Un più che interessante saggio di Neil Larsen, importante figura del movimento della wertkritik, che tanto ha fatto negli ultimi decenni per portare avanti gli aspetti autenticamente critici del marxismo del XX secolo e denunciare ogni forma di totalitarismo statuale esistente.
Idioma di crisi
Dell'immanenza storica del linguaggio in Adorno
Neil Larsen
Il presente testo è opera di Neil Larsen, professore in letteratura comparata all'Università della California che lavora regolarmente sulla Teoria critica della Scuola di Francoforte. Questo testo è stato pubblicato sulla rivista tedesca "Krisis" nell'aprile 2010 e reca con sé una eco delle discussioni tenute sul pensiero di Adorno, Pollock e Horkheimer nel movimento della critica del valore, nel libro "Temps, travail et domination sociale" [Tempo, lavoro e dominio sociale] di Moishe Postone ad esempio o nell'articolo di Norbert Trenkle, "Négativité brisée. Réflexions sur la critique de l'Aufklärung chez Adorno et Horkheimer" [Negatività spezzata. Riflessioni sulla critica della Aufklärung in Adorno e Horkheimer], uscito anche sulle riviste "Krisis" e "Lignes").
I
"Il tutto è il non-vero" [1]. Questa formula, una delle frasi emblematiche dei Minima Moralia, la più adorniana delle opere di Adorno, comporta un tocco d'ironia che, forse, il suo autore non ha avvertito. Nonostante la sua verità quando essa rimprovera amaramente alla dialettica hegeliana di aver fatto l'apologia della modernità capitalista, l'asserzione, in quanto massima filosofica a parte intera, si rivela manifestamente falsa e fatale per le aspirazioni a un pensiero dialettico. Adorno, sicuramente, lo riconosce attraverso la sua pratica - perché non si potrebbe trovare in Minima Moralia, né in nessuna delle sue altre opere, il minimo dubbio sul fatto che la teoria critica, attraverso il suo movimento concettuale stesso, deve sforzarsi di totalizzare il suo oggetto - così come nella teoria: e non vi è affatto bisogno di cercare molto, è ancora Minima Moralia che ce ne dà conferma: "Il pensiero dialettico si oppone alla reificazione anche nel senso che esso si rifiuta di confermare la singolarità individuale nella sua individuazione, nel suo isolamento e nella sua separazione: esso definisce l'individuazione proprio come un prodotto dell'Universale" [2]. Rifiutare di isolare implica di partecipare alla totalizzazione, non fosse altro in maniera non-hegeliana. La sola alternativa consisterebbe nel capitolare davanti alla coscienza reificata dell'oggetto nella sua pura immediatezza. Può darsi che il "tutto" sia il "non vero", ma ciò non fa della parte la verità. L'uno e l'altra diventano falsi, per lo meno dal punto di vista che è direttamente quello della "vita falsa", alla quale si collega scientemente e senza intenzione apologetica Minima Moralia.
Ciò che queste parole hanno d'ironico, in modo questa volta meno cosciente e forse anche involontario, è la profonda verità che esse assumono quando si considera il modo di presentazione formale adottato da Adorno: esse riflettono allora la relazione che il suo pensiero ha con la lingua e lo stile che lo veicolano. Con qualche rara eccezione, è una lingua che, almeno in apparenza, rifiuta di lasciarsi mediatizzare da qualche norma formale di sistematicità o di schema argomentativo qualunque esso sia. Ogni lettore di Adorno, da quello recente al conoscitore e all'esegeta universitario, ne fa l'esperienza attraverso soprattutto la grande difficoltà che si può provare nel riassumere - addirittura qualche volta semplicemente ricordare - le sue tesi. Come me lo conferma la mia pratica consistente nell'insegnare le opere di Adorno e a chiedere agli studenti di produrre dei riassunti, è un compito che può sembrare virtualmente impossibile [3] Spesso ne risulta nient'altro che una successione di citazioni, quasi sempre un campione di prosa adorniana a base di aforismi e di tensione dialettica. Consideriamo ad esempio - trascurando qui il fatto che sia stato scritto insieme a Max Horkheimer – il saggio dedicato all'industria culturale in La dialectique de la Raison. [Dialettica dell'illuminismo].
Come abbozzare o riassumere l'articolazione logica del suo ragionamento d'insieme? Si può cercare di farne l'esegesi o studiare uno dei commenti accettabili già pubblicati ma, prima o poi, se si segue il testo da vicino, si giunge quasi inevitabilmente alla conclusione che questa logica, benché essa sia ovunque in vigore, non si sviluppa tuttavia per gradi: essa si ripete piuttosto in permanenza, cambiando ogni volta contesto empirico e angolo di visualizzazione. Sin da una delle prime frasi - "La civiltà attuale conferisce a tutto un'aria di somiglianza. Film, radio e riviste costituiscono un sistema" [4] -, il "tutto" è per l'essenziale posto di colpo, e se il lettore che non fosse immediatamente persuaso è suscettibile infine a lasciarsi convincere della portata sociologica della frase o della pura dinamica - si potrebbe quasi parlare di rabbia - della sua volontà di verità, non troverà tuttavia nel testo nessuna velleità di provare la veridicità di quest'asserzione, né di nessuna di quelle, enfatiche, che successivamente persistono nel presentarsi come delle rivelazioni e formano in fin di conto tutto il contenuto del saggio e dello stesso libro. Qui, come a gradi diversi in ogni scritto di Adorno, non si può sfuggire alla "non-verità" del "tutto" se non lottando costantemente contro quest'ultimo all'interno di quasi ogni predicazione lessicale. Ciò non contraddice in alcun modo il fatto che il pensiero adorniano, in ogni punto dato del suo sviluppo e della sua presentazione formale, costituisce un tutto coerente, agile e maneggevole, ammirevolmente riflessivi e mediatizzati. Semplicemente, questo movimento di pensiero che passa attraverso il linguaggio è allo stesso tempo movimento interno di condensazione del linguaggio, mirante ciò che, sul piano dell'organizzazione logica della prosa critica adorniana, si traduce con una fusione della dialettica e dello stile al livello della più piccola unità significante: la frase o il breve incatenamento aforistico di frasi. Così accade, ad esempio, con questa formula, presa quasi a caso: "Ciò che viene proposto (nelle immagini fotografiche), non è l'Italia, ma la prova visibile della sua esistenza" [6]. O ancora: "Il consumatore diventa l'alibi dell'industria del divertimento alle cui istituzioni non può sfuggire" [7]. Quest'ultima frase, un po' più esplicita dal punto di vista teorico, converrebbe probabilmente meglio delle precedenti per i nostri tentativi di riassunto della "produzione industriale dei beni culturali", ma la pretesa del saggio alla verità, con la forza di convinzione che ciò implica, sembra tanto potente in ciascuna di esse. Tutte le frasi o massime di questo tipo sembrano dispiegarsi, sul modo iterativo o seriale, a partire da una logica quasi identica e totalmente presente in ciascuna di esse.
