Overblog
Segui questo blog Administration + Create my blog
18 luglio 2024 4 18 /07 /luglio /2024 09:00

Le divergenze di principio tra Rosa Luxemburg e Lenin

Paul Mattick

Rosa Luxemburg e Lenin si sono formati entrambi all'interno della socialdemocrazia di cui furono figure eminenti. Le loro opere individuali dovevano non soltanto esercitare una notevole influenza sui movimenti operai russi, polacchi e tedeschi, ma avere anche una portata storica universale. Perché entrambi incarnarono l'opposizione al revisionismo e al riformismo insiti nella Seconda Internazionale, e i loro nomi restano indissolubilmente legati alla riorganizzazione del movimento operaio durante e dopo la guerra mondiale. Questi marxisti, dalla personalità eccezionale, che non separarono mai la teoria dalla pratica, furono – per riprendere un'espressione cara a Rosa Luxemburg – delle «candele accese da entrambi i lati».

Pur essendosi assegnati una missione identica – e cioè, far uscire il movimento operaio dalla palude in cui si trovava impantanato e lanciarlo all'assalto del capitalismo – Luxemburg e Lenin presero strade diverse, se non addirittura opposte. Senza che la stima reciproca che hanno sempre avuto l'uno per l'altro si indebolisse, essi si scontrarono aspramente sulle questioni fondamentali della strategia e dei principi rivoluzionari. È lecito affermare sin d'ora che su molti punti essenziali le loro rispettive concezioni differiscono come il giorno dalla notte o, più esattamente, come i problemi della rivoluzione borghese e i problemi della rivoluzione proletaria. Ora che entrambi sono scomparsi, non è raro vedere dei leninisti incoerenti tentare, per ragioni politiche, di riconciliare Lenin e Rosa Luxemburg, e di minimizzare ciò che li opponeva l'un l'altro; ma non si tratta che di incredibili falsificazioni della storia, che servono soltanto ai falsificatori e soltanto per un certo periodo di tempo.

Ciò che unì Luxemburg e Lenin, fu la lotta contro il riformismo di prima del 1914 e contro lo sciovinismo in cui la socialdemocrazia internazionale oscillò sin dalla dichiarazione di guerra. Ma questa identità di vedute non doveva impedire alla controversia di manifestarsi con il massimo vigore tra di loro. Le loro divergenze riguardavano il corso che la rivoluzione doveva seguire e dunque, la tattica essendo essa inseparabile dai principi, il contenuto e la forma del nuovo movimento operaio. Se è noto che entrambi furono nemici giurati del revisionismo (il che spesso portò ad associare i loro nomi), non per questo oggi non si può farsi un'idea precisa di queste divergenze. Da una decina di anni, la Terza Internazionale ha senza dubbio usato e abusato il nome di Rosa Luxemburg, nel quadro delle crisi politiche che la scuotono continuamente e, più in particolare, dell'offensiva da essa lanciata contro il “lussemburghese controrivoluzionario”, come ci compiace a chiamarlo [1]. Ma nulla è stato fatto per chiarire la controversia. In generale, non si tiene a «disseppellire» il passato. Come la socialdemocrazia tedesca che, adducendo la «mancanza di denaro», rifiutò un giorno di pubblicare le opere del Lussemburgo [2], la Terza Internazionale finì per rinnegare la promessa - fatta a suo nome da Clara Zetkin [3] - di assicurare la pubblicazione di queste stesse opere. Tuttavia, di fronte alla concorrenza, la Terza Internazionale non manca di reclamare a sé Rosa Luxemburg, ogni volta che ciò le sembra opportuno.

