea, elemento maschile; ma che, se l'elemento femminile prende il sopravento, gli scrittori di second'ordine compaiono e segnano il punto in cui comincia la decadenza dei popoli. Egli espone infine, in un capitolo finale, la sua teoria del matrimonio.
La giustizia esiste nel soggetto umano, non soltanto come una nozione e un rapporto, ma a titolo di sentimento, di facoltà, di funzione. Proudhon cerca, di conseguenza, un organo corrispondente alla giustizia così come il cervello corrisponde all'intelligenza, e lo trova nella dualità sessuale. Così come l'individuo è una libertà organizzata, la coppia coniugale può essere definita una giustizia organizzata: "produrre giustizia, questo è lo scopo superiore della divisione androgina". Proudhon, comparando i due sessi, scopre che, se l'uomo è alla donna per il genio e la giustizia come 27 sta a 8, la donna, a sua volta, per le grazie della forma e dello spirito, per l'amenità del carattere e la tenerezza del cuore, sta all'uomo come 27 sta a 8. Tuttavia la supremazia della bellezza, anche intellettuale e morale, non può creare una compensazione alla donna, la cui condizione resta così fatalmente subordinata: come fondare dunque il patto coniugale senza il quale la giustizia rimane senza organo e la creazione diventa assurda? Riferendoci (è Proudhon che parla) a quella frase della Genesi: faciamus ei adajtorium simile sibi. La donna è un ausilio per l'uomo perché mostrandogli l'idealità del suo essere lei diventa per lui "un principio di animazione, una grazia di forza, di prudenza, di giustizia, di coraggio, di santità, ecc." senza la quale sarebbe incapace di sostenere il fardello della vita. Lei è l'ausilio dell'uomo, innanzitutto nel lavoro, attraverso le sue cure, la sua dolce società, la sua carità vigile: è lei ad asciugare la sua fronte inondata dal sudore, che poggia sulle sue ginocchia la sua testa affaticata. Auxilium christianorum, Salas infirmorum (è Proudhon che si esprime così). Ausilio dal lato dello spirito per la sua riservatezza, la sua semplicità, la sua prudenza, per la vivacità e il fascino delle sue intuizioni: è attraverso lei che l'uomo dà la vita e realtà alle sue idee rapportandole incessantemente dall'astratto al concreto; lei è il tesoro della sua saggezza, il sigillo del suo genio: Mater divinae gratiae, Sedes sapentiae, Vas spirituale, Virgo prudentissima. Ausilio della Giustizia, lei è l'angelo di pazienza, di rassegnazione, di tolleranza, Virgo clemens, Virgo fidelis; la custode della sua fede, lo specchio della sua coscienza, la fonte delle sue devozioni. Foederis arca, Speculum justitiae, Vas insigne, devotionis. Da qualunque lato la si guardi, lei è la fortezza della sua coscienza, lo splendore della sua anima, il principio della sua felicità, la stella della sua vita, il fiore del suo essere: Turris eburnea, Domus aurea, Janua coeli, Stella matutina, Rosa mystica. L'accanito avversario del matrimonio cristiano interrompe la sua litania: "Vedete, Monsignore, è il cristianesimo, è la Chiesa, siete voi stesso che, senza volerlo, mi avete fornito la teoria del matrimonio".
Posto tutto ciò, l'unione dell'uomo e della donna non costituisce un patto sinallagmatico, quel patto che suppone i contraenti rispettivamente completi nel loro essere e relativamente equivalenti o eguali: essi formano, nel morale come nel fisico, un tutto organico le cui parti sono complementari l'uno all'altro; è una persona composta da due persone, un'anima dotata di due intelligenze e di due volontà. Il matrimonio è così bene la legge dell'umanità che appena uniti nella Giustizia gli sposi, per quanto barbari siano per il resto, si trovano capaci di dare l'iniziazione giuridica ad altri esseri e di elevarsi ancora attraverso questa iniziazione. Così, attraverso il rapporto misterioso della forza e della bellezza, forma una prima giurisdizione: la famiglia, attraverso la comunità di coscienza che regge i suoi membri, attraverso l'identità del sangue, attraverso l'unità d'azione e di interesse, ne forma una seconda; la città ne sarà la terza. Attraverso la città, l'organismo giuridico acquisisce il suo ultimo sviluppo, cosa indicata dal terzo termine della massima repubblicana: Fratellanza.
Segue un breve catechismo del matrimonio, la cui frase finale è così concepita: - Domanda. Come mai la filosofia del diritto non ha capito per così tanto tempo il matrimonio? - Risposta. E' perché i filosofi hanno sempre cercato il diritto nella religione e che, ogni religione essendo essenzialmente idealista e erotica, l'amore nell'anima religiosa è posto al di sopra della giustizia, e il matrimonio abbassato al concubinaggio. Ma come! non ha appena sostenuto che, secondo l'ideale cristiano, il matrimonio non ha nulla in comune con l'amore? Che ragionamento coerente!
Il dodicesimo e ultimo studio, tratta della "sanzione morale". Proudhon ammette che la giustizia non sarebbe per l'uomo una legge se la pratica potesse essere guardata come indifferente. Nel sistema delle vecchie legislazioni governative, si sono distinte le diverse facoltà che concorrono alla formazione della legge. L'autorità legislatrice è A; il testo della legge: B; la ratifica o il sigillo: C; la garanzia o la sanzione penale: D. Questa fu, nel mondo antico, la drammaturgia della Legge che la Chiesa riproduce a modo suo: Dio, la Rivelazione, il Sacerdozio, l'Inferno e il Paradiso. Ma la legge possiede in sé la sua sanzione penale. L'autore pone due domande. Qual è la sanzione penale collegata alla legge? Tutto gioisce nell'uomo, nella società e nella natura, quando la giustizia viene osservata; tutto soffre e muore quando la si viola. Questa sanzione basta, in tutti i casi, alla ricompensa della virtù, all'espiazione del crimine e al raddrizzamento dell'errore? Sì. Torneremo su questo argomento.
Proudhon salda alla sua teoria della sanzione morale una fisiologia del regicidio. Egli sviluppa questa sorprendente affermazione: Sotto gli imperatori romani, il regicidio aveva come causa la rovina dello spirituale e la materializzazione della società; dopo la vittoria della Chiesa, la causa del regicidio si modifica; è, chi lo avrebbe mai creduto? la separazione dello spirituale con il temporale. Commentando queste parole del Vangelo: il mio regno non è di questo mondo, non teme di scrivere: "Giulio Cesare aveva aperto l'era del regicidio; Gesù ne fece, per così dire, un dogma: da loro comincia la responsabilità morale degli assassinati". Ciò che è sicuro e ciò di cui il nostro franco-conteese (franc-comtois) "osa rispondere", è che, la questione dello spirituale nella Rivoluzione e la sua unione al temporale essendo ufficialmente posta, l'epilessia regicida non ha più ragione di essere; non vi è ricaduta da temere da nessuna parte. La risposta sarà data, alla fine del secolo, dalle sette anarchiche. Esse si preoccuperanno molto poco della formula scoperta dopo lunghi tentennamenti da parte del loro antenato [27] così come del suo vivat finale in onore di Napoleone III e della sua dinastia [28].
Proudhon non poteva non terminare così come aveva cominciato, e cioè d'interpellare per un'ultima volta, nella sua conclusione, il cardinale Mathieu. Gli propone dunque un nuovo concordato in nove articoli, di cui il primo riunisce i due poteri, spirituale e temporale, nella sovranità francese, di cui l'ultimo sopprime l'autorità del papa e dei vescovi. Se l'arcivescovo accettasse questa nuova costituzione civile gli si affiderebbe lo "spirituale della Rivoluzione". Per celebrare questa fusione memorabile, Proudhon gli porterebbe sua moglie, di cui la Chiesa non ha benedetto il matrimonio, le sue due figlie, non ancora battezzate; tutti insieme si getterebbero ai suoi piedi, riceverebbero dalle sue mani il sacramento e reciterebbero facendosi il segno della croce: Pax et benedictio Dei omnipotentis, Patris et Filii et Spiritus Sancti et visitatio angelica descendat super nos. Questo bacio finale era la suprema ingiuria.
Questo libro strano, opera capitale di Proudhon, di tutte la più eloquente, ma di un'asprezza senza eguali, di un'ingiustizia senza limiti, straripante di fiele e di odio, fu sequestrato il 28 aprile 1858.
[Traduzione di Ario Libert]
NOTE
[20] Vedere lo sviluppo di questa idea nel tomo II, pp. 229 e seguenti.
[21] Vedere ibid., p. 23.
[22] "Il lavoratore si solleverà per il lavoro: questa questione, per lui, implica tutte le altre... Chi potrebbe trattenere l'insurrezione?... A meno di una transazione conciliante, la battaglia è inevitabile...".
[23] Tomo II, p. 411. Comparare qui, p. 210.
[24] Questa tesi è sviluppata nel capitolo I. (Critica dell'idea di progresso).
[25] T. III, p. 202.
[26] T. III, p. 308, Proudhon aveva appena detto (p. 299): "Il concubinato, che avvicina i personaggi e non li identifica; che unisce i corpi lasciando il libero arbitrio ai cuori; il concubinato, senza giustizia propria e senza ideale morale, era tutto ciò che poteva sopportare la nuova religione". Da allora, perché non le concesse affatto grazia? Perché lo forzò di optare tra la benedizione e la dichiarazione d'infamia?
[27] "Si può sempre porre un caso di regicidio tale per cui l'opinione pubblica prenda parte per l'assassino contro il principe; ma, anche in questo caso, esistono sempre delle ragioni che fanno del regicidio, dal punto di vista del diritto e della morale, un atto esorbitante, un crimine di cui il fanatismo del colpevole può soltanto attenuare l'orrore" (T. III, p. 564.).
[28] "Sire, una voce, diffusa dalla malevolenza, circola tra le masse: la monarchia, si dice, non vuole il bene del popolo; essa non vuole la giustizia... Smentite, Sire, queste insinuazioni calunniose; mostrate che volete, che potete, che sapete, e possa la Vostra Maestà vivere a lungo, la vostra dinastia sempre!" (ibid., p. 587.) Ma si deve accostare a questo hosanna il passo dello stesso trattato sulla complicità morale dello scrittore negli attentati commessi contro l'Imperatore (ibid., p. 552).
Marx all'Est
Maximilien Rubel è nato nel 1905 a Czernowitz, all'epoca città austro-ungarica e capitale della Bucovina che è passata alla Romania nel 1918 e all'URSS nel 1947. Diplomato in diritto e in filosofia, giunge a Parigi nel 1933, dove continua i suoi studi alla Sorbona. Si diploma in lettere nel 1934 e diventa dottore nel 1954. E' durante la guerra che si rende conto che non esiste né edizione completa né bibliografia completa, né biografia soddisfacente di Marx e della sua opera. Si dedicherà d'ora in poi a cercare di colmare queste lacune. Nel 1947, entra al CNRS dove lavorerà sino al 1970. Rubel ha dato il nome di "marxologia" agli studi che ha intrapreso su Marx. Nel 1959, crea una rivista dedicata a quest'argomento, "Études de Marxologie". Uno dei risultati dell'opera di Maximilien Rubel, oltre ai suoi numerosi scritti, è l'edizione della Pléiade degli scritti di Marx di cui ha la responsabilità. Le pagine che seguiranno non possono, come Rubel stesso dice, riassumere i lavori di tutta una vita. Ma permettono di introdurre due aspetti delle sue ricerche che ci sono sembrati importanti. Innanzitutto il posto occupato da Marx all'Est: egli ha ampiamente dimostrato che anche Marx e Engels, benché qui deificati, sono tuttavia censurati. Inoltre Rubel appariva isolato e in disparte nel grande dibattito, per non dire combattimento, tra marxismo e anarchismo. Infatti, egli critica violentemente tanto il marxismo quanto gli anarchici e in modo particolare Bakunin. Ma considera che Marx è teorico dell'anarchismo.
Nicolas: Ho pensato a una intervista di circa 20 minuti, tuttavia ecco la questione Marx / marxismo / Paesi dell'Est; ecco le domande che vorrei porti (se vuoi aggiungerne altre o modificarle, non c'è problema per me):
1. Dall'URSS all'Etiopia, passando per le democrazie popolari, la Cina o Cuba, si rivendica e si invoca, da parte del potere, Marx. Puoi sviluppare, per Radio-Libertaire, la tua posizione, in quanto marxologo, a questo proposito?
2. Come spiegare il fatto che nel blocco detto socialista, il riferimento a Marx svolge un ruolo infimo presso coloro che criticano, contestano o combattono il regime costituito. Ad esempio in Polonia nel 1980/81, anche delle persone come Modzelewski o Kuron, marxisti critici negli anni dopo il 1965, hanno respinto ogni riferimento a Marx. Contro-esempio, gli intellettuali iugoslavi legati strettamente o un po' alla rivista Praxis, che si richiamano a Marx ma che sono spesso su posizioni lusemburghiane, libertarie o anche anarchiche (senza che ciò appaia loro come contraddittorio).
3. Quali sono stati gli echi delle tue ricerche su Marx negli ambienti comunisti occidentali (PC, trotskysti) e soprattutto all'Est?
4. Qual è la critica dello Stato "socialista" che tu fai a partire da Marx?
5. Potresti sviluppare la tua tesi su "Marx teorico dell'anarchismo" in rapporto alla contestazione esistente all'interno dei regimi marxisti-leninisti?
Maximilien Rubel : è dietro mia richiesta che hai letto le cinque domande che mi hai inviato per una "intervista di circa venti minuti" destinata agli uditori di Radio Libertaire, e hai voluto precisare tu o modificarle".
La mia prima reazione rileggendo il tuo questionario fu quella dello stupore, ma riflettendo, mi sono detto: di due cose l'una, o tu hai una così buona opinione della mia intelligenza e del mio sapere che mi credi capace di riassumere in poche formule incisive delle idee e giudizi che necessitano delle ore, addirittura delle giornate di riflessione e di discussioni, oppure possedevi te stesso, formulando le tue domande, le risposte a simili interrogativi che sono maturate nel tuo spirito e potevano dunque trovare facilmente risposta in un breve dialogo con me. Non so quale ipotesi scegliere, ma sia quel che sia, penso di essere in grado di formulare un certo numero di tesi generali a partire dalle quali ognuna delle tue cinque domande potrebbero trovare una risposta adeguata.
1. - Affermo che vi sia incompatibilità di natura tra non importa quale forma di marxismo da una parte, e l'insegnamento di Marx dall'altra. Se è vero, come lo pretende l'opinione comune, che un terzo del nostro pianeta è "ufficialmente marxista", è anche altresì vero che il carattere marxista di questi paesi o regimi è semplicemente un'etichetta ornamentale per far credere che si tratta di società funzionanti secondo i desideri e le ricette di Marx, allorché il semplice fatto che questi regimi hanno scelto di definirsi "marxisti" è già in sé una prova che si tratta di un'impostura o, per ricorrere alla teoria di Marx, di una ideologia. Un regime che si dica "marxista" e pretenda di governare conformemente alle regole e norme di una scienza chiamata marxismo cade per questo stesso fatto anche sotto la critica delle ideologie elaborate da Marx anche se i padroni di questi regimi si richiamano allo stesso tempo a ciò che essi chiamano "il socialismo scientifico". Questa sarebbe la mia risposta, forzatamente lapidaria e paradossale, alla tua prima domanda.
Per esprimerla sotto forma di una tesi, direi che il marxismo ufficiale di un terzo del nostro mondo prova al contrario l'esattezza della teoria materialista e critica di Marx, la sua scoperta scientifica della genesi e del ruolo delle ideologie politiche in quanto strumenti di istupidimento e di dominio dell'uomo sull'uomo. Non è il marxismo che ci fa conoscere il pensiero di Marx, è al contrario la teoria critica di Marx che ci aiuta ad analizzare l'ideologia marxista delle classi e delle caste dei paesi "socialisti" che hanno bisogno di legittimare moralmente l'esercizio del potere di Stato, leva della nuova accumulazione capitalista, ecc.
