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20 febbraio 2018 2 20 /02 /febbraio /2018 06:00

Karl Marx e l'autogestione

Yvon Bourdet

 

Ciò non vuol dir affatto che basta secondo loro aspettare, come abbiamo già detto e come la polemica di Marx contro Bakunin l'ha dimostrato. Non si tratta qui di trattare a fondo la comparazione tra marxismo e anarchismo [22], ma soltanto nella prospettiva della presente messa a punto. Ciò che ci interessa, infatti, è di precisare come Marx concepisce la società, una volta spezzata l'oppressione capitalista, e con quali mezzi si può accelerare questa liberazione. Ora, le note scritte nel 1874 da Marx, in margine al libro di Bakunin Stato e Anarchia, sono, a questo riguardo, molto chiarificatrici [23]. A partire da queste note, si può restituire il seguente dialogo (senza cambiare una parola, naturalmente, al testo dell'uno e dell'altro):

 

Bakunin. – “I Tedeschi sono circa 40 milioni. Tutti i 40 milioni, ad esempio, saranno membri del governo?”.

Marx. – “Certainly! Perché la cosa inizia con il self-governement della comune”.

Bakunin. – “Allora, non vi sarà nessun governo, nessun Stato, ma, se vi è uno Stato, vi saranno dei governi e degli schiavi (…). Questo dilemma nella teoria marxista si risolve facilmente. Con governo del popolo essi (i marxisti – no! interrompe Marx, è Bakunin che lo pretende) intendono il governo del popolo con l'aiuto di un piccolo numero di dirigenti eletti dal popolo”.

Marx. - “Asino! Si tratta di sproloquio democratico, di chiacchiera politica! L'elezione è una forma politica (…) che dipende (…) dai rapporti economici tra gli elettori; non appena le funzioni hanno cessato di essere politiche: 1. - non esiste più funzione governativa; 2 – la ripartizione delle funzioni generali è diventata una cosa di mestiere e non conferisce nessun potere; 3 – l'elezione non ha nulla del carattere politico attuale.”.

Bakunin. – “Il suffragio universale di tutto il popolo. …”.

Marx. – “Tutto il popolo nel senso attuale della parola è una pura chimera”.

Bakunin. – “La nozione di «rappresentanti del popolo» costituisce «una menzogna sotto la quale si nasconde il dispotismo della minoranza governate (sottolineato da Bakunin) tanto più pericolosa quanto più appare come l'espressione della sedicente volontà del popolo»”.

Marx. – “Sotto la proprietà collettiva, la sedicente volontà del popolo fa posto alla volontà reale del cooperativo”.

 

Come si vede, da questo dialogo, che trattandosi dei fini ultimi, Bakunin fa una cattiva polemica a Marx; quest'ultimo ammette molto bene che l'organizzazione sociale attraverso tecniche di autogestione (cooperative) rileva di un mestiere ma non conferisce alcun potere. Si deve tuttavia riconoscere a Bakunin una visione profetica, perché malgrado le negazioni di Marx, i marxisti-leninisti hanno, - attraverso il centralismo democratico – realizzato esattamente le funeste predizioni di Bakunin: “dispotismo di una minoranza tanto più pericolosa quanto più appare come l'espressione della sedicente volontà del popolo”.

D'altra parte, Marx resta indirettamente la causa della deformazione bolscevica attraverso la sua teoria della fase di transizione. Se, infatti, ciò a cui si deve mirare è l'autogoverno della società nel suo insieme e se con questo fatto, come scrive Marx nella stessa nota su Bakunin: “lo Stato popolare di Liebknecht (…) è un'inezia”, rimane il fatto che il proletariato secondo Marx, “durante il periodo della lotta per il rovesciamento della vecchia società, agisce ancora sulla base di questa vecchia società e, di conseguenza (...) durante questo periodo di lotta, impiega per la sua liberazione dei mezzi che spariranno dopo questa liberazione”. Sono questi mezzi – imposti dalla società di classe e che si pretendono provvisori – che Bakunin rifiuta prudentemente, perché con il pretesto di liberare il proletariato dal dominio borghese, si istituisce un nuovo dominio politico, in senso peggiore del precedente. Allora che fare? Secondo Marx, ecco la risposta di Bakunin: “Da qui, il signor Bakunin conclude che deve piuttosto non fare assolutamente nulla..., che deve aspettare il giorno della liquidazione universale (sottolineato da Marx), il giudizio universale”.

 

Come si vede, da questo dialogo, che trattandosi dei fini ultimi, Bakunin fa una cattiva polemica a Marx; quest'ultimo ammette molto bene che l'organizzazione sociale attraverso tecniche di autogestione (cooperative) rileva di un mestiere ma non conferisce alcun potere. Si deve tuttavia riconoscere a Bakunin una visione profetica, perché malgrado le negazioni di Marx, i marxisti-leninisti hanno, - attraverso il centralismo democratico – realizzato esattamente le funeste predizioni di Bakunin: “dispotismo di una minoranza tanto più pericolosa quanto più appare come l'espressione della sedicente volontà del popolo”.

D'altra parte, Marx resta indirettamente la causa della deformazione bolscevica attraverso la sua teoria della fase di transizione. Se, infatti, ciò a cui si deve mirare è l'autogoverno della società nel suo insieme e se con questo fatto, come scrive Marx nella stessa nota su Bakunin: “lo Stato popolare di Liebknecht (…) è un'inezia”, rimane il fatto che il proletariato secondo Marx, “durante il periodo della lotta per il rovesciamento della vecchia società, agisce ancora sulla base di questa vecchia società e, di conseguenza (...) durante questo periodo di lotta, impiega per la sua liberazione dei mezzi che spariranno dopo questa liberazione”. Sono questi mezzi – imposti dalla società di classe e che si pretendono provvisori – che Bakunin rifiuta prudentemente, perché con il pretesto di liberare il proletariato dal dominio borghese, si istituisce un nuovo dominio politico, in senso peggiore del precedente. Allora che fare? Secondo Marx, ecco la risposta di Bakunin: “Da qui, il signor Bakunin conclude che deve piuttosto non fare assolutamente nulla..., che deve aspettare il giorno della liquidazione universale (sottolineato da Marx), il giudizio universale”.

Va da sé che Bakunin, a sua volta, griderebbe allo scandalo davanti a questa deduzione di Marx [24].

 

[Continua]

 

[Traduzione di Ario Libert]

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10 febbraio 2018 6 10 /02 /febbraio /2018 06:00

Dall'autogestione alla burocrazia sovietica, 1917-1921

Daniel Guérin

 

Testo dell'intervento di Daniel Guérin durante il colloquio "De Kronstadt à Gdansk", organizzato nel novembre 1981 e pubblicato in: A la recherche d’un communisme libertaire.

 

Dopo la rivoluzione di Febbraio 1917, gli operai s'impadroniscono delle fabbriche e si organizzano in comitati o consigli. Essi prendono così alla sprovvista i professionisti della rivoluzione. Per ammissione dello stesso Lenin, le masse operaie e contadine sono allora "cento volte più a sinistra" dei bolscevichi.

Tuttavia il partito bolscevico, benché ancora minoritario, è la principale forza politica rivoluzionaria organizzata. Guarda con sospetto le diverse strutture che gli fanno ombra. La tendenza alla socializzazione è dapprima canalizzata dal controllo operaio. Il decreto del 14 novembre 1917 legalizza la partecipazione dei lavoratori nella gestione delle imprese, nel calcolo del prezzo di ricavo, abolisce il segreto commerciale, obbliga i padroni a esibire la loro corrispondenza e i loro conti. I leader della rivoluzione non vogliono andare oltre. Nell'aprile del 1918, prendono in considerazione ancora la costruzione di società miste per azioni, alle quali parteciperebbe, insieme allo Stato sovietico, il capitale russo e straniero.

Tuttavia, sin dalla primavera del 1917, la classe operaia, organizzata nelle sue proprie istituzioni, i comitati di fabbrica, ha affermato concretamente la sua volontà di superare queste misure transitorie e opposte spesso di fatto al controllo operaio dei bolscevichi la sua propria visione dei compiti del momento: la gestione operaia.

Soltanto gli anarchici avanzavano allora delle parole d'ordine di occupazione delle terre e delle fabbriche, di espropriazione della borghesia e di soppressione della proprietà privata.

Il 20 ottobre 1917, alla alla prima Conferenza panrussa dei comitati di fabbrica, una mozione richiede "il controllo della produzione", precisando: "Le commissioni non devono essere soltanto  delle commissioni di verifica ma [...] le cellule del futuro che, sin da ora, preparano il trasferimento della produzione nelle mani degli operai". In quanto ai capitalisti, essi oppongono la più viva resistenza all'applicazione del decreto sul controllo operaio e continuano  a rifiutare l'ingerenza dei lavoratori nella produzione. Gli operai rispondono a questo boicottaggio impadronendosi della fabbrica e rimettendola in funzione per loro proprio conto. Molto presto il controllo operaio deve cedere il posto alla socializzazione.

Per molti mesi dopo la rivoluzione questo movimento, già impegnato prima di ottobre, va amplificandosi. I lavoratori assumono un ruolo crescente nell'insieme dei problemi di gestione di numerose imprese. In molte di loro, dopo la fuga dei vecchi proprietari o la loro espropriazione, essi sono oramai i soli padroni.

Questo movimento spontaneo della classe operaia è all'opposto dell'ideologia tradizionale di Lenin e del Partito bolscevico. Da lunga data, dopo il Che fare? del 1902, sono degli autoritari, appassionati dalle nozioni di Stato, di dittatore, di centralizzazione, di partito dirigente, di gestione dell'economia dall'alto, tutte cose in contraddizione con una concezione libertaria della democrazia sovietica.

Nell'opuscolo Stato e Rivoluzione, redatto e non terminato alla vigilia dell'insurrezione d'Ottobre, Lenin prende come modello il capitalismo di Stato tedesco, l'economia di guerra (Kriegswirtschaft). Egli esalta il monopolio delle Poste: "Che meccanismo ammirabilmente perfezionato! Tutta la vita economica organizzata come la Posta [...] ecco lo Stato, ecco la base economica che ci occorre". Fare a meno di "autorità" e di "subordinazione", sono questi, egli afferma seccamente, dei "sogni anarchici". Tutti i cittadini diventano "gli impiegati e operai di un solo trust universale di Stato", tutta la società p convertita in "un grande ufficio e una grande fabbrica".

Soltanto, dunque, delle considerazioni d'ordine tattico hanno spinto nel 1917 i bolscevichi a sostenere delle pratiche che, come quelle dei comitati di fabbrica, andavano contro le loro convinzioni più profonde. Ma si metteranno contro di loro una volta al potere.

La contraddizione tra il linguaggio formalmente libertario e i tratti autoritari del pensiero leninista è così flagrante che si tradurrà ben presto nei fatti. E' accelerata dalla disorganizzazione dei trasporti, la penuria di tecnici e, soprattutto, dalle terribili circostanze della guerra civile, dall'intervento straniero. I dirigenti bolscevichi sono spinti ad assumere delle misure eccezionali, la dittatura, la centralizzazione, il ricorso al "pugno di ferro".

Il potere alla base non durerà di fatto che per qualche mese, dall'ottobre 1917 alla primavera del 1918. Molto presto, i comitati di fabbrica sono spogliati delle loro attribuzioni.

Così, il decreto del 14 novembre 1917, già citato, dopo aver precisato i poteri dei comitati di fabbrica, si affretta di definire i limiti - ristretti -  della loro autonomia. Il controllo operaio "instaurato nell'interesse di una regolamentazione pianificata dell'economia nazionale" (articolo 1) è organizzato su un modello piramidale e gerarchizzato, i comitati di fabbrica sottoposto allo stretto controllo di un "consiglio generale di controllo operaio", la cui composizione è decisa dal partito.

Nei fatti, le intenzioni dei bolscevichi sono chiare: si tratta per essi di integrare i comitati di fabbrica nell'insieme delle organizzazioni statali, nella loro propria logica di un'economia centralizzata e, di fatto, burocratizzata.

Due concezioni del controllo operaio si oppongono allora: quella dei bolscevichi che pensano a un controllo esercitato dallo Stato, e quello dei comitati di fabbrica che esigono che il controllo sia esercitato dagli stessi operai, e che affermano così la loro volontà autogestionaria.

Il movimento dei comitati di fabbrica è diventato fastidioso. Esso è rapidamente soffocato dai bolscevichi che l'annettono ai sindacati aspettando di sottoporre i sindacati stessi.

Il pretesto invocato è che l'autogestione non terrebbe conto dei bisogni "razionali" dell'economia, che genererebbe un egoismo di impresa che si farebbero l'un l'altra concorrenza, contendendosi magre risorse, volendo ad ogni costo sopravvivere, benché altre fabbriche siano più importanti "per lo Stato" e meglio equipaggiate.

Di fatto i bolscevichi si oppongono a ogni tentativo fatto da parte dei comitati di fabbrica per formare la loro propria organizzazione nazionale, giungendo perfino a vietare, usando i sindacati, che essi già controllavano, la tenuta di un congresso panrussa dei comitati. Questa è l'ipocrisia di un partito che, da una parte, rimprovera ai comitati di fabbrica la loro visione cosiddetta localistica e che dall'altra, vieta loro di federarsi per dedicarsi proprio ai problemi dell'economia su una scala regionale e nazionale.

Ma la centralizzazione non è che un aspetto della concezione bolscevica dell'economia di transizione.  Lenin non tarda a porre in rilievo le sue preferenze per la "volontà di uno solo" nella gestione delle fabbriche. I lavoratori devono obbedire "incondizionatamente" alla volontà unica dei dirigenti del processo del lavoro. Allo stesso tempo preconizza l'introduzione del taylorismo e del salario a cottimo nelle fabbriche sovietiche.

Con il nome di "specialisti", vecchi membri delle classi sfruttatrici sono reintegrati all'interno delle imprese nelle loro funzioni e loro privilegi.

Si è molto discorso su queste decisioni: per molti, il ricorso agli specialisti borghesi era necessario alla ricostruzione dell'economia. Conviene qui ricordare che il "Manuale pratico per l'esecuzione del controllo operaio nell'industria" una specie di manifesto dei comitati di fabbrica di Pietrogrado, menzionava la possibilità di una partecipazione dei tecnici alle istanze di controllo, con voce consultiva.Ciò che gli operai contestano dunque, non è la presenza di questi specialisti, né l'utilità di alcune loro competenze, ma bensì il ristabilimento delle loro posizioni gerarchiche e dei loro privilegi, soprattutto salariali.

Per di più l'amministrazione è invasa da numerosi elementi piccolo-borghesi, residui dell'antico capitalismo russo, che essendosi adattati velocemente alle istituzioni sovietiche, si sono fatte attribuire dei posti di responsabile nei diversi commissariati in attesa che sia loro affidata la gestione economica.

Si assiste alla crescente immissione della burocrazia di Stato nell'economia. Il Congresso panrusso dei consigli dell'economia (26 maggio - 4 giugno 1918) decide la formazione di direzione d'impresa di cui i due terzi dei membri sono nominati dai consigli regionali o il Consiglio superiore dell'economia e il terzo terzo eletto soltanto sul posto dagli operai. Il decreto del 28 maggio 1918 estende la collettivizzazione all'insieme dell'industria, ma, allo stesso tempo, trasforma le socializzazioni spontanee dei primi mesi della rivoluzione in semplici nazionalizzazioni. E' il Consiglio superiore dell'economia che è incaricato di organizzare l'amministrazione delle imprese nazionalizzate. I direttori e quadri tecnici rimangono in funzione in quanto incaricati dallo Stato.

Per la facciata, delle elezioni ai comitati di fabbrica continuano ad aver luogo, ma un membro della cellula comunista dà lettura di una lista di candidati elaborata in anticipo e si procede al voto per alzata di mano, in presenza delle "guardie comuniste", armate, dell'impresa. Chiunque si dichiara contro i candidati proposti si vede infliggere delle sanzioni pecuniarie (declassamento di salario, ecc.). I rapporti tra gli operai e questo nuovo padrone ridivengono quelli esistiti un tempo tra il lavoro e il capitale.

"Volete diventare le cellule statali di base", dichiara Lenin il 27 giugno 1918, al Congresso dei comitati di fabbrica. Quest'ultimi non hanno più che l'ombra di un potere. Oramai il "controllo operaio" è esercitato da un organismo burocratico: l'ispezione operaia e contadina.

La classe operaia non reagisce né abbastanza velocemente, né abbastanza vigorosamente. Essa è dispersa, isolata in un immenso paese arretrato e in gran parte rurale, esaurito dalle privazioni e le lotte rivoluzionarie, più ancora, demoralizzata. I suoi migliori elementi l'hanno abbandonata per i fronti della guerra civile o sono stati assorbiti dall'apparato di partito o del governo. Tuttavia, abbastanza numerosi sono i lavoratori che si sentono frustrati dalle loro conquiste rivoluzionarie, privati dei loro diritti, posti sotto tutela, umiliati dall'ignoranza o l'arbitrio dei nuovi padroni, e che cominciano a prendere coscienza, della vera natura del preteso "Stato proletario".

 

[Traduzione di Ario Libert]

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12 gennaio 2018 5 12 /01 /gennaio /2018 06:00

Daniel Guérin

Ritratto di un comunista libertario

Nel 1937, in seguito all'appello alla solidarietà della Spagna rivoluzionaria, Daniel Guérin è scandalizzato dalla politica del non intervento del governo Blum.

Con alcuni compagni raccolti attorno a Maurice Jacquier, porta con tutte le sue forze, un sostegno politico e materiale alla CNT, alla FAI e al POUM, opponendosi al contempo alle sinistre manovre degli sbirri di Stalin.

Nel 1939, Daniel Guérin è incaricato di creare, a Oslo in Norvegia, un segretariato internazionale del Fronte operaio internazionale contro la guerra, che riunisce tutte le correnti di sinistra che si oppongono attraverso l'internazionalismo proletario alla guerra interimperialista.

Arrestato dai Tedeschi nell'aprile del 1940, diventa un internato civile. Gravemente ammalato, verrà liberato nel 1942.

Dal 1943 al 1945, Daniel Guérin coopera, in Francia, con il movimento trotskista nella clandestinità, cercando di mantenere una posizione internazionalista nei confronti dello sciovinismo esistente, moltiplicando gli appelli ai lavoratori tedeschi sin nei ranghi dell'esercito d'occupazione (attività militante tra le più pericolose tanto più che i libri di Daniel Guérin sul fascismo fanno parte della famosa lista Otto).

Nel 1946, Daniel Guérin si stabilisce negli Stati Uniti dove è attivo nel movimento operaio e dei Neri americani.

Ne è espulso nel 1949, nel quadro della caccia alle streghe del maccartismo, e rientra in Francia. Studia le opere complete di Bakunin quando, nel 1956, scoppia la rivolta dei Consigli operai ungheresi contro il capitalismo di Stato e il dominio dell'URSS.