In quanto alla socialdemocrazia, ha spesso il coraggio di parlare con voce spezzata dalla commozione della "grande rivoluzionario che si è ingannata" e che è caduta vittima della sua «foga» e non degli infami mercenari di Noske, il vecchio compagno di partito [4]. Quando, dopo l'esperienza di queste due Internazionali, alcuni pretendono non soltanto di costruire un movimento nuovo e veramente rivoluzionario, ma anche di trarre profitto dalle lezioni del passato, si limitano a ridurre le divergenze in questione a un disaccordo sulla questione nazionale, la quale, peraltro, avrebbe toccato esclusivamente dei problemi di ordine tattico relativo all'indipendenza della Polonia. A tal fine, ci si dà da fare per attenuare la controversia, per farne un caso emblematico e per concludere proclamando, contrariamente all'evidenza, che Lenin è uscito vittorioso dalla polemica.

Tuttavia, la questione nazionale rimane inseparabile dagli altri problemi sui quali Luxemburg e Lenin si sono combattuti. Essa è, infatti, più strettamente connessa con tutte le altre questioni riguardanti la rivoluzione mondiale; ma ha il vantaggio di far risaltare meglio la divergenza fondamentale: l'antagonismo inconciliabile della concezione giacobina della rivoluzione e della sua concezione proletaria. Quando, di fronte agli errori nazionalisti dell'era stalinista della Terza Internazionale, riteniamo opportuno, sull'esempio di Max Shachtman [5], di riprendere le idee di Rosa Luxemburg, dobbiamo anche considerarle giustificate in relazione a quelle di Lenin. La politica della Terza Internazionale è indubbiamente cambiata su molti punti dalla morte di Lenin, ma sulla questione nazionale è rimasta fondamentalmente leninista. Un leninista non può che prendere una posizione opposta a quella della Luxemburg, di cui non è soltanto l'avversario in materia di teoria, ma anche il nemico mortale. Al contrario, la posizione della Luxemburg è incompatibile con il bolscevismo leninista e, di conseguenza, chiunque si rifaccia a Lenin non potrebbe allo stesso tempo invocare Rosa Luxemburg a sostegno delle sue tesi.

L'opposizione al riformismo

Lo sviluppo del capitalismo mondiale, l'espansione imperialista, la graduale monopolizzazione dell'economia e i sovraprofitti ad essa collegati, dovevano permettere la formazione provvisoria di un'aristocrazia operaia, l'instaurazione di una legislazione del lavoro e un miglioramento generale della condizione proletaria. Da qui l'ascesa del revisionismo e i progressi del riformismo all'interno del movimento operaio. Al marxismo rivoluzionario – invalidato, si diceva, dalla prosperità capitalista – si sostituì la teoria della realizzazione progressiva del socialismo grazie alla democrazia. Da quel momento il movimento operaio ufficiale poté svilupparsi e raccogliere l'adesione di una massa di piccoli borghesi; quest'ultimi presero presto la direzione intellettuale e condivisero, con gli operai privilegiati, i vantaggi materiali legati alle carriere che si offrivano così alle loro ambizioni. Verso la fine del secolo, i cosiddetti “marxisti ortodossi”, guidati da Kautsky, condussero una lotta contro questa evoluzione una lotta che rimase puramente verbale e che d'altronde fu presto abbandonata. Tra i più importanti teorici di quest'epoca, Luxemburg e Lenin furono tra i pochi che proseguirono senza sosta, a favore di un movimento operaio realmente marxista, una lotta implacabile, prima contro il riformismo dichiarato, poi anche contro il riformismo «ortodosso».