2. — In questi paesi, è normale che le masse lavoratrici sfruttate si occupano molto poco di conoscere la "verità di Marx" e che esse respingono il marxismo che non riesce nemmeno a diventare il sostituto di una religione e di suscitare una vera credenza. Gli operai polacchi si accontentano di una vera religione - non di una religione vera -, la grande religione cattolica, ma è mio parere che un grande numero tra di loro se ne freghi del cattolicesimo così come del marxismo, di Walesa e dei marxisti "ufficiali" come Adam Schaff; Modzelewski e Kuron avevano capito un tempo questo, e hanno cambiato bandiera, per delle ragioni psicologiche che sarebbe troppo lungo - e inutile - spiegare. In quanto agli Iugoslavi, in cui lo stalinismo ha potuto essere contenuto, una certa libertà di pensiero ha fatto nascere la corrente PRAXIS: ciò non ha impedito ai miei "colleghi" di rifiutare la discussione con me quando ho esposto a Korcula le mie tesi sulla nuova sulla nuova borghesia e la sua missione nei paesi etichettati "socialisti" o "autogestionari".
3. — Io pratico la "marxologia" da più di quattro decenni e se dovessi fare il bilancio dei miei "successi", direi innanzitutto, non senza una certa soddisfazione, addirittura fierezza, che i miei lavori scientifici - poiché è in quanto ricercatore collaboratore al CNRS (dunque pagato dallo Stato) che ho potuto dedicarmi alla mia specialità - dunque direi che ho dei lettori più numerosi negli ambienti non intellettuali che tra i miei "confratelli" che, anche quando utilizzano i miei scritti o le mie ricerche, preferiscono non nominarmi né citarmi: gli anti-marxisti perché oppongo Marx al marxismo, e i marxisti perché, in nome della teoria di Marx, li critico in diversi modi, a secondo della categoria o il cenacolo ai quali essi appartengono e secondo la posizione politica o "filosofica" che essi assumono nei confronti del "socialismo realmente esistente", proclamandosi discepoli di Marx. Tutto ciò per parlare degli "echi" delle mie ricerche negli ambienti occidentali, comunisti e altri, soprattutto in Francia. All'estero, diciamo negli Stati Uniti, in Giappone, in Inghilterra, un certo numero di confratelli mi apprezzano più o meno al mio "giusto valore", prendendo seriamente il mio modo di editare gli scritti di Marx: il Marx della Pléiade si offre ai lettori specialisti e non, intellettuali e non, come un autore su cui meditare e da consultare anche in questo tempo di crisi e di confusione, di nevrosi e di violenza. In quanto all'Est", dovrei parlare soprattutto dell'URSS del tempo di Stalin, fui il "falsificatore" di Karl Marx, di più. Dopo l'era staliniana, si manifesta un po' più di riserva nei giudizi sui miei lavori, pur condannando in blocco la marxologia come un pensiero "borghese" e i "marxologi" come anti.marxisti... Ma qui ancora, occorrerebbe più tempo per spiegare il perché di questo rigetto delle mie ricerche e giudizi.
4. - A questa domanda risponderei di colpo che né la parola né il concetto di "Stato socialista" si trovano in Marx. Un dettaglio: a proposito del bonapartismo del secondo impero, Marx ha parlato di un "socialismo" imperiale, e di questo fenomeno bonapartista, ha fornito degli elementi di un'analisi che si ricollegano alle moderne ricerche sul "totalitarismo"! A proposito delle riforme di Bismarck, ha parlato di "socialismo di Stato", non per approvare questo genere di socialismo, ma per condannarlo. Nel conflitto con Bakunin, Marx e Engels sono stati portati a evocare il "socialismo da caserma" di certi regimi sudamericani, lo Stato degli Inca del Perù, ecc. Ma questa critica intempestiva si basava sulla denuncia del modo di organizzazione delle società segrete di cui Bakunin si erigeva a maestro e istruttore, allora che sulla natura dello Stato e l'oligarchia capitalista, Bakunin e Marx si accordavano perfettamente, Bakunin essendosi riconosciuto discepolo di Marx che egli amava trattare da prussiano, da ebreo, da hegeliano, e dunque da "comunista di Stato". Eccomi trascinato sul terreno scivoloso della tua ultima domanda, che mi sembra la più importante: Marx teorico dell'anarchismo.
5. - In fondo, è da qui che avrei dovuto cominciare la mia comunicazione, dato che si tratta di una tesi che è difficile se non impossibile far capire e accettare quando si discute con delle persone che si richiamano all'anarchismo, benché si dovrebbe essere più specifici, viste le tendenze o modalità di anarchismo spesso contraddittorie. Tuttavia sembra esservi unanimità nella condanna di Marx e del suo pensiero, qualunque anarchico (diciamo piuttosto: adepto dell'anarchismo) condivide con le critiche più reazionarie su Marx la convinzione di trovarsi in presenza di un "comunista autoritario", e anche del principale teorico del socialismo o comunismo di Stato; nell'ipotesi meno negativa, si concederà a Marx di aver dato la critica scientifica del capitalismo, addirittura dello Stato borghese, critica che egli avrebbe sventuratamente posto al servizio di una nuova forma di dominio oligarchico, sia con il suo discorso sulla dittatura del proletariato sia sullo spirito "riformista" del programma politico chiaramente definito in Il Manifesto del partito comunista e costantemente preconizzato da allora, ad eccezione del breve episodio della Comune di Parigi, quando Marx si sarebbe, per un momento, identificato con le concezioni di Bakunin. Credo di aver rifiutato parzialmente questo genere di ragionamento nelle quattro risposte precedenti, dimostrando che non si può rendere Marx responsabile del marxismo, soprattutto dello sfruttamento leninista dell'insegnamento marxiano. E' a Bakunin che si deve il dubbio merito di aver inventato il marxismo e i marxisti come delle creazioni o prodotti del loro malinteso maestro: ed è per sfida che Engels volendo cambiare l'insulto in titolo di gloria, ha creduto bene sanzionare l'invenzione verbale di Bakunin e di rivendicare per se stesso e i suoi compagni il titolo nobiliare di "marxisti" e per la teoria elaborata da Marx e, in parte da lui stesso, la denominazione laudativa di "marxismo"; questo gesto di adozione infantile è all'origine di quel che io chiamo il nuovo culto onomastico. il feticismo del nome, in una parola così come in cento: la mitologia marxista.
Mi obietterai: cosa tutto ciò ha a che vedere con la mia domanda che mi permetto di ripeterti: "Potresti sviluppare la tua tesi su "Mar, teorico dell'anarchismo" in rapporto alla contestazione esistente all'interno dei regimi marxisti leninisti?".
Hai ragione, non ho fatto che abbozzare i preliminari di una risposta, ma non aspettarti che porti a te come ai miei ascoltatori, la prova convincente di un argomento che condensa in qualche modo l'insieme dei miei contributi a una migliore comprensione degli insegnamenti di Marx e che è il senso stesso dei miei sforzi: Marx teorico dell'anarchismo. Ho risposto, mi sembra, attraverso la negativa, con un contrattacco, rendendo una certa corrente anarchica responsabile della nascita della mitologia marxista. Ecco che è più facile giustificare la mia concezione - non dico la mia interpretazione, da parte di Marx, di una teoria dell'anarchismo, addirittura della sola teoria dell'anarchismo.
Se avessi da proporre alcune affermazioni di Marx che rivelano sotto forma di un aforisma il credo anarchico di critica del sistema capitalista, citerei innanzitutto questa frase del Manifesto del partito comunista:
"Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe subentra un'associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo".
Questa citazione la completerei con una altro aforisma, anteriore al precedente:
"L'esistenza dello Stato e l'esistenza del la schiavitù sono inseparabili. Quanto più potente è lo Stato, quanto più politico quindi è un paese, tanto meno esso è disposto a ricercare nel principio dello Stato, dunque nell'odierno ordinamento della società, della quale lo Stato è l'espressione attiva, autocosciente e ufficiale, il fondamento delle infermità sociali, e ad intenderne il principio generale." (Glosse marginali di critica all'articolo: Il re di Prussia e la riforma sociale, Firmato: un Prussiano, Vorwarts, 1844).
Queste due citazioni, le porrei in epigrafe a un'esposizione della teoria anarchica di Marx, e poteri moltiplicare queste denunce dello Stato (di cui l'ascoltatore troverà una scelta più ricca nel mio saggio pubblicato nel 1973 "Marx teorico dell'anarchismo" e nella raccolta del 1974, "Marx critico del marxismo"). Bakunin che fu uno dei primi attenti lettori degli scritti di Marx non aveva dunque bisogno di aspettare l'Indirizzo sulla Comune di Parigi del 1871 per scoprire un adepto dell'anarchismo nella persona del preteso "comunista di Stato". Avrebbe potuto fare la stessa constatazione in un altro documento, di qualche mese soltanto posteriore a questo indirizzo, e cioè il libello redatto da Marx con il titolo "Le pretese scissioni nell'Internazionale", opuscolo diretto contro Bakunin e i suoi adepti, in cui figura quella che chiamerei la professione di fede anarchica di Marx:
"L'anarchia, ecco il grande cavallo di battaglia del loro maestro Bakunin che dei sistemi socialisti non ha preso che le etichette. Tutti i socialisti intendono con anarchia questo: lo scopo del movimento proletario, l'abolizione delle classi una volta raggiunta, il potere di Stato, che serve a mantenere la grande maggioranza produttrice sotto il giogo di una minoranza sfruttatrice poco numerosa, sparisce, e le funzioni governative si trasformano in semplici funzioni amministrative. L'Alleanza (si tratta di un'organizzazione fondata da Bakunin, l'Alleanza per la Democrazia Socialista) prende la cosa al contrario: essa proclama l'anarchia nei ranghi proletari come il mezzo più infallibile per spezzare la potente concentrazione di forze sociali e politiche tra le mani degli sfruttatori. Con questo pretesto, essa chiede all'Internazionale, nel momento in cui il vecchio mondo cerca di schiacciarla, di sostituire la sua organizzazione con l'anarchia" (Freymond II, p. 295).
Bakunin ha risposto con degli insulti razzisti e germanofobi, dapprima nel Bulletin de la Fédération jurassienne dove tratta Marx e i suoi associati come ebrei, e nel 1873, poco prima della sua morte, in Stato e Anarchia dove il ritratto di Marx è molto più completo con certi lati molto positivi in cui possiamo vedere che Bakunin ha seguito da vicino la carriera intellettuale di Marx ma dove argomenta in quanto razzista. Lo tratta da ebreo, da prussiano, vede in lui un hegeliano e condanna Lassalle come discepolo di Marx. Ma questo richiederebbe molti incontri per districare e soprattutto per analizzare e commentare ciò che io chiamo la mitologia marxista.
N. Si dovrebbe ricordare la russofobia ben nota di Marx.
M. R. Naturalmente, si deve prendere in considerazione il cattivo carattere di Marx. Per tua informazione, risponderei con la chiaroveggenza con la quale Marx si è giudicato da se stesso, quando alla domanda quale era la sua massima, egli rispondeva, in latino, "Sono umano, e nulla di umano mi è estraneo". Ha avuto dei lati negativi e tuttavia se dovessi scegliere tra due maestri per ritrovare nelle circostanze attuali un filo di spiegazione della miseria del mondo attuale, credo che sceglierei l'opera di Marx di preferenza a quella di Bakunin. Per quel che riguarda l'applicazione dell'anarchismo nella vita quotidiana, è certo che Bakunin era più vicino a un uomo emancipato rispetto ai pregiudizi borghesi di Marx. Marx conduceva una vita da piccolo borghese e anche di paria in margine alla società borghese, il che lo faceva somigliare a Bakunin inoltre, un mendicante permanente, malato, che non ha lasciato che un frammento di un'opera che egli pensava di portare a termine durante la sua carriera e che ha lasciato alla posterità come una specie di avvertimento. Ed è in quanto tale che continua a interessarmi e che dovrebbe interessare i libertari e in mondo che pensa in generale.
Radio-Libertaire, 25 febbraio 1982.
Riportiamo di seguito una breve bibliografia dei lavori di Maximilien Rubel attinenti agli argomenti trattati in questa intervista:
Maximilien Rubel est né en 1905 à Czernowitz, à l'époque ville austro-hongroise et capitale de la Bukovine qui est passée à la Roumanie en 1918 et à l'URSS en 1947. Diplômé en droit et en ...
Cinema e resistenza al franchismo
Christiane Passevant
I periodi di repressione portano i cineasti e gli artisti a resistere, soprattutto dirottando i codici della censura, il cinema iraniano ne è, tra altri, un esempio. In Spagna, durante i tre decenni che hanno preceduto la morte del dittatore, il cinema d'autore ne è stata una perfetta illustrazione.
Mettendo da parte gli amori effimeri folcloristici e il cinema di propaganda – come il famoso film Raza di cui Franco stesso firmò la sceneggiatura con uno pseudonimo, il cinema spagnolo fu posto sotto stretta sorveglianza per tutta la dittatura franchista. Tuttavia, sin dagli anni 50, dei film critici del regime riuscirono a superare la barriera della censura e confermano la rottura con un cinema convenzionale e privo di interesse. L'epoca vede infatti emergere il ritorno a un cinema sociale, sostenuto sia dalla nuova generazione che dai cineasti riconosciuti.
Le Conversazioni di Salamanca, organizzate dal cine-club di Salamanca nel 1955, riunirono numerosi cineasti, tra cui Basilio Martin Patino e Juan Antonio Bardem, regista di Morte di un ciclista, che dichiarò in quell'occasione: “Il cinema spagnolo attuale è politicamente inefficace, socialmente falso, intellettualmente infermo, esteticamente nullo e industrialmente rachitico”. Giudizio radicale e senza appello.
Bardem con Morte di un ciclista e il suo precedente film, I commedianti (1954), segna gli inizi di un cinema realista che conduce una riflessione politica sulla società franchista e le differenze di classe sociale. La borghesia è descritta in tutte le sue manifestazioni – cinismo, corruzione, interessi personali e ipocrisia, è fatta anche allusione alla falange e alla guerra civile spagnola.
María José de Castro, sposa di un ricco industriale madrileno, è l'amante di Juan, un professore universitario, al quale è stata fidanzata prima della guerra civile. Quest'ultimo appartiene a un ambiente aristocratico terriero mentre la giovane ha sposato un uomo che fa parte della borghesia affaristica sostenuta dal regime franchista. Quando, nel corso di una fuga amorosa, lei uccide accidentalmente un operaio in bicicletta e fugge via, il suo solo timore è quello dello scandalo e di perdere i privilegi di una vita monotona, vuota, ma dorata. In quanto a Juan, tormentato dai rimorsi, egli boccia una studentessa senza ascoltare la sua presentazione, il che provoca la rivolta degli studenti. Quest'episodio è importante perché rende conto che, malgrado la repressione del regime, la contestazione esiste nelle università.
Juan, turbato dal movimento di solidarietà e la morte del ciclista, preferisce rassegnare le dimissioni dal suo incarico. Incontra la studentessa per ringraziarla per ciò che ha provocato: la sua presa di coscienza di fronte alle menzogne della società e della sua propria situazione. Egli tenta allora di convincere Maria José di confessare tutto alla polizia per cominciare un'altra vita. Cosa che lei non accetta affatto.
La fine, che è in un certo senso una specie di cerchio perché il film mette in scena un incidente simile a quello dell'inizio, se è forse moralista e benpensante, rimane tuttavia aperta. Quest'altro ciclista, responsabile dell'incidente, non fugge via, ma va a cercare un aiuto. Indubbiamente Bardem ha in questo modo, imposto il suo final cut personale: l'atteggiamento solidale di un uomo del popolo opposto all'egoismo e all'ipocrisia della borghesia.
Morte di un ciclista è una critica della nuova borghesia degli anni 50, sostenuta dal regine franchista, mentre la popolazione vive nella povertà. In Morte di un ciclista, il discorso delle donne provenienti dall'ambiente borghese, che ritengono che finché ci saranno dei poveri le cose andranno bene, è tanto più scioccante nei confronti della miseria dei quartieri popolari. Miseria filmata d'altronde nei suoi minimi dettagli durante la sequenza della visita di Juan alla vedova del ciclista, in cui attraversa un quartiere popolare di Madrid le cui rovine datano all'anteguerra civile. Gli indumenti dei bambini, la mancanza di calzature, gli alloggi esigui per le famiglie, testimoniano delle condizioni di vita dell'epoca.
Il rovescio del decoro della pace sociale franchista non è affatto seducente e contrasta con le descrizioni della propaganda. La Morte di un ciclista di Bardem si apparenta al neorealismo italiano per il soggetto, con la descrizione delle differenze sociali e del lusso della Chiesa, che non è risparmiata, mostrato parallelamente alla miseria dei quartieri popolari.