La congiunzione di questi due fatti lo rende per sempre allergico a ogni socialismo autoritario, sia esso giacobino, marxista, leninista o trotskista.

Daniel Guérin si impegna a smontare l'idolo Lenin per la cui strategia aveva provato, sino ad allora, una grande ammirazione. Ne critica i concetti militari, denuncia la nozione artefatta di dittatura del proletariato preferendole quella di costrizione rivoluzionaria. Riscopre l'apporto di Rosa Luxemburg nella sua lotta contro l'ultracentralismo e il sostitutismo leninisti, giungendo ad intravedere delle passerelle con la spontaneità rivoluzionaria cara ai libertari.

Questa procedura lo porta a scrivere, nel 1965, il suo testo L'Anarchismo e la sua colossale Antologia dell'anarchismo: Né Dio né Padroni, la qual cosa produce rapidamente un qui pro quo nei nostri ambienti: Daniel Guérin non è ancora un anarchico nel senso strettamente ideologico, anche se, sul piano personale, dà prova di uno spirito libertario senza tabù.

Con questi testi, vuole far conoscere tutto l'apporto originale della corrente anarchica e d'altronde vi riesce, perché il libricino della collana "Idées" fu la prima lettura di numerosi libertari di oggi. Ma, il suo scopo è, innanzitutto, di riformare l'insieme del movimento rivoluzionario (ciò che egli considera tale), di liberarlo dalle vie autoritarie, giacobine, marxiste-leniniste, senza tuttavia farlo vacillare nell'ideologia socialdemocratica addirittura, oggi, liberale borghese,  nella quale galleggiano tanti ex militanti degli anni 70.

Per anni, Daniel Guérin si impegna integralmente nel sostegno ai militanti algerini.

Partecipa al Comitato Francia-Maghreb, firma il Manifesto dei 121 contro la tortura e per la renitenza (1960) e non accetta mai le lotte fratricide tra FLN e NMA. Si impegna come internazionalista come parte coinvolta nella lotta e non come portatore di valigie al servizio di un movimento.

Il 1962 lo vede per un periodo nello PSU, da cui si allontana, trovandolo troppo socialdemocratico. Più tardi, non esisterà a denunciare, sempre senza tabù, le tendenze socialdemocratiche (e autoritarie) di Marx.

Affermerà anche la sua ammirazione per l'apporto filosofico degli anarchici individualisti come Émile Armand o Zo d'Axa nella loro contestazione concreta dei valori morali dell'epoca. Daniel Guérin fu, anche, un fine conoscitore dell'opera di Proudhon.

Maggio 68, questo secondo orgasmo della storia che egli ha la fortuna di vivere dopo il Fronte popolare, lo getta nella mischia. Lo vediamo, a 64 anni alla Sorbona, a fianco dei libertari della rivista Noir et Rouge e del Movimento del 22 Marzo.

Nel 1969, è co-fondatore del Movimento comunista libertario (che raggruppa degli elementi provenienti dalla FCL, dalla JAC) e chiarisce le sue posizioni in un testo di cui riconoscerà l'ambiguità del titolo, Pour un marxisme libertaire [Per un marxismo libertario].

La fusione (di cui è uno degli artefici della piattaforma) fallita, nel 1971, tra l'Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica e il Movimento comunista libertario lo scoraggia. Parteciperà successivamente all'OCL, all'ORA (da cui si allontana durante il periodo autonomo) per raggiungere nel 1980, attraverso operaismo, l'UTCL nella quale milita sino alla sua morte.

Durante questi anni, Daniel Guérin è totalmente impegnato nel Comitato per la verità nell'affare Ben Barka, nel Comitato Vietnam nazionale, nel Comitato di lotta antimilitarista, partecipando anche alla commissione Diritti e libertà nell'istituzione militare della Lega dei diritti dell'uomo, intorno a Noguères e anche di "ufficiali progressisti" (pensando che le posizioni di obiezione, di renitenza e le attività di comitati di soldati sono delle lotte complementari e non contraddittorie).

Dopo la catastrofe del tunnel di Chèzy (8 morti), partecipa attivamente al Raggruppamento nazionale per la verità sugli incidenti nell'esercito.

Sin dalla sua fondazione, partecipa attivamente alle attività del Fronte omosessuale d'azione rivoluzionaria. Il suo anticolonialismo di sempre lo spinge a fianco degli antillesi, dei polinesiani (sostenendo il suo vecchio amico Pouva'ana detenuto così a lungo nella metropoli), dei Canachi...

Daniel Guérin si lancia nella guerra civile degli storici che vuole snaturare la Rivoluzione francese, scrivendo alcuni mesi prima della sua morte, che è un dovere imperativo far fronte davanti alla montata dei contro-rivoluzionari che preferiscono i vandeani e i chouan ai sanculotti, al branco che si è gettato quest'ultimi anni sulla "Grande rivoluzione" per lacerarla a pieni denti, calunniarla, sporcarla.

Daniel Guérin non è mai stato un militante anarchico in senso stretto, ma gli anarchici gli devono molto in quanto alla diffusione delle loro idee. Se ha attaccato un certo vecchio anarchismo fossilizzato di una certa epoca (così come d'altronde il marxismo autoritario degenerato), ha sempre voluto che il meglio dell'anarchismo possa pesare nel movimento rivoluzionario per contrastare le derive autoritarie.

Non concepiva il comunismo libertario (o anarchismo-comunismo, termine che accettava egualmente) come un dogma, ma come una tendenza, una ricerca senza sosta incompiuta, persuaso com'era della rivoluzione sociale futura, allo stesso tempo necessaria e desiderata, non sarebbe né dispotismo moscovita né clorosi socialdemocratica, che essa non sarà autoritaria, ma libertaria e autogestita, o se lo si preferisce consiliarista.

Daniel, dando il tuo corpo alla scienza, non permetti che il tuo ricordo sprofondi nel rituale comune delle tombe a fiorire.

Ci obblighi a celebrare la tua memoria attraverso le nostre lotte di emancipazione. Te ne siamo grati.

Saluti e fraternità!

 

[Traduzione di Ario Libert]

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10 gennaio 2018 3 10 /01 /gennaio /2018 06:00

Karl Marx e l'autogestione

 

Yvon Bourdet

 

Prima parte di un articolo uscito su "Autogestion et socialisme" (n° 15, marzo 1971), e ripreso come paragrafo in Pour l'autogestion, (Anthropos, 1974).

 

La parola autogestione è di uso corrente che da una decina di anni e sembrerebbe anacronistica associarla al nome di Marx [1]. Tuttavia – per coloro che lo ignorassero non vadano ad immaginare che stiamo per dedicarci a non so quale esercizio di scolastica di accostamento artificiale del genere: “Cosa ne penserebbe oggi Platone della televisione?” - precisiamo subito che se Marx non impiega la parola autogestione si interessa (lo proveremo con numerosi testi) a ciò che la parola designa e che si chiamavano allora “le cooperative di produzione”.

Certo, il fatto che questo termine “autogestione” non sia comparso che recentemente non manca di significato. Esso testimonia, sicuramente da una parte, l'ignoranza del passato e possiamo capire che alcuni anarchici, fourrieristi o proudhoniani, ad esempio, si irritino per il fatto che molti “consiliaristi” o “autogestionari” credono di aver trovato qualcosa di nuovo con una nuova parola. Non resta tuttavia meno, in compenso che il bisogno di una nuova terminologia segna almeno l'esigenza di una delimitazione con le dottrine esistenti. Anche se, ora, la maggior parte degli anarchici si mostrano interessati all'azione di massa e dei mezzi economici di transizione per molti, a torto o a ragione, il termine anarchismo evoca soprattutto la volontà di distruggere i poteri esistenti piuttosto che l'esigenza di costruire, a livello nazionale o internazionale, un'organizzazione di nuovo tipo. Sul piano politico, la loro azione appare soprattutto negativa e i loro tentativi di realizzazioni positive sembrano limitarsi alla concentrazione libera di piccoli gruppi che cercano di realizzare in modo marginale, “un aumento immediato del godimento”. Non si tratta qui, tuttavia, sempre, della ricerca di una salvezza egoista; essi credono di essere il fermento o i “detonatori” della rivoluzione universale; ma la loro procedura, fosse anche “esemplare”, resta l'attività di alcuni pionieri.

Il termine autogestione, al contrario, sembra designare un'organizzazione più ampia, più tecnica e che, in tutti i casi, è legata più alla produzione che al godimento. Così, la rivendicazione dell'autogestione sembra più vicina al progetto dei marxisti benché tra di loro si scavi, agli occhi di quasi tutti, un abisso quasi infinito, perché di solito con “autogestione” si intende la concertazione delle autonomie, e con “marxismo” il sin troppo famoso centralismo democratico di Lenin che le sue anomalie, da più di cinquant'anni, non pongono in alcun modo in questione poiché tutti i vizi del sistema sono infaticabilmente spiegati con i pretesi difetti della personalità dei dirigenti. Anche coloro che accettano di dissociare il marxismo dallo stalinismo, dal leninismo o dal trotskysmo non insistono non di meno a ritenere che gli appelli che Marx fa ai “violenti parti della storia” e alla “dittatura del proletariato” sono incomprensibili con i metodi e gli scopi dei sostenitori dell'autogestione.

Per vederci chiaro, è dunque necessario liberare i testi di Marx dallo spesso strato accumulato non tanto dalle glosse dei teorici quanto dalle “ricadute” - per mezzo secolo – della prassi dei partiti comunisti che pretendono di incarnare la teoria di Marx. Quanto ci riproponiamo è dunque, come per altri, una rilettura, ma non per proiettare, tra le righe, ciò che Marx non ha scritto. È al contrario, per dare o ridare a vedere i testi dimenticati, trascurati, respinti o semplicemente mai letti.

 

I. I mezzi della rivoluzione secondo Marx

 

L'opera di Marx è una critica della società capitalista e la sua vita una lotta per affrettare l'ora dell'espropriazione degli espropriatori. Tuttavia, per molti il passaggio dalla teoria all'azione politica costituisce un problema. Nel capitolo XXII del libro primo di Il Capitale, si può leggere: “La produzione capitalista genera la sua propria negazione con la fatalità che presiede alle metamorfosi della natura” [2]. Con ciò, d'altronde non faceva che riprendere la conclusione della prima parte di Il manifesto del partito comunista che dava per “inevitabile l'eliminazione della borghesia e il trionfo del proletariato” [3]. Da quel momento il “Che fare?” sembra sprovvisto di senso come è stato spesso notato: “i marxisti che annunciano l'avvento ineluttabile del regime postcapitalista fanno pensare a un partito che lotterebbe per provocare un eclissi di luna” [4]. Allo stesso modo Lenin metteva in bocca ai populisti degli anni 1894-1895 questa riflessione: “Se i marxisti considerano il capitalismo in Russia come un fenomeno inevitabile (…), Si deve far loro aprire un negozio di alcolici…” [5]. Questa “obiezione” non era sfuggita a Marx che l'aveva egli stesso introdotta ad esempio di bufala [6] in una bozza di articolo su Il Capitale che Engels doveva incaricarsi di far pubblicare, sotto un nome fittizio, in un giornale diretto da Karl Mayer: “Quando egli (Marx) dimostra che l'attuale società (…) porta in sé i germi di una nuova forma sociale superiore, non fa che mostrare sul piano sociale lo stesso processo di trasformazione che Darwin ha stabilito nelle scienze della natura (…). L'autore ha, con lo stesso colpo, (…) forse malgrado lui (sottolineato da Marx) suonato la campana a morto di tutto il socialismo professionale...” [7]. La “confutazione” di questa “obiezione” si trovava già nella prefazione di Il Capitale quando Marx spiegava che una società che è giunta “a scoprire la pista della legge naturale che presiede al suo movimento (sottolineato da Marx) (…) non può né superare con un salto né abolire con dei decreti le fasi del suo sviluppo naturale, ma può abbreviare il periodo della gestazione e attenuare i dolori delle loro doglie” [8]. Troviamo qui il celebre tema della violenza concepita come la “levatrice di ogni vecchia società al lavoro” [9], o, come la vulgata della violenza levatrice della storia. Di fatto, precisa Marx, “la forza è un agente economico”. Equivale dunque ad appiattire “il marxismo” ridurlo sia a un'azione politica che ignorasse le fasi dello sviluppo naturale, sia all'economicismo beato del laisser-faire. Certo la forza non può “far girare alla rovescia la ruota della storia” [10], ma i comunisti non dichiarano meno “apertamente che non possono raggiungere i loro obiettivi che distruggendo con la violenza il vecchio ordine sociale” [11]. Ritroviamo così la famosa e controversa questione della “dittatura del proletariato”. Sappiamo che Kautsky, per criticare i bolscevichi, affermò che Marx non aveva mai, per così dire, preconizzato una tale dittatura, che si trattava qui di una battuta, scritta, “di sfuggita” in una lettera [12].

Di fatto, Marx ha parlato diverse volte del ruolo e della necessità di una tale dittatura [13], ma il semplice esame critico e contabilità dei testi non serve a gran cosa se non ci si intende sul senso, in Marx, della parola “dittatura”. In una nota del 20 ottobre 1920, Lenin caratterizza la dittatura come un potere che non riconosce “nessun altro potere, nessuna legge, nessuna norma, da qualunque parte essi provengano (…) il potere illimitato, extralegale, che si appoggia sulla forza, nel senso più stretto della parola, è questa la dittatura” [14]. Ed è una bella dittatura che deve esercitare il proletariato, che esso sia minoritario o maggioritario nella nazione. Max Adler, al contrario distingue accuratamente tra “dittatura maggioritaria” e “dittatura minoritaria” [15]: quando una minoranza opprime una maggioranza, si è in presenza del dispotismo che Marx ha sempre combattuto, in tutte le sue forme; se Marx preconizza la dittatura del proletariato è perché essa non può essere altra cosa che la forza della maggioranza: “Tutti i movimenti del passato sono stati opera delle minoranze o sono andati a vantaggio delle minoranze. Il movimento proletario è il movimento autonomo dell'immensa maggioranza nell'interesse dell'immensa maggioranza” [16]. Per Marx, la rivoluzione proletaria sarà l'ultima possibile; infatti, quando il proletariato, classe universale, avrà preso il potere, non vi saranno presto più nessuna classe e di conseguenza nessuna lotta tra di esse: “La vecchia società borghese, con le sue classi e i suoi conflitti, lascia il posto a un'associazione in cui la libera espressione di ognuno è la condizione della libera espressione di tutti” [17]. Facciamo notare di sfuggita che Marx dà così la definizione esatta di una società autogestita. In quanto alle vie e mezzi per il passaggio a questo dominio immensamente maggioritario del proletariato, essi saranno vari a secondo delle circostanze; la violenza, come abbiamo visto, sarà spesso necessaria ma non sempre; nel suo discorso dell'8 settembre 1872 agli operai di Amsterdam, Marx dichiarò che “l'America e l'Inghilterra (potevano) giungere al socialismo attraverso mezzi pacifici” [18]. Nella prefazione all'edizione inglese di Il capitale, nel 1886, Engels assicura che non fu questa una dichiarazione di circostanza, e che Marx aveva espresso il suo vero pensiero. D'altronde, Engels scrisse egli stesso, un po' più tardi nel 1991, che “si può concepire che la vecchia società potrà evolvere pacificamente verso la nuova nei paesi in cui la rappresentazione popolare concentra in essa tutti i poteri” e anche più esplicitamente, che “la repubblica democratica (…) è la forma specifica della dittatura del proletariato” [19]). Precisando il suo pensiero, nella Introduzione, scritta nel 1895, a Le lotte di classe in Francia, Engels affermava che l'uso illegale della forza armata non era più un buon mezzo per il proletariato di impadronirsi del potere e che anche “la borghesia e il governo” erano un po' giunti “ad aver più paura dell'azione legale che dell'azione illegale del partito operaio” [20].

Dicendo ciò, Engels aveva indubbiamente dato troppa importanza alla celebre dichiarazione di Odilon Barrot: "La legalità ci uccide!" e all'esperimento della Comune di Parigi che era terminata con una catastrofica carneficina del proletariato. Il suo punto di vista fu in seguito generalmente abbastanza contestato dai marxisti [21].

Sia quel che sia, resta dalla lettura di tutti questi testi che Marx e Engels non hanno sempre avuto la stessa teoria per quel che riguarda i mezzi di passaggio al socialismo e meglio ancora che essi avevano sostenuto esplicitamente che ci si doveva adattare alle circostanze.

Ciò non vuol dir affatto che basta secondo loro aspettare, come abbiamo già detto e come la polemica di Marx contro Bakunin l'ha dimostrato. Non si tratta qui di trattare a fondo la comparazione tra marxismo e anarchismo [22], ma soltanto nella prospettiva della presente messa a punto. Ciò che ci interessa, infatti, è di precisare come Marx concepisce la società, una volta spezzata l'oppressione capitalista, e con quali mezzi si può accelerare questa liberazione. Ora, le note scritte nel 1874 da Marx, in margine al libro di Bakunin Stato e Anarchia, sono, a questo riguardo, molto chiarificatrici [23]. A partire da queste note, si può restituire il seguente dialogo (senza cambiare una parola, naturalmente, al testo dell'uno e dell'altro):

 

Bakunin. – “I Tedeschi sono circa 40 milioni. Tutti i 40 milioni, ad esempio, saranno membri del governo?”.

Marx. – “Certainly! Perché la cosa inizia con il self-governement della comune”.

Bakunin. – “Allora, non vi sarà nessun governo, nessun Stato, ma, se vi è uno Stato, vi saranno dei governi e degli schiavi (…). Questo dilemma nella teoria marxista si risolve facilmente. Con governo del popolo essi (i marxisti – no! interrompe Marx, è Bakunin che lo pretende) intendono il governo del popolo con l'aiuto di un piccolo numero di dirigenti eletti dal popolo”.

Marx. - “Asino! Si tratta di sproloquio democratico, di chiacchiera politica! L'elezione è una forma politica (…) che dipende (…) dai rapporti economici tra gli elettori; non appena le funzioni hanno cessato di essere politiche: 1. - non esiste più funzione governativa; 2 – la ripartizione delle funzioni generali è diventata una cosa di mestiere e non conferisce nessun potere; 3 – l'elezione non ha nulla del carattere politico attuale.”.

Bakunin. – “Il suffragio universale di tutto il popolo. …”.

Marx. – “Tutto il popolo nel senso attuale della parola è una pura chimera”.

Bakunin. – “La nozione di «rappresentanti del popolo» costituisce «una menzogna sotto la quale si nasconde il dispotismo della minoranza governate (sottolineato da Bakunin) tanto più pericolosa quanto più appare come l'espressione della sedicente volontà del popolo»”.