Non è esagerato affermare che di tutte le critiche al revisionismo, l'attacco lanciatogli contro dalla Luxemburg fu il più vigoroso e il più efficace. Polemizzando con Bernstein [6], sottolineò ancora una volta, di fronte alle tesi assurde dei sostenitori del legalismo a tutti i costi, «che è impossibile trasformare i rapporti fondamentali della società capitalista, che sono quelli del dominio di una classe sull'altra, per mezzo di riforme giuridiche che ne rispetterebbero il fondamento borghese» [7]. La riforma sociale, sostenne inoltre, ha come funzione non di «limitare la proprietà capitalista, ma al contrario di proteggerla. O ancora – economicamente parlando – non costituisce un attacco allo sfruttamento capitalista, ma un tentativo di normalizzarlo” [8]. Lungi dal condurre al socialismo, il capitalismo sta crollando, sostiene Rosa Luxemburg, ed è questo crollo che i lavoratori devono affrontare, non attraverso la riforma, ma attraverso la rivoluzione. Ciò non significa che si debbano trascurare le questioni del momento; i marxisti rivoluzionari sostengono anch'essi le lotte quotidiane dei lavoratori ma, a differenza dei revisionisti, essi si interessano al modo in cui la lotta è condotta molto più che ai suoi obiettivi immediati. Per i marxisti, il problema del momento consiste nel far progredire i fattori soggettivi, la coscienza di classe rivoluzionaria, attraverso le lotte sindacali e politiche. Porre la questione della riforma e della rivoluzione come termini che si escludono a vicenda significa porre il problema in modo errato; per quanto vi sia opposizione tra di loro, si deve posizionarla nel suo giusto contesto, il progresso sociale. La lotta per le rivendicazioni immediate non deve farci perdere di vista l'obiettivo finale: la rivoluzione proletaria [9].

Poco tempo dopo, Lenin a sua volta attaccò il revisionismo in un modo sostanzialmente simile. Anche lui vedeva nelle riforme dei sottoprodotti, in un certo senso, della lotta per la conquista del potere politico. Per quanto riguarda sia la lotta contro la mutilazione del marxismo che la lotta rivoluzionaria per la conquista del potere politico, le sue concezioni concordavano dunque con quelle di Rosa Luxemburg. E' soltanto nel quadro generale della rivoluzione russa del 1905, quando la situazione pose all'ordine del giorno la lotta rivoluzionaria per il potere e ne fece una questione scottante, da affrontare da un punto di vista più concreto, che delle divergenze si manifestarono per la prima volta tra di loro. Ecco perché il conflitto esplose a proposito di questioni di natura tattica: i problemi organizzativi e la questione nazionale.

La questione nazionale

Come Kautsky, che fu per molti aspetti il ​​suo mentore, Lenin era convinto del carattere progressista dei movimenti di indipendenza nazionali, aspettandosi – diceva – che «lo Stato nazionale offra indiscutibilmente le migliori condizioni per lo sviluppo del capitalismo» [10]. Sostenendo al contrario di Luxemburg che la parola d'ordine dell'autodeterminazione dei popoli è rivoluzionaria perché si tratta «di una rivendicazione che non differisce in alcun modo dalle altre rivendicazioni democratiche», Lenin proclamava: «In ogni nazionalismo borghese di una nazione oppressa, esiste un contenuto democratico, ed è questo contenuto che sosteniamo senza restrizioni» [11].

Come dimostrano numerosi passi delle sue opere, [12] l'atteggiamento di Lenin nei confronti della libera disposizione dei popoli e della questione nazionale è coerente con la sua posizione sulla conquista dei diritti democratici. Quest'ultima permette di capire la prima. Basterà citare a questo proposito quanto scrisse Lenin nelle sue «La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all'autodeterminazione (Tesi)": «Sarebbe radicalmente errato pensare che la lotta per la democrazia possa distogliere il proletariato dalla rivoluzione socialista, oppure farla dimenticare, oscurarla, ecc. Al contrario, come il socialismo non può essere vittorioso senza attuare una piena democrazia, così il proletariato non può prepararsi alla vittoria sulla borghesia senza condurre in tutti i modi una lotta conseguente e rivoluzionaria per la democrazia» [13].