Durante le Conversazioni di Salamanca, Basilio Martin Patino e Juan Antonio Bardem hanno firmato congiuntamente un testo critico del cinema spagnolo di questo periodo. La scoperta annuncia un'altra procedura della creazione cinematografica: “Il cinema spagnolo vive isolato. Isolato non soltanto dal mondo, ma dalla nostra realtà. Mentre il cinema di tutti i paesi concentra il suo interesse sui problemi che la realtà quotidiana pone, servendo così una missione essenziale di testimonianza, il cinema spagnolo rimane un cinema di bambole truccate. Esso non presenta né i problemi né le testimonianze che il nostro tempo richiede a ogni creazione umana”. È certo che Morte di un ciclista di Juan Antonio Bardem (1955), El Verdugo (Il carnefice) di Luis Garcia Berlanga (1963) e La Caza (La caccia) di Carlos Saura (1966) evocano, sotto forme più o meno realiste, allusive o metaforiche, i problemi sociali e politici della società spagnola sotto il dominio del regime franchista.
El Verdugo (Il carnefice) di Luis Garcia Berlanga (1963) è un capolavoro di umorismo nero. Il film mostra una Spagna sottomessa, conformista, in pieno ritorno alla morale cristiana, ma che si dibatte tuttavia nei problemi quotidiani, malgrado la fedeltà al potere. La sovversione giunge qui sino a prendersela con un argomento tabù: la pena di morte e il suo sistema di esecuzione, la garrota. Scegliendo il modo comico e la derisione, Berlanga si riallaccia alla farsa libertaria che fa pensare a quella di Fernando Mignoni (Nuestro Culpable), il film della CNT, 1938). Vi tornerà sopra nel 1977 con La escopeta nacional (La carabina nazionale).
In una prigione, dopo un'esecuzione, José Luis, impiegato delle pompe funebri, incrocia il carnefice, Amedeo — inenarrabile José Isbert —, un vecchio che fa il suo “lavoro” e uccide con la garrota i condannati, con coscienza e senza partecipazione emotiva.
Il giovane becchino non ha nessun successo con le donne, il suo status sociale in tal senso gli fa da ostacolo, e quando incontra Carmen, la figlia del carnefice, l'attrazione dei due giovani è reciproca, tanto più, come confessa Carmen, la professione del carnefice non è affatto seducente per i pretendenti.
Quella del beccamorto non è più splendida, è per questo che José Luis accarezza il sogno di andare all'estero, in Germania, per diventare meccanico. Ma ben presto il sogno svanisce quando Carmen rimane incinta e il matrimonio si impone. La sequenza del matrimonio è una scena da antologia di critica sociale al vetriolo. Il loro matrimonio fa seguito a un matrimonio borghese, con tutta la scenografia, ed è svolto senza alcuna considerazione da parte del personale ecclesiastico. Un vero sketch in cui, a poco a poco, gli apparati della cerimonia precedente spariscono, si imballano i candelabri, i fiori, le ghirlande e la musica cessa. Detto in altro modo, differenza di trattamento e differenze classiste.
Un altro problema si profila allora per la giovane coppia che non ha un posto dove vivere: accedere all'attribuzione di un appartamento nei nuovi fabbricati. Sarebbe una cosa ideale, ma per poter usufruire di questo tipo di alloggio, bisogna che uno dei congiunti sia funzionario di Stato. Il suocero è a due mesi dalla pensione e propone allora al suo genero di succedergli. Dopo molte esitazioni e trattative, José Luis è infine nominato carnefice ufficiale... E la famigliola si installa nell'appartamento tanto ambito e ubicato nella periferia di Madrid. Tuttavia l'ossessione di José Luis è di dover procedere all'esecuzione di un condannato alla garrota per un appartamento da funzione…
Tutto andrebbe per il meglio se, come suo suocero gliene aveva dato assicurazione, la prospettiva dell'esecuzione di un condannato fosse improbabile. Ma l'angoscia di José Luis diventa realtà: è convocato per l'esecuzione di un condannato a morte alla garrota.
A partire da quel momento, tenterà di tutto per sfuggire all'esecuzione e la farsa comica volge al dramma. José Luis è terrorizzato di fronte all'esecuzione e si deve letteralmente trascinarlo sul luogo per obbligarlo a fare il suo lavoro di carnefice. Il piano in cui Nino Manfredi è spinto nella prigione, grande spazio vuoto, dà la dimensione della barbarie della pena di morte. Il film è una farsa sociale, che ritrae con un umorismo feroce il ritorno all'ordine morale, le condizioni di vita pietose della popolazione, ma anche i comportamenti di deferenza verso l'autorità.
Luis Garcia Berlanga, che non appartiene a nessuna scuola, ha contribuito al rinnovamento del cinema spagnolo con tre dei suoi film realizzati durante gli anni 50 e scritti insieme a Juan Antonio Bardem: Questa coppia felice del 1951); Benvenuto, signor Marshall del 1952 e I giovedì miracolosi del 1957, quest'ultimo film fu proibito per quattro anni dalla censura. Sino alla morte di Franco, nel 1975, la censura proibirà numerosi film, tra cui l'indimenticabile documentario di Basilio Martin Patino, Canciones para despues de una guerra (Canzoni per un dopoguerra) (1971). Il regista di Nove lettere a Berta del 1965, scelse allora la clandestinità per produrre due altri film documentari Carissimi carnefici del 1973 e Caudillo del 1974), folgoranti attacchi alla dittatura franchista.
È nel contesto dittatoriale esistente, e sfidando la censura, che uscì El Verdugo (Il carnefice] nel 1963, la cui sceneggiatura è frutto di una collaborazione tra Luis Garcia Berlanga e Rafael Azcona che continuerà a partire da questo film per tutta la carriera cinematografica di Berlanga. L'aspra ironia del film è esplosiva e ci si può chiedere come El Verdugo sia sfuggito alla censura. Se il film sfugge alla censura, è in parte senz'altro perché il film è una coproduzione italiana. Quando è proiettato a Venezia, dove ottiene il premio della critica, acquisisce di colpo una fama internazionale e è difficile in seguito proibirlo. Il soggetto è molto serio e riguarda direttamente la pena di morte per garrota, tipo di esecuzione che verrà applicato al giovane anarchico, Puig Antich, nel marzo del 1974.
Girato nella regione di Toledo, La Caza di Carlos Saura è indubbiamente quello dei tre film che denuncia più direttamente la violenza e il legame con il passato della guerra civile. Nulla attenua la crudeltà del racconto che mette in scena dei vecchi falangisti nostalgici. La tensione tra i personaggi, le allusioni dirette alla guerra civile passata, il disprezzo e il brutale dominio del vincitore, tutto contribuisce a fare di questa battuta di caccia una parabola della violenza e della barbarie. La progressione drammatica è notevole, tanto sul piano dei dialoghi, delle riflessioni off che dell'uso fatto della camera che si avvicina a poco a poco ai volti alla pelle e diventa sempre più intrusiva, come per annunciare i laceramenti dei personaggi verso una ineluttabile tragica fine.
In uno scenario aspro, deserto, improduttivo, spoglio, in cui si indovina l'antico teatro di inseguimenti e di battaglie, tre amici, José, Paco e Luis vanno a caccia di conigli. Il terreno appartiene a José e il suo invito non è anodino, ma un pretesto per riprendere contatto con i suoi vecchi amici per ottenere un aiuto. Quattro uomini, un proprietario terreno rovinato, separato dalla sua sposa e che vive con una giovane, un uomo d'affari reazionario che ha fatto un ricco matrimonio, il suo cognato, e un alcolizzato che è il capro-espiatorio della banda. I tre amici erano combattenti falangisti e dal modo in cui hanno piacere nell'uccidere i conigli per nessun motivo, fa evidentemente pensare ai massacri ai quali hanno partecipato durante la guerra civile. Vi fanno d'altronde allusione osservando che “è un buon posto per uccidere”. E uno dei due aggiunge, preparando il materiale: “la miglior caccia, è la caccia all'uomo”. Enrique non ha che vent'anni, è nato dopo la guerra civile e ascolta senza capire bene le intenzioni dei vincitori frustrati. È venuto per cacciare.
In La Caza, così come in Morte di un ciclista di Bardem, il disprezzo per i poveri, i “perdenti” è flagrante. Vi è da una parte la battuta di caccia per i “padroni”, dall'altra la miseria di Juan, che custodisce il terreno e vive in un tugurio con sua madre malata e la sua nipote adolescente. Anch'egli caccia, con i suoi furetti, ma è per mangiare e non per divertirsi. Le differenze di classe emergono con l'atteggiamento sottomesso di Juan di fronte al padrone, per il suo rancore inespresso davanti al rifiuto di Josè di intervenire per aiutare a curare la madre impotente, malgrado la sua fedeltà che lascia supporre, che un tempo, è stato il battitore di un altro tipo di selvaggina che non di conigli.
A poco a poco, sotto una calura torrida, la tensione sale, l'odio sostituisce la comunicazione, dapprima impercettibilmente, attraverso gli sguardi, poi con le parole e i rimproveri. Un quarto di secolo dopo la vittoria franchista, i tre uomini sono con evidenza confrontati in un periodo difficile della loro vita, ma si deve far mostra della loro forza virile, lo esige il machismo. La camera è molto vicina, sfiora i volti, il sudore, i pori della pelle, i ghigni, come per penetrare i personaggi. La calura, l'alcol, l'eccitazione del massacro, i ricordi e i segreti dissimulati, i tabù – un amico suicida, un cadavere occultato in una grotta durante la guerra civile – amplificano l'aggressività degli uomini il cui passato comune non rappresenta più un cemento di complicità, ma piuttosto una sete di distruzione.
Tutto concorre all'accelerazione degli avvenimenti verso una fine tragica, il massacro intensivo dei conigli, il furetto abbattuto, le umiliazioni, gli insulti, il manichino portato dal villaggio usato come bersaglio e poi bruciato... Di colpo, è l'esplosione della violenza senza nessun controllo della patina sociale. La caccia diventa una carneficina da cui, soltanto Enrique esce indenne, atterrito dalla violenza della scena.
Carlos Saura dirà di La Caza che il film segna la svolta di un'espressione più personale del suo cinema: “Per me è un film chiave perché mi sono reso conto, allora, che era assurdo dedicarsi all'adattamento di romanzi o a trattare di personaggi che mi sono estranei. Ho dunque deciso di fare dei film unicamente su delle cose che conosco. In questo senso, tutti i miei film a partire da La Caza sono molto più personali di quelli che precedono... Mi trovavo là con dei personaggi in carne e ossa che conoscevo bene, erano i miei zii o i genitori dei miei amici...”. Ana e i lupi (1973) sarà la logica continuazione di La Caza, Un'altra parabola del regime franchista e dei vincitori.
La satira sociale, il neorealismo spagnolo, la farsa iconoclasta, la metafora sono altrettante espressioni che faranno del cinema spagnolo un vero strumento di sovversione politica e di critica sociale, questo malgrado la ferula della censura franchista. E si può vedervi un legame con lo slancio del cinema libertario che, tra 1936 et 1938, ha prodotto in autogestione un cinema d'autore di narrazione e documentario.
[Traduzione di Ario Libert]
Cinéma et résistance au franquisme - [DIVERGENCES 2]
Cinéma et résistance au franquisme Mort d'un cycliste de Juan Antonio Bardem (1955) El Verdugo (le bourreau) de Luis Garcia Berlanga (1963) La (...)
Ideale libertario e idea del diritto naturale
Alain Perrinjaquet
3. 2. Il diritto di costrizione
La filosofia politica moderna, a cominciare dalla Scuola del diritto naturale, ammette generalmente che il diritto positivo implica l'esistenza di un'istituzione (o di diverse istituzioni, per i sostenitori della divisione dei poteri) provvista di una certa legittimità capace di costringere, attraverso la forza o la minaccia, gli individui a rispettare questo diritto, qualora essi non lo facessero spontaneamente. Questo diritto di costrizione è spesso apparso a noi teorici poco compatibili con l'anarchismo. In modo perfettamente pertinente, essi hanno denunciato il fatto che è in genere utilizzato dagli Stati per difendere i privilegi delle classi dominanti, addirittura di una cosca mafiosa al potere, e hanno affermato che la sparizione dell'accapparramento e della miseria provocherebbe la fine dei delitti commessi per necessità, e la soppressione della proprietà privata la sparizione dei delitti commessi per spirito di lucro. Inoltre, essi hanno fatto affidamento sulla trasformazione generale dei rapporti sociali (ad esempio dei rapporti tra i sessi) che doveva generare l'avvento della società libertaria per diminuire sensibilmente i delitti dovuti a delle patologie psichiche, sessuali o sociali, alla gelosia, all'ubriachezza, alla brutalità, ecc.
Tuttavia, si constata in numerosi punti che, pur valutando che le infrazioni gravi ai principi fondamentali del patto sociale (o “federale” e le violazioni gravi dei diritti fondamentali della persona saranno rari in società libertarie, per non dire statisticamente trascurabili, i nostri teorici classici sono costretti ad ammettere che queste infrazioni rappresentano tuttavia un caso limite, sempre possibile, che li obbliga a porsi più profondamente la questione del diritto di costrizione, addirittura ad ammettere questo diritto, pur cercando di limitare per quanto possibile la sua applicazione.
Così, nel capitolo che James Guillaume dedica all'organizzazione della federazione locale, o comune, nel suo Idées sur l’organisation sociale, l'autore affronta il problema, non senza aver preventivamente posto in rilievo: “Non è probabile che in una società in cui ognuno potrà vivere in piena libertà del frutto del suo lavoro, e troverà tutti i suoi bisogni abbondantemente soddisfatti, dei casi di furto e di brigantaggio possano ancora presentarsi. Il benessere materiale, così come lo sviluppo intellettuale e morale che risulterà dall'istruzione veramente umana data a tutti, renderanno inoltre molto più rari i crimini che sono la conseguenza della dissolutezza, della collera, della brutalità, o di altri vizi”.
Ma Guillaume si rende conto che si deve affrontare seriamente i “casi limiti”: “Tuttavia non sarà inutile prendere delle precauzioni per la sicurezza delle persone […]. Evidentemente, non si potrà, con il pretesto di rispettare dei diritti dell'individuo e di negazione dell'autorità, lasciar andare tranquillamente un omicida o aspettare che qualche amico della vittima applichi la legge del taglione. Si dovrà privarlo della sua libertà, e custodirlo in una casa speciale, sino a quando egli possa, senza pericolo, essere restituito alla società”.
L'autore ammette dunque, per questi casi limiti, un diritto di costrizione della società nei confronti del criminale. A proposito delle domande: “Come [quest'ultimo] dovrà essere trattato durante la sua detenzione? E secondo quali principi se ne determinerà la durata?”, Guillaume ammette che esse sono delle questioni delicate, sulle quali le opinioni sono ancora divise”. Egli prosegue: “Si dovrà rimettersi all'esperienza per la loro soluzione; ma sappiamo sin da ora che, grazie alla trasformazione che l'educazione opererà nei caratteri, i crimini saranno diventati molto rari: i criminali non essendo più che un'eccezione, saranno considerati come dei malati e prive di senno; la questione del crimine, che occupa oggi tanti giudici, avvocati e carcerieri, perderà la sua importanza sociale, e diventerà un semplice capitolo della filosofia medica. […] i crimini saranno oramai di competenza dei settori del servizio di sicurezza, che cercherà di prevenirli, e di quello del servizio medico, che deciderà delle misure da assumere nei confronti dei criminali” [16].
Nel suo Catechismo rivoluzionario, Bakunin riconosce anch'egli questo diritto alla costrizione della società in caso di crimine, e anche in caso di delitti della minima gravità: “In caso di infedeltà a un impegno liberamente contratto oppure in caso di attacco aperto o provato contro la proprietà [sic], contro la persona e soprattutto contro la libertà di un cittadino, sia indigeno, sia straniero, la società infliggerà al delinquente indigeno o straniero le pene determinate dalle sue leggi”.