Marx. – “Sotto la proprietà collettiva, la sedicente volontà del popolo fa posto alla volontà reale del cooperativo”.

 

Come si vede, da questo dialogo, che trattandosi dei fini ultimi, Bakunin fa una cattiva polemica a Marx; quest'ultimo ammette molto bene che l'organizzazione sociale attraverso tecniche di autogestione (cooperative) rileva di un mestiere ma non conferisce alcun potere. Si deve tuttavia riconoscere a Bakunin una visione profetica, perché malgrado le negazioni di Marx, i marxisti-leninisti hanno, - attraverso il centralismo democratico – realizzato esattamente le funeste predizioni di Bakunin: “dispotismo di una minoranza tanto più pericolosa quanto più appare come l'espressione della sedicente volontà del popolo”.

D'altra parte, Marx resta indirettamente la causa della deformazione bolscevica attraverso la sua teoria della fase di transizione. Se, infatti, ciò a cui si deve mirare è l'autogoverno della società nel suo insieme e se con questo fatto, come scrive Marx nella stessa nota su Bakunin: “lo Stato popolare di Liebknecht (…) è un'inezia”, rimane il fatto che il proletariato secondo Marx, “durante il periodo della lotta per il rovesciamento della vecchia società, agisce ancora sulla base di questa vecchia società e, di conseguenza (...) durante questo periodo di lotta, impiega per la sua liberazione dei mezzi che spariranno dopo questa liberazione”. Sono questi mezzi – imposti dalla società di classe e che si pretendono provvisori – che Bakunin rifiuta prudentemente, perché con il pretesto di liberare il proletariato dal dominio borghese, si istituisce un nuovo dominio politico, in senso peggiore del precedente. Allora che fare? Secondo Marx, ecco la risposta di Bakunin: “Da qui, il signor Bakunin conclude che deve piuttosto non fare assolutamente nulla..., che deve aspettare il giorno della liquidazione universale (sottolineato da Marx), il giudizio universale”.

 

Come si vede, da questo dialogo, che trattandosi dei fini ultimi, Bakunin fa una cattiva polemica a Marx; quest'ultimo ammette molto bene che l'organizzazione sociale attraverso tecniche di autogestione (cooperative) rileva di un mestiere ma non conferisce alcun potere. Si deve tuttavia riconoscere a Bakunin una visione profetica, perché malgrado le negazioni di Marx, i marxisti-leninisti hanno, - attraverso il centralismo democratico – realizzato esattamente le funeste predizioni di Bakunin: “dispotismo di una minoranza tanto più pericolosa quanto più appare come l'espressione della sedicente volontà del popolo”.

D'altra parte, Marx resta indirettamente la causa della deformazione bolscevica attraverso la sua teoria della fase di transizione. Se, infatti, ciò a cui si deve mirare è l'autogoverno della società nel suo insieme e se con questo fatto, come scrive Marx nella stessa nota su Bakunin: “lo Stato popolare di Liebknecht (…) è un'inezia”, rimane il fatto che il proletariato secondo Marx, “durante il periodo della lotta per il rovesciamento della vecchia società, agisce ancora sulla base di questa vecchia società e, di conseguenza (...) durante questo periodo di lotta, impiega per la sua liberazione dei mezzi che spariranno dopo questa liberazione”. Sono questi mezzi – imposti dalla società di classe e che si pretendono provvisori – che Bakunin rifiuta prudentemente, perché con il pretesto di liberare il proletariato dal dominio borghese, si istituisce un nuovo dominio politico, in senso peggiore del precedente. Allora che fare? Secondo Marx, ecco la risposta di Bakunin: “Da qui, il signor Bakunin conclude che deve piuttosto non fare assolutamente nulla..., che deve aspettare il giorno della liquidazione universale (sottolineato da Marx), il giudizio universale”.

Va da sé che Bakunin, a sua volta, griderebbe allo scandalo davanti a questa deduzione di Marx [24].

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sono queste le leggi della polemica. Ciò che ci interessa soltanto qui, è la contraddizione evidenziata da Bakunin tra lo scopo ultimo di Marx (società omogenea senza classi) e i mezzi spuri che egli crede indispensabili utilizzare per distruggere la macchina oppressiva della borghesia. Le colombe non possono né convincere né vincere gli avvoltoi con la violenza degli avvoltoi. Colui che conserva le mani pulite non ha mani. Marx si pone così all'opposto dell'assioma evangelico: i mansueti erediteranno la terra che è stato ripreso dagli attuali sostenitori della non-violenza, coloro che non hanno che fiori (amore e pace) come armi o che, radunati intorno al Pentagono, speravano farlo espellere dalla terra con i loro pensieri associati nella fede che solleva le montagne. Sono questi, si dirà, dei sognatori gentili, ma resta il fatto che Marx non era nemmeno lui, soddisfatto dall'obbligo politico di lottare contro i borghesi con delle armi simili alle loro. È per questo, d'altronde, che egli non raccomandava esattamente una tale imitazione. Non voleva che il suo “partito” fosse un partito come gli altri, né la sua azione un insieme di piccole astuzie architettate nel segreto degli apparati “direttivi”. I lavoratori dovevano, secondo Marx, autogestire le loro lotte.

È un tema costante che riaffiora, ad intervalli, nei suoi scritti e nei suoi atti. Si giudichi attraverso questi brevi richiami: nel 1848, “il movimento proletario è il movimento autonomo dell'immensa maggioranza” [25]; nel 1864, “l'emancipazione della classe operaia deve essere opera degli stessi lavoratori” [26]; nel 1866 “l'opera dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori è di generalizzare e di unificare i movimenti spontanei della classe operaia, ma non di prescrivere loro o imporre loro un sistema dottrinario qualunque” [27]; nel 1868 “l'Associazione Internazionale dei Lavoratori (…) non è figlia né di una setta né di una teoria. Essa è il prodotto spontaneo della classe proletaria [28]; nel 1871, dopo la Comune, “sarebbe disconoscere del tutto la natura dell'Internazionale parlare di istruzioni segrete provenienti da Londra (…) di qualche centro pontificale di dominio e d'intrigo (…). Di fatto, l'Internazionale non è affatto il governo della classe operaia, è un legame, non è un potere” [29]. Il 17 settembre 1879: “Abbiamo formulato, durante la creazione dell'Internazionale, la massima della nostra lotta: l'emancipazione della classe operaia sarà opera della classe operaia stessa. Non possiamo, di conseguenza, far rotta comune con della gente che dichiarano apertamente che gli operai sono troppo incolti per liberarsi da sé, e che devono essere liberati dall'alto, e cioè da grandi e piccolo borghesi filantropi” [30].

Marx non ha mai voluto essere alla testa di un partito settario che non rappresentasse che una parte della classe operaia; sin dal 1848, precisava: “I comunisti non formano un partito distinto di fronte agli altri partiti operai. Non hanno interessi distinti da quelli del proletariato nel suo insieme” [31]. In una lettera a Freiligraph, Marx aggiunge: “con il termine partito, intendo partito nel grande senso storico”, e cioè la causa dell'insieme del proletariato. Non si tratta di pavoneggiarsi sui podi o durante i convegni, ma di comprendere, di far comprendere, e, con questo, sollecitare il movimento storico della società di classe verso il suo superamento. I pettegolezzi e i piccoli intrighi della vita politica dei partiti sono sempre risultati sgraditi da Marx; come scriveva a Engels, l'11 febbraio 1851, era irritato di essere portato ad avallare indirettamente delle prese di posizione, a sentirsi legato da delle dichiarazioni 'di somari' e a subirne il ridicolo. Due giorni più tardi, il 13 febbraio 1851, Engels risponde: “Abbiamo l'occasione di mostrare che non abbiamo bisogno né di popolarità né del 'sostegno' di qualunque partito (…). Come potrebbero delle persone come noi, che fuggono come la peste dalle situazioni ufficiali, essere di un partito? Cosa importa a noi di un partito, noi che sputiamo sulla popolarità?”. Non si vuole spesso vedere, in queste lettere, che il segno di un'irritazione passeggera. La prova si dice, che non si tratta che di accessi di cattivo umore, è che Marx ha aderito in seguito, nel 1864, all'Associazione Internazionale dei Lavoratori. Ecco appunto ciò che ne pensava Marx, in una lettera a Engels, del 26 dicembre 1865: “In quanto all'Associazione Internazionale, essa mi pesa come un incubo e sarei contento di potermene sbarazzare”. Marx non assiste al congresso di Bruxelles del 1868, pensando di essere più utile alla classe operaia continuando la sua opera teorica. Applicava così la consegna data da Engels, diciasette anni prima: “l'essenziale è di farci stampare” [32]. Non verrà in mente a nessuno che, così dicendo, Marx o Engels miravano a una gloria letteraria qualunque. Ma il movimento autonomo dell'emancipazione proletaria è, allo stesso tempo, una prtesa di coscienza e quest'ultima diventa presto un fattore complementare del movimento di emancipazione. Certo, “l'arma della critica non potrebbe sostituire la critica delle armi, la forza materiale deve essere rovesciata dalla forza materiale. Ma la teoria si trasforma, anch'essa, in forza materiale non appena afferra le masse” [33]. È dunque sui luoghi di lavoro stessi che gli operai devono capire concretamente le modalità di sfruttamento della loro forza lavoro da parte della classe dominante. Il ruolo del teorico è di rendere visibile quest'invisibile quotidiano così come Galilei ha spiegato il movimento apparente del sole, scardinando per sempre al contempo la mitologia religiosa precedente. Chi non capisce, da allora, che per Marx, militare non è giocare allo stratega negli stati maggiori del comitato federale o del comitato centrale, con la pretesa di comandare, dall'esterno, la manovra. Sono i lavoratori i soli capaci non soltanto di organizzare, autogestire le loro lotte, ma anche d'instaurare, all'interno stesso della vecchia società, le nuove strutture di una cooperazione egualitaria e fraterna che non ha nulla a che fare con capi e dirigenti. Nel suo Speech on the Anniversary of the People’s Paper, il 19 aprile 1856, Marx metteva in risalto che le rivoluzioni risultano dia da cause economiche e scoperte scientifiche e tecniche che dall'azione dei cosiddetti “agitatori”; diceva, infatti: “Vapore, elettricità e macchine tessili avevano un carattere altrettanto pericoloso quanto gli stessi cittadini Barbès, Raspail e Blanqui” [34].

Quindici anni più tardi, a Kugelmann che contestava, in una lettera del 15 aprile 1871, l'opportunità dell'insurrezione della Comune perché la sconfitta priverebbe “di nuovo gli operai dei loro capi”, Marx rispose, il 17 dello stesso mese: “La smobilitazione della classe operaia sarebbe stata una sciagura ben più grande della perdita di un qualunque numero di 'capi'”. (le virgolette sulla parola capo sono di Marx). Così non si può insistere ulteriormente sul fatto che Marx non lo faccia sulle capacità di auto-emancipazione della classe operaia che può, non soltanto autogestire la sua lotta, ma autogestire la produzione, il che è inoltre il mezzo più radicale di sopprimere l'alienazione e lo sfruttamento. Così, in questa dialettica, la realizzazione dello scopo finale non si separa dalla creazione di mezzi specifici per raggiungerlo. L'autogestione delle lotte è una condizione dell'autogestione della produzione e viceversa. Certo questa conquista dell'autonomia attiva non può essere che progressiva e spuria come Marx spiegava a Bakunin, ma il compito del rivoluzionario è di chiarire quest'impresa, di “aderire” e di “aderirvi”. Non appena l'organizzazione ha pretesa liberatrice diventa una specie di istituzione esterna, che funziona in quanto strumento di lotta per gli operai invece di essere una bozza di nuova organizzazione della produzione stessa, Marx se ne disinteressa e soffre di farne parte. Non vi è nemmeno da distinguere tra autogestione delle lotte e autogestione della produzione perché queste due forme di emancipazione si condizionano reciprocamente.

Ma si obietterà, forse, che queste non sono che deduzioni a partire dal “montaggio abile” di alcuni testi. Si deve dunque vedere, più precisamente ciò che Marx dice egli stesso dal fondo del dibattito poiché egli lo ha affrontato in un gran numero di testi che le interpretazioni dei diversi apparati dei partiti politici marxisti hanno lasciato nell'ombra.

 

NOTE

 

 

[1]

 

 

 

 

[24] Zola mette in bocca a Souvarine una delle possibili “risposte” degli anarchici, “Il vostro Karl Marx vuole ancora lasciar agire le forze le forze naturali. Niente politica, niente cospirazione, non è così? [Tutto alla luce del giorno, e unicamente attraverso l'aumento dei salari... Lasciatemi in pace con la vostra evoluzione! Incendiate i quattro angoli delle città...”, Emile Zola, Germinal.

(25) - (29) note mancanti.

[30] Lettera circolare indirizzata da Marx e Engels a

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25 dicembre 2017 1 25 /12 /dicembre /2017 06:00

Cos'è il valore, cosa ne è della sua crisi?money tree

Un'introduzione alla "wertkritik".

Norbert Trenkle

EXIT06.jpgQui di seguito la trascrizione rielaborata di una esposizione tenuta all'università di Vienna (Austria) il 24 giugno 1998, da Norbert Trenkle. Quest'autore ha pubblicato soprattutto in francese con Robert Kurz et Ernst Lohoff, Le Manifeste contre le travail [Il Manifesto contro il lavoro]. Il Gruppo Krisis, fa parte del movimento internazionale chiamato in Germania Wertkritik [critica del valore], in cui ritroviamo autori come Moishe Postone, Anselm Jappe, Roswitha Scholz, Claus Peter Orlieb, Franz Schandl, Gérard Briche, ecc., ma anche dei gruppi come Principia Dialectica (Londra), Critica Radical (Brasile), Krisis (Germania), Chicago Political Workshop (Stati Uniti), Exit (Germania), Streifzüge (Austria), Groupe 180°... Si può ritrovare una presentazione più approfondita di questa corrente nel libro di Anselm Jappe, Les Aventures de la marchandise. Pour une nouvelle critique de la valeur [Le Avventure della merce. Per una nuova critica del valore], (Denoël, 2003) o in Moishe Postone, Temps, travail et domination sociale [Tempo, lavoro e dominio sociale], (Mille et une nuits, 2009).

 

krisis32.jpgIl giro d'orizzonte che vorrei effettuare oggi è molto ampio. Parte dal livello fondamentale della teoria del valore, o più esattamente dalla critica del valore, e cioè dal livello delle categorie di base della società di produzione delle merci: lavoro, valore, merci e denaro. Parleremo in seguito del livello al quale appartengono queste categorie, che appaiono come fatti e costrizioni oggettive, reificate e feticistiche, che si pretendono "naturali". A questo livello, quello del prezzo, del profitto, del salario, della circolazione, ecc., le contraddizioni interne e la parte storicamente insostenibile della società mercantile moderna si manifestano apertamente sotto forma di crisi. È chiaro che ora, con un tempo limitato, non posso consegnare più di un abbozzo, ma spero comunque di riuscire a rendere comprensibili le correlazioni più importanti.

Come punto di partenza, mi piacerebbe prendere una categoria che è generalmente accettata come una condizione ovvia dell'esistenza umana: il "lavoro". In Marx, in Il Capitale, questa categoria è poco criticata. Essa è introdotta come una caratteristica antropologica valevole ovunque e sempre in tutte le società. Marx scrive: "È per questo che il lavoro, in quanto lavoro utile, è per l'uomo una condizione di esistenza indipendente da tutte le forme di società, una necessità naturale eterna, mediazione indispensabile al metabolismo che si produce tra l'uomo e la natura, e dunque alla vita umana" [Il Capitale].

streifzuege.jpgTuttavia, per Marx, la categoria "lavoro" non è così anodina come può lasciar credere questa citazione. In altri punti, soprattutto in quelli che sono chiamati i suoi scritti della giovinezza, egli parla in termini molto più critici. Nel manoscritti alla critica dell'economista tedesco Friedrich List, pubblicato soltanto nel 1970, Marx parla di necessità del superamento del lavoro come condizione primaria ad ogni emancipazione. Scrive: "Il "lavoro" è nella sua essenza un'attività imposta, inumana e antisociale, condizionata da e creante la proprietà privata. La soppressione della proprietà privata non diventerà realtà che quando essa sarà capita come soppressione del 'lavoro'...". In Il Capitale allo stesso modo, si trovano dei passaggi che ricordano le sue prime convinzioni. Ma non si tratta qui di dimostrare le ambivalenze nel pensiero marxiano concernente il "lavoro" (a questo proposito vedere Kurz 1995); Preferirei invece affrontare la questione di capire ciò che rappresenta veramente questa categoria. Il "lavoro" è veramente una costante antropologica? Si può assumerlo come punto di partenza acritica di un'analisi della società mercantile? La mia risposta è chiaramente no. 

principia_dialectica.jpgMarx distingue lavoro concreto e lavoro astratto; chiama questa distinzione la doppia natura specifica del lavoro nella società di produzione delle merci. Così afferma (e lo dice esplicitamente) che è soltanto a questo livello di sdoppiamento o di scissione che ha luogo un processo di astrazione. Il lavoro astratto è astratto a partire dal momento in cui non considera le qualità concrete e materiali né le particolarità di ogni attività specifica, sartoria, falegnameria o macelleria, riducendole a una terza cosa comune. Marx non vede che il lavoro in quanto tale è già un'astrazione. (Il marxismo non ha in quanto a lui mai sviluppato una coscienza critica a questo livello). E non soltanto un'astrazione del pensiero come un animale, un albero o una pianta, ma ben più un'astrazione reale, imposta storicamente, che domina la società e sottomette gli umani al suo potere.

critica_rdaical.jpg

In senso letterale, "fare astrazione" vuol dire togliere o separare da qualcosa. In quale senso il lavoro è un'astrazione, una separazione da qualcosa? La particolarità sociale e storica del lavoro non si deve evidentemente al fatto che delle cose siano prodotte né che delle attività sociali siano realizzate. Effettivamente, ogni società fa questo. Ma è la forma sotto la quale questo accade, nella società capitalista, che è particolare. È tipicamente sotto questa forma che il lavoro è isolato in una sfera separata dalle altre relazioni sociali. Chi lavora non fa che questo e non fa nient'altro. Riposarsi, divertirsi, occuparsi dei propri interessi, amarsi, ecc., deve essere effettuato al di fuori del lavoro o non deve ad ogni modo avere un'influenza fastidiosa sul funzionamento razionalizzato. Evidentemente, ciò non funziona mai totalmente perché, benché sia stato addestrato per secoli, l'uomo non è mai completamente diventato una macchina. Parlo qui di un principio strutturale che non si incontra empiricamente in modo puro, benché in Europa occidentale il processo lavorativo somigli ampiamente a questo orribile modello ideale. È per questa ragione, e cioè a causa dell'espulsione di tutti i momenti di non-lavoro al di fuori della sfera del lavoro, che si sono create altre sfere sociali separate. Storicamente, quando il lavoro si è imposto, si è relegato in queste altre sfere tutti i momenti separati. Queste nuove sfere hanno esse stesse assunto un carattere esclusivo (nel senso della parola esclusione, espulsione, relegazione, dequalificazione): il tempo libero, il privato, la cultura, la politica, la religione, ecc. 