Appare così chiaramente che agli occhi di Lenin movimenti e guerre a tendenze nazionaliste hanno come solo scopo di instaurare la democrazia, alle quali il proletariato deve partecipare perché, sempre secondo Lenin, la democrazia è un prerequisito obbligato alla lotta per il socialismo. «se si sviluppa la lotta per la democrazia, è possibile anche una guerra per la democrazia», egli dice, e, di conseguenza, “in una vera guerra nazionale, le parole 'difesa della patria' non sono affatto un inganno” [ 14]. Per questo Lenin afferma che in tal caso e «nella misura in cui la borghesia di una nazione oppressa lotta contro la nazione oppressore, noi siamo sempre “per”, in ogni caso e più risolutamente di chiunque altro»; e aggiunge: «perché noi siamo il nemico più audace e più coerente dell'oppressione» [15].

Lenin rimase fedele a questa concezione sino alla fine dei suoi giorni, e i suoi discepoli sino ad oggi, almeno nella misura in cui il potere bolscevico non correva (e non corre) il rischio di esserne danneggiato. La sola differenza, sicuramente lieve, tra il maestro e i suoi discepoli, è che se Lenin, prima della rivoluzione russa, considerava le guerre e i movimenti di liberazione nazionale come degli elementi del movimento generale per instaurare la democrazia, queste guerre e questi movimenti furono in seguito promossi come parti integranti del processo della rivoluzione proletaria mondiale.

Rosa Luxemburg considerava come fondamentalmente errate le tesi di Lenin, così come le abbiamo appena ricostituite. La Junius-broschüre, uscita durante la guerra, riassume così la sua concezione:«Finché esistono gli Stati capitalisti, finché soprattutto la politica imperialista universale determina e modella la vita interna ed esterna degli Stati, il diritto delle nazioni all'autodeterminazione è soltanto una parola vuota, in tempo di guerra come in tempo di pace. Molto di più: nell'attuale atmosfera imperialista non può esserci guerra di difesa nazionale e qualsiasi politica socialista che prescinda da questa atmosfera storica, che non vuole lasciarsi guidare, nel vortice universale, che dai punti di vista di un solo paese, è condannato in anticipo alla sconfitta» [16].

Mai, assolutamente mai, Rosa Luxemburg, fece la minima concessione a Lenin su questo argomento. Così, quando il diritto all'autodeterminazione fu posto in pratica, dopo la rivoluzione russa, si è domandata perché i bolscevichi mantenessero contro ogni grande difficoltà, con tanta caparbietà, una parola d'ordine «in palese contraddizione, non soltanto con il  centralismo d'altronde manifesto della loro politica , ma anche con l'atteggiamento che hanno adottato nei confronti di altri principi democratici (…). Questa flagrante contraddizione è tanto meno comprensibile in quanto le forme democratiche della vita politica in ogni paese (...) costituiscono effettivamente le basi più preziose, le basi indispensabili anche della politica socialista, mentre l'illustre "diritto delle nazioni all'autodeterminazione" è il dominio della vuota fraseologia e della mistificazione piccolo-borghese» [17].

Si trattava, a suo avviso, di una «varietà di opportunismo» avente lo scopo di «legare le molte nazionalità allogene, che costituivano l'impero russo, alla causa della rivoluzione», in breve un altro aspetto della politica opportunista adottato dai bolscevichi nei confronti dei contadini russi: «Si voleva soddisfare la loro fame di terra con la parola d'ordine di sequestro diretto delle proprietà signorili e di allearli così alla bandiera della rivoluzione e del governo proletario».

Sfortunatamente, proseguiva Rosa Luxemburg,«in entrambi i casi, il calcolo era totalmente sbagliato. Difensori dell'indipendenza nazionale, anche sino al separatismo, Lenin e i suoi amici pensavano chiaramente di fare della Finlandia, dell'Ucraina, della Polonia, della Lituania, dei paesi baltici, del Caucaso, ecc., altrettanti fedeli alleati della Rivoluzione russa. Ma abbiamo assistito allo spettacolo opposto: una dopo l'altra, queste “nazioni” hanno usato la libertà appena offerta per allearsi, come nemici mortali della rivoluzione russa, con l'imperialismo tedesco (…). Certamente, in tutti i casi citati, non sono le "nazioni" che praticano questa politica reazionaria, ma le classi borghesi e piccolo-borghesi che, in violenta opposizione con le loro masse proletarie, hanno trasformato il "diritto all'autodeterminazione nazionale" in strumento della loro politica di classe controrivoluzionaria. Ma - e qui tocchiamo il cuore del problema - questa formula nazionalista rivela il suo carattere utopico e piccolo-borghese, perché, nella dura realtà della società di classe, e soprattutto in un'epoca di esacerbati antagonismi, si trasforma in un mezzo di dominio delle classi borghesi» [18].