Bakunin accetta dunque qui diritto di costrizione e diritto di punire, ma insiste sul fatto che la punizione deve condurre alla riabilitazione e considera, come Guillaume, che l'esecuzione di un crimine in una società egualitaria e libertaria rileva di una patologia che si deve curare, piuttosto che punire: “Abolizione assoluta di tutte le pene degradanti e crudeli, delle punizioni corporee e della pena di morte, benché consacrate ed eseguite dalla legge. Abolizione di tutte le pene a termine indefinito o troppo lunghe e che non lasciano alcuna speranza, nessuna possibilità reale di riabilitazione, il crimine deve essere considerato come una malattia e la punizione piuttosto come una cura che una vendetta della società” (Ibid.).
Si deve tuttavia porre in rilievo che il diritto di secessione che caratterizza, come abbiamo visto , il federalismo di Bakunin e che si estende sino all'individuo prevale sul diritto di costrizione e di punizione della società e è riconosciuto anche al criminale, ma il suo esercizio potrà essere per quest'ultimo pesante di conseguenze: “Ogni individuo condannato dalle leggi di una società qualunque, comune, provincia o nazione, conserverà il diritto di non sottomettersi alla pena che gli sarà stata imposta, dichiarando che non vuole più far parte di questa società. Ma, in questo caso, quest'ultima avrà a sua volta il diritto di espellerlo dal suo seno e di dichiararlo fuori dalla sua garanzia e dalla sua protezione.
“Ricaduta così sotto la legge naturale occhio per occhio dente per dente, almeno sul terreno occupato da questa società, il refrattario potrà essere saccheggiato, maltrattato, anche ucciso senza che quest'ultima se ne preoccupi. Ognuno potrà disfarsene come di una belva nociva, mai tuttavia asservirlo ne impiegarlo come schiavo” [17].
Questi testi di Guillaume e di Bakunin hanno il merito di sollevare i due aspetti fondamentali del problema del diritto di costrizione in materia criminale: la questione della protezione della società, e soprattutto delle persone che la compongono, contro le azioni di un individuo criminale (che il suo comportamento sia d'origine patologica o non) e quella della protezione del criminale stesso come una reazione sproporzionata di altri individui, o della società.
Il secondo aspetto, la protezione della persona che viola un diritto fondamentale di altri contro una reazione sproporzionata e il bisogno di offrire a questa persona un'occasione per reinserirsi nella società deve metterci in guardia contro i meccanismi di giustizia informale, addirittura di giustizia sommaria o di vendetta, che si porrebbero probabilmente in opera se la vittima (o i suoi vicini, o anche delle persone che temessero di diventare a loro volta vittime del delinquente) non potesse far appello a una struttura che riconosce dotata delle qualità d'imparzialità, di trasparenza e di competenza necessarie a rendergli giustizia e a proteggere gli altri membri della società contro delle ingiustizie analoghe.
Dei principi come l'imparzialità dei giudici (che non devono dunque essere parte coinvolta o interessata – direttamente o indirettamente – alla causa), la presunzione d'innocenza, la proporzionalità e la stabilità delle pene, la loro applicazione indipendentemente dalle caratteristiche della persona giudicata (messe a parte quelle che hanno un rapporto al delitto, costituiscono, ad esempio, delle circostanze attenuanti o aggravanti), il diritto di far appello contro ogni decisione di giustizia, di essere giudicato in applicazione di criteri pubblicamente conosciuti e riconosciuti, ecc. possono difficilmente essere rispettati da un sistema informale. Ora non si deve dimenticare che il loro riconoscimento (almeno teorico) è stato il risultato di una lunga lotta, condotta dai pensatori dell'Illuminismo, i democratici sinceri e i militanti dei diritti dell'uomo contro l'arbitrio dei sistemi giudiziari del feudalesimo, dell'Inquisizione e della monarchia assoluta e che i regimi fascisti (e stalinisti) del XX secolo hanno avuto una gran fretta nel gettare queste garanzie giudiziarie alle ortiche. Certo, l'applicazione reale di questi principi è stata spesso – e è spesso – aleatoria nelle democrazie liberali (che sino ad oggi sono state liberali non soltanto politicamente, ma anche economicamente, dunque, dunque, in altri termini, borghesi), il corpo giudiziario, ad esempio, è spesso stato legato alle classi dominanti da una solidarietà di classe (non fosse che per il semplice fatto che si è in generale grosso modo reclutato in queste classi) e i fortunati possono pagarsi migliori consiglieri giuridici e avvocati dei miserabili. Ma queste violazioni di questi principi, che sono da imputarsi alle ineguaglianze economiche e al primato del potere economico nelle società capitaliste, non devono farci respingere i principi stessi: ciò che si deve respingere, è l'ineguaglianza economica e la società di classe che si oppone alla loro applicazione.
Insomma, a mio parere, non è senza buone ragioni che Bakunin e Guillaume, nei testi citati, ammettono una codificazione delle regole sociali fondamentali e l'istituzione formale di un diritto di costrizione nei confronti del criminale, caso limite della società egualitaria e libertaria [18]. Una “sanzione sociale” non formalizzata e non misurata, indefinita, potrebbe infatti molto bene essere più dura – e soprattutto più arbitraria – di una sanzione formale (mirante alla “riabilitazione” del criminale) [19]. Inoltre, questo criminale deve essere considerato come un malato e curato, “riabilitato”, piuttosto che punito, è certamente conforme a un approccio umanistico e libertario del fenomeno della devianza sociale grave. Tuttavia, non dovrebbe accadere che quest'ottica “terapeutica” conduca a un indebolimento dei diritti di difesa della persona “incolpata”: quando Guillaume dichiara che il “servizio medico” [della comune] deciderà delle misure da prendere nei confronti dei criminali”, non si può impedirsi di domandarsi quali dovranno essere le garanzie poste in essere per evitare che questo “servizio medico” non prenda delle misure arbitrarie, non pronunci degli “internamenti amministrativi” indefiniti nei confronti di individui “disturbanti”, ecc. Non dimentichiamo – per prendere in considerazione il peggio – il caso dei dissidenti richiusi nei manicomi sovietici! In una società libertaria, l'approccio “terapeutico” del crimine non potrebbe offrire meno garanzie, meno diritti di difesa, del sistema giudiziario liberale (inoltre, queste garanzie dovranno essere non soltanto teoriche, ma effettivamente applicate).
Attraverso le ultime citazioni di Guillaume e di Bakunin, è il problema del diritto di costrizione in materia criminale che abbiamo esaminato. Come caso limite, il caso del crimine è particolarmente cruciale, ma non rappresenta la sola situazione in cui la questione del diritto di costrizione può porsi. Così nel suo Programme già citato, Bakunin parla di una “carta provinciale” che federalizza le comuni. Insiste sul fatto che quest'ultima è fondata sulla “libertà assoluta” dei comuni, dotate di un “diritto assoluto di secessione” in rapporto alla federazione in questione. Si può tuttavia aspettarsi il fatto che, nel suo spirito, una comune che fosse riluttante a mantenere un impegno accettato con una certa carta possa legittimamente essere posta dagli altri membri della federazione di fronte all'alternativa: “Mantenere i suoi impegni o andarsene”. Non si dovrebbe parlare in questo caso di una forma ristretta del diritto di costrizione? La rottura del legame federativo con le comuni vicine potrebbe infatti, per la comune presa in considerazione, essere tanto pesante di conseguenze quanto, per il criminale che rifiuta la sua pena, l'espulsione dalla società che Bakunin ammetteva poco sopra; infatti, questa rottura può ad esempio, in certe circostanze condannarla a un'autarchia economicamente insopportabile [20].
È dunque non soltanto nel campo dell'organizzazione giudiziaria, ma anche in quello dell'organizzazione politica e economica [21] che ci si deve porre seriamente la questione di sapere se un certo grado di istituzionalizzazione formale non sia preferibile, dal punto di vista della libertà dell'individuo, al rischio di vedere emergere dei poteri impliciti e informali [22].
4. Anarchia o democrazia radicale?
Non cercherò di dare qui una risposta netta alla domanda che ho appena posto. Cercherò piuttosto di rispondere a quest'altra domanda: supponendo che si giunga alla conclusione che, per evitare la formazione di poteri occulti, sia preferibile che la società si doti, a livello politico, economico e giudiziario, di principi generali espliciti, di istanze di decisioni chiaramente definite (il che non implica forzatamente una delega dei poteri: l'assemblea generale dei membri della federazione, ad esempio, è un'istanza chiaramente definita) e di regole di decisioni trasparenti, in quale misura un tale modello di società “anarchica” si distinguerebbe da un sistema di democrazia diretta e federalista radicale, estesa all'organmizzazione economica?
Il punto in cui questi due modelli di società divergono potrebbe situarsi al livello del dioritto di divergenza e di disobbedienza. Nel suo Plaidoyer pour l'anarchisme [23], Robert Paul Wolff caratterizza infatti il punto di vista dell'anarchismo con l'affermazione del diritto alla disobbedienza dell'individuo di fronte alle decisioni della società che sarebbero contrarie alla sua coscienza, un'affermazione che egli ritiene giustificata dai principi dell'etica kantiana, che pone in primo piano la responsabilità e l'autonomia morale della persona [24]. Secondo Wolff, un'affermazione radicale di questo diritto non è compatibile con le teorie classiche della democrazia, anche le più illuminate: quando l'individuo ha esaurito tutte le vie di ricorso, per quanto sviluppate esse siano, deve piegarsi, la società dispone allora di un diritto di costrizione assoluto. Al contrario, i libertari hanno generalmente sostenuto questo diritto di divergenza e di disobbedienza dell'individuo quando si tratta di questioni fondamentali, di questioni di principio, e abbiamo visto che questo diritto va, secondo Bakunin, sino al diritto di effettuare una secessione.
Ma di nuovo sorgono delle domande: il riconoscimento di un tale diritto assoluto di disobbedienza non implica il diritto di costrizione “ristretto” di cui ho suggerito poco sopra di non essere incompatibile con una società libertaria, di essere, al contrario, totalmente opposto a questa visione sociale? E, all'inverso, un tale diritto di disobbedienza non è, in pratica, totalmente inapplicabile (a meno di mettere gravemente in pericolo la sicurezza – ma anche la libertà – degli altri individui), in particolare in una società complessa e industrializzata, in cui la “disobbedienza” concreta di un individuo può far correre alle altre persone dei rischi enormi? La nozione del diritto dell'individuo (o di un gruppo di individui, comune, regione, provincia, ecc.) alla secessione e quella del diritto simmetrico della società (o della federazione del livello immediatamente superiore) di espellere un individuo rifiutando le sue regole, in altri termini la nozione di rottura del legame sociale o federale) ci permetterà forse di capire come “diritto di costrizione ristretto” e “diritto di disobbedienza” potrebbero coesistere in una società propriamente “anarchica”, andando oltre la democrazia radicale nel rispetto della libertà individuale. Una tale democrazia dovrebbe sforzarsi di tollerare per quanto possibile i casi di dissidenza o di disobbedienza fondati su delle opposizioni di principio; tuttavia, quando un caso di dissidenza o di disobbedienza comportasse troppe gravi conseguenze per gli altri individui, potrà minacciare la persona interessata (o il gruppo di persone interessate) di rottura del legame sociale (l'iniziativa della rottura può essere presa sia dall'individuo o il gruppo interessato). Quest'ultima dovrà allora pesare i rispettivi inconvenienti dell'abbandono della sua dissidenza e dell'uscita dalla società, valutare le sue opportunità di essere accolto in un altro gruppo sociale più conforme alle sue convinzioni, ecc. Se la scelta cade sulla rottura, si dovrà allora sforzarsi di procedere a un “divorzio consensuale” tra l'individuo e il gruppo. Questa procedura potrebbe non essere facile e delle situazioni sono suscettibili di presentarsi in cui un gruppo che fa secessione può far correre alla società da cui intende separarsi un rischio considerevole (ad esempio se si dedica all'oppressione interna, erige un regime militarista, danneggia gravemente l'ambiente, ecc.): come dovrà allora reagire la società, non sarà costretta, per proteggere la libertà della maggioranza dei suoi membri, limitare il diritto di secessione (e di associazione [25]) e di proibire alcune dissidenza? Questo problema meriterebbe di essere studiato seriamente e non dovrebbe essere oggetto di una conclusione affrettata. A titolo provvisorio, proporrei tuttavia la seguente risposta: Una società “anarchica” (ma sarebbe forse più esatto chiamarla “libertaria”, poiché non farebbe che tendere verso l'anarchia), dotata di norme fondamentali, di istanze e di regole di decisioni definite potrebbe distinguersi da una democrazia diretta radicale per il fatto che, senza eliminare completamente le “dissidenze proibite” (e, rispettivamente, le secessioni proibite), cercherà di accordare agli individui e ai gruppi un diritto di dissidenza esteso quanto possibile e sforzarsi di allargare costantemente questo diritto. Così, allo stesso modo per cui il diritto naturale è un ideale, lo scopo proposto a uno sforzo infinito, un punto di fuga, ma anche un'applicazione libertaria di questo diritto in una società che riconosce a ogni individuo un diritto assoluto di dissidenza e di secessione (e cioè una società “anarchica” in senso stretto) è un ideale di cui si dovrà, nel quadro della creazione di una società libertaria, avvicinarsi indefinitamente, senza mai camuffare la distanza che separa la società reale dall'ideale anarchico, senza mai dissimulare i rapporti di forza che sussisterebbero in strutture di potere informale tanto più difficili da eliminare in quanto non dichiarate.
Perciò, asserire questo carattere ideale della società integralmente libertaria, “anarchica” in senso stretto, per qualificarla come semplice utopia sarebbe del tutto erroneo come il voler respingere la nozione di democrazia con il pretesto che la democrazia, anch'essa, non è perfettamente realizzata che all'infinito (è anche il caso della democrazia liberale, i cui principi non sono perfettamente realizzati – tutt'altro! - nei paesi del “liberalismo realmente esistente”). All'epoca in cui il liberalismo era una forza di progresso, gli uomini e le donne che hanno combattuto i regimi feudali o assolutisti dichiarando che ci si doveva portare sulla strada dell'ideale democratico, per quanto esso fosse distante, si ebbe ragione di non prestare ascolto ai reazionari che criticavano la loro ricerca come “utopia” [26]. Ma gli uomini e le donne che aspirano a una società più conforme alla dignità dell'individuo avranno ragione anch'essi, quando le circostanze vi si presteranno, di porsi in rotta verso l'ideale libertario, purché non sottovalutino la strada da percorrere e non ci diano l'illusione di essere giunti in porto limitandosi a smontare le strutture apparenti del potere prima di aver smantellato gli stessi rapporti di potere.
[Traduzione di Ario Libert]
NOTE
[1] Max Stirner, con la sua critica radicale dell'obbligazione morale, fa qui eccezione: vedere l'articolo di Marco Cossutta pubblicato nel presente numero di Réfractions. In quanto alla questione di sapere se i nostri “classici” ritengono che la costrizione sociale possa essere integralmente eliminata, o soltanto in gran parte, la affronterò tra poco.
[2] A proposito di quest'ultimo, vedere il contributo di Urs Marti al congresso “Nietzsche: un buon Europeo a Cosmopolis” (Parigi, ottobre 2000), 'The good, the bad and the ugly european': le tre facce dell'europeismo di Nietzsche”. L'autore vi sottolinea la “concezione radicalmente autoritaria della politica” propria di Nietzsche, concludendo: “L'idea di autonomia, per quanto importante sia stata per Nietzsche in opere come Aurora, ad esempio, non può svolgere alcun ruolo nella sua concezione della politica” (Manoscritto, uscirà negli atti del congresso [pubblicazione classica o elettronica]).
[3] E, secondariamente, si potrà consigliare alle persone che hanno la nostra simpatia (peggio per gli altri, bisogna pur che vi siano dei perdenti!) di collocarsi a tempo nel campo del più forte ( dans le camp du plus fort (tenendo contro, naturalmente, di cambiare campo al momento opportuno se il “giudizio della Storia” venisse a cambiare).
[4] Questa distinzione, corrente in tutta la Scuola del diritto naturale e presso gli autori che essa influenza (e anche anteriore a questa tradizione), non è ovviamente un'innovazione di Kant, ma essa mi sembra essere usata da lui con una chiarezza particolare.
[5] L'imperativo etico, così come l'imperativo giuridico, può naturalmente proibire un'azione; poco oltre, non richiamerò sistematicamente questi due aspetti, prescrittivo e proibitivo.
[6] Così, una delle formulazione kantiane della norma etica suprema, l'imperativo categorico, è: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale” (Critica della ragion pratica, I parte, libro I, capitolo I, § 7).