Temps_travail_et_domination_sociale.jpgUna delle condizioni strutturali essenziali per la separazione di fronte al contesto sociale è il rapporto dei generi, con i suoi attributi dicotomici e gerarchici del maschile e del femminile. La sfera del lavoro cade in modo evidente sotto il dominio del "maschile". Questo, come lo si può già vedere con le esigenze soggettive che sono formulate in questa sfera: razionalità astratta per raggiungere uno scopo finalizzato, oggettivato, pensiero formale, tendenza alla concorrenza, ecc. Certamente, le donne devono anche rispettare queste esigenze se esse vogliono "riuscire" in un mestiere. Ma l'ambito, l'istanza del mascolino non può esistere strutturalmente, unicamente perché si è relegato sullo sfondo il dominio separato e inferiorizzato del femminile, in cui il lavoratore può, almeno idealmente, rigenerarsi accanto alla moglie a casa, fedele, che si occupa del suo benessere fisico ed emotivo. Questo rapporto strutturale, in seguito sempre idealizzato e romanticizzato dall'ideologia borghese (in numerose lodi enfatiche nei confronti della donna e della madre attente e pronte al sacrificio), è stato già analizzato e documentato a sufficienza, negli ultimi trent'anni, dalla ricerca femminista. Si può dunque certamente affermare sin da subito la tesi secondo la quale il lavoro e il rapporto gerarchico moderno dei generi sono inseparabilmente legati. Entrambi sono dei principi strutturali di base dell'organizzazione della società borghese e della produzione delle merci.

postone.jpg

Non posso approfondire qui questa questione, perché la mia esposizione verte sulle mediazioni specifiche e le contraddizioni interne delle sfere del lavoro, della merce e del valore che sono storicamente e strutturalmente investite dal maschile. Voglio dunque ritornarci sopra. Poco fa, avevo già spiegato che il lavoro, come forma di attività specifica della società mercantile, era già per se astratto. Costituisce una sfera separata, separata dal resto del rapporto sociale. Questa sfera come tale non esiste che là dove la produzione di merci è già diventata la forma dominante di socializzazione, e cioè nel capitalismo, in cui l'attività sotto forma di lavoro non ha altro scopo che la valorizzazione del valore. 

jappe.jpgLe persone non entrano in modo volontario in questa sfera del lavoro. Lo fanno perché, in un processo storico lungo e sanguinario, sono state separate dai mezzi di produzione e di esistenza più elementari. Esse non possono sopravvivere che vendendosi per un certo tempo, o più esattamente vendendo la loro energia vitale, sotto forma di forza lavoro, per uno scopo che è loro esterno ed indifferente. Per essi, il lavoro rappresenta dunque principalmente un furto di forze vitali ed è dunque da questo punto di vista un'astrazione del tutto reale. È d'altronde per questo che l'equazione lavoro = fatica è giusta, ed è anche ciò che si trova nell'origine etimologica del verbo "laborare".

roswitha-scholz.jpgInfine, l'astrazione domina nella sfera del lavoro anche con l'aiuto di un'altra forma del tutto specifica: quella del regno del tempo astratto, lineare e omogeneo. Quel che conta è il tempo oggettivamente misurabile, separato dai sentimenti soggettivi, dalle sensazioni e dalle esperienze degli individui che lavorano. Il capitale ha noleggiato il lavoratore per un periodo di tempo esattamente definito, durante il quale deve produrre un massimo di merci o di servizi. Ogni minuto che non è dedicato alla produzione è dal punto di vista dell'acquirente della merce "forza lavoro" uno spreco. Ogni minuto è prezioso e conta allo stesso modo, perché rappresenta letteralmente del valore potenziale. 

Claus-Peter-Orlieb.jpgStoricamente, il momento in cui il regno del tempo astratto, lineare e omogeneo, si è imposto rappresentava una delle più grandi rotture con tutte le forme di organizzazione sociale precapitaliste. Come è risaputo, sarebbero occorsi diversi secoli di pressioni manifeste e di utilizzazione della forza bruta affinché la massa degli umani interiorizzi questa forma di rapporto con il tempo e non provi più nulla di particolare all'idea di dover presentarsi tutte le mattine alla stessa ora precisa in fabbrica o in ufficio, lasciando la propria vita alla porta d'ingresso per sottomettersi per un periodo di tempo definito al ritmo monotono dei dispositivi di produzione e di funzionamento esistenti. Già di per sé, questo fatto ben noto dimostra che la forma imposta di attività sociale chiamata lavoro non ha nulla di evidente.

Se il lavoro non è dunque una costante antropologica, ma esso stesso un'astrazione (socialmente molto potente ed efficace), cosa ne è del doppio carattere del lavoro, rappresentato nelle merci, che Marx analizza e che forma la base della sua teoria del valore? Come si sa, Marx constata che il lavoro producendo delle merci ha due lati: uno concreto e uno astratto. In quanto lavoro concreto, è creatore di valore d'uso, e produce allora alcune cose utili. Come lavoro astratto, per contro, non è che semplice dispendio di lavoro, al di là di ogni definizione qualitativa. Come tale, crea del valore che si rappresenta nella merce. Ma che resta al di là di ogni definizione qualitativa? La sola cosa che tutte le diverse specie di lavoro hanno in comune, una volta che si è fatta astrazione dei loro lati materiali e concreti, è evidentemente di essere delle specie diverse di dispendio di tempo di lavoro astratto. Il lavoro astratto è allora la riduzione di tutti i lavori di produttori di merci ad un denominatore comune. Riducendo i lavori a una quantità puramente astratta e reificata di tempo trascorso, li rende comparabili e anche scambiabili. È così che esso forma la sostanza del valore.

Quasi tutti i teorici marxisti hanno preso questa determinazione concettuale, che non va del tutto da sé, come una definizione banale di un fatto antropologico e quasi naturale e l'hanno rimasticata senza riflessione. Non hanno mai capito perché Marx si era dato tanta pena per scrivere il primo capitolo di Il Capitale (che egli ha riscritto diverse volte) e perché una cosa apparentemente così evidente è stata resa inutilmente opaca, a quanto pare, attraverso il ricorso al linguaggio hegeliano impiegato. Per il marxismo, il lavoro era un'evidenza. Affermava che il lavoro creava del valore letteralmente come il fornaio fa dei panetti. Pensava anche che il valore immagazzinava il tempo di lavoro necessario come forma morta. Marx stesso non ha sollevato il fatto che il lavoro astratto presuppone, logicamente e storicamente, di già il lavoro come forma specifica di attività sociale, che si tratti dunque di un'astrazione di un'astrazione. Detto altrimenti, la riduzione di attività a delle unità di tempi omogenei presuppone di già l'esistenza di una misura astratta del tempo dominante la sfera del lavoro. Non sarebbe ad esempio mai venuto in mente ad un contadino del Medioevo di misurare in ore e in minuti il tempo che gli occorreva per mietere un campo. Questo non perché non possieda orologio, ma perché quest'attività era intimamente legata all'insieme della sua vita e farne un'astrazione temporale non avrebbe dunque avuto alcun senso.

Benché Marx non abbia chiarito sufficientemente il rapporto tra il lavoro come tale e il lavoro astratto, non lascia aleggiare alcun dubbio sulla follia assoluta di una società nella quale l'attività umana, come processo vivente, si coagula in una forma reificata e si erige in potenza sociale dominante. Marx ironizza a proposito dell'idea corrente secondo la quale questo fatto sarebbe naturale, ribattendo ai pontefici dell'economia politica, che hanno un approccio positivista di fronte alla teoria del valore: "Nessun chimico ha ancora trovato del valore di scambio in una perla o in un diamante" (Il Capitale). Quando Marx dimostra allora che il lavoro astratto forma la sostanza del valore e che dunque la quantità di valore è definita dal tempo di lavoro mediamente impiegato, non riprende affatto il punto di vista fisiologico o naturalista degli economisti classici, come pretende Michael Heinrich, oggi seduto accanto a me, nel suo libro "La scienza del valore". Come la miglior parte del pensiero borghese dall'età dei Lumi, gli economisti classici comprendono i rapporti (sociali) borghesi sino ad un certo punto, ma soltanto per rinviarli all'"ordine naturale". Marx critica questa ideologizzazione dei rapporti dominanti decrittandola come riflesso feticista di una realtà feticista. Dimostra che il valore ed il lavoro astratto non sono delle pure rappresentazioni che gli umani potrebbero semplicemente cancellare dal loro spirito. Il sistema di lavoro e di produzione moderna di merci forgia il quadro dei loro pensieri e attività. In quest'ultima, sempre presupposto, i loro prodotti si pongono realmente di fronte ad essi come una manifestazione reificata di tempo di lavoro astratto, come una forza della natura. I rapporti sociali sono diventati per i borghesi la loro "secondo natura", secondo la formula pertinente di Marx. È qui il carattere feticistico del valore, della merce e del lavoro.

SOHN-RETHEL-lavoro.gifAlfred Sohn-Rethel ha forgiato il concetto di "astrazione reale" per designare questa forma folle di astrazione. Con questo termine, egli voleva esporre una procedura di astrazione che non si realizza nella coscienza degli uomini come modo di pensare, ma che, come struttura a priori di costruzione sociale, precede e determina il pensiero e l'azione umana. Ma per Sohn-Rethel, l'astrazione reale è identica all'atto di scambio; essa domina allora là dove il mercato pone le merci in relazione le une con le altre. Secondo lui, è soltanto qui che le cose ineguali diventano equivalenti, che delle cose qualitativamente diverse sono ridotte a un terzo comune: il valore, o più precisamente al valore di scambio. Ma da cosa è costituito questo terzo comune? Se le differenti merci trovano nella forma valore o valore di scambio un denominatore comune, nel quale sono espresse delle quantità astratte diverse, si deve anche poter indicare il contenuto di questo valore di cattivo augurio così come la sua scala di misura per contabilizzarla. Su questo punto, Sohn-Rethel ci deve sempre una risposta. Si può mettere in causa la sua visione ristretta, quasi meccanica del contesto della società di produzione delle merci.

Secondo lui, il lavoro appariva come uno spazio pre-sociale, in cui dei produttori privati fabbricherebbero i loro prodotti non venendo affatto influenzati da una forma sociale particolare. Soltanto in seguito, i prodotti diventerebbero merci essendo gettati nella sfera della circolazione dove, attraverso lo scambio, si farebbe astrazione dalle loro peculiarità materiali e dunque anche del lavoro concreto dispiegato per la loro fabbricazione. Così si trasformerebbero in portatori di valore. Questa visione, che separa e oppone esteriormente la sfera della produzione a quella della circolazione, passa completamente a lato del contesto interno del moderno sistema di produzione delle merci. Sohn-Rethel confonde sistematicamente due livelli di osservazione: in primo luogo, la necessità che la produzione e la vendita di una merce particolare abbiano luogo l'una dopo l'altra nel tempo, e, in secondo luogo, che questo processo particolare presuppone, logicamente e nella realtà sociale, l'unità del processo di valorizzazione e di scambio.

Mi piacerebbe insistere un po' su questa questione, perché questo punto di vista non è affatto una specialità di Sohn-Rethel. È un argomento diffuso con diverse varianti. Lo si ritrova in tutto il libro già citato di Michael Heinrich (1991). Egli afferma, per non prendere che una citazione tra molte, che il corpo della merce "riceve la sua forma-oggetto-valore (Wertgegenständlichkeit) soltanto nello scambio" e prosegue: "Isolato, osservato in quanto tale, il corpo della merce non è merce, ma soltanto semplice prodotto". (Heinrich 1991, p. 173). Da questa citazione e da molte altre simili, Heinrich non trae le stesse conclusioni teoriche di Sohn Rethel. Ma la logica della sua argomentazione è la stessa. Vi sfugge soltanto grazie a un espediente teorico poco convincente, che consiste in fondo nel separare la forma valore dalla sostanza valore (vedere Heinrich 1991, p. 187, così come la critica di Backhaus / Reichelt 1995).

È evidente che nel processo di produzione capitalista i prodotti non sono fabbricati come delle cose utili e innocenti che giungerebbero soltanto sul mercato a posteriori. Ogni processo produttivo è previsto in anticipo per valorizzare il capitale e è organizzato in quanto tale. I prodotti sono già elaborati sono forma di feticci di cose-valore, e non possono che avere un solo scopo: quello di rappresentare il tempo di lavoro concreto, trascorso, sotto forma di valore. La sfera della circolazione, il mercato, non serve dunque semplicemente a scambiare delle merci, ma è il luogo in cui il valore che è rappresentato nei prodotti si realizza o dovrebbe farlo. Affinché ciò possa funzionare (condizione necessaria ma non sufficiente), le merci devono essere anche delle cose utili. Ma è soltanto per il compratore potenziale che esse devono esserlo. Il senso o lo scopo della produzione non è il lato materiale o concreto di una merce. Il valore d'uso è in un certo modo soltanto un effetto secondario inevitabile. Dal punto di vista della valorizzazione, esso non è necessario. E' d'altronde in un certo senso il caso. Si producono in massa delle cose completamente inutili, o che si rompono in poco tempo. Ma il valore non può fare a meno di un supporto materiale. Nessuno acquisterebbe in quanto tale del "tempo di lavoro morto", ma soltanto la forma di un oggetto, al quale un compratore attribuisce un senso qualunque.

E' per questo che il lato concreto del lavoro non sfugge del tutto all'influenza della forma di socializzazione dominante. Se il lavoro astratto è l'astrazione di un'astrazione, il lavoro concreto non rappresenta che il paradosso di un lato concreto di un'astrazione (e cioè della forma-astrazione "lavoro"). E' "concreto" soltanto nel senso molto stretto e limitato in cui le diverse merci richiedono dei processi di produzione differenti: una vettura è costruita diversamente da una compressa di aspirina o da un temperino. Ma in rapporto al loro scopo prestabilito, che è la valorizzazione, questi processi di produzione, dal punto di vista tecnico e organizzativo, non sono del tutto neutri. Non ho certo bisogno di spiegare dettagliatamente come i processi di produzione capitalisti sono organizzati a questo proposito. La sola massima che definisce la loro organizzazione è quella di produrre il più possibile nel minor tempo possibile. E' questo che si chiama l'efficacia economica di un'impresa. Il lato concreto materiale del lavoro non è allora nient'altro che una forma manifesta nella quale il diktat del lavoro astratto si oppone al lavoratore, e lo sottomette al suo ritmo.

E' dunque del tutto giusto dire che le merci prodotte nel sistema del lavoro astratto rappresentano già del valore, prima ancora di entrare nella sfera della circolazione. Ma è nella logica delle cose che la realizzazione possa fallire: le merci possono essere invendibili o essere vendute al di sotto del loro valore, ma è un tutt'altro aspetto del problema. Per poter entrare nel processo di circolazione, un prodotto deve già trovarsi sotto la forma feticista di una cosa-valore. In quanto tale, essa non è nient'altro che la rappresentazione del lavoro astratto impiegato (e ciò vuole dunque dire del tempo di lavoro astratto trascorso) e possiede dunque imperativamente anche una quantità di valore definito. In quanto forma pura, senza sostanza (e cioè senza il lavoro astratto), il lavoro non può esistere senza entrare in crisi e senza infine spezzarsi.

Come è risaputo, la quantità del valore non è definito dal tempo impiegato per la produzione di una merce individuale, ma dal tempo di lavoro socialmente necessario per questa realizzazione. Questa media non è fissa, essa cambia con il livello di produttività in vigore (la tendenza secolare esigerebbe che il tempo di lavoro necessario per merce diminuisca, e dunque anche che la quantità di valore rappresentato in essa diminuisca). Questa media, come misura del valore è definita anteriormente ad ogni processo di produzione, e regna spietatamente. Un prodotto non rappresenta allora una certa quantità di lavoro astratto soltanto se può guadagnare davanti al tribunale della misura della produttività sociale. I prodotti di un'impresa che lavora in sotto produttività non rappresentano evidentemente non per questo del valore di quelli realizzati in condizioni socialmente medie. L'impresa in questione deve dunque a termine aumentare la sua produttività o sparire dal mercato.

Ciò che presta leggermente a confusione in questo contesto, è che la forma oggetto del valore (Wertgegenständlichkeit) e la quantità di valore non compaiono nel semplice prodotto, ma soltanto nello scambio delle merci nel momento in cui entra in relazione con altri prodotti del lavoro astratto. In quel momento, il valore di una merce appare in un'altra merce. Il valore di 10 uova ad esempio si esprime in 2 chili di farina. Nel sistema di produzione di merci sviluppate (ed è di questo che parliamo), la seconda merce è sostituita da un equivalente generale, il denaro, nel quale si esprime il valore di tutte le merci, e che agisce come mezzo sociale di misura del valore. Affermare che il valore non appare, nella sua forma di valore di scambio, che nella sfera della circolazione, presuppone aver capito che essa non è creata là, come lo pretendono Sohn-Rethel o altri teorici dello scambio, così come i rappresentanti della teoria soggettivista del valore. Si deve capire che vi è una differenza tra l'essenza del valore e le forme sotto le quali esso appare.

La teoria soggettivista del valore che, nel suo piatto empirismo, si avvicina all'apparenza della circolazione si è sempre beffato della critica del valore-lavoro come metafisica.  E' un rimprovero che ha oggi, sotto l'abito post-moderno, di nuovo il vento in poppa. Involontariamente, la dice lunga sul carattere feticista della società di produzione delle merci. Se le relazioni sociali si erigono come potere cieco al di sopra degli umani, cos'altro è se non metafisica incarnata? La teoria soggettivista del valore così come il positivismo  marxista si appoggiano sul fatto che il valore non può mai essere esperito empiricamente. Perché effettivamente non si può estrarre la sostanza-lavoro dalle merci, non più di quanto si possa calcolare in ritorno in modo consistente i valori delle merci a partire dalle loro manifestazioni empiriche (o a partire dai loro prezzi). Ma dov'è questo valore sospetto? E' la domanda che formulano i nostri positivisti, respingendola subito, perché ciò che non è empiricamente misurabile e afferrabile non ha esistenza nella loro visione del mondo.