I bolscevichi non avevano dunque esitato ad agitare, in piena lotta rivoluzionaria, la questione delle aspirazioni nazionali e delle tendenze separatiste; ecco cosa, secondo Rosa Luxemburg, aveva «gettato confusione nei ranghi del socialismo». Ed in seguito effettuava questa dichiarazione: «“I bolscevichi hanno fornito l'ideologia per mascherare l'offensiva controrivoluzionaria; hanno rafforzato la posizione della borghesia e indebolito quella del proletariato (…). Era riservato agli antipodi dei socialisti di governo, ai bolscevichi, di condurre, grazie alla bella formula dell'autodeterminazione, l'acqua al mulino della controrivoluzione e di fornire così un'ideologia che permettesse non solo di schiacciare la stessa rivoluzione russa, ma anche di liquidare la guerra mondiale nel suo conformemente ai piani controrivoluzionari» [19].

 

Ci si può interrogare, dopo Rosa Luxemburg, sulle ragioni che hanno spinto Lenin a rimanere fedele alla formula del diritto dei popoli all'autodeterminazione e alla liberazione delle nazionalità oppresse. Questo slogan non era in palese contraddizione con le richieste della rivoluzione mondiale? E Lenin, come Rosa Luxemburg, era impegnato per innescare questa rivoluzione. Come tutti i marxisti del suo tempo, non credeva che la Russia, abbandonata a se stessa, fosse in grado di portare avanti fino in fondo la lotta rivoluzionaria. Ha condiviso la tesi di Marx-Engels secondo la quale «se la rivoluzione russa diventa il segnale di una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che le due rivoluzioni si completino, l'attuale proprietà comune russa può diventare il punto di partenza di un'evoluzione comunista» [20]. Lenin non era dunque soltanto convinto che i comunisti dovevano prendere il potere in Russia; era altrettanto convinto che la rivoluzione russa non poteva portare al socialismo che alla condizione di conquistare l'Europa e, oltre essa, il mondo intero. Data la situazione oggettiva creata dalla guerra, l'idea di una Russia che resistesse alle potenze imperialiste da sola, senza il sostegno di una rivoluzione in Europa occidentale, non poteva sfiorarlo, non più di Rosa Luxemburg. Quest'ultima era d'altronde categorica: «Beninteso, essi [i Russi] non potranno mantenersi in questo sabba infernale» [21]. Questa diagnosi non aveva semplicemente come base ciò di cui sapeva essere capaci Lenin e Trotsky, sulla sfiducia che le loro sparate aberranti sul diritto dei popoli all'autodeterminazione, la loro politica di concessioni ai contadini e al resto. Non gli era dettato nemmeno dal rapporto di forze esistente tra la Russia rivoluzionaria e le potenze imperialiste, e non derivava affatto da una concezione analoga a quella dei socialdemocratici che, statistiche in mano, si divertivano a dimostrare che lo stato arretrato dell'economia russa non giustificava né una rivoluzione né le permetteva il socialismo.