[7] “Positivo” significa in questo contesto “posto” da una istituzione legislativa reale, storica; in alcuni autori lo chiamano anche “diritto convenzionale” o “diritto volontario”. Il termine è già utilizzato durante il Medioevo e non implica dunque alcun riferimento alla scuola del “positivismo giuridico”, che si è sviluppato durante i secoli XIX e XX (ed è stato illustrato soprattutto da Kelsen: vedi l'articolo già citato di Marco Cossutta). Per il positivismo giuridico, la validità di un sistema giuridico non dipende che da criteri formali e nient'affatto dal suo contenuto o, come scrive Cossutta a proposito di Kelsen, “la legittimità si riduce all'efficacia” e “è il dispiegamento della forza che fa la differenza tra l'ordine di un bandito e l'ordine dello Stato”.Questa dottrina respinge dunque la parte solida della nozione di diritto naturale, che è al contrario essenziale in Kant.
[8] In questi termini, questa definizione è ispirata da Fichte (vedere i suoi Fondamenti di diritto naturale secondo i principi della Dottrina della scienza, §§ 4 e 7), ma troviamo già in Grotius l'idea che il diritto naturale consiste nell'insieme delle condizioni di possibilità della sociabilità di essere razionali; dichiara infatti che il modo di provare a priori “che una cosa è di diritto naturale […] consiste nel mostrare che la convenienza o sconvenienza necessaria di una cosa con una Natura ragionevole e socievole, com'è quella dell'Uomo”. (Le Droit de la guerre et de la paix, trad. Barbeyrac, libro I, cap. I, § XII). Troveremo una concezione simile nel testo di Bakunin citato nella nota 11.
[9] Non si deve d'altronde dimenticare che nella filosofia politica moderna la nozione di diritto naturale si oppone a quella di diritto divino e rappresenta dunque uno strumento di lotta contro le ideologie che pretendevano assoggettare l'umanità alla trascendenza. Così, Grotius scrisse: “Il Diritto Naturale è immutabile, sino al punto che Dio stesso non lo può cambiare. […] Così come dunque è impossibile a Dio stesso, di fare che due per due non facciano quattro: non gli è nemmeno possibile di fare che ciò che sia malvagio in sé e della sua natura, non sia tale”. (Op. cit., libro I, cap. I, § X).
[10] Si potrebbe aggiungere che il diritto naturale è non soltanto un “ideale pratico”, ma anche un “ideale teorico”: la scoperta dei suoi principi (la scoperta delle condizioni necessarie della nostra coesistenza in quanto esseri liberi) è sempre imperfetta e perfettibile. Le teorie del diritto naturale, come tutte le teorie scientifiche, devono poter essere indefinitamente discusse, rimesse in questione e revisionate, addirittura confutate, il che non deve esentare i loro autori di cercare di dar loro la forma la più rigorosa possibile. La teoria ideale è anch'essa un punto di fuga, ma si deve costantemente cercare di avvicinarvisi.
[11] Così Bakunin nel suo Catechismo rivoluzionario (1865), contesta la possibilità di trovare delle norme universalmente applicabili ai problemi concreti dell'organizzazione sociale, “l'esistenza di ognuna [nazione] è subordinata a una folla di condizioni storiche, geografiche, economiche differenti e che non permetteranno mai di stabilire un modello di organizzazione, ugualmente buono e accettabile per tutte”, e vede in tali norme un pericolo per la libertà e una “attentato alla ricchezza e alla spontaneità della vita...”. Egli precisa tuttavia: “Tuttavia vi sono delle condizioni essenziali, assolute, al di fuori delle quali la realizzazione pratica e l'organizzazione della libertà saranno sempre impossibili” (Catechismo rivoluzionario, in Daniel Guérin: Ni Dieu ni maître. Anthologie de l’anarchisme, Parigi, Maspero, 1974, vol. I, pp. 184-185; tr. it.: Né Dio né padroni, Jaca Book, Milano, 1977). Ora, l'oggetto del diritto naturale risiede precisamente in queste condizioni essenziali delle coesistenza nella libertà, che sono di portata generale e non pretendono di regolare dettagliatamente la vita delle diverse società, e il seguito del Catechismo, in cui Bakunin enumera e analizza queste “condizioni essenziali”, mostra chiaramente che l'autore non le considera come dei principi che non sarebbero applicabili che a una situazione storica e geografica particolare. Marco Cossutta ritiene anche che “l'anarchismo spinge l'deale del diritto naturale alle sue ultime conseguenze logiche” (in Anarchismo e diritto. Componenti giusnaturalistiche del pensiero anarchico, Trieste, CoopStudio, 1987, p. 129).
[12] Daniel Guérin: op. cit., p. 170.
[13] Bakunin: Programme..., citato in Daniel Guérin: op. cit., p. 183.
[14] Ibid., p. 180. Facciamo notare che l'estensione del principio federativo – e del diritto di secessione – all'individuo distingue il federalismo libertario da ogni altra forma di federalismo.
[15] Kafka, in Il Processo, dà una notevole illustrazione della situazione contraria e delle sue implicazioni totalitarie: malgrado tutta la sua buona volontà e tutti i suoi tentativi di conoscere di quale infrazione si era reso colpevole, K. morirà senza sapere di cosa lo si accusava.
[16] Idées sur l’organisation sociale (1876), Parigi, Édition du groupe Fresnes-Antony della Federazione anarchica, Volonté anarchiste, n° 8, 1979, pp. 27-28.
[17] In Guérin, op. cit., vol. I, pp. 188-189.
[18] In compenso, Kropotkin si esprime spesso molto negativamente a proposito della legge (vedere ad esempio La loi et l’autorité, articolo pubblicato nel 1882 sul “Révolté”, poi integrato in Paroles d’un révolté, Parigi, Marpion et Flammarion, 1885, pp. 213-244). Tuttavia, come fa notare Marco Cossutta (vedere Anarchismo e diritto, op. cit., pp. 99-107), Kropotkin identifica, in questi testi, la legge con la legge esistente, alla legge statale, ed è quest'ultima che egli critica, in nome della giustizia. La sua posizione concorda così quella dei sostenitori della Scuola del diritto naturale, per i quali l'idea di diritto naturale è per la maggior parte delle volte uno strumento di critica al diritto positivo esistente. Tom Holterman ritiene, in quanto a lui, che “le idee di Kropotkin sulla giustizia mostrano chiaramente che alcuni elementi della legge possono essere accettati da parte dell'anarchismo. Questi elementi possono rivelarsi utili per elaborare delle prospettive d'azione nei rapporti tra le persone”. (“Una concezione anarco-socialista della legge”, Volontà, 1980, n° 3, p. 25).
[19] Si potrebbe obiettare che oggi la sanzione penale formale è generalmente raddoppiata da una sanzione sociale informale (in particolare nel caso dei delinquenti provenienti da ambienti sfavorevoli), ma è precisamente quest'ultima che dovrebbe essere eliminata in una società libertaria in cui la “sanzione” mirerebbe realmente alla riabilitazione della persona sanzionata.
[20] Vedere le pesantissime conseguenze economiche, sociali e sanitarie di alcuni embarghi internazionali, anche quando si tratta della scala di un intero paese (che dispone dunque di risorse più diversificate di un comune o di una regione) che questi embarghi si esercitano e che, per un certo numero di eccezioni e di violazioni, essi non sono totali.
[21] Da un punto di vista metodologico, è meglio distinguere quest'ultime due dimensioni finché non si sarà provato che esse devono fondersi in una, come pensa, ad esempio, il Proudhon dei primi scritti (vedere l'aticolo di Fawzia Tobgui nel presente numero di Réfractions).
[22] In Anarchismo e diritto (op. cit., pp. 106-107 e 113-119), Marco Cossutta difende d'altronde la possibilità di un “diritto positivo anarchico”.
Ideale libertario e idea del diritto naturale
Alain Perrinjaquet
1. Anarchia e anomia
Il progetto di una società senza potere politico, senza Stato (anarchia), è equivalente a un progetto di società sprovvista di ogni norma (anomia)? Se si prende il termine “norma” nella sua accessione più ampia, includente norma giuridica e norma etica (cercherò successivamente di precisare la distinzione), si può affermare senza esitare che non è il caso, che il rifiuto del potere non implica per forza il rifiuto di ogni norma. La maggior parte dei rappresentanti di quel che si potrebbe chiamare “l'anarchismo classico” contano d'altronde sul fatto che la soppressione dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo e dei suoi strumenti politici, unita a un processo educativo e culturale che si potrebbe caratterizzare come un'educazione alla libertà e alla responsabilità, permetterà l'emergere e l'interiorizzazione da parte degli individui di norme etiche il cui rispetto generale renderà superflue le istituzioni statali [1].
Certo, questo riconoscimento della necessità di norme, per lo meno di norme etiche, è ben lungi dall'essere comune nell'anarchismo sessantottesco o post-sessantottesco – spesso influenzato dal relativismo e storicismo contemporaneo e che fa riferimento volentieri all'anarchismo “atipico” di Stirner o all'amoralismo (certamente non anarchico) di Nietzsche [2] –, che nell'anarchismo classico o operaio. Si vede male, tuttavia, ciò che può giustificare la lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori, degli oppressi contro gli oppressori, se ogni nozione di giustizia è storica e relativa, se lo sfruttamento e l'oppressione non sono condannabili da un punto di vista etico (e dal punto di vista del “diritto naturale” che cercherò di definire tra poco). In assenza di una nozione non relativa della giustizia, ogni lotta sociale diventa allora una semplice lotta per il potere (o per dei vantaggi materiali) di un gruppo sociale (fosse anche maggioritario) contro un altro gruppo sociale (fosse anche estremamente minoritario), e tutto quel che c'è allora da dire, è: “Che vinca il migliore!” [3] (il migliore, e cioè il più forte, il più astuto, il più perfido, il più privo di scrupoli...).
2. L'idea del diritto naturale
2. 1. Norme etiche e norme giuridiche
Senza andare più lontano nel dibattito sul relativismo etico (che non pretendo certo di aver confutato in cinque o sei righe), mi appoggerei dunque sulla posizione dell'anarchismo classico, che ammette la validità di norme etiche e ritiene molto spesso che alcuni principi di giustizia fondamentali sono validi per ogni epoca (il sollevamento di Spartaco non è meno giustificato della rivolta dei canut. Posto ciò, conviene chiedersi se i principi etici sono il solo genere di norme ammissibili nella prospettiva anarchica: cosa ne è delle norme giuridiche?
Prima di cercare di rispondere a questa domanda, si deve cercare di definire esattamente i termini utilizzati e a distinguere chiaramente norme etiche e norme giuridiche. A questo scopo, propongo di ricorrere alla definizione che Kant dà di questi due tipi di norme, perché è una delle più chiare che io conosca e permette di distinguere i due tipi senza ambiguità: vedremo che, per di più, la distinzione che Kant opera tra diritto naturale e diritto positivo permette di chiarire altre questioni [4]. Secondo Kant, una norma etica è un imperativo che comanda non soltanto una certa azione, ma anche di compiere quest'azione [5] seguendo una certa massima; detto altrimenti, l'oggetto dell'obbligazione etica, è non soltanto l'azione nel mondo sensibile, ma anche l'intenzione che presiede a quest'azione. Ora, poiché quest'intenzione non è accessibile che al soggetto agente stesso, è per definizione impossibile imporre dall'esterno il rispetto di una norma etica. Inoltre, ogni persona è chiamata a convincersi da se stessa della validità dei principi etici che intende seguire, il comandamento supremo dell'etica kantiana si può tradurre con: “Sii autonomo!”, e cioè: “Datti da te stesso le tue proprie regole d'azione!”. Notiamo tuttavia che se quest'idea di “autonomia” implica il rifiuto di ogni morale imposta al soggetto dall'esterno, se essa sottolinea il carattere personale dell'etica (che non può dunque identificarsi con le convinzioni dominanti del gruppo sociale o dell'epoca), essa non implica del tutto una concezione relativistica secondo la quale ognuno potrebbe “fabbricarsi” la propria piccola morale personale: è facendo appello a tutte le risorse della sua ragione (della parte che Kant chiama “pratica”) che ognuno deve darsi le proprie regole d'azione. Ora, poiché le strutture fondamentali della ragione sono le stesse presso ognuno (in questo senso, Kant è un razionalista, anche se è un razionalista critico), ognuno è suscettibile di scoprire le stesse norme etiche fondamentali [6], benché nel quadro di una riflessione personale (questa riflessione può essere vivamente aiutata dal dialogo con altre persone, ma, in ultimo luogo, spetta ad ogni individuo scegliere, in ragione e in coscienza, le norme che egli ritiene di dover applicare). Le norme etiche fondamentali sono così universali e atemporali, e tuttavia sprovviste di ogni trascendenza (a meno che non valuti che la mia propria ragione mi è trascendentale).
2. 2. Diritto naturale e diritto positivo
Cos'è allora una norma giuridica? È un imperativo che porta verte esclusivamente su un'azione (prescritta o vietata) nel mondo sensibile, indipendentemente dall'intenzione che è dietro quest'azione; a questo titolo, non è contraddittorio che il rispetto di questa norma sia imposta dall'esterno e si distingua con ciò dalla norma etica. Non contraddittoria, ma nemmeno necessartia. Spieghiamoci: si associa correntemente la nozione di norma giuridica o di diritto a una codificazione, a delle istituzioni (legislative e giudiziarie) e al diritto di costrizione. Ora abbiamo qui le caratteristiche di ciò che Kant chiama, insieme alla Scuola del diritto naturale, il diritto positivo [7].
Ciò che egli chiama diritto naturale, in compenso, non è affidato a un codice (i filosofi della Scuola del diritto naturale e i loro successori ne hanno dato numerosi trattati, ma quest'ultimi non sono che delle interpretazioni o delle teorie del diritto naturale e non dei codici, allo stesso modo per cui un trattato di matematica presenta una teoria e non la verità matematica nuda), non è decretato da un'autorità legislativa, ma fa l'oggetto di una libera discussione, e non è applicato (sotto la minacciua della costrizione) da un'autorità giudiziaria. Perché non si confonde allora con le norme etiche? Perché non riguarda l'intenzione dei soggetti agenti e perché è con questo fatto possibile applicarlo sotto la forma di un diritto positivo. In questo caso, il diritto naturale non dovrà più soltanto essere interpretato da un filosofo del diritto (o da non importa quale essere provvisto di ragione), ma codificato per una società particolare (nello spazio e nel tempo) da una istituzione di cui il gruppo sociale in questione riconosce la competenza (può benissimo trattarsi del gruppo sociale nel suo insieme, del “popolo in corpo”, come lo esige Rousseau) e il suo rispetto potrà, se necessario, essere imposto da un'istituzione di costrizione. Dico “se necessario”, ma si deve notare che i rappresentanti della Scuola del diritto naturale e i loro eredi (Kant compreso) valutano generalmente che l'esistenza di una tale istituzione di costrizione è bel e benne necessaria. Si può tuttavia, mi sembra, dissociare, per maggior chiarezza, la questione della codificazione e quella del diritto e quella del diritto di costrizione: un diritto positivo non è affatto immaginabile senza codificazione (che può essere di tradizione orale), ma si può almeno immaginare un sistema di diritto positivo che non sarebbe provvisto di un potere di costrizione e domandarsi se un tale diritto sarebbe applicabile.
Riassumendo, si potrebbe presentare il diritto naturale come un insieme come un insieme di principi generali che ogni diritto positivo che pretende servire l'idea di giustizia (piuttosto che gli interessi del gruppo sociale dominante) deve rispettare, adattare alle circostanze concrete del luogo e dell'epoca e tentare di applicare nella vita reale. Se si considera (come Kant e i sostenitori della Scuola del diritto naturale, ma anche come la maggior parte dell'anarchismo classico) che l'essere umano è un essere razionale e libero (la qual cosa significa soprattutto “capace di determinare la sua azione in funzione della sua propria idea del giusto e dell'ingiusto”), si possono descrivere questi principi come le “condizioni alle quali degli esseri razionali e liberi possono coesistere nel mondo sensibile, e preservando la loro razionalità e la loro libertà” [8].