Certo, su questo punto, nessuno era più lucido di Adorno, e possiamo trovare delle riflessioni su questa forma di presentazione in tutta la sua opera [8]. Ma in nessuna parte essa è evocata in modo più acuto che in quella pietra angolare delle Note per la letteratura intitolata "Il saggio come forma" [9]. Ciò che, da un punto di vista saggistico, Adorno osserva a proposito del saggio - soprattutto, che "senza anche esprimerlo, tiene conto della non-identità della coscienza", che "è radicale nel suo non-radicalismo, nel suo modo di astenersi da ogni riduzione a un principio, di porre l'accento sul parziale di fronte alla totalità, nel suo carattere frammentario" [10] -, non contento di fornire le basi di una teoria generale della forma-saggio, descrive inoltre abbastanza bene ciò a cui i lettori di Adorno sarebbero confrontati se, nell'ideale, la forma obbedisse alla sua intenzione.
Tuttavia, le nostre riflessioni sulla natura del principio formale fondamentale di Adorno, questa fusione dello stile e dell'intento teorico in ciò che potremmo schematicamente designare qui con il termine di minimalismo dialettico, non potrebbe fermarsi in un cammino così positivo. Anche se si verifica che Adorno abbia visto giusto in quanto alle potenzialità del "metodicamente non metodico" [11] in materia cognitiva e critica - e si potrebbe far valere che il suo minimalismo dialettico è giunto, probabilmente oltre i sogni più folli di Adorno, a universalizzarsi per diventare in qualche modo, ironicamente, l'accento popolare della voce dell'autenticità critico-teorica, una voce che chiunque tenta di raggiungere questa autenticità, compreso l'autore del presente testo, non può resistere alla voglia di imitare -, rimangono le questioni dell'origine primaria, storico-genetica, di questa lingua, e di ciò potrebbero essere i suoi limiti ideologici specifici, il suo eventuale momento di "non-verità". Come minimo, cadiamo in un paradosso teorico e formale nascosto praticamente in ogni pagina dell'opera di teorico critico di Adorno: come accade che il "tutto" sia diventato il "non-vero" dal punto di vista di un pensiero che la sua tendenza formale ed espressiva porta con sé, in rapporto a non importa quale oggetto dato, ad ammettere - convinzione che riflettono in fin di conto il suo movimento e il suo contenuto stessi - esattamente l'inverso? E' la questione alla quale mi azzarderò a rispondere qui in un modo più o meno speculativo.
II
Un mezzo, forse, per districare questo paradosso consisterebbe nel confrontare il minimalismo dialettico adorniano con l'inevitabile modello in materia di prosa critico-dialettica moderna, e cioè la lingua di Marx, e prima di tutto quella del Capitale. Perché anche se, sul piano filosofico (e, in un certo senso, filologico), è evidentemente a Hegel che la dialettica di Adorno deve di più, la sua revisione della forma della teoria critica in rapporto alla totalità e al sistema passa in compenso indubbiamente attraverso il legame teorico positivo che aveva con Marx, per quanto ambigua possa essere stata questa filiazione e per quanto reticente Adorno sia potuto apparire nell'esaminarlo apertamente. Consideriamo, in quest'ottica, una delle formule più riconoscibili e più enigmaticamente dialettiche della quarta e ultima sezione (a proposito del "carattere di feticcio della merce") del primo capitolo del Capitale: "Il valore non porta dunque scritto in fronte quel che è. Anzi, il valore trasforma ogni prodotto di lavoro in un geroglifico sociale" [12]. Questa sequenza di due fasi contiene il chiasmo dialettico o rovesciamento, tipico dello stilista dialettico qual era Marx: la superficie oggettiva, reificata, della formazione sociale capitalista appariva come trasparente e andante da sé. La forma-valore è socialmente tacita, la sua logica specifica sembra data di colpo all'interno della pratica sociale universale. Ora, è proprio questo carattere di evidenza, questa trasparenza oggettiva che ci dissimula l'essenza, il principio sintetico sul quale è fondata la società capitalista. La forma-valore è una forma-feticcio non perché è misteriosa (un "geroglifico") in se stessa, ma perché entra in una relazione di determinazione reciproca con degli intrecci oggettivi di rapporti sociali che fa dei suoi prodotti dei feticci e dei suoi "portatori" sociali gli adoratori del feticcio. La verità della forma-valore si nasconde nel suo carattere stesso di trasparenza e di apparente evidenza, e questo sia sul piano pratico sia su quello teorico. Per decriptare il valore, si deve innanzitutto capire come esso trasmuta la totalità sociale stessa in in criptogramma.