La ragione profonda del suo pessimismo era soprattutto il fatto che "la socialdemocrazia di questo Occidente sviluppato in modo superiore è composta da abietti codardi che, come pacifici spettatori, faranno perdere tutto il sangue ai Russi" Inoltre, pur criticando i bolscevichi per via delle esigenze della rivoluzione mondiale; lei ha sostenuto la loro causa; non ha mancato di sottolineare, ad esempio, che se i bolscevichi hanno subito gravi rovesci economici, è perché il proletariato dell'Europa occidentale non ha fatto niente per aiutarli. "Oh si! i bolscevichi!" esclamava. "Naturalmente non mi incantano affatto con il loro fanatismo per la pace [allusione a Brest-Litovsk. PM]. Ma in fin dei conti, non è colpa loro. Sono in una situazione di costrizione: non possono scegliere che tra due mali e scelgono il minore. Altri sono responsabili del fatto che il diavolo a trarre profitto dalla rivoluzione russa" [22].

Paul Mattick, 1935

 

NOTE

* Articolo di Paul Mattick pubblicato in Rätekorrespondenz (settembre 1935) e in International Coucil Correspondence (luglio 1936). Tradotto dall'inglese da Serge Bricianer e pubblicato in Intégration capitaliste et rupture ouvrière (EDI, 1972).

[1] Sappiamo che durante gli anni 30 era comune, nella Russia stalinista, assimilare al "luxemburghismo", il "trotskismo", il "menscevismo" e ad altre correnti di opposizione, e che il crimine del "luxemburghismo" era punibile con la pena di morte; Stalin stesso elencò gli "errori" di Rosa Luxemburg in una lettera che indirizzò nel 1931 alla rivista Proletarskaya Revoliutsia (N.d.T. francese).
[2] Cfr. la lettera indirizzata il 6 gennaio 1916 da Rosa Luxemburg alla redazione della Neue Zeit.
[3] Cfr. C. Zetkin, Um Rosa Luxemburgs Stellung zur russischen Revolution (pubblicato nel 1921 dalla casa di edizioni dell'Internazionale comunista, C. Hoym ad Hambourg). [Il Comitato centrale della S.E.D., il partito dirigente della Germania dell'Est, ha infine cominciato la pubblicazione delle opere complete di Rosa Luxemburg. Gli altri due tomi del primo volume sono usciti nel 1970, N. d. A., 1971].
[4] Comme une foule d’articles commémoratifs parus dans la presse social-démocrate l’atteste.
[5] M. Shachtman, «Lenin and the Rosa Luxemburg»
, The New International, mars 1935 [Rivista teorica del partito trotskista americano, di cui Shachtman fu uno dei «padri fondatori». N.d.T. francese].
[6], [7], [8], [9] Riforma sociale o rivoluzione?
[10] e [11] Du doit des nations à disposer d’elles-mêmes (1914), in: Lénine, Questions de la politique nationale et de l’internationalisme prolétarien, Moscou, 1968; (Sul diritto delle nazioni all’autodecisione).
[12] Cfr., ad esempio: Une caricature du marxisme et à propos de l’ «économisme impérialiste» (1916) in: Lénine, Œuvres, Moscou-Paris (s.d.), tome 23; (Intorno a una caricatura del marxismo e all’“economicismo imperialistico").

[13] cfr. Lenin,
La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all'autodecisione (Tesi), in: Opere complete, vol. 22, pp. 147-160 (scritto nel gennaio-marzo 1916. Pubblicato nel Vorbote, n. 2, aprile 1916. Pubblicato in russo nel Sbornik Sotsial-Demokrata, n. 1, ottobre 1916).
[14] Lenin, Intorno a una caricatura del marxismo e all’“economicismo imperialistico".

[15] Lenin, Sul diritto delle nazioni all’autodecisione, Opere Scelte, vol. 1, Edizioni in lingue estere, Mosca, 1947, pag 538-583 (pubblicato nella rivista Prosvestcenie, n. 4-5-6, nel  1914).

[16] R. Luxemburg, La crise de la démocratie socialiste (1916). Raymond Renaud, Paris, 1934, p. 121.
[17], [18], [19] Rosa Luxemburg, La Révolution russe (La Rivoluzione russa).