È dunque alla natura umana (definita in modo minimo, attraverso la razionalità e la libertà) che rinvia l'aggettivo “naturale”, e non a una natura esterna e trascendente [9]. Questa natura, se la si riduce a questi tratti costitutivi minimi della razionalità e della libertà, essendo (su scala umana) immutabile (perché se per caso essa si modificasse, cesseremmo di essere degli esseri umani) e universale, e universale, i principi generali del diritto naturale sono considerati come universali e antistorici. È evidente che in compenso ogni diritto positivo è inscritto nella storia e legato a una società determinata, perché deve tradurre i principi generali del diritto naturale nella realtà concreta, a un'epoca e in un luogo dati.
Il diritto naturale è così un modello astratto che si tratta di applicare al concreto. Aggiungiamo che, ogni traduzione essendo imperfetta, ogni applicazione al concreto di principi generali e astratti che comportano dei fattori di errori e d'imprecisione, l'applicazione perfetta del diritto naturale alle circostanze date costituisce un ideale, un obiettivo da raggiungere, ma che non potrebbe essere raggiunto che al termine di uno sforzo infinito, un punto di fuga [10].
2. 3. Anarchismo e diritto naturale
Per tornare al nostro principale problema della posizione dell'anarchismo di fronte al diritto sulla base di queste definizioni dell'etica, del diritto positivo e del diritto naturale, posso ora precisare e correggere un po' la mia affermazione iniziale: nella terminologia definita sopra, le norme il cui rispetto deve, secondo l'anarchismo classico, rendere lo Stato superfluo sono innanzitutto delle norme di diritto naturale, poiché esse riguardano il comportamento e i diritti degli individui nella società. Certo, numerosi autori libertari – e innumerevoli militanti – hanno dato prova di una coscienza morale molto sviluppata e di un'etica personale molto esigente e non hanno generalmente operato questa distinzione concettuale, parlando di “etica” là dove propongo, sulle tracce di Kant e dei suoi predecessori, di parlare di “diritto naturale”. Resta comunque il fatto che ciò che deve essere rispettato, affinché una società libertaria sia possibile, non è necessariamente un insieme di regole etiche private che riguarderebbero non soltanto l'azione, ma anche l'intenzione dell'agente (è chiaro che, in questo caso, questa società sarebbe una pura utopia), ma un insieme di regole che riguardano l'azione concreta e le sue ripercussioni materiali sugli altri e sulla società. In altri termini, la qualità di cui devono dar prova i membri di una società libertaria, non è la santità (o purezza etica), ma la giustizia.
Possiamo dunque concludere che l'anarchismo (classico) integra non soltanto l'idea di norme etiche, ma anche quella di norme di diritto naturale e che le sue rivendicazioni di giustizia e di libertà suppongono una concezione del diritto naturale, esplicita o (parzialmente) implicitamente implicita [11]. Si deve sin da quel momento pensare che l'anarchismo si distingue dalle altre filosofie politiche dei tempi moderni per il fatto che si fa il campione di un diritto naturale senza diritto positivo?
3. Anarchismo, diritto naturale e diritto positivo
Nel suo articolo su Proudhon pubblicato in questo stesso numero di “Réfractions”, De l’anarchisme au fédéralisme..., Fawzia Tobgui mostra che la posizione di Proudhon di fronte al diritto positivo, e anche di fronte allo Stato, evolve considerevolmente, per dare sempre più posto al diritto positivo, e anche allo Stato, purché quest'ultimo sia profondamente democratico e federalista. Allo stesso modo, Daniel Guérin osservava, nella sua Introduzione al Programma della Fratellanza internazionale rivoluzionaria di Bakunin, che “vi è nelle pagine che seguono una contraddizione, almeno evidente. A volte Bakunin si pronuncia categoricamente per la “distruzione degli Stati” […], a volte reintroduce la parola “Stato” nella sua argomentazione. Lo definisce questa volta come “l'unità centrale del paese” come un organo federativo. E cionondimeno non continua a vituperare “lo Stato tutelare, trascendente, centralizzato”, a denunciare “la pressione dispoticamente centralizzatrice dello Stato”.
“C'è dunque per Bakunin Stato e Stato. Ritroviamo, d'altronde” - rilevava ancora Guérin -, la stessa ambiguità sotto la penna di Proudhon, da cui Bakunin ha tanto attinto [12].
Infatti, che si tratti di evoluzioni o di ambiguità, la posizione dei nostri “classici” sulla questione del diritto positivo è meno semplice di quanto lo si pensi di solito. Non intendo qui dedicarmi a un'inchiesta storica (vedere in questa prospettiva, gli articoli che precedono il mio, ma darò alcuni esempi delle posizioni degli anarchici “classici” che suggeriscono che la loro posizione di fronte al diritto positivo è meno negativa di quanto sembrerebbe a prima vista, e tenterò di avanzare alcuni argomenti che giustifichino un affinamento del “catechismo” libertario su questo punto. Per fare ciò, cercherò di esaminare successivamente la questione della codificazione del diritto e quella del diritto di costrizione.
3. 1. La codificazione
Che Bakunin, nel suo Programma menzionato poco fa, non respinga la codificazione dei principi che reggono la società libertaria (senza tuttavia approfondire il problema), risalta chiaramente dal seguente passo: “[Le comuni] formeranno necessariamente tra di loro un patto federale basato allo stesso tempo sulla solidarietà di tutte e sull'autonomia di ognuna. Questo patto costituirà la carta provinciale” [13].
Facciamo notare che l'organizzazione federale implicata da questo patto deve essere, secondo Bakunin, “fondata unicamente sulla libertà assoluta e sull'autonomia delle regioni, delle province, dei comuni, delle associazioni e degli individui” e che si deve secondo lui riconoscere “un diritto assoluto di secessione” non soltanto a tutti i paesi e a tutte le regioni, ma anche a tutti gli individui, anche se, a suo parere, queste secessioni diventeranno di fatto “impossibili” quando le federazioni “saranno formate liberamente” dalle necessità e le affinità inerenti a ognuna delle loro parti [14].
Non è a mio avviso senza buone ragioni che Bakunin ammette qui la codificazione, in un “patto” o una “carta”, delle regole fondamentali delle federazioni. Infatti, se questa regole non sono esplicitamente formalizzate, delle regole informali e implicite si instaureranno inevitabilmente, ed esse rischiano di limitare ulteriormente la libertà degli individui, poiché più inafferrabili, più difficilmente criticabili. Un sistema di regole chiare ed esplicite, dunque codificate (ma possono esserlo anche in una tradizione orale) presenta molti vantaggi, purché esso sia pubblico e intelligibile per le persone interessate e che esso non sia edito in modo arbitrario e imposto dittatorialmente: gli individui possono conoscere chiaramente i comportamenti che il gruppo sociale accetta e quelli da esso respinti [15], sanno che questi principi hanno una certa stabilità (principio della sicurezza del diritto) e, se questi principi (o una parte di essi) non sembra loro conformi all'idea di giustizia (detto in altro modo, se essi sembrano loro non essere un'applicazione adeguata del diritto naturale alle circostanze concrete nelle quali vive il loro gruppo sociale), essi possono criticarli con precisione, addirittura opporvisi in pratica (fare atto di “disobbedienza civile”), avendo la possibilità di manifestare che è la regola x o quella y che essi rifiutano, e non il legame sociale in generale.
Così, non soltanto l'idea del diritto naturale sembra compatibile con una concezione anarchica, ma anche il principio di una codificazione delle regole risultante dall'applicazione dei principi generali del diritto naturale alle circostanze particolari peculiari alla società in questione. Naturalmente, non si dovrà perdere di vista il fatto che questa applicazione e, così, questa codificazione, è per forza imperfetta (come lo è d'altronde ogni diritto positivo nella prospettiva kantiana) e che si deve dunque sempre poter criticarla e modificarla. Ma che ne è dell'idea del diritto di costrizione: segnerebbe essa il punto in cui l'anarchismo diverge definitivamente dalle filosofie politiche moderne?
3. 2. Il diritto di costrizione
La filosofia politica moderna, a cominciare dalla Scuola del diritto naturale, ammette generalmente che il diritto positivo implica l'esistenza di un'istituzione (o di diverse istituzioni, per i sostenitori della divisione dei poteri) provvista di una certa legittimità capace di costringere, attraverso la forza o la minaccia, gli individui a rispettare questo diritto, qualora essi non lo facessero spontaneamente. Questo diritto di costrizione è spesso apparso a noi teorici poco compatibili con l'anarchismo. In modo perfettamente pertinente, essi hanno denunciato il fatto che è in genere utilizzato dagli Stati per difendere i privilegi delle classi dominanti, addirittura di una cosca mafiosa al potere, e hanno affermato che la sparizione dell'accaparramento e della miseria provocherebbe la fine dei delitti commessi per necessità, e la soppressione della proprietà privata la sparizione dei delitti commessi per spirito di lucro. Inoltre, essi hanno fatto affidamento sulla trasformazione generale dei rapporti sociali (ad esempio dei rapporti tra i sessi) che doveva generare l'avvento della società libertaria per diminuire sensibilmente i delitti dovuti a delle patologie psichiche, sessuali o sociali, alla gelosia, all'ubriachezza, alla brutalità, ecc.
Tuttavia, si constata in numerosi punti che, pur valutando che le infrazioni gravi ai principi fondamentali del patto sociale (o “federale” e le violazioni gravi dei diritti fondamentali della persona saranno rari in società libertarie, per non dire statisticamente trascurabili, i nostri teorici classici sono costretti ad ammettere che queste infrazioni rappresentano tuttavia un caso limite, sempre possibile, che li obbliga a porsi più profondamente la questione del diritto di costrizione, addirittura ad ammettere questo diritto, pur cercando di limitare per quanto possibile la sua applicazione.
Così, nel capitolo che James Guillaume dedica all'organizzazione della federazione locale, o comune, nel suo Idées sur l’organisation sociale, l'autore affronta il problema, non senza aver preventivamente posto in rilievo: “Non è probabile che in una società in cui ognuno potrà vivere in piena libertà del frutto del suo lavoro, e troverà tutti i suoi bisogni abbondantemente soddisfatti, dei casi di furto e di brigantaggio possano ancora presentarsi. Il benessere materiale, così come lo sviluppo intellettuale e morale che risulterà dall'istruzione veramente umana data a tutti, renderanno inoltre molto più rari i crimini che sono la conseguenza della dissolutezza, della collera, della brutalità, o di altri vizi”.
Ma Guillaume si rende conto che si deve affrontare seriamente i “casi limiti”: “Tuttavia non sarà inutile prendere delle precauzioni per la sicurezza delle persone […]. Evidentemente, non si potrà, con il pretesto di rispettare dei diritti dell'individuo e di negazione dell'autorità, lasciar andare tranquillamente un omicida o aspettare che qualche amico della vittima applichi la legge del taglione. Si dovrà privarlo della sua libertà, e custodirlo in una casa speciale, sino a quando egli possa, senza pericolo, essere restituito alla società”.
L'autore ammette dunque, per questi casi limiti, un diritto di costrizione della società nei confronti del criminale. A proposito delle domande: “Come [quest'ultimo] dovrà essere trattato durante la sua detenzione? E secondo quali principi se ne determinerà la durata?”, Guillaume ammette che esse sono delle questioni delicate, sulle quali le opinioni sono ancora divise”. Egli prosegue: “Si dovrà rimettersi all'esperienza per la loro soluzione; ma sappiamo sin da ora che, grazie alla trasformazione che l'educazione opererà nei caratteri, i crimini saranno diventati molto rari: i criminali non essendo più che un'eccezione, saranno considerati come dei malati e prive di senno; la questione del crimine, che occupa oggi tanti giudici, avvocati e carcerieri, perderà la sua importanza sociale, e diventerà un semplice capitolo della filosofia medica. […] i crimini saranno oramai di competenza dei settori del servizio di sicurezza, che cercherà di prevenirli, e di quello del servizio medico, che deciderà delle misure da assumere nei confronti dei criminali” [16].
Nel suo Catechismo rivoluzionario, Bakunin riconosce anch'egli questo diritto alla costrizione della società in caso di crimine, e anche in caso di delitti della minima gravità: “In caso di infedeltà a un impegno liberamente contratto oppure in caso di attacco aperto o provato contro la proprietà [sic], contro la persona e soprattutto contro la libertà di un cittadino, sia indigeno, sia straniero, la società infliggerà al delinquente indigeno o straniero le pene determinate dalle sue leggi”.
Bakunin accetta dunque qui diritto di costrizione e diritto di punire, ma insiste sul fatto che la punizione deve condurre alla riabilitazione e considera, come Guillaume, che l'esecuzione di un crimine in una società egualitaria e libertaria rileva di una patologia che si deve curare, piuttosto che punire: “Abolizione assoluta di tutte le pene degradanti e crudeli, delle punizioni corporee e della pena di morte, benché consacrate ed eseguite dalla legge. Abolizione di tutte le pene a termine indefinito o troppo lunghe e che non lasciano alcuna speranza, nessuna possibilità reale di riabilitazione, il crimine deve essere considerato come una malattia e la punizione piuttosto come una cura che una vendetta della società” (Ibid.).
Si deve tuttavia porre in rilievo che il diritto di secessione che caratterizza, come abbiamo visto , il federalismo di Bakunin e che si estende sino all'individuo prevale sul diritto di costrizione e di punizione della società e è riconosciuto anche al criminale, ma il suo esercizio potrà essere per quest'ultimo pesante di conseguenze: “Ogni individuo condannato dalle leggi di una società qualunque, comune, provincia o nazione, conserverà il diritto di non sottomettersi alla pena che gli sarà stata imposta, dichiarando che non vuole più far parte di questa società. Ma, in questo caso, quest'ultima avrà a sua volta il diritto di espellerlo dal suo seno e di dichiararlo fuori dalla sua garanzia e dalla sua protezione.
“Ricaduta così sotto la legge naturale occhio per occhio dente per dente, almeno sul terreno occupato da questa società, il refrattario potrà essere saccheggiato, maltrattato, anche ucciso senza che quest'ultima se ne preoccupi. Ognuno potrà disfarsene come di una belva nociva, mai tuttavia asservirlo ne impiegarlo come schiavo” [17].
Questi testi di Guillaume e di Bakunin hanno il merito di sollevare i due aspetti fondamentali del problema del diritto di costrizione in materia criminale: la questione della protezione della società, e soprattutto delle persone che la compongono, contro le azioni di un individuo criminale (che il suo comportamento sia d'origine patologica o non) e quella della protezione del criminale stesso come una reazione sproporzionata di altri individui, o della società.
Il secondo aspetto, la protezione della persona che viola un diritto fondamentale di altri contro una reazione sproporzionata e il bisogno di offrire a questa persona un'occasione per reinserirsi nella società deve metterci in guardia contro i meccanismi di giustizia informale, addirittura di giustizia sommaria o di vendetta, che si porrebbero probabilmente in opera se la vittima (o i suoi vicini, o anche delle persone che temessero di diventare a loro volta vittime del delinquente) non potesse far appello a una struttura che riconosce dotata delle qualità d'imparzialità, di trasparenza e di competenza necessarie a rendergli giustizia e a proteggere gli altri membri della società contro delle ingiustizie analoghe.
Dei principi come l'imparzialità dei giudici (che non devono dunque essere parte coinvolta o interessata – direttamente o indirettamente – alla causa), la presunzione d'innocenza, la proporzionalità e la stabilità delle pene, la loro applicazione indipendentemente dalle caratteristiche della persona giudicata (messe a parte quelle che hanno un rapporto al delitto, costituiscono, ad esempio, delle circostanze attenuanti o aggravanti), il diritto di far appello contro ogni decisione di giustizia, di essere giudicato in applicazione di criteri pubblicamente conosciuti e riconosciuti, ecc. possono difficilmente essere rispettati da un sistema informale. Ora non si deve dimenticare che il loro riconoscimento (almeno teorico) è stato il risultato di una lunga lotta, condotta dai pensatori dell'Illuminismo, i democratici sinceri e i militanti dei diritti dell'uomo contro l'arbitrio dei sistemi giudiziari del feudalesimo, dell'Inquisizione e della monarchia assoluta e che i regimi fascisti (e stalinisti) del XX secolo hanno avuto una gran fretta nel gettare queste garanzie giudiziarie alle ortiche. Certo, l'applicazione reale di questi principi è stata spesso – e è spesso – aleatoria nelle democrazie liberali (che sino ad oggi sono state liberali non soltanto politicamente, ma anche economicamente, dunque, dunque, in altri termini, borghesi), il corpo giudiziario, ad esempio, è spesso stato legato alle classi dominanti da una solidarietà di classe (non fosse che per il semplice fatto che si è in generale grosso modo reclutato in queste classi) e i fortunati possono pagarsi migliori consiglieri giuridici e avvocati dei miserabili. Ma queste violazioni di questi principi, che sono da imputarsi alle ineguaglianze economiche e al primato del potere economico nelle società capitaliste, non devono farci respingere i principi stessi: ciò che si deve respingere, è l'ineguaglianza economica e la società di classe che si oppone alla loro applicazione.