Ma questa critica fa centro soltanto se si intreccia con una variante rozza e positivista della teoria del valore-lavoro, benché tipica della maggior parte del marxismo. Questo marxismo si riferiva sempre in un senso doppiamente positivo alla categoria del valore. Innanzitutto, come ho già detto, considerava veramente il valore come un fatto naturale o antropologico. Gli sembrava del tutto normale che il lavoro o il tempo di lavoro trascorso possa essere accumulato come cosa nei prodotti. Si doveva per lo meno dare la prova aritmetica che un prezzo diverso poteva risultare dal valore di una merce. In secondo luogo, era dunque logico per loro tentare di regolare la produzione sociale con l'aiuto di queste categorie concepite positivamente. La loro critica principale rivolta al capitalismo era che il mercato nasconde il "vero valore" dei prodotti e gli impedisce di farsi valore. Nel socialismo al contrario, secondo una celebre sentenza di Engels, sarebbe facile calcolare esattamente quante ore di lavoro sono "contenute" in una tonnellata di grano o di acciaio.

Questo era il nucleo programmatico, destinato alla sconfitta, dell'insieme del socialismo reale così come, in modo diluito. quello della socialdemocrazia. Era prodotto e accompagnato, in modo più o meno critico e costruttivo, da legioni intere di economisti politici, così come li chiamiamo. Tentativo votato alla sconfitta perché il valore è una categoria non empirica che, secondo la sua essenza, non è materiale. Essa s'impone in modo feticistico sulle spalle delle persone e impone loro le sue leggi cieche. E' una contraddizione in sé il voler dirigere coscientemente un rapporto inconscio. La punizione storica per questo tentativo non si fece aspettare.

Quando dico che il valore è una categoria non empirica, ciò vuol dire che esso non è significativo per lo sviluppo economico reale? Evidentemente, no. Ciò vuol dire soltanto che il valore non è materiale; esso deve attraversare diversi livelli di mediazione prima di apparire sotto una forma trasformata alla superficie dell'economia. Ciò che Marx ha compiuto in "Il Capitale", è di dimostrare il legame logico e strutturale tra questi diversi livelli di mediazione. Egli spiega come i livelli della superficie economica rappresentata dai prezzi, il profitto, il salario e l'interesse derivano e possono essere analizzati a partire dalla categoria del valore e della sua dinamica interna. Ma non ha mai ceduto all'illusione che queste mediazioni potrebbero essere calcolate empiricamente caso per caso. E' quanto l'economia politica e il marxismo positivista esigono, senza mai riuscire a rispondere a quest'esigenza. Ma tutto ciò non è una mancanza della teoria del valore, ciò non fa che rivelare l'incoscienza di queste meditazioni. Marx non ha mai avuto la pretesa di formulare una teoria positiva e ancora meno uno strumento di politica economica. Il suo desiderio era di dimostrare la follia, le contraddizioni interne e infine il lato insostenibile di una società basata sul valore. Da questo punto di vista, si può considerare la sua teoria del valore fondamentalmente come una critica del valore e anche essenzialmente una teoria della crisi (non è certo un caso che il sottotitolo della sua opera principale si intitola: "Critica dell'economia politica").

Secondo la logica interna di tutto questo, il fondamento empirico della critica del valore e la teoria della crisi in particolare non possono essere realizzate in modo quasi-scientifico in una forma di matematizzazione esatta. Là dove questa misura metodologica è applicata a priori, come ad esempio nel dibattito del marxismo accademico riguardante la trasformazione del valore in prezzi, ci si rende conto che la comprensione del valore e del contesto generale è già fondamentalmente falsato.

Naturalmente, la critica del valore e la teoria della crisi possono essere illustrate empiricamente. Ma il metodo deve seguire le mediazioni e le contraddizioni interne dell'oggetto. Ciò che questo significa, non posso che indicarlo. Prendiamo ad esempio questa affermazione fondamentale della teoria della crisi: il capitale, dagli anni 70 del XX secolo, escludendo in modo radicale la forza lavoro vivente dal processo di valorizzazione a livello mondiale, ha raggiunto i limiti storici della sua potenza di espansione e anche della sua capacità di esistere. Detto in altro modo, la moderna produzione di merci è entrata in un processo di crisi fondamentale che non può che approdare che al suo naufragio.

Questo risultato non è evidentemente una deduzione puramente logica e concettuale, ma proviene da una comprensione teorica e empirica dei cambiamenti strutturali che si sono prodotti nel sistema mondiale di produzione di merci dalla fine del fordismo. A tutto ciò si aggiunge il fatto che la sostanza lavoro ( e cioè il tempo di lavoro astratto speso nella proporzione del livello di produttività media in vigore) si sta unificando nei settori produttivi essenziali della produzione per il mercato mondiale. A tutto ciò si aggiunge anche il continuo ritiro del capitale da enormi regioni del pianeta, che sono anche ampiamente esclusi dai circuiti delle delle merci e degli investimenti, e sono anche lasciati a se stessi. In questo contesto, si deve infine includere anche il gonfiamento e l'enorme dilagare dei mercati del credito e della speculazione. Vi si trova del capitale fittizio accumulato in una dimensione mai esistita in precedenza storicamente. Ciò spiega in parte perché la crisi non colpisce ancora con la massima potenza le regioni centrali del mercato mondiale, ma lascia prevedere anche la violenza distruttiva dell'ondata di devalorizzazione che è ora imminente.

Certamente, la teoria della crisi basata sulla critica del valore può sbagliarsi su alcune diagnosi e non può nemmeno anticipare tutti gli svolgimenti del processo di crisi, benché essa possa del tutto rivelarsi appropriata nelle analisi di dettaglio. In ogni caso, essa può provare teoricamente e empiricamente che non vi sarà più espansione prolungata di accumulazione e che il capitalismo è entrato irrimediabilmente in un'epoca di declino e di decomposizione barbarici. Questa prova si accompagna obbligatoriamente con una critica senza pietà del lavoro, della merce, del valore e del denaro. Essa non ha altro scopo che il superamento di queste astrazioni reali, feticistiche, e così come il suo campo di applicazione deve essere superato, la teoria del valore deve superarsi da se stessa.

 

Traduzione dal tedesco al francese di Paul Braun

[Traduzione dal francese di Ario Libert]

 

Bibliografia:

Backhaus, Hans-Georg / Reichelt, Helmut: Hamburg 1995

Heinrich, Michael: Die Wissenschaft vom Wert, Hamburg 1991

Kurz, Robert: Postmarxismus und Arbeitsfetisch, Krisis 15, 1995

Marx, Karl: Das Kapital MEW 23

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17 novembre 2017 5 17 /11 /novembre /2017 06:00

Conclusioni

Devo ancora dire qualcosa a proposito del vostro ultimo capitolo Conclusioni finali, che è forse il più importante del vostro libro. L'ho letto di nuovo rievocando con entusiasmo la rivoluzione russa.
Ma a ogni brano e senza interruzione ho dovuto ripetermi: «Questa tattica, cosi brillante in Russia, non vale nulla qui; porta alla disfatta».
Voi spiegate a questo, punto, compagno, che a un dato stadio dello sviluppo, dobbiamo conquistare le masse a milioni e a decine di milioni. Allora la propaganda per il comunismo «puro» che ha raggruppato ed educato l'avanguardia diventa insufficiente. Ormai si tratta... — ed ecco che a questo punto riappaiono i vostri metodi opportunisti già combattuti prima — di utilizzare le - divisioni -, gli elementi piccolo borghesi, ecc...
Compagno, anche questo capitolo è sbagliato nel suo insieme. Ragionate da russo, non da comunista internazionale che conosce il vero capitalismo, il capitalismo occidentale.
Quasi ogni parola di questo capitolo, ammirevole per la conoscenza della vostra rivoluzione, cade in errore quando è in questione il capitalismo altamente sviluppato, il capitalismo dei trust e dei monopoli. E’ quello che voglio ora dimostrare. Innanzitutto nelle piccole cose.
Voi scrivete a proposito del comunismo nell'Europa occidentale: «L'avanguardia del proletariato occidentale è già conquistata». Ecco una cosa sbagliata, compagno! «E’ finito il tempo della propaganda»: altra controverità! «L'élite proletaria è conquistata alle nostre idee»: errore completo, compagno, e che ha la stessa natura di quell'altro prodotto di recente da Bucharin: «Il capitalismo inglese ha fatto bancarotta». Ho trovato anche in Radek simili fantasmi che nascono nel mondo
dell'astrologia ma non in quello dell'astronomia. Nulla di tutto ciò è vero; salvo in Germania, non esiste da nessuna parte una vera avanguardia. Non esiste in ogni caso in Inghilterra, né in Francia, né in Belgio, né in Olanda, né — se devo credere alle informazioni di cui dispongo — nella maggior parte dei paesi scandinavi. Esistono soltanto alcuni esploratori ancora in disaccordo sulla via da seguire. E un'illusione fatale quella di credere che «il tempo della propaganda è passato».
No, compagno, questo tempo comincia appena nell'Europa occidentale. Ovunque ci manca un nucleo solido.
E quello di cui abbiamo ora abbisogno è proprio un nucleo resistente come l'acciaio, come il cristallo anche. Ed è da qui che occorre iniziare, è su questa base che si deve costruire una grande organizzazione. Da questo punto di vista siamo qui allo stesso stadio in cui voialtri eravate nel 1903 e forse anche un po' prima, nel periodo dell'«Iskra». Compagno, la situazione, le condizioni oggettive sono molto più mature del nostro movimento; una ragione di più per non lasciarci trascinare senza assicurare quello che è indispensabile.
Se noi dell'Europa occidentale, partiti comunisti d'Inghilterra, di Francia, Belgio, Olanda, paesi scandinavi, Italia ecc., e anche Partito comunista operaio di Germania, abbiamo il dovere di consolidarci per un po' di tempo con un piccolo numero, non è perché proviamo per questa situazione una particolare predilezione, ma perché dobbiamo attraversare questa fase per diventare forti.
Una setta, allora? dirà il Comitato esecutivo... precisamente una setta, se intendete con questa parola il nucleo iniziale di un movimento che pretende di conquistate il mondo!
Compagno, il vostro movimento bolscevico è stato, un tempo, una cosetta da niente. E proprio perché era piccolo, perché era ristretto e voleva esserlo, si è conservato puro durante un periodo di tempo abbastanza lungo. A questa condizione, a questa sola condizione, è diventato potente, è quello che anche noi vogliamo fare.
Tocchiamo qui una questione estremamente importante, dalla quale dipende non soltanto la rivoluzione europeo-occidentale, ma anche la rivoluzione russa. Siate prudente, compagno!
Sapete che Napoleone, quando ha tentato di diffondere il capitalismo moderno per l'Europa, si è infine rotto il muso e ha dovuto lasciare il campo alla reazione, perché era arrivato al punto in cui non soltanto aveva a che fare con troppo Medioevo ma, soprattutto, con troppo poco capitalismo ancora.
Anche le vostre affermazioni secondarie, sopra citate, sono sbagliate.
Mi occuperò ora di quelle più importanti, della cosa più importante di tutte. Secondo voi è giunto il momento di abbandonare la propaganda per il comunismo «puro» e di marciare alla conquista delle masse con la tattica opportunista che avete descritto. Compagno, anche se voi aveste ragione nelle affermazioni secondarie e se i partiti comunisti fossero veramente pervenuti qui ad avere una forza sufficiente, non resterebbe men vero che quest'ultima pretesa è sbagliata dalla A alla Z.

La propaganda puramente comunista, per un comunismo rinnovato, è qui una cosa indispensabile — come ho già più volte ripetuto — dall'inizio alla fine della rivoluzione. Nell'Europa occidentale sono gli operai, gli operai soltanto che devono introdurre il comunismo. Essi non hanno nulla da aspettarsi (nulla d'importante) da nessun'altra classe fino alla fine della rivoluzione.

Voi dite: il momento della rivoluzione è giunto non appena è stata conquistata l'avanguardia e si sono realizzate le seguenti condizioni: 1) tutte le forze di classe che ci sono ostili sono sufficientemente colpite, trascinate in divisioni intestine e indebolite in una lotta. che supera le loro forze; 2) tutti gli elementi intermedi, vacillanti, in ceti cioè piccolo-borghesi, democratici piccolo borghesi ecc., sono stati sufficientemente smascherati davanti al popolo, sono stati messi abbastanza a nudo dalla loro bancarotta.
Ma, compagno, tutto questo è russo! Nello sfasciamento dell'apparato statale russo, queste erano le condizioni della rivoluzione. Ma negli stati moderni del vero capitalismo maturo, le condizioni sono radicalmente diverse. Di fronte al comunismo i partiti della grande borghesia faranno blocco (invece di entrare in conflitto) e la democrazia dei piccolo borghesi si metterà a rimorchio.
Non sarà cosi in modo assoluto, ma abbastanza generalizzato perché la nostra tattica ne sia condizionata.
Dobbiamo aspettarci nell'Europa occidentale una rivoluzione che sarà, da entrambe le parti, una lotta fermamente risoluta, e particolarmente ben organizzata da parte della borghesia e della piccola borghesia. Ciò mi è dimostrato dalla pesantezza delle formidabili organizzazioni in cui sono inquadrati il capitalismo e gli operai.
Ciò dimostra che anche noi, da parte nostra dobbiamo ricorrere alle armi migliori, alle migliori forme di organizzazione, alle più forti, e non alle più insinuanti!
E qui, non in Russia, che avrà luogo il vero duello tra il capitale e il lavoro. Perché è qui che si trova il vero capitale.
Compagno, se pensate che esagero (senza dubbio per mania di chiarezza teorica), osservate dunque la Germania.
Là si trova uno Stato totalmente destinato alla bancarotta, privato di ogni speranza. Ma al tempo stesso tutte le classi, grandi e piccolo-borghesi, contadini ricchi e poveri, resistono tutti insieme contro il comunismo. Da queste parti sarà la stessa cosa dappertutto.
Certamente, alla fine dello sviluppo rivoluzionario, quando la crisi imperverserà nel modo più terribile, quando saremo molto vicini alla vittoria, allora forse sarà spezzata l'unità delle classi borghesi e vedremo qualche frazione della piccola borghesia e dei contadini poveri venire al nostro fianco. Ma a che serve pensare a questo ora? E poiché si può vincere soltanto nel modo che diciamo noi, la propaganda del comunismo «puro», al contrario di ciò che è vero per la Russia, è qui necessaria fino alla fine...
Senza questa propaganda dove, andrebbe il proletariato europeo-occidentale e, di conseguenza, il proletariato russo? Alla sua sconfitta.
Chi, dunque, vuole, qui, nell'Europa occidentale, realizzare, cosi come fate voi, dei compromessi, delle alleanze con elementi borghesi e i piccolo-borghesi; chi, in altri termini, vuole l'opportunismo,  qui, nell'Europa occidentale, è uno che persegue illusioni invece di realtà, è uno che inganna il proletariato, è (mi servo della stessa parola che avete usata contro il Bureau di Amsterdam) un traditore del proletariato.
E la stessa cosa vale per tutto l'esecutivo di Mosca.
Mentre scrivevo queste ultime pagine, ho ricevuto la notizia che l'Internazionale ha adottato la vostra tattica e quella dell'esecutivo. I delegati dell'Europa occidentale si sono lasciati accecare dal fulgore della rivoluzione russa. Ebbene, ci prenderemo l'incarico di condurre la lotta anche nella Terza Internazionale.
Compagni, noialtri, cioè i vostri vecchi amici Pannekoek, Roland-Holst, Rutgers e io stesso — e non potreste averne di più sinceri — ci siamo chiesti, quando abbiamo conosciuto la vostra tattica per l'Europa occidentale, che cosa poteva averla determinata. Ci sono state opinioni diverse. Uno diceva: la situazione economica della Russia è cosi cattiva che Lenin ha bisogno della pace prima di ogni altra cosa; per questo motivo il compagno Lenin vuole riunire in Europa la più grande forza  possibile: indipendenti, Labour Party, ecc..., per essere aiutato nella conquista della pace. Un altro diceva: egli vuole accelerare la rivoluzione generale in Europa; ha quindi bisogno dell'immediata  partecipazione di milioni di uomini. Da qui il suo opportunismo.
Quanto a me, io credo, come ho detto, che voi non conoscete la situazione europea.
Sia come sia, quali che siano i motivi che vi hanno indotto ad adottare una simile tattica, voi andrete incontro alla più terribile delle disfatte, e porterete il proletariato alla più terribile delle disfatte se non abbandonerete questa tattica.
Perché se quello che voi volete è in realtà la salvezza della Russia e della rivoluzione russa, al tempo stesso, con la vostra tattica, riunite gli elementi non comunisti, li fondete con noi, i veri comunisti, quando noi non abbiamo neanche un nucleo consolidato? Ed è con queste cianfrusaglie dei sindacati mummificati, uniti a una massa di semicomunisti e di comunisti al 20, al 10 e allo zero per cento, nella quale non abbiamo neanche un buon. nucleo, che pretendete di combattere contro il capitale più altamente organizzato del mondo, al quale sono alleate tutte le classi non proletarie?
E’ ovvio che non appena comincia la battaglia, le cianfrusaglie vanno in pezzi e la grande massa piega le ginocchia.
Cercate di capire, compagno, che una disfatta folgorante del proletariato tedesco, per esempio, è il
segnale per un attacco generale contro la Russia.
Se il vostro scopo è quello di fare qui la rivoluzione, vi avviso che con questo intruglio di Labour Party, indipendenti, centro francese, partito italiano, ecc... — e con i sindacati — non si potrà avere che una disfatta.
I governi non avranno paura, nemmeno una volta, di questo ammasso di opportunisti.
Se invece costituite dei raggruppamenti radicalmente comunisti, interiormente solidi, solidi anche nel loro piccolo numero, questi gruppi metteranno paura ai governi perché essi soli sono capaci di  trascinare le masse a grandi azioni in periodo rivoluzionario; così ha dimostrato la Lega di Spartaco ai suoi esordi. Partiti di questo genere obbligheranno i governi a lasciare tranquilla la Russia, e alla fine, quando si saranno formidabilmente sviluppati alla maniera «pura», verrà la vittoria.
Questa tattica, la nostra tattica «di sinistra» è per la Russia come per noi, non soltanto la migliore, ma la sola via di salvezza.
Qui, in Europa occidentale, c'è una sola tattica: quella della sinistra che dice la verità al proletariato e non fa balenare davanti ad esso delle illusioni. Quella che, anche se tale lavoro dovesse durare molto tempo, saprà fornirgli le armi più forti, o piuttosto le sole armi valide: le organizzazioni di fabbrica (e la loro unione in una sola organizzazione), e i nuclei — inizialmente ristretti, ma sempre puri e solidi — dei partiti comunisti. Quella che, quando sarà giunto il momento, saprà estendere queste due organizzazioni a tutto il proletariato.
Deve essere cosi non perché noi lo desideriamo, ma perché le condizioni della produzione, i rapporti di classe, lo esigono.
Giunto alla fine delle mie considerazioni, voglio riassumerle in alcune formule d'assieme, in qualche sintesi capace di essere colta con un solo sguardo, affinché gli operai vedano tutto più chiaramente con i loro occhi.
Si può trarre, credo, un quadro chiaro dei motivi della nostra tattica e della tattica stessa: il capitale finanziario domina il mondo occidentale. Mantiene ideologicamente e materialmente un proletariato gigantesco nella schiavitù più profonda, e realizza l'unione di tutte le classi, la grande e la piccola borghesia. Da qui scaturisce la necessità per queste masse gigantesche di saper fare da sole. Una cosa del genere è possibile soltanto attraverso le organizzazioni di fabbrica e la soppressione del parlamentarismo in un periodo rivoluzionario.
In secondo luogo confronterò qui alcune frasi della tattica della sinistra con alcune di quelle della Terza Internazionale, affinché la differenza tra l'una e l'altra emerga con assoluta chiarezza, e affinché gli operai non si scoraggino se la vostra tattica — come è molto probabile — li condurrà alle peggiori disfatte, ma scoprano piuttosto che ne esiste una diversa.
La Terza Internazionale crede che la rivoluzione nell'Occidente seguirà le leggi e la tattica della rivoluzione russa.
La sinistra crede che la rivoluzione nell'Europa occidentale produrrà e seguirà le sue leggi specifiche.
La Terza Internazionale crede che la rivoluzione europeo-occidentale potrà concludere dei compromessi e delle alleanze con i partiti piccolo-borghesi e dei contadini poveri, e perfino della grande borghesia.
La sinistra crede che ciò sia impossibile. La Terza Internazionale crede che si verificheranno, nell'Europa occidentale, durante la rivoluzione, delle –divisioni- e delle scissioni tra i borghesi, piccolo-borghesi e contadini poveri.
La sinistra crede che i borghesi e i piccolo-borghesi formeranno un fronte unico praticamente fino alla fine della rivoluzione.
La Terza Internazionale sottovaluta la potenza del capitale europeo-occidentale e nord-americano.
La sinistra assume questa grande potenza come base per la sua tattica.
La Terza Internazionale non riconosce nel grande capitale, nel capitale finanziario, la potenza unificatrice di tutte le classi borghesi.
La sinistra assume questa potenza unificatrice come base per la sua tattica.
Poiché non crede all'isolamento del proletariato in Occidente, la Terza Internazionale trascura lo sviluppo della coscienza del proletariato — che tuttavia vive ancora profondamente sotto l'influenza dell'ideologia borghese in tutti i campi — e adotta una tattica che comporta il mantenimento della schiavitù e della subordinazione davanti alle idee della borghesia.
La sinistra sceglie la sua tattica in modo tale da far maturare innanzitutto lo spirito del proletariato.
La Terza Internazionale, poiché non basa la sua tattica sulla necessità di elevare le coscienze, né  sull'unità di tutti i partiti borghesi e piccolo-borghesi, ma invece su prospettive di compromesso e di «divisioni», lascia sussistere i vecchi sindacati e cerca di farli entrare nella Terza Internazionale.
La sinistra, poiché vuole come prima cosa la elevazione delle coscienze e crede nell'unità dei borghesi, sa che i sindacati devono essere distrutti e che il proletariato ha bisogno di armi migliori.
Per le stesse ragioni, la Terza Internazionale lascia sopravvivere il parlamentarismo.
La sinistra, per le ragioni già esposte, sopprime il parlamentarismo.
La Terza Internazionale conserva la schiavitù delle masse nella situazione in cui era al tempo della Seconda.
La sinistra vuole rovesciarla da cima a fondo. Essa distrugge il male alle radici.
La Terza Internazionale, poiché non crede alla necessità prioritaria di elevare le coscienze in Occidente, né all'unità di tutti i borghesi davanti alla rivoluzione, raccoglie le masse attorno a se stessa, senza cercare i veri comunisti, e senza scegliere una tattica atta a crearne, ma si contenta solo di avere delle masse.
La sinistra vuole formare in tutti i paesi dei partiti composti soltanto da comunisti e determina la sua tattica su questa base. Con l'esempio di simili partiti, per quanto possano essere piccoli all'inizio, essa vuoi fare della maggior parte dei proletari, e cioè delle masse, dei comunisti.
La Terza Internazionale prende dunque le masse come mezzo. La sinistra come fine. Attraverso la sua tattica (che era molto giusta in Russia) la Terza Internazionale conduce una politica da capi.
La sinistra fa una politica da masse. Mediante la sua tattica, la Terza Internazionale conduce la rivoluzione nell'Europa occidentale e, in primo luogo, la rivoluzione russa alla sconfitta. Mentre la sinistra conduce il proletariato mondiale alla vittoria.
Per concludere, allo scopo di esprimere i miei giudizi nella forma più sintetica possibile davanti agli occhi degli operai i quali devono acquisire una concezione chiara della tattica, li riassumerò in alcune tesi:
1) la tattica della rivoluzione occidentale deve essere completamente diversa da quella della
rivoluzione russa;
2) perché il proletariato qui è completamente solo;
3) il proletariato, qui, deve fare da solo la rivoluzione contro tutte le classi;
4) l'importanza delle masse proletarie è dunque relativamente maggiore, quella dei capi minore, rispetto alla Russia;
5) e il proletariato, qui, deve avere tutte le armi migliori per la rivoluzione;
6) poiché i sindacati sono armi difettose, occorre sopprimerli o trasformarli radicalmente, e sostituirli con organizzazioni di fabbrica riuniti in un'organizzazione generale;
7) poiché il proletariato deve fare da solo la rivoluzione, e non dispone di alcun aiuto, deve elevare molto in alto la sua coscienza e il suo coraggio. Ed è preferibile, in periodo rivoluzionario, l'abbandono del parlamentarismo.