[20] K. Marx e F. Engels, prefazione alla seconda edizione russa (1882) del Manifesto comunista, trad. Molitor, Paris, p. 46.
[21] Cfr., Rosa Luxemburg, Lettres à Karl et Louise Kautsky, trad. Stchoupak et Desrousseaux, Paris, 1925, p. 244.
[22] Id., p. 255.
[23] La Révolution russe, p. 89.
[24] Karl Liebknecht, Militarisme, guerre, révolution  (Militarismo, guerra, rivoluzione).
[25] E. Varga, Die wirtschaftspolitischen Probleme der proletarischen Diktatur, Hambourg, 1921.
[26] La Tragédie russe, (La tragedia russa), Spartakusbriefe, 11, settembre 1918, trad. francese in: Œuvres II, pp. 50-52.
[27] Queste righe, non lo si dimentichi, furono scritte poco tempo dopo l'entrata in guerra della Russia alla Società delle Nazioni e la firma del patto Stalin-Laval (N. d. T. francese).
[28] N. Bucharin, discorso au IV Congresso dell'Internazionale communista (novembre 1922).
[29] M. Shachtman, «Lenin and Rosa Luxemburg», op. cit.
[30] «Du Défaitisme dans la guerre impérialiste» (1915), in: N. Lénine e G. ZINOVIEV, Contre le courant, trad. V. Serge et M. Parijanine, Parti, 1927, I, p. 116.
[31] Lénine, «Sur le rôle de l’or…», Œuvres, 33, p. 107.
[32] La Révolution russe, p. 67.
[33] La révolution russe, p. 89.

Condividi post
Repost0
16 maggio 2024 4 16 /05 /maggio /2024 17:00

La teoria dell'accumulazione della Luxemburg

 

Raya Dunajevskaja

Capitolo primo: Le sue divergenze con Marx e Lenin
L'accumulazione del capitale [1] di Rosa Luxemburg è una critica della Teoria della Riproduzione Allargata di Marx analizzata da questi nel Volume II del Capitale. Il problema dell'accumulazione del capitale è stato sempre il tema centrale della economia politica. È stato il soggetto del dibattito tra Ricardo e Malthus, tra Say e Sismondi, tra Engels e Rodbertus e tra Lenin ed i populisti (narodniki). La Luxemburg occupa una cospicua, ma non invidiabile, posizione in questo dibattito - quella di una rivoluzionaria acclamata dagli economisti borghesi per aver fornito "la formulazione più chiara del problema della domanda effettiva" prima della Teoria generale dell'impiego, dell'interesse e della moneta di Keynes. È tipico notare che gli economisti borghesi discutevano nel 1645 il problema del mercato, problema sul quale i marxisti discutevano trent'anni fa. Prima del 1914 il controllo statale della produzione ed il problema della accumulazione non erano stati posti così acutamente come oggi in termini di declino del saggio del profitto. La borghesia di allora riteneva che l'accumulazione fosse un problema risolvibile con l'espansione dei mercati. È vero che la Luxemburg pose il problema in questi termini, ma la sua preoccupazione principale anche allora era quella del crollo del capitalismo. Tuttavia, metodicamente, essa si staccò dal marxismo nell'analisi del problema dell'accumulazione del capitale, ed era inevitabile pertanto che arrivasse a false conclusioni. Ciò che fa di queste il problema del giorno è che le sue conclusioni sono ripetute non soltanto dagli economisti borghesi ma anche dentro al movimento rivoluzionario marxista. La preoccupazione attuale di "clienti" e di "mercati" può avere una migliore risposta attraverso un riesame della teoria di accumulazione capitalista di Marx e della deviazione della Luxemburg da essa.
1) Premessa
Das KapitalDa quando fu pubblicato il II Volume del Capitale il centro della discussione sulla riproduzione allargata è stata la presentazione diagrammatica di Marx di come il plusvalore viene realizzato in una società capitalista ideale. Per comprendere le formule bisogna capire la premessa sulla quale esse sono costruite: una società capitalistica chiusa, ossia una società isolata dominata dalla legge del valore. Per Marx il conflitto fondamentale in una società capitalistica è quello tra il capitale ed il lavoro; tutti gli altri elementi sono subordinati. Se così è nella vita, allora la prima necessità nella teoria, molto più che nella società, e quella di porre il problema, puramente e semplicemente, come un problema tra capitalista e lavoratore. Da cui l'accettazione del concetto di una società consistente soltanto di capitalisti e di lavoratori. Da cui l'esclusione di terzi gruppi e, come lui stesso afferma ripetutamente [3], l'esclusione del commercio estero, come non avente niente a che fare fondamentalmente con il conflitto tra lavoratore e capitalista. Una società capitalista si distingue da tutte le altre società precedenti in quanto è una società producente-valori. La legge del valore non ha niente in comune con il fatto che nelle altre società di classe al lavoratore venivano pagati i suoi mezzi di sussistenza. Qui la sete per le ore di lavoro non pagato deriva dalla natura stessa della produzione e non dalla ghiottoneria del padrone. Il valore, cioè il tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione delle merci cambia costantemente a causa delle incessanti rivoluzioni tecnologiche nella produzione, e questa è una sorgente senza fine di disturbi delle condizioni di produzione così come delle relazioni sociali e distingue il capitalismo da tutti gli altri modi di produzione. La società capitalistica isolata di Marx è dominata da questa legge del valore e Marx non ci permette di dimenticare che questa legge è legge di mercato mondiale: "L'industriale ha sempre il mercato mondiale davanti i suoi occhi; egli raffronta e deve continuamente paragonare i suoi prezzi di costo con quelli del mondo intero e non solo con quelli del suo mercato interno" [4].