Insomma, a mio parere, non è senza buone ragioni che Bakunin e Guillaume, nei testi citati, ammettono una codificazione delle regole sociali fondamentali e l'istituzione formale di un diritto di costrizione nei confronti del criminale, caso limite della società egualitaria e libertaria [18]. Una “sanzione sociale” non formalizzata e non misurata, indefinita, potrebbe infatti molto bene essere più dura – e soprattutto più arbitraria – di una sanzione formale (mirante alla “riabilitazione” del criminale) [19]. Inoltre, questo criminale deve essere considerato come un malato e curato, “riabilitato”, piuttosto che punito, è certamente conforme a un approccio umanistico e libertario del fenomeno della devianza sociale grave. Tuttavia, non dovrebbe accadere che quest'ottica “terapeutica” conduca a un indebolimento dei diritti di difesa della persona “incolpata”: quando Guillaume dichiara che il “servizio medico” [della comune] deciderà delle misure da prendere nei confronti dei criminali”, non si può impedirsi di domandarsi quali dovranno essere le garanzie poste in essere per evitare che questo “servizio medico” non prenda delle misure arbitrarie, non pronunci degli “internamenti amministrativi” indefiniti nei confronti di individui “disturbanti”, ecc. Non dimentichiamo – per prendere in considerazione il peggio – il caso dei dissidenti richiusi nei manicomi sovietici! In una società libertaria, l'approccio “terapeutico” del crimine non potrebbe offrire meno garanzie, meno diritti di difesa, del sistema giudiziario liberale (inoltre, queste garanzie dovranno essere non soltanto teoriche, ma effettivamente applicate).
Attraverso le ultime citazioni di Guillaume e di Bakunin, è il problema del diritto di costrizione in materia criminale che abbiamo esaminato. Come caso limite, il caso del crimine è particolarmente cruciale, ma non rappresenta la sola situazione in cui la questione del diritto di costrizione può porsi. Così nel suo Programma già citato, Bakunin parla di una “carta provinciale” che federalizza le comuni. Insiste sul fatto che quest'ultima è fondata sulla “libertà assoluta” dei comuni, dotate di un “diritto assoluto di secessione” in rapporto alla federazione in questione. Si può tuttavia aspettarsi il fatto che, nel suo spirito, una comune che fosse riluttante a mantenere un impegno accettato con una certa carta possa legittimamente essere posta dagli altri membri della federazione di fronte all'alternativa: “Mantenere i suoi impegni o andarsene”. Non si dovrebbe parlare in questo caso di una forma ristretta del diritto di costrizione? La rottura del legame federativo con le comuni vicine potrebbe infatti, per la comune presa in considerazione, essere tanto pesante di conseguenze quanto, per il criminale che rifiuta la sua pena, l'espulsione dalla società che Bakunin ammetteva poco sopra; infatti, questa rottura può ad esempio, in certe circostanze condannarla a un'autarchia economicamente insopportabile [20].
È dunque non soltanto nel campo dell'organizzazione giudiziaria, ma anche in quello dell'organizzazione politica e economica [21] che ci si deve porre seriamente la questione di sapere se un certo grado di istituzionalizzazione formale non sia preferibile, dal punto di vista della libertà dell'individuo, al rischio di vedere emergere dei poteri impliciti e informali [22].
4. Anarchia o democrazia radicale?
Non cercherò di dare qui una risposta netta alla domanda che ho appena posto. Cercherò piuttosto di rispondere a quest'altra domanda: supponendo che si giunga alla conclusione che, per evitare la formazione di poteri occulti, sia preferibile che la società si doti, a livello politico, economico e giudiziario, di principi generali espliciti, di istanze di decisioni chiaramente definite (il che non implica forzatamente una delega dei poteri: l'assemblea generale dei membri della federazione, ad esempio, è un'istanza chiaramente definita) e di regole di decisioni trasparenti, in quale misura un tale modello di società “anarchica” si distinguerebbe da un sistema di democrazia diretta e federalista radicale, estesa all'organizzazione economica?
Il punto in cui questi due modelli di società divergono potrebbe situarsi al livello del diritto di divergenza e di disobbedienza. Nel suo Plaidoyer pour l'anarchisme [23], Robert Paul Wolff caratterizza infatti il punto di vista dell'anarchismo con l'affermazione del diritto alla disobbedienza dell'individuo di fronte alle decisioni della società che sarebbero contrarie alla sua coscienza, un'affermazione che egli ritiene giustificata dai principi dell'etica kantiana, che pone in primo piano la responsabilità e l'autonomia morale della persona [24]. Secondo Wolff, un'affermazione radicale di questo diritto non è compatibile con le teorie classiche della democrazia, anche le più illuminate: quando l'individuo ha esaurito tutte le vie di ricorso, per quanto sviluppate esse siano, deve piegarsi, la società dispone allora di un diritto di costrizione assoluto. Al contrario, i libertari hanno generalmente sostenuto questo diritto di divergenza e di disobbedienza dell'individuo quando si tratta di questioni fondamentali, di questioni di principio, e abbiamo visto che questo diritto va, secondo Bakunin, sino al diritto di effettuare una secessione.
Ma di nuovo sorgono delle domande: il riconoscimento di un tale diritto assoluto di disobbedienza non implica il diritto di costrizione “ristretto” di cui ho suggerito poco sopra di non essere incompatibile con una società libertaria, di essere, al contrario, totalmente opposto a questa visione sociale? E, all'inverso, un tale diritto di disobbedienza non è, in pratica, totalmente inapplicabile (a meno di mettere gravemente in pericolo la sicurezza – ma anche la libertà – degli altri individui), in particolare in una società complessa e industrializzata, in cui la “disobbedienza” concreta di un individuo può far correre alle altre persone dei rischi enormi? La nozione del diritto dell'individuo (o di un gruppo di individui, comune, regione, provincia, ecc.) alla secessione e quella del diritto simmetrico della società (o della federazione del livello immediatamente superiore) di espellere un individuo rifiutando le sue regole, in altri termini la nozione di rottura del legame sociale o federale) ci permetterà forse di capire come “diritto di costrizione ristretto” e “diritto di disobbedienza” potrebbero coesistere in una società propriamente “anarchica”, andando oltre la democrazia radicale nel rispetto della libertà individuale. Una tale democrazia dovrebbe sforzarsi di tollerare per quanto possibile i casi di dissidenza o di disobbedienza fondati su delle opposizioni di principio; tuttavia, quando un caso di dissidenza o di disobbedienza comportasse troppe gravi conseguenze per gli altri individui, potrà minacciare la persona interessata (o il gruppo di persone interessate) di rottura del legame sociale (l'iniziativa della rottura può essere presa sia dall'individuo o il gruppo interessato). Quest'ultima dovrà allora pesare i rispettivi inconvenienti dell'abbandono della sua dissidenza e dell'uscita dalla società, valutare le sue opportunità di essere accolto in un altro gruppo sociale più conforme alle sue convinzioni, ecc. Se la scelta cade sulla rottura, si dovrà allora sforzarsi di procedere a un “divorzio consensuale” tra l'individuo e il gruppo. Questa procedura potrebbe non essere facile e delle situazioni sono suscettibili di presentarsi in cui un gruppo che fa secessione può far correre alla società da cui intende separarsi un rischio considerevole (ad esempio se si dedica all'oppressione interna, erige un regime militarista, danneggia gravemente l'ambiente, ecc.): come dovrà allora reagire la società, non sarà costretta, per proteggere la libertà della maggioranza dei suoi membri, limitare il diritto di secessione (e di associazione [25]) e di proibire alcune dissidenza? Questo problema meriterebbe di essere studiato seriamente e non dovrebbe essere oggetto di una conclusione affrettata. A titolo provvisorio, proporrei tuttavia la seguente risposta: Una società “anarchica” (ma sarebbe forse più esatto chiamarla “libertaria”, poiché non farebbe che tendere verso l'anarchia), dotata di norme fondamentali, di istanze e di regole di decisioni definite potrebbe distinguersi da una democrazia diretta radicale per il fatto che, senza eliminare completamente le “dissidenze proibite” (e, rispettivamente, le secessioni proibite), cercherà di accordare agli individui e ai gruppi un diritto di dissidenza esteso quanto possibile e sforzarsi di allargare costantemente questo diritto. Così, allo stesso modo per cui il diritto naturale è un ideale, lo scopo proposto a uno sforzo infinito, un punto di fuga, ma anche un'applicazione libertaria di questo diritto in una società che riconosce a ogni individuo un diritto assoluto di dissidenza e di secessione (e cioè una società “anarchica” in senso stretto) è un ideale di cui si dovrà, nel quadro della creazione di una società libertaria, avvicinarsi indefinitamente, senza mai camuffare la distanza che separa la società reale dall'ideale anarchico, senza mai dissimulare i rapporti di forza che sussisterebbero in strutture di potere informale tanto più difficili da eliminare in quanto non dichiarate.
Perciò, asserire questo carattere ideale della società integralmente libertaria, “anarchica” in senso stretto, per qualificarla come semplice utopia sarebbe del tutto erroneo come il voler respingere la nozione di democrazia con il pretesto che la democrazia, anch'essa, non è perfettamente realizzata che all'infinito (è anche il caso della democrazia liberale, i cui principi non sono perfettamente realizzati – tutt'altro! - nei paesi del “liberalismo realmente esistente”). All'epoca in cui il liberalismo era una forza di progresso, gli uomini e le donne che hanno combattuto i regimi feudali o assolutisti dichiarando che ci si doveva portare sulla strada dell'ideale democratico, per quanto esso fosse distante, si ebbe ragione di non prestare ascolto ai reazionari che criticavano la loro ricerca come “utopia” [26]. Ma gli uomini e le donne che aspirano a una società più conforme alla dignità dell'individuo avranno ragione anch'essi, quando le circostanze vi si presteranno, di porsi in rotta verso l'ideale libertario, purché non sottovalutino la strada da percorrere e non ci diano l'illusione di essere giunti in porto limitandosi a smontare le strutture apparenti del potere prima di aver smantellato gli stessi rapporti di potere.
[Traduzione di Ario Libert]
NOTE
[1] Max Stirner, con la sua critica radicale dell'obbligazione morale, fa qui eccezione: vedere l'articolo di Marco Cossutta pubblicato nel presente numero di Réfractions. In quanto alla questione di sapere se i nostri “classici” ritengono che la costrizione sociale possa essere integralmente eliminata, o soltanto in gran parte, la affronterò tra poco.
[2] A proposito di quest'ultimo, vedere il contributo di Urs Marti al congresso “Nietzsche: un buon Europeo a Cosmopolis” (Parigi, ottobre 2000), 'The good, the bad and the ugly european': le tre facce dell'europeismo di Nietzsche”. L'autore vi sottolinea la “concezione radicalmente autoritaria della politica” propria di Nietzsche, concludendo: “L'idea di autonomia, per quanto importante sia stata per Nietzsche in opere come Aurora, ad esempio, non può svolgere alcun ruolo nella sua concezione della politica” (Manoscritto, uscirà negli atti del congresso [pubblicazione classica o elettronica]).
[3] E, secondariamente, si potrà consigliare alle persone che hanno la nostra simpatia (peggio per gli altri, bisogna pur che vi siano dei perdenti!) di collocarsi a tempo nel campo del più forte ( dans le camp du plus fort (tenendo contro, naturalmente, di cambiare campo al momento opportuno se il “giudizio della Storia” venisse a cambiare).
[4] Questa distinzione, corrente in tutta la Scuola del diritto naturale e presso gli autori che essa influenza (e anche anteriore a questa tradizione), non è ovviamente un'innovazione di Kant, ma essa mi sembra essere usata da lui con una chiarezza particolare.
[5] L'imperativo etico, così come l'imperativo giuridico, può naturalmente proibire un'azione; poco oltre, non richiamerò sistematicamente questi due aspetti, prescrittivo e proibitivo.
[6] Così, una delle formulazione kantiane della norma etica suprema, l'imperativo categorico, è: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale” (Critica della ragion pratica, I parte, libro I, capitolo I, § 7).
[7] “Positivo” significa in questo contesto “posto” da una istituzione legislativa reale, storica; in alcuni autori lo chiamano anche “diritto convenzionale” o “diritto volontario”. Il termine è già utilizzato durante il Medioevo e non implica dunque alcun riferimento alla scuola del “positivismo giuridico”, che si è sviluppato durante i secoli XIX e XX (ed è stato illustrato soprattutto da Kelsen: vedi l'articolo già citato di Marco Cossutta). Per il positivismo giuridico, la validità di un sistema giuridico non dipende che da criteri formali e nient'affatto dal suo contenuto o, come scrive Cossutta a proposito di Kelsen, “la legittimità si riduce all'efficacia” e “è il dispiegamento della forza che fa la differenza tra l'ordine di un bandito e l'ordine dello Stato”.Questa dottrina respinge dunque la parte solida della nozione di diritto naturale, che è al contrario essenziale in Kant.
[8] In questi termini, questa definizione è ispirata da Fichte (vedere i suoi Fondamenti di diritto naturale secondo i principi della Dottrina della scienza, §§ 4 e 7), ma troviamo già in Grotius l'idea che il diritto naturale consiste nell'insieme delle condizioni di possibilità della sociabilità di essere razionali; dichiara infatti che il modo di provare a priori “che una cosa è di diritto naturale […] consiste nel mostrare che la convenienza o sconvenienza necessaria di una cosa con una Natura ragionevole e socievole, com'è quella dell'Uomo”. (Le Droit de la guerre et de la paix, trad. Barbeyrac, libro I, cap. I, § XII). Troveremo una concezione simile nel testo di Bakunin citato nella nota 11.
[9] Non si deve d'altronde dimenticare che nella filosofia politica moderna la nozione di diritto naturale si oppone a quella di diritto divino e rappresenta dunque uno strumento di lotta contro le ideologie che pretendevano assoggettare l'umanità alla trascendenza. Così, Grotius scrisse: “Il Diritto Naturale è immutabile, sino al punto che Dio stesso non lo può cambiare. […] Così come dunque è impossibile a Dio stesso, di fare che due per due non facciano quattro: non gli è nemmeno possibile di fare che ciò che sia malvagio in sé e della sua natura, non sia tale”. (Op. cit., libro I, cap. I, § X).
[10] Si potrebbe aggiungere che il diritto naturale è non soltanto un “ideale pratico”, ma anche un “ideale teorico”: la scoperta dei suoi principi (la scoperta delle condizioni necessarie della nostra coesistenza in quanto esseri liberi) è sempre imperfetta e perfettibile. Le teorie del diritto naturale, come tutte le teorie scientifiche, devono poter essere indefinitamente discusse, rimesse in questione e revisionate, addirittura confutate, il che non deve esentare i loro autori di cercare di dar loro la forma la più rigorosa possibile. La teoria ideale è anch'essa un punto di fuga, ma si deve costantemente cercare di avvicinarvisi.
[11] Così Bakunin nel suo Catechismo rivoluzionario (1865), contesta la possibilità di trovare delle norme universalmente applicabili ai problemi concreti dell'organizzazione sociale, “l'esistenza di ognuna [nazione] è subordinata a una folla di condizioni storiche, geografiche, economiche differenti e che non permetteranno mai di stabilire un modello di organizzazione, ugualmente buono e accettabile per tutte”, e vede in tali norme un pericolo per la libertà e una “attentato alla ricchezza e alla spontaneità della vita...”. Egli precisa tuttavia: “Tuttavia vi sono delle condizioni essenziali, assolute, al di fuori delle quali la realizzazione pratica e l'organizzazione della libertà saranno sempre impossibili” (Catechismo rivoluzionario, in Daniel Guérin: Ni Dieu ni maître. Anthologie de l’anarchisme, Parigi, Maspero, 1974, vol. I, pp. 184-185; tr. it.: Né Dio né padroni, Jaca Book, Milano, 1977). Ora, l'oggetto del diritto naturale risiede precisamente in queste condizioni essenziali delle coesistenza nella libertà, che sono di portata generale e non pretendono di regolare dettagliatamente la vita delle diverse società, e il seguito del Catechismo, in cui Bakunin enumera e analizza queste “condizioni essenziali”, mostra chiaramente che l'autore non le considera come dei principi che non sarebbero applicabili che a una situazione storica e geografica particolare. Marco Cossutta ritiene anche che “l'anarchismo spinge l'deale del diritto naturale alle sue ultime conseguenze logiche” (in Anarchismo e diritto. Componenti giusnaturalistiche del pensiero anarchico, Trieste, CoopStudio, 1987, p. 129).