Meglio di numerosi marxisti del suo tempo - e grazie al fatto, questo va da sé, che egli aveva studiato Hegel tanto attentamente quanto l'aveva fatto Marx stesso -, Adorno sapeva leggere Il Capitale e poteva restituire a livello della frase, e spesso sotto la stessa forma invertita o chiasmica, il movimento dialettico e logico-stilistico posto qui in evidenza. Così l'industria culturale concettualizzata in La Dialettica dell'Illuminismo non domina i consumatori assoggettandoli attraverso il terrore o l'adulazione. Essa li domina precisamente rendendoli liberi di consumare i suoi prodotti, e cioè avendo preventivamente creato un'oggettività sociale esistente "dietro le spalle" dei consumatori e che, anche quando, diciamo, hanno spento la televisione, continua di ripetere l'essenziale del suo "messaggio" anche nelle loro teste. L'industria culturale, come il valore, rappresenta la forma esterna, oggettiva, di ciò che i soggetti della relazione sociale dominante e reificante sono già diventati in quanto soggetti.
Tuttavia, il posto occupato da questa frase di Marx nell'insieme formato da Il Capitale non è affatto arbitrario. Marx non avrebbe potuto aprire con essa il capitolo dedicato alla merce: la verità che, in uno stile quasi aforistico, essa condensa a proposito dell'oggetto della critica marxiana - la forma-valore - doveva prima essere stata evidenziata per mezzo del rigoroso argomento teorico che precede la quarta e ultima sezione del capitolo. Questa trasparenza oggettiva del valore nella forma sotto la quale essa si manifesta, Marx ha sin d'ora dimostrato che tradisce, tenendo conto delle sue proprie condizioni immanenti, la sua misteriosa essenza feticizzata. Che la relazione-valore esista in modo evidente in sé e poggia, in modo così evidente, su un'equazione che fa intervenire delle categorie distinte di lavoro e di beni, funge qui da premessa inamovibile da cui deriva che il valore deve necessariamente assumere le sembianze di una bizzarra "sostanza sociale" presente nelle merci e che si fa passare per loro proprietà materiale e quasi oggettiva. E questa conseguenza, conformemente al criterio di evidenza in sé che ci fornisce la relazione-valore stessa, deve essere dichiarata "falsa". Là dove la teoria dell'economia politica classica di Smith e Ricardo cede di fronte alla merce-feticcio e si condanna in definitiva in virtù delle sue proprie con immanenti, in compenso l'incomparabile potenza critica della formula chiasmica di Marx sulla forma-valore, e più generalmente del modo di esposizione che egli adotta in Il Capitale, poggia su questa dimostrazione; dopo di che il resto del libro estrapola e edifica il suo sistema teorico su questa base rigorosa.
Niente del genere con le formule dialettiche della "produzione industriale dei beni culturali". A discolpa di Adorno, si deve senz'altro convenire che il suo pensiero, non fosse altro che implicitamente, tenta di continuo di realizzare questo punto d'origine di un grande rigore teorico, o per lo meno di conservarne costantemente allo spirito la verità radicale. Inoltre, nella misura in cui gli oggetti della critica adorniana sono di natura culturale o ideologica, i criteri di prova diventano molto più difficili da raggiungere, e mediatizzati in modo infinitamente più complesso. Tuttavia, in principio, ciò non avrebbe dovuto impedire Adorno - e ancor meno i lettori e studenti che oggi leggono le sue opere - di sforzarsi di innalzare teoria critica e critica immanente all'altezza di questo rigore modello. Abiurare i sistemi e le "false" totalità, che sia in nome della "individualità" o del "non-identico", può somigliare poco o nulla a un'abdicazione teorica nei confronti del modello di logica e di sistematicità stabilito da Il Capitale. Tuttavia, in Dialettica dell'Illuminismo Adorno sembra già aspettarsi dai suoi lettori che in fondo essi imparino a mettere da parte la loro speranza di vedere le articolazioni logiche e le pretese della critica immanente alla verità conseguire tali livelli di prova. L'ironia del pensiero adorniano, dato il grande rigore filosofico che la caratterizza risiede d'altronde, nel fatto che niente, in lui, è mai provato - a meno, naturalmente, che non si desideri o capaci di condividere i suoi dubbi manifesti quanto al fatto che ogni cosa che non è già reificata, cambiata in una briciola di conoscenza "positiva", possa essere provata, o che una prova possa ancora rappresentare meglio della sempiterna rivelazione empatica della pura negatività dell'oggetto. Il movimento di ciò che costituirebbe una prova per Adorno, se una tale cosa era (o, forse, quando una tale cosa è) possibile, sembra inscriversi nel vortice delle fonti dialettiche dello stile e della lingua stesse, abitato da una speranza intuitiva, diciamo chiaramente da una fede: che nel corso della sua traiettoria qua giù, l'oggetto sezionato dalla teoria critica trasparirà attraverso le parole stesse al momento opportuno. Ma si deve anche ammettere che, nello stesso tempo, Adorno sembrava scusarsi: perché non è evidentemente il saggio, così come egli lo descrive (autoreferenzialmente) in "Il saggio come forma", che costituisce il modello, "la forma critica per eccellenza [13]. La forma adottata da Il Capitale – una forma a proposito della quale si potrebbe speculare a lungo (a quale genere collegare Il Capitale?) ma che non è certamente quella del saggio - stabilisce questo modello, scartando e degradando ogni pretesa sedimentata in nome di una logorrea di aforismi pseudo-nietzscheani "metodicamente non metodici", così traboccanti di ragione dialettica e così fedeli al loro punto di origine marxiana essi possano sembrare, presi separatamente.