Fraterni saluti


Hermann Gorter

 

[A cura di Ario Libert]

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27 ottobre 2017 5 27 /10 /ottobre /2017 05:00

1883: Lione, il primo processo spettacolo all'anarchismo

Kropotkin al processo

Dall'8 al 28 gennaio 1883 si svolge a Lione il processo di 66 anarchici. Il loro crimine? "Essere (...) affiliati o fatto atto di affiliazione a una società internazionale, avente come scopo di provocare la sospensione del lavoro, l'abolizione del diritto di proprietà, della famiglia, della patria, della religione, e di aver commesso anche un attentato contro la quiete pubblica". È uno dei primi "processi spettacolo" della giustizia borghese contro l'anarchismo, annunciatore di una repressione senza pari.

La città di Lione conosce presto, tramite diversi movimenti, un'effervescenza sociale molto intensa, che si tratti durante la celebre rivolta dei canuts negli anni 30 del XIX secolo o durante la Comune di Lione nel 1870, facendo della città una delle pioniere delle rivolte operaie in Francia. All'inizio del 1881 si forma la Federazione rivoluzionaria della regione dell'Est, che raggruppava i militanti rivoluzionari di questa regione. Gli anarchici dominano molto ampiamente questa Federazione, che tenta di partecipare alla ricostruzione di una Internazionale indebolita in seguito alle prime scissioni del movimento operaio internazionale [1].

Nella regione  lionese, il movimento anarchico nascente usufruì di uno sviluppo molto importante. Si vennero a creare dei gruppi e nacquero molte riviste anarchiche all'inizio degli anni 80: Le Droit social, L’Étendard révolutionnaire, La Lutte, ecc [2].Nello stesso periodo, nella regione mineraria di Montceau-les-Mines, si formano dei movimenti operai molto duri, che sfociano in un sollevamento generalizzato verso la metà di agosto 1882. queste sommosse e azioni violente, condotte in parte dal gruppo anarchico La Bande noire [La Banda nera], hanno una risonanza considerabile in tutto il paese.Gli anarchici di Lione sostengono incondizionatamente questo movimento attraverso la loro stampa e delle riunioni di sostegno. La censura dei giornali, molto dura, non riesce a far tacere la solidarietà. Così, il governo borghese, repubblicano moderato, adotterà una nuova tattica per attaccare il movimento libertario. Gli avvenimenti di Montceau hanno infatti lasciato capire al governo che il “complotto” dell'Internazionale detta “antiautoritaria” non si era spento con la legge del 1872 che proibiva l'adesione a un'organizzazione internazionale e che si doveva farla finita con i militanti e la “dottrina” anarchica e internazionalista.

 

Dalle perquisizioni agli arresti

Agli inizi del mese di ottobre 1882, la repressione contro i militanti anarchici viene scatenata. Delle perquisizioni hanno luogo alla sede di alcuni giornali. Dei militanti vengono arrestati a Parigi e a Lione naturalmente. È soprattutto il caso di Toussaint Bordat e di Émile Gautier. Ma lungi dal nuocere alla propaganda anarchica, imprigionando questi oratori e imbavagliandone la sua espressione, la repressione non fa che rafforzare le convinzioni dei militanti. Nella notte dal 22 al 23 ottobre esplode una bomba nel ristorante L’Assommoir dove “si riunisce la crema della borghesia, per crogiolarsi nelle più luride orge[3]. Il giorno seguente dei candelotti di dinamite vengono lanciati contro un ufficio di reclutamento. Il panico nei ranghi della borghesia si fa sentire. Questa ondata di attentati non farà altro che accentuare la repressione poliziesca ed è l'anarchico Cyvoct che pagherà caramente questo uso della propaganda con il fatto. Benché proclami la sua innocenza è condannato a morte nel dicembre 1882, la sua pena è commutata nel 1884 ai lavori forzati al bagno penale da cui sarà liberato nel 1898.

Gli arresti si moltiplicano negli ambienti anarchici della regione di Lione. In totale saranno 52 gli anarchici che saranno arrestati, tra cui il teorico dell'anarco-comunismo, il “Principe” Petr Kropotkin, residente a Thonon dal 1881 e che ha moltiplicato le sue conferenze nell'Est della Francia in questo periodo.L'agitazione è sempre più forte nella regione. Louise Michel accorre per moltiplicare le conferenze a favore dei militanti arrestati, anche invano per lanciare una sollevazione, essa finisce con l'essere espulsa dalla città di Lione. Élisée Reclus, che non fa parte degli accusati, fa domanda ufficiale per essere anch'egli indagato in quanto appartenente anch'egli all'Internazionale.Il processo inizia infine l'8 gennaio 1883, mettendo in stato d'accusa 66 persone, di cui 14 fuggite.

Un processo come tribuna

Molto presto gli anarchici hanno considerato che era possibile trarre profitto da un tale processo utilizzandolo come mezzo di propaganda e di pubblicità. Un pubblico considerevole e numerosi giornalisti si accalcarono per assistere alle udienze. Gli incriminati faranno addirittura avere una dichiarazione al presidente del tribunale protestando contro il numero di poliziotti presenti intorno al tribunale, che impedivano al pubblico di poter ascoltare gli intervenuti degli incriminati. Giungeranno persino a scrivere che “quando un potere si decide a perseguitare tanti accusati in una sola volta, si deve per lo meno che si arrangi per far sì che la gestione del locale non privi la difesa la più necessaria delle sue garanzie: l'assoluta pubblicità dei dibattimenti” [4].

La lettura del resoconto del processo dimostra l'eloquenza dei dirigenti del “partito anarchico”. L'interrogatorio9 “pittoresco del principe Kropotkin[5] che spinge il procuratore e il presidente nelle loro ultime trincee. Ma ben più di Kropotkin, è il militante Émile Gautier che impressiona l'uditorio e gli osservatori per la sua eloquenza. Uno dei procuratori segnala al ministro di Giustizia che “la prolusione di Émile Gaultier, è stata, secondo molte persone autorevoli ritenuta notevole, e con il prestigio del talento, si era quasi impadronito dell'uditorio[6].

Rinchiudere il pericolo anarchico

Malgrado una difesa eloquente addirittura brillante, molte dure condanne verranno pronunciate contro gli incolpati: quattro anni di prigione per gli “istigatori”, come Kropotkin, Emile Gautier, Joseph Bernard, Pierre Martin, Toussaint Bordat, e da sei mesi a tre anni per 39 altri compagni. In appello, le condanne saranno mantenute. Oltre le condanne dei militanti anarchici, il processo permette di porre in luce il ruolo svolto da un agente provocatore, Georges Garraud, negli avvenimenti, soprattutto in quanto “eccitatore”. Questa spia ha pure svolto un ruolo importante nella condanna di Cyvoct [7].

Il processo di Lione è uno dei primi processi di vasta portata contro il movimento anarchico nascente, se si eccettua il processo dei comunardi che non posso essere identificati come degli anarchici. Esso inaugura una serie di arresti e di processi molto mediatizzati all'epoca: Émile Pouget, Louise Michel sono accusati di essere gli istigatori del saccheggio effettuato da dei “senza lavoro” a Parigi nel marzo 1883. Sono giudicati colpevoli e condannati a sei anni di reclusione per Louise Michel e otto anni per Pouget. È soltanto grazie all'armistizio degli ultimi prigionieri di Lione, Kropotkin e Brossat nel 1886, che essi riusciranno a ritrovare la loro libertà.

La dura repressione subita dal movimento anarchico, in particolare questi principali teorici e propagandisti, segna senza alcun dubbio l'impegno del governo borghese a non far sviluppare un movimento in piena espansione. Ma sarebbe erroneo credere che l'imprigionamento dei militanti mette un termine alla loro militanza. Se si esclude il notevole volta faccia di Émile Gautier, che diventerà un giornalista della stampa borghese, l'insieme dei militanti più coinvolti non rinunceranno alla loro lotta rivoluzionaria per l'emancipazione dei lavoratori e delle lavoratrici.

Guillermo (AL Angers)

[Traduzione di Ario Libert] 

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1 ottobre 2017 7 01 /10 /ottobre /2017 05:00

L'opportunismo della Terza Internazionale

La questione dell’opportunismo nelle nostre file è di tale importanza che voglio parlarne ancora nei dettagli.

Compagno, l’opportunismo non è stato ucciso, neanche a casa nostra, con la semplice costituzione della Terza Internazionale. E’ quanto constatiamo già in tutti i partiti comunisti, in tutti i paesi. In effetti sarebbe stato un miracolo, una contraddizione a tutte le leggi dell’evoluzione se il male per cui è morta la Seconda Internazionale non sopravvivesse nella Terza!