[12] Daniel Guérin: op. cit., p. 170.
[13] Bakunin: Programme..., citato in Daniel Guérin: op. cit., p. 183.
[14] Ibid., p. 180. Facciamo notare che l'estensione del principio federativo – e del diritto di secessione – all'individuo distingue il federalismo libertario da ogni altra forma di federalismo.
[15] Kafka, in Il Processo, dà una notevole illustrazione della situazione contraria e delle sue implicazioni totalitarie: malgrado tutta la sua buona volontà e tutti i suoi tentativi di conoscere di quale infrazione si era reso colpevole, K. morirà senza sapere di cosa lo si accusava.
[16] Idées sur l’organisation sociale (1876), Parigi, Édition du groupe Fresnes-Antony della Federazione anarchica, Volonté anarchiste, n° 8, 1979, pp. 27-28.
[17] In Guérin, op. cit., vol. I, pp. 188-189.
[18] In compenso, Kropotkin si esprime spesso molto negativamente a proposito della legge (vedere ad esempio La loi et l’autorité, articolo pubblicato nel 1882 sul “Révolté”, poi integrato in Paroles d’un révolté, Parigi, Marpion et Flammarion, 1885, pp. 213-244). Tuttavia, come fa notare Marco Cossutta (vedere Anarchismo e diritto, op. cit., pp. 99-107), Kropotkin identifica, in questi testi, la legge con la legge esistente, alla legge statale, ed è quest'ultima che egli critica, in nome della giustizia. La sua posizione concorda così quella dei sostenitori della Scuola del diritto naturale, per i quali l'idea di diritto naturale è per la maggior parte delle volte uno strumento di critica al diritto positivo esistente. Tom Holterman ritiene, in quanto a lui, che “le idee di Kropotkin sulla giustizia mostrano chiaramente che alcuni elementi della legge possono essere accettati da parte dell'anarchismo. Questi elementi possono rivelarsi utili per elaborare delle prospettive d'azione nei rapporti tra le persone”. (“Una concezione anarco-socialista della legge”, Volontà, 1980, n° 3, p. 25).
[19] Si potrebbe obiettare che oggi la sanzione penale formale è generalmente raddoppiata da una sanzione sociale informale (in particolare nel caso dei delinquenti provenienti da ambienti sfavorevoli), ma è precisamente quest'ultima che dovrebbe essere eliminata in una società libertaria in cui la “sanzione” mirerebbe realmente alla riabilitazione della persona sanzionata.
[20] Vedere le pesantissime conseguenze economiche, sociali e sanitarie di alcuni embarghi internazionali, anche quando si tratta della scala di un intero paese (che dispone dunque di risorse più diversificate di un comune o di una regione) che questi embarghi si esercitano e che, per un certo numero di eccezioni e di violazioni, essi non sono totali.
[21] Da un punto di vista metodologico, è meglio distinguere quest'ultime due dimensioni finché non si sarà provato che esse devono fondersi in una, come pensa, ad esempio, il Proudhon dei primi scritti (vedere l'aticolo di Fawzia Tobgui nel presente numero di Réfractions).
[22] In Anarchismo e diritto (op. cit., pp. 106-107 e 113-119), Marco Cossutta difende d'altronde la possibilità di un “diritto positivo anarchico”.
[Traduzione di Ario Libert]
Idéal libertaire et idée du droit naturel* - [ Réfractions, recherches et expressions anarchistes]
1. Anarchie et anomie Le projet d'une société sans pouvoir politique, sans État (anarchie), est-il équivalent à un projet de société dépourvue de (...)
Jacques Dubart
Il 9 agosto 2003, nello Stato messicano del Chiapas, l'Esercito zapatista di Liberazione Nazionale decretava la nascita dei 'consigli del buon governo' in cinque zone territoriali sotto il suo controllo. Si tratta di fatto di strutture di autogoverno", ci dice la Rete di informazione e di solidarietà con l'America latina (Risal).
La questione dell'autogoverno, dell'autogestione generalizzata potremmo anche dire, si pone quando un popolo in lotta prende i propri affari tra le sue mani e si organizza per gestire la vita quotidiana, mentre il potere capitalistico viene delegittimato, minacciato, destabilizzato o addirittura in via di liquidazione. L'autogoverno inizia con l'organizzazione delle masse in lotta per la loro liberazione e sfocia sulla progressiva strutturazione di nuove istituzioni politiche e la reintegrazione delle vecchie classi dominanti all'interno del corpo sociale, a mano a mano che viene instaurata l'eguaglianza economica all'interno della società.
Così, nato da una rivoluzione, e cioè all'interno di grandi mobilitazioni sociali, associate ad ampi dibattiti, al coinvolgimento del maggior numero tra le ex classi dominate, l'autogoverno è il contrario di una dittatura, anche se gli ex capitalisti, privati delle loro prerogative, sono temporaneamente esclusi dalle strutture politiche.
L'autogoverno è all'intersezione di due grandi strutture. Da una parte l'organizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici nelle unità di produzione autogestite dove essi decidono dell'organizzazione del lavoro, della distribuzione delle ricchezze create, degli investimenti necessari. D'altra parte l'organizzazione dei cittadini all'interno dei comuni per decidere le esigenze in termini di attrezzature e di servizi collettivi.
È una logica di democrazia diretta che instaura la preminenza della base della società nell'elaborazione delle politiche. Ma è anche la coordinazione federale di queste strutture di base, in modo bicefalo, per settore economico e per regione, per permettere le decisioni collettive al livello più adatto, non appena le questioni superano il quadro locale.
È una rottura con la logica statale. Le grandi decisioni risultano dapprima dai dibattiti alla base e i delegati, compresi e soprattutto a livello centrale, sono incaricati della loro attuazione. L'autogoverno si stabilizzerà attraverso nuove istituzioni politiche in coerenza con una società senza classi e senza Stato, proibendo la proprietà privata dei mezzi di produzione collettivi e favorendo dunque l'organizzazione collettiva della produzione.
Sin da subito è fondamentale sperimentare e popolarizzare i modi di funzionamento e l'organizzazione specifici dell'auto-governo della società, sia all'interno delle organizzazioni rivoluzionarie sia nel movimento sociale e in tutte le sue dimensioni. Questa sperimentazione può permettere di preparare la dinamica di autogoverno che può nascere da una crisi rivoluzionaria.
[Traduzione di Ario Libert]
Dico anticapitaliste : " L'autogouvernement "
Chaque mois, un mot ou une expression passée au crible par Jacques Dubart. " Le 9 août 2003, dans l'État mexicain du Chiapas, l'Armée zapatiste de libération nationale décrétait la naissance...
http://www.alternativelibertaire.org/?Dico-anticapitaliste-L
Dossier spécial : La dimension marxienne de l'anarchisme
Il y a 200 ans naissait Karl Marx. Pourquoi continuer aujourd'hui d'expliquer les fondamentaux de sa critique de l'économie ? Tout simplement parce que, s'il y a un élément théorique commun au ...
http://www.alternativelibertaire.org/?Dossier-special-La-dimension-marxienne-de-l-anarchisme
La più recente prodezza della casa di Borbone
Friedrich Engels
La casa di Borbone non è ancora giunta al termine della sua gloriosa carriera. Certo, la sua bianca bandiera, negli ultimi tempi, è stata piuttosto insozzata; certo i suoi gigli reclinavano miserevolmente il capo sul punto di appassire, Carlo Lodovico di Borbone si è venduto un ducato e ne ha dovuto abbandonare ignominiosamente un altro; Ferdinando di Borbone ha perduto la Sicilia, ed ha dovuto, a Napoli, concedere una Costituzione alla rivoluzione; Luigi Filippo pur essendo soltanto un cripto-Borbone [1], ha fatto la fine di tutti i Borboni di Francia, passando la Manica, in Inghilterra. Ma il Borbone di Napoli ha splendidamente vendicato l'onore della famiglia.
Le Camere vengono convocate a Napoli. Il giorno dell'apertura deve servire alla battaglia decisiva contro la rivoluzione. Campobasso, uno dei capi della polizia del famigerato Del Carretto, viene richiamato di nascosto da Malta; gli sbirri, con i loro vecchi capi alla testa, ripercorrono per la prima volta dopo parecchio tempo via Toledo, armati e a gruppi, disarmano i cittadini, strappano loro gli abiti di dosso, li costringono a radersi i baffi. Arriva il 14 maggio, giorno di apertura delle Camere. Il re pretende che le Camere s'impegnino sotto giuramento a non modificare la Costituzione da lui concessa. Le Camere rifiutano. La Guardia nazionale si dichiara solidale coi deputati. Si scende a trattative, il re cede, i ministri si dimettono. I deputati chiedono che il re renda pubbliche, con un suo proclama, le concessioni accordate. Il re promette il proclama per il giorno seguente. Ma durante la notte tutte le truppe dei presidi vicini entrano a Napoli. La Guardia nazionale si accorge di essere stata tradita; innalza delle barricate, dietro le quali si schierano 5-6.000 uomini. Ma di fronte ad essi vi sono 20.000 soldati, in parte napoletani, in parte svizzeri, con diciotto cannoni: fra gli uni e gli altri, per il momento neutrali, stanno i 20.000 lazzaroni di Napoli.
Il 15 mattina gli svizzeri dichiarano ancora che essi non avrebbero attaccato il popolo. Ma in via Toledo un agente di polizia, che si è mescolato al popolo, spara sui soldati; quasi contemporaneamente il Forte di Sant'Elmo inalbera la bandiera rossa e, a questo segnale, i soldati attaccano le barricate. Ha inizio un'orribile carneficina; le Guardie nazionali sì difendono eroicamente contro forze quattro volte superiori e contro i cannoni dei soldati. Si combatte dalle dieci del mattino fino a mezzanotte; nonostante la grande preponderanza della soldatesca il popolo avrebbe vinto, se la condotta vergognosa dell'ammiraglio francese Baudin non avesse deciso i lazzaroni a unirsi al partito del re.
L'ammiraglio Baudin si trovava di fronte a Napoli con una squadra francese abbastanza forte. La semplice ma tempestiva minaccia di bombardare il Castello ed i forti avrebbe costretto Ferdinando a cedere. Ma Baudin, vecchio servitore di Luigi Filippo, abituato ai tempi dell'entente cordiale [2] in cui l'esistenza della flotta francese era appena tollerata, se ne restò tranquillo, e così decise i lazzaroni, che già stavano per abbracciare la causa popolare, a schierarsi a fianco delle truppe.
Con questo atto del sottoproletariato napoletano, la disfatta della rivoluzione era decisa. Guardie svizzere, soldati di linea napoletani e lazzaroni si gettarono tutti insieme sui combattenti delle barricate. I palazzi della via Toledo, spazzata dalla mitraglia, rovinavano sotto le cannonate dei soldati; la banda furibonda dei vincitori si riversa per le case, trafigge gli uomini, infilza i bambini, violenta ed assassina le donne, saccheggia tutto ed abbandona alle fiamme le abitazioni devastate. I lazzaroni si dimostrarono qui i più rapaci, gli svizzeri i più brutali. È impossibile descrivere le infamie e gli atti di barbarie che hanno accompagnato la vittoria dei mercenari borbonici, quattro volte più numerosi e meglio armati, e dei lazzaroni, che sono stati sempre sanfedisti, sulla Guardia nazionale di Napoli, che è stata quasi sterminata.
Alla fine, è stato troppo perfino per l'ammiraglio Baudin. Sempre nuovi fuggiaschi giungevano sulle sue navi, e raccontavano quel che accadeva in città. Il sangue francese dei suoi marinai ribolliva. E finalmente, quando la vittoria del re era già decisa, egli pensò al bombardamento. A poco a poco il macello cessò: non si assassinava più nelle strade, ci si accontentava di rapine e di stupri; ma i prigionieri venivano condotti nei forti e senz'altro fucilati. A mezzanotte tutto era finito, il potere assoluto di Ferdinando era, di fatto, ristabilito, e l'onore della casa di Borbone lavato nel sangue italiano.
Questa è la più recente prodezza della casa di Borbone. E, come sempre, proprio gli svizzeri decisero con le loro armi le sorti della lotta a favore dei Borboni e contro il popolo. Il 10 agosto 1792, il 29 luglio 1830, negli scontri di Napoli del 1820 [3] — dappertutto vediamo i nipoti di Tell e Winckelried nel ruolo di lanzichenecchi, di mercenari di una dinastia il cui nome è divenuto già da tempo in tutta Europa sinonimo di monarchia assoluta. Ora, s'intende, questo finirà presto. I cantoni più progressisti sono riusciti, dopo lunghe controversie, ad ottenere il divieto delle capitolazioni militari [4]; i figli gagliardi della libera, vecchia Svizzera non potranno più calpestare le donne napoletane, inebriarsi di rapine nelle città in rivolta e, in caso di sconfitta, non verranno immortalati con l'effige dei leoni di Thorvaldsen [5], come avvenne per i caduti del 10 agosto.
La casa di Borbone può per il momento tirare di nuovo il fiato. La reazione, ricominciata dal 24 febbraio, non ha avuto in nessun luogo una vittoria così decisiva come a Napoli; e appunto da Napoli e dalla Sicilia era partita la prima delle rivoluzioni di quest'anno. Ma il torrente rivoluzionario, che è dilagato sulla vecchia Europa, non si lascia arginare da complotti e colpi di Stato assolutisti. Con la controrivoluzione del 15 maggio, Ferdinando di Borbone ha posto la prima pietra della Repubblica italiana. Già la Calabria è in fiamme, un governo provvisorio è proclamato a Palermo; anche gli Abruzzi insorgeranno, gli abitanti di tutte le esauste province marceranno su Napoli e uniti al popolo della città, trarranno vendetta del regal traditore e dei suoi brutali lanzichenecchi. E se Ferdinando cadrà, egli avrà almeno la soddisfazione di aver vissuto e di esser caduto da vero Borbone.
[A cura di Ario Libert]
NOTE
[1] Luigi Filippo d'Orléans, di un ramo cadetto della casa di Borbone, è detto qui un “cripto-borbone”, in quanto ascese al trono dopo la rivoluzione del 1830, “re dei francesi” e sovrano Costituzionale.
[2] L'espressione “entente cordiale” (intesa cordiale) servì soprattutto a indicare le buone relazioni fra la Francia e l'Inghilterra negli anni della monarchia di Luglio (1830-1848). La base di questa “intesa cordiale” era la politica di concessioni continue verso l'Inghilterra esercita dalla borghesia finanziaria che dominava sotto Luigi Filippo. Questa politica suscitò dapprima una violenta opposizione da parte della borghesia industriale e commerciale francese, fu però continuata da essa stessa dopo la 5ivoluzione del 1848 per consolidare il suo dominio all'interno.
[3] 10 agosto 1792: giorno della caduta della monarchia in Francia, ad opera dell'insurrezione popolare. 29 luglio 1830: la vittoria del popolo di Parigi sulle truppe reali rovesciò la dinastia dei Borboni in Francia. 1820: rivoluzione di Napoli, capeggiata dai Carbonari. La rivoluzione fu schiacciata dall'intervento delle potenze della Santa Alleanza.
[4] Le capitolazioni militari erano contratti di arruolamento, stipulati dalla metà del XV alla metà del XIX secolo dai cantoni svizzeri con gli Stati europei ai quali essi fornivano mercenari. In varie rivoluzioni borghesi del XVIII e XIX secolo i mercenari svizzeri furono lo strumento della controrivoluzione monarchica.
[5] La scultura menzionata dello scultore danese Thorwaldsen, che rappresenta un leone morente, fu eretta a Lucerna in memoria dei mercenari svizzeri caduti il 10 agosto 1792 mentre difendevano il palazzo reale di Parigi contro l'attacco del popolo.