Marx, ricordiamolo, si dedica al problema della metodologia in un celebre passo della introduzione dei Grundrisse intitolato "Il metodo dell'economia politica" [14], in cui ammette che sembra a prima vista più corretto "cominciare con il reale e il concreto" - in economia, con la popolazione - per pervenire in seguito "sempre più, analiticamente, a dei concetti più semplici [le classi, lo scambio, la divisione del lavoro, ecc.]; dal concreto rappresentato ad astrazioni sempre più sottili, sino a giungere alle determinazioni più semplici" [15]. Metodo che egli compara al metodo inverso e meno spontaneo consistente a partire dalle suddette determinazioni più semplici - e cioè dai concetti astratti - per risalire sino al livello della totalità concreta: "Nella prima andatura
simples – c’est-à-dire des concepts abstraits – pour remonter jusqu’au niveau de la totalité concrète : « Dans la première démarche, la plénitude de la représentation a été volatilisée en une détermination abstraite ; dans la seconde, ce sont les déterminations abstraites qui mènent à la reproduction du concret au cours du cheminement de la pensée [16]». Et Marx d’ajouter que « [c]’est manifestement cette dernière méthode qui est correcte du point de vue scientifique [17]». Si l’on se doit de spécifier ici que, à ce niveau de généralité, la méthode « correcte du point de vue scientifique » reste celle des systèmes de l’économique politique classique (essentiellement Smith et Ricardo) que Marx prend pour objet immanent de sa critique, il faut également noter que, d’un point de vue formel, Le Capital se conforme lui aussi à cette méthode lorsqu’il prend pour point de départ la marchandise et la forme-valeur pour en faire découler toute la chaîne structurée des catégories (l’échange, l’argent, le capital, la survaleur, etc.) qui mènent, sur le plan théorique, à la « totalité concrète », c’est-à-dire au mode de production capitaliste proprement dit. Là où, en revanche, Marx s’écarte de l’économie politique classique et adopte un point de vue critique, c’est par son insistance sur l’origine historique et spécifiquement bourgeoise des abstractions conceptuelles elles-mêmes [18]. Mais, tandis que leur caractère abstrait est conservé, leur interaction systématique (leur structure), dans le contexte méthodologique du Capital, est rendue possible par un « tout » évoluant au cours de l’histoire (la totalité concrète) et doté d’une structure et de « lois de mouvement » auxquelles vient désormais, en quelque sorte, s’incorporer directement la structure théorique du Capital, autrement dit auxquelles cette dernière devient immanente. Si les déterminations simples, les abstractions conceptuelles, remplissent leur fonction d’abstractions sans pour autant capituler, comme c’est le cas en économie politique classique, devant leur forme réifiée et naturalisée, c’est parce que dans Le Capital elles sont devenues des moments historiquement fondés d’une totalité qui n’est pas abstraite. Ainsi, apporter la preuve que la valeur, par la forme sociale qu’elle revêt, dissimule le « tout » social qui l’engendre, se ramène d’une certaine façon à une question (théoriquement) simple : montrer que ce « tout » est historique, qu’il n’a pas toujours été ce qu’il est, et finira nécessairement par devenir autre. Le « mode d’exposition » qu’adopte Le Capital (sa Darstellungsweise, pour reprendre le terme employé par Marx dans la postface à la deuxième édition du tome I) ne coïncide pas avec son « mode d’investigation » (Forschungsweise), dans la mesure où seul le premier est à même de refléter le mouvement immanent de la totalité historique et de faire émerger le système théorique au sein duquel il est possible d’apporter une preuve rigoureuse de cette historicité[19] – une preuve qui ne se réduise pas à la forme réifiée et tautologique dont l’économie politique classique est coutumière.
Considéré précisément dans cette perspective, le minimalisme dialectique d’Adorno, sa manière spécifiquement dialectique de faire dissidence d’avec la logique du système et la méthode théorique rigoureuse, ne serait-ce qu’au niveau de sa propre Darstellungsweise, ne trahit ni un recul vers un empirisme naïf régi par le « concret chaotique », ni une identification idéaliste-hégélienne du tout avec le concept. Il témoigne plutôt d’une adhésion à la méthode du Capital, en vertu de laquelle, paradoxalement, ce qui aurait dû constituer le tout concret et historique a en quelque sorte rebasculé dans l’abstraction. Comme si la « totalité concrète » immanente à (et, par conséquent, médiatisant) la structure théorique abstraite et systématique du Capital avait inexplicablement perdu son moteur historique et s’était figée. Les concepts, chez Adorno, conservent leur forme dialectique non-réifiée – échappant ainsi à la « mauvaise » abstraction caractéristique, entre autres, des limites théoriques du positivisme – mais semblent interdire le déploiement méthodologique qui leur donnerait l’envergure d’un système théorique. C’est qu’en effet la seule totalité concrète sur laquelle on pourrait éventuellement bâtir une « totalité de pensée » paraît avoir déjà, chez Adorno, falsifié son propre concept d’histoire. La méthode elle-même, sans cesser d’être perçue comme nécessaire, voit ses rouages gripper et se bloquer. Il n’existe pas de médiateur logique permettant d’atteindre un tout qui ne s’érige plus conceptuellement (comme dans Le Capital) à la fois en prémisse et en conclusion du raisonnement théorique, puisque ce tout, sitôt son concept invoqué, s’oppose désormais à la théorie en tant que « mauvaise » abstraction, en tant que donné.
Le « tout », dans ce cas, finit donc par devenir « non vrai » dans un autre sens encore : en tant que totalité historique qui, retrouvant (mais en même temps révoquant) les fondements méthodologiques posés par Le Capital, médiatise les abstractions conceptuelles de la théorie et de la méthode avec cette fois le risque évident de les dépouiller de leur vérité. La médiation semble aller à rebours, engendrant la nécessité paradoxale d’une immédiateté dialectique. Autrement dit, face à un « tout » aussi inébranlablement « faux », seule pouvait espérer perdurer une dialectique qui à aucun moment ne lui a tourné le dos mais l’a au contraire condamné sans relâche, lui et son absolue positivité ; une dialectique qui, telle Ulysse affrontant les Sirènes, s’est ligotée à sa propre surface immédiate, à sa forme.
III.