E invece così come la lotta tra la socialdemocrazia e l’anarchismo fu la base profonda della Seconda Internazionale, la lotta tra l’opportunismo e il marxismo rivoluzionario sarà quella della Terza.
Vedremo così di nuovo, fin da ora, dei comunisti andare in parlamento per diventare dei capi, e sostenere i sindacati e i partiti laburisti per avere dei voti nelle elezioni. Invece di fare i partiti per fare il comunismo, si utilizzerà il comunismo per fare i partiti. Tornerà in vigore l’abitudine ai cattivi compromessi parlamentari con i socialdemocratici e i borghesi, dando per scontato che la rivoluzione nell’Europa occidentale sarà una rivoluzione lenta. La libertà di parola sarà soppressa all’interno dei partiti e dei buoni comunisti saranno espulsi. In breve, riavremo la pratica della Seconda Internazionale.
Contro tutto questo la sinistra deve ergersi ed essere pronta a lottare così come ha già fatto nella Seconda Internazionale. Essa deve essere appoggiata in questa battaglia da tutti i marxisti e da tutti i rivoluzionari, anche se costoro pensano che ha torto su alcuni punti particolari. Infatti l’opportunismo è il nostro nemico più pericoloso. Non soltanto fuori, come dite voi, ma anche dentro le nostre file.
Il fatto che l’opportunismo penetra nuovamente – con le sue conseguenze disastrose per la coscienza e la forza del proletariato- costituisce un pericolo mille volte peggiore di un eccesso di radicalismo da parte della sinistra. La sinistra, anche quando si spinge oltre, resta sempre rivoluzionaria. Essa può cambiare la sua tattica constatando che questa tattica non è giusta. La destra opportunista è destinata a diventare sempre più opportunista, a infognarsi sempre più nel marasma e a provocare sempre la sconfitta degli operai. Non è per nulla che abbiamo imparato questa verità durante una lotta di venticinque anni.
L’opportunismo significa la sconfitta del movimento operaio, la morte della rivoluzione. E’ per colpa dell’opportunismo che è venuto tutto il male: il riformismo, la guerra, la disfatta e la morte della rivoluzione in Ungheria e in Germania. L’opportunismo è la causa del nostro annientamento. E
esso è presente nella Terza Internazionale…
Perché sprecare tante parole? Guardatevi attorno, compagno. Via dunque, guardate voi stesso. Guardate nel Comitato esecutivo! Guardate in tutti i paesi dell’Europa!
Leggete il giornale del Partito socialista inglese (British Socialist Party) che è ora il giornale del partito comunista. Leggete dieci, venti numeri di questo giornale. Osservate questa critica debole dei sindacati, del Labour Party, dei parlamentari, e fate il confronto con un giornale di sinistra.
Confrontate il giornale dell’organizzazione che aderisce al Labour Party con quello degli avversari del Labour Party, e constaterete che l’opportunismo invade a grandi ondate la Terza Internazionale.
Tutto ciò serve soltanto a conquistare nuovamente una forza in parlamento (grazie all’aiuto degli operai controrivoluzionari)… vale a dire una forza alla maniera della Seconda Internazionale!
Pensate anche al Partito socialista indipendente di Germania che verrà presto a bussare alla porta della Terza Internazionale; e presto verranno anche altri partiti centristi altrettanto numerosi!
Credete che se costringerete questi partiti ad espellere Kautsky, ecc…, ognuno di questi traditori non sarà sostituito da masse di traditori identici: ogni opportunista espulso, da diecimila opportunisti? Tutti questi provvedimenti di espulsione sono infantili?
Una massa innumerevole di opportunisti si avvicina. Che cosa accadrà dopo che avrete loro offerto questo opuscolo, il vostro opuscolo?
Guardate dalla parte del Partito comunista olandese, dalla parte di quelli che un tempo venivano chiamati i bolscevichi dell’Europa occidentale. Potrete leggere in un opuscolo sul partito olandese come esso sia già completamente corrotto dall’opportunismo socialdemocratico.
Durante la guerra, dopo la guerra e ancora di recente, esso si è abbandonato all’Intesa. Un partito che era così lucido un tempo, è diventato un esempio di equivoci e di inganni.
Ma guardate dunque in Germania, compagno, nel paese in cui la rivoluzione è scoppiata! La vive e cresce l’opportunismo. Abbiamo appreso con sorpresa che avete difeso l’atteggiamento del Partito comunista tedesco (KPD) durante le giornate di marzo. Per fortuna abbiamo capito, dal vostro opuscolo, che non conoscevate lo svolgimento dei fatti. Avete approvato l’atteggiamento della Centrale della KPD che offriva un’opposizione leale a Ebert, Scheidemann, Hilferding e Crispien, ma non sapevate ancora, evidentemente, quando scrivevate l’opuscolo, che nel momento stesso in cui ciò si verifica, Ebert ammassava truppe contro il proletariato tedesco, che in quel momento lo sciopero delle masse era ancora generale nella maggior parte della Germania, che le masse comuniste, nella loro grande maggioranza, erano pronte a condurre la rivoluzione se non alla vittoria immediata (che era forse impossibile) almeno a uno sviluppo della sua potenza.
Ma mentre le masse proseguivano la rivoluzione con scioperi e con la insurrezione armata (nulla è mai stato più formidabile e più ricco di speranze dell’insurrezione nella Ruhr e dello sciopero generale), i capi offrivano compromessi parlamentari! In questo modo sostenevano Ebert contro la rivoluzione nella Ruhr. E se c’è mai stato un esempio che dimostra come l’uso del parlamentarismo durante la rivoluzione è una cosa maledetta nell’Europa occidentale, è proprio questo tedesco. Guardate compagno: l’opportunismo parlamentare, il compromesso con i socialpatrioti e gli indipendenti, ecco quello che non vogliamo e quello che voi mettete in azione.
E dunque, compagno, che cosa sono diventati, già ora, i consigli di fabbrica in Germania? Voi e l’esecutivo della Terza Internazionale avete suggerito ai comunisti di entrare nei sindacati insieme a tutte le altre tendenze per strappare la direzione grazie all’influenza nei consigli di fabbrica. E che cosa è accaduto? Il contrario.
La Centrale dei consigli di fabbrica è diventata poco a poco quasi uno strumento dei sindacati. Il sindacato è una piovra che strangola qualsiasi cosa vivente che giunge alla sua portata.
Compagno, leggete e informatevi, su tutto quanto accade in Germania e nell’Europa occidentale.
Io conservo la piena speranza che verrete dalla nostra parte e anche che l’esperienza porterà la Terza Internazionale ad accettare la nostra tattica.
In caso contrario, l’opportunismo che marci così rapido in Germania, con quale passo avanzerà in Francia e in Inghilterra?
Osservate, compagno, quali sono in capi che non vogliamo. Quale è l’unità di masse e di capi che non desideriamo. Quale disciplina di ferro, l’obbedienza militare, il servilismo cadaverico di cui non vogliamo saperne.
Che una parola sia qui detta al Comitato esecutivo e particolarmente a Radek. Il Comitato esecutivo ha avuto la faccia tosta di esigere dalla KAPD (Partito comunista operaio tedesco) l’espulsione di Wolffheim e di Laufenberg invece di lasciare al partito il diritto di giudicare sulla questione. Ha ricevuto la KAPD con minacce, e i partiti centristi, come il Partito socialista indipendente (USPD) con lusinghe. Non ha mai preteso dal Partito comunista tedesco di espellere
la centrale che, con le sue trattative, è stata solidale con la fucilazione dei comunisti nella Ruhr.
Non ha preteso dal partito olandese l’espulsione di Wijnkoop e di Van Ravestyn i quali offrirono delle navi all’Intesa durante la guerra… (non che io reclami l’espulsione di questi compagni! Penso che i compagni onesti si sono sbagliati soltanto per via delle terribili difficoltà presentate dall’inizio e dallo sviluppo della rivoluzione nell’Europa occidentale. Noi, come tutti, commettiamo molti grandi errori!). D’altra parte queste espulsioni non servirebbero a nulla al punto in chi è questa Internazionale.
Faccio notare ciò soltanto per dimostrare ancora con un altro esempio fino a che punto l’opportunismo fa danni nelle nostre fila. Infatti la Centrale di Mosca ha commesso una ingiustizia nei confronti della KAPD soltanto perché non vuole, vista la sua tattica mondiale opportunista, dei veri rivoluzionari, ma si rivolge invece verso gli indipendenti e altri opportunisti. Ha giocato intenzionalmente questa carta di Wolffheim e di Laufenberg contro la KAPD, benché la KAPD fosse in disaccordo con la tattica – nazional bolscevica- di questi due leaders, e soltanto per obiettivi opportunisti tra i più miserevoli. Si tratta per la Centrale di ammassare sia i sindacati che i partiti per avere innanzitutto delle masse, siano o no comuniste.
Due altre azioni della Terza Internazionale dimostrano ugualmente con chiarezza in quale direzione essa si muove. La prima è la destituzione del Bureau di Amsterdam, l’unico gruppo di marxisti e teorici rivoluzionari che, nell’Europa occidentale, non ha mai vacillato. La seconda è il tradimento inflitto alla KAPD, l’unico partito che, come organizzazione, nella sua interezza, nell’Europa occidentale, a partire dalla sua creazione fino ad oggi, abbia sempre condotto la rivoluzione nella direzione giusta. Mentre i partiti del centro, gli indipendenti, i centristi francesi, inglesi, eterni traditori della rivoluzione, sono stati corteggiati con tutti i mezzi, la KAPD, il partito veramente rivoluzionario è stato trattato come un nemico. Questi sono brutti sintomi, compagno.
Riassumendo: la Seconda Internazionale opportunista sopravvive o rivive tra noi. E l’opportunismo porta al disastro. Poiché ci porta al disastro, poiché esiste tra noi, forte, fortissimo, più forte di quanto avessi potuto immaginare, la sinistra deve essere presente. Anche se le altre buone ragioni per la sua esistenza non fossero valide, essa dovrebbe essere presente come opposizione, come contrappeso all’opportunismo.

[A cura di Ario Libert]

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30 settembre 2017 6 30 /09 /settembre /2017 05:00

Il significato storico della barbarie staliniana

 

Maximilien Rubel

L'unità negli obiettivi della politica russa deriva [...] dal suo passato storico, dalle sue condizioni geografiche e dalla necessità di acquisire dei porti di mari liberi nell'Arcipelago così come nel Baltico, se vuole mantenere la sua egemonia in EuropaTuttavia, il modo tradizionale con cui la Russia persegue i suoi obiettivi è lungi dal meritare il tributo d'ammirazione che le pagano i politici europei. Se il successo della sua politica ereditaria prova la debolezza delle potenze occidentali, la mania stereotipata di questa politica dimostra la barbarie inerente alla Russia in quanto tale.

Karl Marx, La politica tradizionale dello zarismo russo, New York Daily Tribune, 12 agosto 1853.Se la Russia continua a marciare nel sentiero seguito dal 1861, essa perderà la più bella occasione che la storia abbia mai offerto a un popolo, per subire tutte le peripezie fatali del regime capitalista.[...] se la Russia tende a diventare una nazione capitalista per mezzo delle nazioni dell'Europa occidentale, e durante questi ultimi anni si è data molto da fare in tal senso, essa non vi riuscirà senza aver preventivamente trasformato una buona parte dei suoi contadini in proletari; e dopo ciò, una volta giunta nel girone del regime capitalista, essa ne subirà le spietate leggi, come un tempo i popoli profani

Karl Marx, Risposta a Mikhaïlovski, novembre 1877

Nel 1882, Marx e Engels credevano ancora che la proprietà comune (mir) russa potesse diventare il punto di partenza di una rivoluzione comunista e che quest'ultima potesse diventare anche il segnale di una rivoluzione operaia in Occidente [1]. I narodnik [populisti] in un primo tempo, i socialisti rivoluzionari successivamente, continuavano a prendere sul serio questa alternativa formulata dai maestri del socialismo scientifico, quando invece Lenin ed il suo partito, e l'intera socialdemocrazia russa credevano di aver capito che la Russia avesse definitivamente scelto il suo destino: la rivoluzione borghese e il capitalismo selvaggio.Nell'ottobre del 1917, i bolscevichi volevano fare questa rivoluzione borghese, ma i soviet degli operai, contadini e soldati aspirarono ad altra cosa, ad una cosa per la quale né essi né le condizioni economiche della Russia erano ancora mature. Cosa accadde in queste circostanze? La rivoluzione occidentale? Per sfortuna di tutti essa non venne. La profezia geniale di Marx si compì allora: la Russia cominciò a trascinarsi sotto il giogo capitalista ed è il partito bolscevico che ve la spinse.Le fasi di questa evoluzione della Russia, del comunismo di guerra, attraverso la NEP, la pianificazione industriale e la collettivizzazione della classe contadina, sino al compimento definitivo del sistema economico statuale e di un regime cesareo, sono troppo note nei loro sanguinari e drammatici episodi per essere qui ricordati. Ma ciò che si deve sottolineare è che Lenin dovette sin dall'inizio rinunciare alla sua dottrina politica per la quale egli aveva per più di dodici anni condotto una spietata lotta contro il populismo ed il menscevismo.Così, nel 1917, egli si impadronì del programma dei socialisti rivoluzionari (smembramento e distribuzione delle terre) e, nel 1921, instaurando la NEP, ha realizzato quel "Termidoro proletario" che i menscevichi avevano sempre previsto come inevitabile nell'eventualità di una presa del potere da parte del partito proletario. Tuttavia, sempre prendendo in prestito le sue parole d'ordine politiche ai suoi avversari, Lenin non esitava a proibire ai suoi oppositori ogni attività di propaganda. Dopo la morte di Lenin, fu la volta di Trotski di preconizzare la "trascrescenza" della rivoluzione verso una statalizzazione forsennata, e la lasciò a Stalin che si incaricò di realizzare il programma di Trotski, naturalmente liquidando il trotskismo. Quest'ultimo doveva e deve logicamente continuare a glorificare se non Stalin per lo meno le "basi sociali" della Russia lasciate intatte, secondo Trotski ed i suoi fedeli, dal dittatore rosso.Tutto ciò è accaduto ed accade ancora sotto il nome di marxismo.Ma grazie a Marx, sappiamo che ogni classe dominante ha bisogno di ideologi e di ideologie che giustificano il suo regime di sfruttamento: il marxismo non è sfuggito a questa sorte e nel mondo in cui gli antagonismi di classe persistono non c'è nulla di sorprendente nel fatto che il "marxismo" si trasforma del tutto semplicemente in ideologia di tradimento e dell'oppressione- fenomeno che Marx ha freddamente intravisto quando egli affermò perentoriamente: "Tutto quel che so, è che io non sono marxista" [2].Marx non ha certamente pensato che una rivoluzione, che tutti i fattori soggettivi e oggettivi condannavano a essere capitalista, potesse richiamarsi al suo insegnamento. Che la più feroce dittatura minoritaria che la storia abbia conosciuta potesse pretendere di esercitarsi in suo nome.La discussione sulla realtà o l'irrealtà delle "basi sociali" in Russia è sterile e scolastica. Ciò che conta, è di sapere se il proletariato russo crede di difendere le conquiste d'Ottobre. Ciò che conta, è di sapere se il proletariato occidentale crede nella Russia, malgrado Stalin.Ora è certo che l'una e l'altra di questa supposizioni appartengono al regno della fantasia. Il merito del trotskismo non è da meno: solidarizzando con il proletariato russo contro Stalin, proclama il dovere per il proletariato occidentale di desolidarizzarsi dalla sua borghesia e dal suo Stato e di prendere una posizione disfattista e rivoluzionaria in caso di guerra. Con ciò, il trotskismo assume la posizione di disfattismo "ultra-sinistra" secondo la quale la Russia non merita di essere difesa. Il processo dei "traditori" e i campi di deportazione russi, i campi di sterminio tedeschi, la bomba atomica americana - tutto ciò ha molto più significato storico delle diatribe talmudiche sulle "basi sociali" della Russia. L'infamia umana è al livello dell'intelligenza scientifica dell'uomo. Nessun dubbio che la rivoluzione s'impone ovunque [3], la Russia non eccettuata - che importa il qualificativo che si amerebbe dare a questa rivoluzione nel paese delle "basi d'Ottobre".Ciò che importa, è di constatare che il regime russo offre l'immagine più perfetta di questa formidabile concentrazione del potere economico e del potere politico in un sola mano, concentrazione che F. Engels definiva come "capitalismo di Stato" [4]. Ciò che importa, è che la Russia offre lo spettacolo di una barbarie che sembra non voler rinnegare nulla dell'eredità, che sembra ben al contrario amplificare e arricchire quest'eredità utilizzando i metodi e le acquisizioni tecniche moderne che facevano ancora difetto allo zarismo.Ma questa barbarie non soltanto si giustifica (per così dire) storicamente, essa ha anche un significato storico. Essa si spiega con il passato della Russia e del mondo intero, poiché racchiude degli elementi positivi la cui importanza per la costruzione dell'avvenire è immensa.Per quanto concerne il passato, il passo ripreso da Marx e citato in epigrafe resta oggi del tutto valido, in un mondo in cui le rivalità nazionali non cessano di rinnovarsi e di accrescersi.Oggi come un tempo, il fattore politico è subordinato ai fattori economici e sociali, benché possa svolgere un ruolo autonomo, in determinate circostanze. Ma questo ruolo non è decisivo.In Russia in cui le condizioni materiali non erano affatto favorevoli a un'azione politica decisiva, l'autonomia del fattore politico non poteva in alcun modo rivestire un carattere proletario. Nulla nel passato della Russia permise di ben augurare l'impresa bolscevica a meno di una rivoluzione in Occidente. Quest'ultima fallendo condannò la Russia a subire le leggi inesorabili dell'evoluzione capitalista. Lo scacco del movimento operaio occidentale ha, di conseguenza, favorito il trionfo in Russia del fattore politico che, da allora non poteva avere che un aspetto negativo, cesareo.Non si può spiegare l'avventura russa né con il genio di un Lenin o di un Trotsky né con la mediocrità o il tradimento  di un Stalin, perché non sono le giuste o i false interpretazioni del marxismo che determinano la storia di un paese. In un certo senso, il socialismo è opera del capitalismo e non del marxismo - Marx stesso non la pensava altrimenti. Sin dal 1847, Marx afferma che se "il proletariato rovescia il dominio politico della borghesia la sua vittoria non sarà che passeggero, un semplice momento nel servizio che egli effettua verso la rivoluzione borghese stessa, come nel 1794, tanto che, nel corso della storia, nel suo "movimento", non si troveranno create le condizioni materiali che renderanno necessarie la soppressione del modo di produzione borghese e, di conseguenza, la caduta definitiva del dominio politico borghese" [5].Tuttavia la barbarie russa nasconde un nucleo positivo se la si giudica sotto l'angolo dello sviluppo storico del capitalismo imperialista. E' allora che si rivela il senso storico di questa barbarie.Innanzitutto in rapporto al processo di trasformazioni  che la struttura dell'economia russa ha subito grazie all'incomparabile sistema schiavista al quale Stalin e il suo partito hanno sottoposto il popolo russo. Le condizioni materiali dell'emancipazione proletaria non possono, seguendo un assioma dell'insegnamento di Marx, essere realizzate che attraverso un regime di sfruttamento a base d'antagonismo di classe. Nei paesi occidentali, questo ruolo di preparazione materiale dell'emancipazione proletaria e umana è compiuto dal sistema capitalista fondato sull'antagonismo proletariato - borghesia. In Russia, dove prima del 1917 il capitalismo non aveva ancora raggiunto il livello tecnico e economico dei paesi occidentali e in cui la struttura essenzialmente agraria dell'economia serviva da fondamento a un regime autocratico, le rivoluzioni di Febbraio e di Ottobre 1917 non potevano avere che un carattere politico, analogo all'effimera Comune di Parigi del 1871.Come quest'ultima, le rivoluzioni di Febbraio e di Ottobre 1917 in Russia erano dei movimenti popolari eroici in quanto furono l'opera dei soviet e nient'altro in quanto i partiti politici rivali si mischiavano allora ai movimenti di massa, molto spesso per sviarli dal loro cammino spontaneo. Il tragico episodio di Kronstadt segna al contempo la fine dell'iniziativa rivoluzionaria sovietica e l'inizio della supremazia del partito bolscevico che oramai si distaccherà completamente dalla sua base popolare. E' sin da quando, Lenin vivente, che si compie la transizione dalla fase rivoluzionaria sovietica alla fase reazionaria bonapartista, fase in cui, come Marx diceva a proposito del regno del secondo Bonaparte, "lo Stato sembra essersi reso indipendente dalla società, averla assoggettata" [6].Lenin comprese troppo tardi che aveva egli stesso favorito la nascita di una burocrazia bonapartista e morì troppo presto per estirpare il male. Con Stalin, il processo della burocratizzazione e della statizzazione cesarea ha raggiunto il suo apogeo e il suo compimento: il merito storico dello stalinismo è di preparare le condizioni di emancipazione del proletariato russo e di facilitare la futura esplosione rivoluzionaria attraverso la più formidabile centralizzazione del potere statale. Il bonapartismo staliniano è su scala dell'immensità geografica della Russia.Successivamente la portata storica della barbarie staliniana può misurarsi in rapporto alla scala del movimento operaio occidentale. Se in Russia il fattore politico ha riportato un trionfo negativo a causa dell'immaturità del fattore economico e intellettuale, l'assenza di rivoluzione occidentale si spiega con lo scacco del fattore politico malgrado la maturità economica e intellettuale dei paesi occidentali. Non è d'altronde il fallimento del movimento operaio occidentale ad aver provocato la grande avventura russa che si chiama costruzione del socialismo in un solo paese? Soltanto la combinazione efficace delle rivoluzioni occidentale e orientale avrebbe potuto generare e salvare la rivoluzione proletaria mondiale. Alla luce del doppio fallimento tragico dei movimenti rivoluzionari orientale e occidentale, la teoria della Rivoluzione permanente, formulata un secolo fa da Marx, e ripresa con meno fortuna da Trotski e i suoi fedeli, acquista tutta la sua importanza, sia per l'apprezzamento critico del passato sia per la preparazione rivoluzionaria del futuro.La Russia moderna, malgrado la trasformazione della sua struttura economica, malgrado le sue "basi d'Ottobre" erette in mitologia rivoluzionaria dai trotskisti mitomani, rappresenta oggi, dal punto di vista politico, ciò che essa rappresentava all'epoca in cui Marx la considerava come il più formidabile bastione della reazione.Ma tra ieri e oggi vi è una differenza fondamentale: quando Marx denunciava al proletariato occidentale il pericolo dello zarismo, quest'ultimo non poteva nascondere il suo vero volto alle masse dei popoli occidentali. Oggi, la reazione e la barbarie russe si esercitano in nome dell'insegnamento di Marx - è questo un fenomeno dalla portata incalcolabile, fenomeno che contiene in germe il fermento rivoluzionario che deve erodere le fondamenta sociali della burocrazia staliniana e dare al proletariato occidentale l'impulso rivoluzionario necessario per affrettare la caduta del capitalismo borghese.