Le problème est que, même si la pensée qui le décrit parvenait, d’une manière ou d’une autre, à préserver sa forme et sa fermeté dialectiques, notre « tout » n’en serait pas plus dialectique pour autant et travaillerait lui aussi sans relâche à contrecarrer le mouvement dialectique de la réflexion critique immanente cherchant à le saisir. C’est, du reste, l’argument qu’avance le Temps, travail et domination sociale de Moishe Postone[20] à l’encontre du « pessimisme critique » de Horkheimer ; un argument qui semble s’appliquer tout aussi bien à Adorno. Remarquant l’influence décisive sur la pensée de Horkheimer de la théorie du capitalisme d’Etat développée par Friedrich Pollock, Postone note « un tournant théorique pris [par l’Ecole de Francfort] à la fin des années 1930, au terme duquel le capitalisme postlibéral en vint à être conçu comme une société unidimensionnelle, intégrée, complètement administrée, comme une société qui n’engendre plus de possibilité immanente d’émancipation sociale[21] ». Certes, c’est là une accusation que les marxistes « orthodoxes » et la théorie « révolutionnaire » ont souvent portée contre la théorie critique en général et contre Adorno en particulier – qu’on se souvienne de la raillerie célèbre par laquelle Lukács accusait ce dernier de s’être installé au « Grand Hôtel de l’Abîme[22] ». Toutefois, ce qui confère sa force spécifique à la thèse de Postone, c’est sa méticuleuse démonstration du fait que le pessimisme de Horkheimer n’était pas simplement conjoncturel, qu’il s’agissait d’un « pessimisme nécessaire » quant à « la possibilité historique immanente que le capitalisme soit dépassé[23] ». Cette nécessité historique étrangement immanente, qui pour Horkheimer découle non pas du changement historique et de la crise interne mais de la stagnation et de la paralysie, préfigure visiblement l’adoption, si nette dans la pensée d’Adorno, de la méthodologie dialectique du Capital d’une manière paradoxalement à la fois « orthodoxe » et apocalyptique. De la même façon, Postone impute ce « pessimisme critique » non pas à un quelconque déviationnisme (comme le font les détracteurs « révolutionnaires » de la théorie critique) mais à une adhésion inquestionnée, acritique, au « marxisme traditionnel » et, en particulier, à son identification du point de vue critique et révolutionnaire avec celui du prolétariat, du « travail ». Postone développe ici un vaste argumentaire critique d’une complexité et d’une portée telles qu’il ne nous est guère possible d’en rendre compte, sinon brièvement. Sa thèse essentielle énonce que le travail, au même titre que la marchandise ou la valeur, est une forme sociale abstraite indissociable du capital ; une forme, par conséquent, dont la crise est subsumée sous la crise globale du capitalisme. En érigeant le « travail » en contrepoids du capital comme si le premier représentait un moyen glorieux, spontané et nécessaire pour parvenir à l’émancipation sociale, on échoue à saisir le résultat théorique dégagé par Le Capital, à savoir que détacher le « travail » de la notion plus générale d’activité sociale visant des fins précises équivaut déjà à se conformer à la logique, constitutive du capitalisme, suivant laquelle une activité n’est considérée comme « productive » que pour autant qu’elle produise de la valeur. Mais abolissez l’abstraction-valeur, et la logique qui conduit à séparer le « travail » de la praxis sociale et de la reproduction disparaît elle aussi. Sous le capitalisme, le travail concret producteur de biens (valeur d’usage) sert uniquement de véhicule ou d’incarnation du travail abstrait producteur de valeur (d’échange). Faire du « travail » le sujet révolutionnaire constitue donc un simple retour au point de vue ricardien qui opposait directement les rapports de production aux rapports de distribution, en raisonnant en fait comme si la valeur, dans sa forme de sujet actif, pouvait en quelque sorte se nier elle-même en abolissant tout bêtement son autre forme, celle d’un donné objectif. Ainsi le danger apparaît-il clairement : après l’échec conjoncturel et politique du prolétariat en tant que représentant du « travail », une théorie « pessimiste » pourrait être encline à interpréter cette crise comme une simple éclipse du facteur subjectif, conservant fermement en place le côté objectif du « travail » (la valeur) et la déformation néoricardienne du Capital. Et c’est bien cette réaffirmation catastrophiste et « négative » du « marxisme traditionnel » que Postone discerne chez Horkheimer :
« Nous avons vu que la théorie de la connaissance de Horkheimer avait été fondée sur l’idée que la constitution sociale est fonction du “travail” qui, sous le capitalisme, est fragmenté et empêché de se déployer pleinement par les rapports de production. A présent, Horkheimer considère que les contradictions du capitalisme ne sont rien de plus que le moteur d’un développement répressif, ce qu’il exprime catégoriellement de la façon suivante : “L’automouvement du concept de marchandise conduit au concept de capitalisme d’Etat comme la certitude sensible conduit chez Hegel au savoir absolu”. Ainsi Horkheimer conclut-il qu’une dialectique hégélienne où les contradictions des catégories renvoient à la réalisation autodéployée du Sujet comme totalité (et non à l’abolition de la totalité) ne peut déboucher que sur l’affirmation de l’ordre existant. Toutefois, il ne formule pas sa position de manière à ce qu’elle renvoie au-delà des limites de cet ordre, par exemple, comme la critique de Ricardo et de Hegel proposée par Marx. Au lieu de cela, Horkheimer renverse sa position initiale : le “travail” et la totalité, d’abord point de vue de la critique, sont désormais les fondements de l’oppression et de la non-liberté.[24] »
Adorno était, il est vrai, un penseur plus subtil que Horkheimer, apte aussi bien à mettre en cause les positions de plus en plus libérales de ce dernier sur le capitalisme tardif qu’à partager ses vues globalement pessimistes sur la possibilité d’une émancipation sociale. Mais le lien sous-jacent que Postone décèle chez Horkheimer entre ce pessimisme et son adhésion inopinée à un marxisme traditionnel privilégiant le « travail », a le pouvoir d’éclairer également certaines énigmes fondamentales de la pensée adornienne. Que La dialectique de la Raison est imprégné (et son contenu théorique borné) par le même marxisme renversé et catastrophiste, bien que toujours implicitement centré sur le prolétariat, voilà qui a d’ailleurs été récemment démontré dans le détail par le théoricien critique allemand Norbert Trenkle[25]. S’il reconnaît que la contribution de Horkheimer et Adorno a joué un rôle pionnier dans la mise en branle d’une critique radicale des Lumières, Trenkle – à l’instar de Robert Kurz, Ernst Lohoff et Roswitha Scholz, les principaux représentants de l’école critique connue dans les cercles progressistes allemands sous le nom de Wertkritik – estime que le texte même de La dialectique de la Raison témoigne « d’une critique toujours à demi en retrait par peur d’elle-même. Son mouvement argumentatif est, au moins en partie, un mouvement qui ne se fonde pas sur la dialectique de la chose même, mais contre celle-ci[26] ». Cette « dialectique de la chose même », pertinente certes mais, aux yeux d’Adorno et de Horkheimer, dénaturée, s’inscrit pour Trenkle dans « des rapports sociaux pleinement déterminés, constitués par la marchandise et la valeur[27] ». Bien qu’Adorno et Horkheimer aient sans aucun doute saisi et pris en compte ce lien dialectique intrinsèque entre Aufklärung et forme-valeur (révélant à cet égard leur indéniable dette, partagée avec quasiment tous les théoriciens critiques francfortois, envers Histoire et conscience de classe de Lukács), ils le réduisirent quant à eux, de manière beaucoup plus générale, abstraite et anthropologisée, à une « séparation ratée d’avec la nature[28] » ayant eu lieu, semblait-il, au seuil du processus sociétal de l’humanité. Mais, du fait même de cette « rétroprojection[29] » de l’abstraction-valeur – une abstraction de tout contenu qualitatif, débouchant sur ce qui chez Kant devient le pur formalisme anhistorique de la Raison – vers les origines, pour ainsi dire, de l’« être-espèce », La dialectique de la Raison rejoint l’idéologie des Lumières bourgeoises en ce qu’elle adopte à son tour un point de vue qui (de même que l’économie politique classique fustigée par Le Capital) considère les siècles précédents comme n’étant rien de plus que le travail d’élaboration menant progressivement à elle : à l’abstraction-valeur et sa sublimation philosophique rationaliste. En définitive, ce qui distingue la téléologie sous-tendant La dialectique de la Raison de sa variante propre aux Lumières bourgeoises, ce n’est pas une véritable rupture critico-théorique mais simplement le « tournant résigné » que prit la première :
« Ce qui est décrit, ce n’est plus la marche glorieuse du progrès mais le sombre cheminement dudestin. La libération vis-à-vis de la domination constitue, au mieux, une possibilité fugitive que l’on ne parvient plus à fonder, en aucun cas le point final nécessaire de l’histoire. Si pertinente et importante que soit [dans La dialectique de la Raison] la critique de l’idée de progrès, elle reste enchaînée à cette idée. En se contentant de rejeter son optimisme (la prétendue nécessité de la libération), elle reproduit en négatif le concept de philosophie de l’histoire sur lequel il est basé.[30] »
Cette téléologie des Lumières « en négatif », cette tendance à se dérober devant l’ampleur des implications historiques d’une crise de la modernité capitaliste qu’on ne fait qu’entr’apercevoir, Trenkle la retrouve également dans les œuvres tardives d’Adorno, en particulier Dialectique négative[31]. Il stigmatise alors aussi bien les efforts d’Adorno pour « sauver » l’éthique kantienne que sa position ambiguë sur l’abstraction de l’échange : une abstraction qu’Adorno conçoit bien (suivant Alfred Sohn-Rethel) comme le fondement sous-jacent et la forme sociale de la « pensée identitaire », mais que curieusement il élève en même temps au rang de forme utopicisée, supposée égalitaire, non-capitaliste et libérée du joug de l’extraction de survaleur – comme si une sorte d’« éthique » kantienne de l’échange était susceptible de permettre le dépassement de sa propre détermination sociale et historique.
Mais l’éclairage critique essentiel que fournit ici Trenkle – à savoir qu’Adorno ne parvient à démasquer la crise de la modernité capitaliste en ce qu’elle est aussi une crise de la forme-sujet moderne (et, par là même, à amorcer une rupture radicale avec la réduction « marxiste-traditionnelle » du point de vue de la critique à un point de vue de classe) qu’au prix d’une universalisation abstraite et déshistoricisante de la crise – pourrait, je pense, être prolongé et contribuer à faire la lumière sur les aspects les plus troublants de l’esthétique adornienne. C’est là le sujet d’une étude à part entière qui dépasse les limites du présent essai mais dont l’argument serait le suivant : on peut dire que la théorie esthétique d’Adorno repose sur une étrange conception duale de l’abstraction formelle ; celle-ci constitue pour lui un principe négatif à la fois en tant que mimésis (i.e., l’abstraction formelle comme vraie traduction négative de la réification « positive » du capitalisme tardif) et en tant qu’émancipation (l’œuvre d’art moderne et abstraite comme étant tout ce qui nous reste en termes de ligne de fuite historique ou de point de vue négatif à partir desquels s’opposer ou résister à ladite réification). Suivant Postone, Trenkle et la Wertkritik, on pourrait voir dans cette dualité un autre aboutissement de la logique du « pessimisme critique » : que la forme artistique soit inexorablement amenée à concevoir et à rendre compte de la non moins inexorable propension de l’abstraction-valeur à nier, serait-ce jusqu’à l’auto-annihilation, tout contenu social, y compris esthétique, cela découle de la spécificité historique de la crise capitaliste même. Mais qu’une telle négativité mimétique doive en outre tenir lieu en quelque sorte de transcendant social, que l’esthétique doive, de quelque façon mystérieuse, reprendre le flambeau d’une négativité sociale disparue, voilà qui nous entraîne à nouveau sur un plan d’abstraction bien éloigné de la spécificité historique de la crise de la forme-valeur. L’œuvre d’art abstraite adopte soudain à l’égard de l’abstraction-valeur une position fondamentalement identique à celle du « travail » dans le marxisme traditionnel : elle est la négation « subjective » d’un objet qui, en tant qu’il prend part à ce même mouvement pseudo-dialectique, expulse de sa conscience théorique toute espèce de principe de négativité immanente ou de contradiction. Le fait que le « travail » périclite et que l’œuvre d’art abstraite intervienne pour prendre sa place fournit ainsi à l’« abstraction réelle » de la valeur une sorte d’alibi historique au moment d’affronter sa plus sérieuse – et son ultime – crise historique.