[SEGUE] [7]

 

Traduzione di Ario Libert

 

 

 

NOTE

 

[1] K. Marx & F. Engels, "Prefazione" all'edizione russa (1882) di Il Manifesto comunista, K. Marx, Économie I. OEuvres I, Gallimard, Parigi, 1994 (rééd.), p. 1483-1485.[2] Frase di Marx a proposito dei suoi epigoni francesi e tedeschi degli anni 1879-1880, molte volte citata da Engels (K. Marx, Philosophie. Oeuvres III, Gallimard, Parigi, 1982, Introduzione, p. CXXVIII-CXXIV).[3] "L'imperativo della rivoluzione s'impone oggi così come si imponeva ieri", (M. Rubel, "Introduction à l’éthique marxienne", in K. Marx, Pages choisies pour une éthique socialiste, M. Rivière, Parigi, 1948, p. XXIV).[4] F. Engels, Anti-Dühring. M. E. Dühring bouleverse la science (1877-1878), Éd. sociales, Parigi, 1973 (rééd.), III parte, cap. II, p. 305 segg. Engels non impiega l'espressione ma analizza la "proprietà di Stato" - o lo Stato come "capitalista collettivo" (ibid., p. 315) – come uno stadio dello sviluppo capitalista di produzione. Marx ha avuto "l'intuizione" (Rubel) di un'evoluzione del modo capitalista verso la statizzazione sin dal 1867 (Il Capitale, Libro I, in: Économie I, op. cit., p. 1139), addirittura sin dal 1844 ("Communisme et propriété" [Comunismo e proprietà], Manoscritti economico-filosofici del 1844, Économie II, op. cit., p. 78).[5] K. Marx, "La critique moralisante et la critique morale. Contribution à l’histoire culturelle de l’Allemagne. Contre Karl Heinzen" [La critica moralizzante e la critica morale. Contributi alla storia culturale della Germania. Contro Karl Heinzen], Deutsche-Brüsseler Zeitung, n° 90-94, 11-15 novembre 1847; in: Sur la Révolution française. Écrits de Marx et Engels, anthologie publiée sous la responsabilité de Claude Mainfroy, Messidor-Éditions sociales, Parigi, 1985, p. 90.[6] K. Marx, Le 18 Brumaire de Louis Bonaparte [Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte], in K. Marx, Politique I, op. cit., p. 532.[7] Il seguito annunciato di quest'articolo non è mai uscito.

 

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30 settembre 2017 6 30 /09 /settembre /2017 05:00

Karl Marx e il primo partito operaio [1]

Maximilien Rubel

Il postulato dell'autoemancipazione proletaria attraversa, come un leit-motiv, tutta l'opera di Marx. E' l'unica chiave per una giusta comprensione dell'etica marxiana. Ha ispirato tutte le procedure, teoriche e politiche, di Karl Marx, dal 1844, quando, in La Sacra Famiglia, scriveva che "Il proletariato può e deve liberarsi da se stesso", attraverso le vicissitudini dell'Internazionale operaia la cui massima, proclamata da Marx, era: "L'emancipazione della classe operaia deve essere opera della stessa classe operaia", sin dai primi anni della sua vita, quando, preoccupato dalla sorte della rivoluzione russa, pose tutte le sue speranze nella plurisecolare obchtchina e i suoi contadini [2].

La forza — o la debolezza — dell'etica marxiana, è la sua fede nell'uomo che soffre e nell'uomo che pensa: — nell'uomo medio — tipo umano più numeroso — e nell'uomo eccezionale, pronto a far sua la causa del primo. Tra i due tipi umani si pone la minoranza onnipotente degli oppressori, padroni dei mezzi di vita e di morte, che ha al suo soldo un esercito che si rinnova senza posa di valletti della spada e della penna, che hanno come missione di mantenere lo statu quo o di ristabilirlo ogni volta che coloro che soffrono e coloro che pensano si uniscano per porvi fine, sognando di instaurare non il cielo sulla terra, ma semplicemente la città umana su una terra umana.

L'unione degli esseri sofferenti e degli esseri pensanti non è concepita da Marx come un'alleanza tra degli esseri che si attribuiscono dei compiti differenti, dal punto di vista di una divisione razionale del lavoro, i primi essendo condannati alla miseria e alla rivolta cieca contro la loro condizione inumana, i secondi aventi la vocazione di pensare per i primi, e di fornire a quest'ultimi delle verità bell'e pronte. A questo proposito, Marx si è espresso con una nettezza che esclude ogni ambiguità, sin dal 1843 in una lettera a Ruge: L'intesa di coloro che soffrono e di coloro che pensano è in verità un'intesa tra "l'umanità sofferente che pensa, e l'umanità pensante che è oppressa". In altri termini i proletari devono elevare l'opinione che essi hanno della loro miseria all'altezza di una coscienza teorica che dia alla miseria proletaria un significato storico e che, allo stesso tempo, permetta alla classe operaia di elevarsi alla comprensione dell'assurdità della sua condizione. Se "l'arma della critica non può sostituire la critica delle armi", se "la forza materiale non può essere rovesciata che dalla forza materiale", non resta tuttavia non meno valido il fatto che "la teoria si muti, essa stessa, in forza materiale, non appena essa ha afferrato le masse".

L'immagine del movimento rivoluzionario non è quella delle folle sofferenti e prive di coscienza guidate da un'élite di uomini chiaroveggenti, che patiscono la miseria, ma quella di una sola massa di esseri in stato permanente di rivolta e di rifiuto, coscienti di ciò che sono, vogliono e fanno.

Certo le aspirazioni radicali del proletariato nascono, molto spesso, spontaneamente, per il solo effetto di una situazione avvilente. Ma è allora che essi appaiono degli esseri che sentono la degradazione dell'uomo di massa come un'offesa inflitta alla loro propria dignità di uomini pensanti. Essi intravedono e annunciano per primi la possibilità e la necessità di una rivoluzione radicale, che trasformi le fondamenta materiali e il volto spirituale della società. Essi si uniscono al proletariato, di cui sentono i bisogni e gli interessi come i propri, e se ne fanno gli educatori alla maniera socratica, insegnando loro a pensare da sé. Gli insegnano, innanzitutto, che la lotta di classe non è soltanto un fatto storico, e cioè un fenomeno costante della storia passata, ma anche un dovere storico, e cioè un compito da compiere in piena conoscenza di causa, un postulato etico che, coscientemente posto in applicazione, evita all'umanità le miserie ineffabili che una civiltà tecnica giunta all'apogeo della sua potenza materiale non può mancare di generare per quanto a lungo si sviluppi seguendo le sue proprie leggi, e cioè, seguendo le leggi del caso. Mentre i predicatori religiosi o moralizzanti si danno da fare per apportare ai diseredati la consolazione di una redenzione o di una purificazione attraverso la sofferenza volontariamente accettata, i pensatori socialisti insegnano loro che essi sono la vittima di un meccanismo sociale di cui essi stessi sono i principali ingranaggi e che essi possono, di conseguenza, far funzionare per il vantaggio materiale e morale di tutta l'umanità, lo sviluppo storico avendo permesso all'homo faber di accedere a quella "totalità" delle forze produttive che favorisce la comparsa dell'"uomo totale": "Di tutti gli strumenti di produzione, il più grande produttivo è la classe rivoluzionaria stessa (Anti-Proudhon).

Il carattere etico del postulato dell'auto-emancipazione del proletariato è ampiamente dimostrato dall'idea che Marx si faceva del partito operaio. E' noto che nessuno dei partiti proletari che Marx ha visto costituirsi o ha aiutato a far nascere gli sembravano corrispondere a quest'idea. Ma ciò che si sa meno, è il fatto, - strano a prima vista - che, anche dopo la dissoluzione della Lega dei comunisti e durante tutto il periodo precedente la fondazione dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori, Marx non ha smesso di parlare del "partito" come di una cosa esistente. La sua corrispondenza con Lassalle e Engels è, a questo proposito, estremamente significativa. In numerose lettere scambiate tra i tre amici, nel corso di questo periodo, si discute del "nostro partito", mentre nessuna organizzazione politica degli operai esisteva realmente. Ma molto più rivelatrici sono, per il problema evidenziato, le lettere di Marx a Ferdinand Freiligrath, il cantore rivoluzionario degli anni 1848- 1849, al momento dell'affare Vogt. Freiligrath era appartenuto alla Lega dei comunisti e aveva pubblicato i suoi versi incandescenti sulla Nuova Gazzetta Renana diretta da Marx. Viveva, come quest'ultimo, a Londra, dove occupava, in una banca, un impiego "onorevole". Il suo nome essendo stato associato agli intrighi che si preparavano in rapporto alle calunnie sparsa da Vogt sul conto di Marx e del suo "partito", Freiligrath intraprese dei tentativi per essere esentato dall'obbligo di figurare come testimone a carico contro contro Vogt, nei processi intentati da Marx a Londra e a Berlino.

Marx tentò in una lettera il cui tono caloroso non cede in nulla al rigore politico, di convincerlo che i processi contro Vogt erano "decisivi per la rivendicazione storica del partito e per la sua ulteriore posizione in Germania" e che non era possibile lasciare Freiligrath fuori dal gioco, "Vogt", gli scrisse Marx, "tenta di trarre profitto dal tuo nome e finge di agire con la tua approvazione infangando l'intero partito, si vanta di averti tra i suoi sostenitori... Se abbiamo coscienza entrambi di aver, ognuno a proprio modo e nel disprezzo di tutti i nostri interessi personali, mossi dai moventi più puri, agitato per anni la bandiera al di sopra delle teste dei filistei, nell'interesse della 'classe la più lavoratrice e la più miserabile', sarebbe, io credo, un peccato meschino contro la storia, se ci urtassimo per delle bazzecole che poggiano su dei malintesi".

Freiligrath, pur assicurando Marx circa la sua amicizia indefettibile, puntualizzerà nella sua risposta che, se egli intendeva rimanere fedele alla causa proletaria, si considerava tuttavia tacitamente disimpegnato da ogni obbligo nei confronti del "partito", dalla dissoluzione della Lega comunista. "Alla mia natura", egli scrisse, "così come a quella di ogni poeta, occorre la libertà! Il partito somiglia, anch'esso, a una gabbia, e si può comporre meglio, anche per il partito, dall'esterno piuttosto che dall'interno. Sono stato un poeta del proletariato e della rivoluzione, per molto tempo prima di essere stato membro della Lega e membro della redazione della Nuova Gazzetta Renana! Voglio dunque continuare a volare con le mie ali, non voglio appartenere che a me stesso e voglio io stesso disporre interamente di me!". Nella parte conclusiva, Freiligrath non mancò di far allusione a "tutti gli elementi dubbiosi e abietti... che si erano accollati al partito" e di evidenziare la sua soddisfazione di non farne più parte, "non fosse che per il gusto della pulizia".

La replica di Marx, a più di un titolo, presenta un interesse particolare per ciò che costituisce, accanto al Manifesto del partito comunista e alla Critica del programma di Gotha uno dei rari documenti suscettibili di chiarire uno dei problemi più importanti, se non il più importante, dell'insegnamento marxiano, problema sul quale la più grande confusione non smette di regnare negli spiriti marxisti.

Ricordando a Freiligrath che la dissoluzione della Lega comunista aveva avuto luogo (nel 1852) su sua proposta, Marx dichiara che dopo quell'avvenimento non è appartenuto e non appartiene a nessuna organizzazione segreta o pubblica: "Il partito", egli scrive, " compreso in senso essenzialmente effimero, ha smesso di esistere per me da otto anni". In quanto alle discussioni sull'economia politica che egli aveva fatto dopo la pubblicazione del suo Per la critica dell'economia politica (1859), esse erano destinate non a qualche organizzazione chiusa ma a un piccolo numero di operai scelti tra i quali vi erano anche vecchi membri della Lega comunista. Sollecitato da alcuni comunisti americani di riorganizzare la vecchia Lega, egli aveva risposto che dal 1852 non era più in relazione con nessuna organizzazione di alcun genere: "Risposi... che avevo la ferma convinzione che i miei lavori teorici erano più utili alla classe operaia della mia collaborazione con delle organizzazioni, che, sul continente, non avevano più alcuna ragione di essere". Marx prosegue: "Dunque, dal 1852, non so nulla di un "partito" in senso letterale. Se sei un poeta, io sono un critico e ne avevo veramente abbastanza delle mie esperienze fatte tra il 1849 e il 1852. La Lega, - così come la Società delle stagioni di Parigi e come cento altre società, - non era che un episodio nella storia del partito il quale nasce spontaneamente dal terreno della moderna società [3]". Poco oltre leggiamo: "La sola azione che ho continuato dopo il 1852 per quanto tempo ciò era necessario, e cioè sino alla fine del 1853..., era il system of mockery and contempt (4)… contro gli inganni democratici dell'emigrazione e le sue velleità rivoluzionarie"... Marx parla allora degli elementi sospetti menzionati da Freiligrath appartenuti alla Lega. Gli individui nominati non erano in realtà mai stati membri di quell'organismo.

E Marx aggiunge: "E' certo che nelle tempeste, il fango viene agitato, che nessuna era rivoluzionaria profuma di acqua di rose, che in certi momenti si raccolgono ogni genere di rifiuti. Presentemente, quando si pensa agli sforzi giganteschi diretti contro di noi da tutto quel mondo ufficiale che, per rovinarci, non si è accontentato di sfiorare il delitto penale, ma vi si è immerso sino al collo; quando si pensa alle calunnie sparse dalla 'democrazia dell'imbecillità' che non ha mai potuto perdonare al nostro partito operaio di aver avuto più intelligenza e carattere di quanto essa non ne avesse mai avuto, quando si conosce la storia contemporanea di tutti gli altri partiti e quando, infine, ci si domanda ciò che si potrebbe realmente rimproverare al partito intero, si deve giungere alla conclusione che questo partito, in questo XIX secolo, si distingue brillantemente per la sua pulizia. Possiamo, con le usanze e i traffici borghesi, sfuggire all'infangamento? E' proprio nel traffico borghese che essi sono al loro posto naturale... Ai miei occhi, l'onestà della morale solvibile... non è in nulla superiore all'abietta infamia che né le prime comunità cristiane né i club dei giacobini né la nostra defunta Lega non sono riuscite a eliminare dal loro interno. Soltanto che, vivendo nell'ambiente borghese, si prende l'abitudine di perdere il senso dell'infamia rispettabile o dell'infame rispettabilità".

La lettera, la cui maggior parte è dedicata a delle questioni di dettaglio del processo contro Vogt, termina con queste frasi: "Ho cercato... di dissipare il malinteso a proposito di un 'partito': come se, con questo termine, intendessi una 'Lega' sparita da otto anni o una redazione di giornale dissolta da dodici anni. Con partito, intendevo il partito in senso eminentemente storico".

Il partito in senso eminentemente storico, - era per Marx il partito invisibile del sapere reale piuttosto che il sapere dubbio  di un partito reale, detto altrimenti, egli non concepiva affatto che un partito operaio, qualunque esso fosse, potesse incarnare, per il semplice fatto della sua esistenza, la "coscienza" o il "sapere" del proletariato [5].

Durante gli anni in cui Marx su teneva ai margini di ogni attività politica dedicandosi esclusivamente a un lavoro scientifico massacrante, non smetteva mai, quando gli si presentava l'occasione, di parlare in nome dell'invisibile partito di cui si sentiva responsabile. Così, nel 1859, ricevendo una delegazione del club operaio di Londra, non temeva di dichiarare loro che si considerava, insieme a Marx, come il rappresentante del "partito proletario". Lui e Engels diceva, non traevano questo mandato che da se stessi, ma quest'ultimo sarebbe "controfirmato dall'odio esclusivo e generale" che votano loro "tutte le classi del vecchio mondo e tutti i partiti".

Quando, durante gli anni 60, si assiste alla rinascita del movimento operaio nei paesi dell'occidente, Marx valutava che il movimento era venuto per "riorganizzare politicamente il partito dei lavoratori" e per proclamarne di nuovo apertamente gli scopi rivoluzionari. Nello spirito di Marx, l'Associazione Internazionale dei Lavoratori era la continuazione della Lega dei Comunisti di cui egli aveva, insieme a Engels, definito il ruolo, alla vigilia della rivoluzione di Febbraio. La Lega non doveva essere un partito tra gli altri partiti operai, essa aveva uno scopo più elevato, perché più generale: rappresentare in ogni momento "l'interesse del movimento totale" e "l'avvenire del movimento", indipendentemente dalle lotte quotidiane condotte su scala nazionale da parte dei partiti operai. L'Internazionale operaia, fondata a Londra nel 1864 in circostanze incomparabilmente più favorevoli nel 1847 della Lega dei Comunisti nella stessa città, doveva essere al contempo l'organo delle aspirazioni comuni dei lavoratori e l'espressione vivente del loro sapere teorico e della loro intelligenza politica. L'Associazione Internazionale dei Lavoratori era, secondo Marx, il partito proletario, la manifestazione concreta della solidarietà degli operai nel mondo. "Gli operai", scriveva Marx nell'Indirizzo inaugurale, hanno tra le loro mani un elemento di successo: il loro numero. Ma il numero non pesa sulla bilancia se non è unito dall'organizzazione e guidato dal sapere".

Per Marx, l'Internazionale operaia era il simbolo vivente di quell'"alleanza della scienza e del proletariato" alla quale Ferdinand Lassalle, prima di scomparire, aveva legato il suo nome. L'internazionale non potendo più, dopo la caduta della Comune di Parigi, svolgere il ruolo che gli assegnava il suo protagonista, quest'ultimo preferì una volta di più riprendere il suo lavoro, preso dal desiderio di lasciare alle generazioni operaie future uno strumento perfetto di autoeducazione rivoluzionaria. Marx fu il primo a riconoscere che "le idee non possono mai portare oltre un vecchio stato del mondo" e che "per realizzare le idee, ci vogliono degli uomini che pongano in opera una forza pratica" (La sacra famiglia). Ma se è vero che le idee non possono condurre che "al di là delle idee del vecchio stato del mondo", ne consegue che la vera metamorfosi  del mondo implica al contempo la trasformazione delle cose e quella delle coscienze", e che il tipo dell'uomo  vivente in stato permanente di rivolta e di rifiuto è, in qualche modo, un'anticipazione del tipo umano della città futura, dell'"uomo integrale".

Maximilien Rubel

[Traduzione di Ario Libert]

 

NOTE

[1] Articolo di Maximilien Rubel uscito in Masses (socialisme et liberté) N° 13 (febbraio 1948). Il titolo reca una prima nota: Frammento di una Introduzione all'etica marxiana in uscita presso M. Rivière.

[2] Cfr. Karl Marx e il socialismo populista russo, in La Revue socialiste, maggio 1947.

[3] Sottolineato da me (M. R.).

[4] "La beffa e il disprezzo sistematici" (M. R.).

[5] Engels non la pensava d'altronde diversamente, a giudicare dalle lettere che egli indirizzava a Marx durante la crisi attraversata dalla Lega. Eccone un campione: "Cosa abbiamo da cercare in un 'partito', noi che fuggiamo come la peste le posizioni ufficiali, che ci importa, a noi che sputiamo sulla popolarità, e che dubitiamo di noi stessi quando cominciamo a diventare popolari - un partito, e cioè una banda di asini che giurano su di noi, perché ci credono nostri simili?" (13 febbraio 1851).

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