IV.
Si, sur le plan théorique, c’est-à-dire en termes de système, Adorno échoue à intégrer à sa réflexion la totalité concrète réelle et l’étendue de la crise historique du capital, on pourrait toutefois soutenir, il me semble, qu’il anticipe les conséquences possibles de cette crise dès lors que sa réflexion prend pour objet les spécificités culturelles, esthétiques et éthiques du moment historique où il vécut. Ne pourrait-on dire en effet que, lorsqu’il retrouve la « fausse » totalité à travers ses parties – lorsque ce sont conceptuellement et formellement les parties qui médiatisent le tout –, la tendance d’Adorno à l’abstraction déshistoricisante commence à s’inverser ? N’est-ce pas le cas, à tout le moins, lorsque les « parties » en question revêtent – ce qu’elles font presque invariablement – la forme d’immédiateté de la culture, de l’éthique et, tout particulièrement, de l’esthétique ? Telle serait, grossièrement esquissée, ma conclusion à ce qui précède.
Curieusement, elle nous est suggérée, entre autres, par le fait que le livre d’Adorno le moins explicitement systématique, celui qui adhère le plus étroitement au principe d’organisation en constellation de Walter Benjamin – Minima Moralia –, est aussi le plus richement historicisé. Le mouvement propre par lequel se condense la forme-pensée adornienne, mouvement qui connaît son apogée avec Minima Moralia mais que l’on retrouve partout dans son œuvre, s’expliquerait ainsi provisoirement par le fait que la vérité pleinement historique de la crise du capitalisme tardif, sa réalité en tant que limite intrinsèque absolue, ressentie au travers et au niveau de ses spécificités et de ses immédiatetés culturelles, n’apparaît désormais plus vraiment comme quelque chose qui doit (mais ne peut pas) être démontré par la théorie. Dans l’ordre de la culture et de la « vie fausse », les immédiatetés objectives de la crise ont déjà, en quelque sorte, pris sur elles la « charge de la preuve », et la tâche de la critique se borne alors à jauger ces prétentions de vérité au regard de leurs propres conditions immanentes. La dialectique d’Adorno, « minimaliste » et marquée par une recherche stylistique, pourrait donc être comprise comme la forme qui, parce qu’elle imite la forme contingente et fragmentaire de ses objets, lui permet de traduire la vérité historique de la crise vers laquelle ils pointent, sans avoir nécessairement élaboré au préalable une analyse critique théorique de ladite crise – anticipant, si l’on veut, sur la formulation de son concept. Dans cette optique, le mouvement vers la totalité, vers la médiation et la synthèse dialectiques, mouvement qui, chez Adorno, prend place aussi bien, voire davantage au sein même des phrases qu’entre elles, apparaîtrait comme une manière directe de donner une silhouette conceptuelle provisoire à la médiation historique d’un certain nombre d’immédiatetés esthétiques, culturelles et éthiques qui, pour lui, ne s’agrègent pas encore en un tout historique. On pourrait donc dire de ces phrases qu’elles constituent un idiome de crise suppléant à – mais aussi anticipant – la formulation strictement théorique de ce qui serait le concept de la crise.
Dans ce cas, cependant, comment expliquer l’apparition même de cette réflexion idiomatique et anticipée sur une crise terminale du capital qui aujourd’hui seulement peut-être, par suite de l’effondrement du fordisme et de l’avènement de ce que certains appellent la « troisième » révolution industrielle (la microélectronique), devient un objet possible pour la théorisation ? Du point de vue élaboré par des théoriciens critiques tels que Postone et Trenkle – du point de vue de l’unité du capital et du travail dans cette crise historique –, ma réponse renvoie à nouveau à l’ironie qui veut que, chez l’Adorno « minimaliste », l’objet esthétique, et non politique ou économique (ou philosophique), est avant tout celui à travers lequel et à propos duquel la pensée adornienne semble être le plus pleinement et le plus concrètement médiatisée par le moment historique. Adorno serait ainsi doté, par essence, de la capacité de penser la crise du capital de manière immanente à travers la forme de l’esthétique, quand bien même au final il échoue à le faire par le truchement des catégories directes et systématiques de la philosophie et de la théorie proprement dites. Ce qui, sans doute, expliquerait également chez lui la compréhension intuitive de l’esthétique comme étant ce qui est directement nié non seulement par la « fausse » totalité de l’industrie culturelle ou des Lumières bourgeoises, mais par l’abstraction-valeur même. La logique sociale des rapports-valeur, de l’abstraction « réelle » fétichisée de la forme-marchandise, consiste à annihiler inexorablement tout contenu et toute expérience esthétiques. (On pourrait probablement en dire autant de la négativité du contenu éthique vis-à-vis de l’abstraction-valeur – cette idée paraît en tout cas constituer une prémisse implicite mais incontournable des Minima Moralia.) Les catégories les plus explicitement philosophiques de la pensée adornienne – la « dialectique négative », etc. – demeurent, dans cette optique, infiniment plus ambiguës et dénuées d’ancrage historique, s’érigeant dans une relation négative non pas avec l’abstraction-valeur elle-même, mais avec des catégories telles que « les Lumières » ou « l’identité », qui, de par leur « mauvaise » abstraction, reviennent finalement s’inscrire, comme l’a souligné Trenkle, dans la perspective philosophique adornienne. Il serait imprudent de s’avancer jusqu’à suggérer que les affirmations les plus explicitement philosophiques de la théorie esthétique d’Adorno – et au premier chef la thèse selon laquelle l’abstraction artistique (par exemple, la « musique sérieuse » dans l’essai sur le jazz[32]) s’affranchit, d’une certaine façon, de la logique réifiante et fondamentalement nihiliste de l’abstraction-valeur – souffrent du même manque d’historicité. Car, dès lors qu’il s’engage et se situe dans l’espace médiat des objets esthétiques, culturels et éthiques dans leur spécificité, Adorno se laisse guider avec assurance par la vérité historique que ces objets, inconsciemment, détectent eux aussi : à savoir que les seules choses garantissant désormais leur existence sont, d’une part, la crise terminale de la société régie par le « travail » abstrait et la logique de la « valeur qui s’autovalorise », et d’autre part la possibilité historique de son abolition.
[1] Theodor W. Adorno, Minima Moralia. Réflexions sur la vie mutilée, trad. E. Kaufholz et J.-R. Ladmiral, Payot, 1980, p. 47. L’allemand original dit : « Das Ganze ist das Unwahre » (Francfort, Suhrkamp, 1969, p. 57). En note de bas de page de sa traduction du livre en anglais (Londres, NLB, 1974, p. 50), E.F.N. Jephcott remarque qu’Adorno inverse une maxime tirée de la Phénoménologie de l’esprit de Hegel, « Das Wahre ist das Ganze » (le vrai est le tout), mais Jephcott, bizarrement, opte pour le mot « false » (faux) plutôt que « untrue » (non-vrai).
[2] Ibid., p. 69. Ce sont les mots par lesquels débute l’aphorisme 45, « Comme tout ce qui devient a l’air malade ! », aphorisme qui, avec le 44 (« Aux Postsocratiques ») et le 46 (« Pour une morale de la pensée »), contient, pour ce qui concerne ce livre, la réflexion la plus pointue sur la dialectique. On trouvera des assertions du même acabit un peu partout dans l’œuvre d’Adorno, mais le passage suivant extrait de l’essai « A quoi sert encore la philosophie » (1962) – passage qui, à sa manière, n’est pas moins paralogique que l’aphorisme précédemment cité qu’il tempère – nous semble ici particulièrement pertinent : « La prétention de la philosophie traditionnelle à la totalité, qui culmine dans la thèse du caractère rationnel du réel, ne peut être séparée de l’apologétique. Cette thèse est toutefois devenue absurde. Une philosophie qui se poserait encore en totalité, en système, produirait un système aberrant. Si elle renonce néanmoins à cette prétention, si elle cesse de prétendre développer à partir de soi la totalité qui doit être la vérité, elle entre en conflit avec sa tradition tout entière », in Modèles critiques, trad. M. Jimenez et E. Kaufholz, Payot, 1984, p. 13, souligné par moi.
cation&ref_site=1&nlc__=501326892711#_ftnref3"> [3] Au reste, Adorno lui-même le reconnaît, et même le revendique : « Je doute fort de la possibilité de faire le résumé de choses qui ont été formulées de manière responsable. Ce que j’écris s’oppose précisément à la possibilité de résumer. Cette dernière présuppose une séparation entre la forme de la présentation et son contenu, séparation que je ne peux reconnaître telle quelle. Si un texte se laissait résumer de manière adéquate, alors il ne serait nul besoin du texte : le résumé serait la même chose », Theodor W. Adorno, Société : Intégration, Désintégration, trad. collective, Payot, 2011, p. 221. (N.d.T.)
[4] Max Horkheimer & Theodor W. Adorno, La dialectique de la Raison. Fragments philosophiques, trad. E. Kaufholz, Gallimard, 1974, p. 129.
[5] Ibid., p. 149.
[6] Ibid., p. 157.
[7] Ibid., p. 167.
[8] Cf., par exemple, le dernier paragraphe de la « Dédicace » des Minima Moralia, op. cit., p. 13.
[9] In Theodor W. Adorno, Notes sur la littérature, trad. S. Muller, Flammarion, 1984, pp. 5-29.
[10] Ibid., p. 13.
[11] Ibid., p. 17.
[12] Karl Marx, Le Capital, t. I, trad. collective, Quadrige/PUF, 1993, p. 85.
[13] « L’essai comme forme », loc. cit., p. 23.
[14] Karl Marx, Manuscrits de 1857-1858 « Grundrisse », t. I, trad. collective, Editions Sociales, 1980, pp. 34-43.
[15] Ibid., p. 34.
[16] Ibid., p. 35.
[17] Ibid.
[18] Ibid., pp. 39-40.
[19] Cf. Le Capital, t. I, op. cit., p. 17.
[20] Moishe Postone, Temps, travail et domination sociale, trad. O. Galtier et L. Mercier, Mille et une nuit, 2009.
[21] Ibid., p. 132.
[22] « Bien des écrivains qui occupent une place importante dans l’intelligentsia allemande – y compris Adorno – se sont installés dans ce “Grand Hôtel de l’Abîme” que j’ai décrit ailleurs à l’occasion de ma critique de Schopenhauer comme “un bel hôtel, doté de tout le confort, bâti au bord d’un abîme de néant, d’absurdité” », Georg Lukács, préface de 1962 à la réédition de La théorie du roman (1916). (N.d.T.)
[23] Temps, travail et domination sociale, op. cit., p. 134.
[24] Ibid., p. 173. [La citation de Horkheimer est extraite de l’essai « L’Etat autoritaire » (1942), in Economies et sociétés n°28-29, « Etudes de marxologie », série S, 1991, p. 85 ; essai réédité dans une nouvelle traduction in Max Horkheimer, Théorie critique, Payot, 2009, pp. 301-325. (N.d.T.)]
[25] Cf. « Gebrochene Negativität : Anmerkungen zu Adornos und Horkheimers Aufklärungskritik » (Négativité brisée : notes sur la critique de l’Aufklärung chez Adorno et Horkheimer), in Krisis n°25, 2002, pp. 39-66. http://www.krisis.org/2002/gebrochene-negativitaet. Ce texte est disponible dans sa traduction française http://palim-psao.over-blog.fr/article-negativite-brisee-remarques-sur-la-critique-de-l-aufklarung-chez-adorno-et-horkheimer-par-norbert-trenkle-55951856.html .
[26] Ibid., p. 39.
[27] Ibid., p. 47.
[28] Ibid.
[29] Ibid., p. 46.
[30] Ibid.