Così, mentre Marx esclude il commercio estero, ciò nonostante egli pone la sua società ambito, del mercato mondiale. Queste sono le condizioni del problema. Quale ne è lo scopo?

2) Lo scopo

Le famose formule di Marx nella parte III del II Volume erano concepite per servire due scopi.

Da una parte, egli desiderava esporre l'incredibile aberrazione di Adamo Smith, che aveva vaporizzato, la parte costante del capitale dividendo la produzione sociale totale non per c (capitale costante), v (capitale variabile) e sv (plusvalore), ma soltanto per v ed s.

Dall'altra parte Marx desiderava rispondere all'argomento dei sottoconsumatori che la continua accumulazione di capitale era impossibile a causa della impossibilità di "realizzare plusvalore", ossia di vendere [5].

Marx spende un tempo apparentemente interminabile nell'esporre l'errore di Smith. E ciò perché si tratta del grande confine che separa sia l'economia politica borghese, sia la critica piccolo-borghese dal socialismo scientifico. L'errore di Smith divenne parte del dogma dell'economia politica perché corrispondeva agli interessi di classe della borghesia accettare quell'errore. Se, come sosteneva Smith, la porzione costante del capitale, in ultima analisi si dissolve in salari, allora i lavoratori non hanno bisogno di combattere contro la temporanea appropriazione delle ore di lavoro non pagate. Ad essi basta soltanto aspettare affinché il prodotto del loro lavoro si dissolva in salari. Marx prova che è vero il contrario. Non soltanto e non si «dissolve in salari», ma esso stesso diventa la vera strumentazione attraverso la quale il capitalista guadagna il suo potere sul lavoratore.

Nel demolire la teoria del sottoconsumo, Marx dimostra che non vi è una connessione diretta tra la produzione ed il consumo. Ecco le parole di Lenin:

«La differenza tra la visione degli economisti piccolo borghesi e la visione di Marx non consiste nel fatto che i primi realizzano in generale la connessione tra la produzione ed il consumo nella società capitalistica, e lui non lo fa. (Ciò sarebbe assurdo). La distinzione consiste in questo, che gli economisti piccolo borghesi considerano il legame tra produzione e consumo come un legame diretto ossia che la produzione segue il consumo. Marx indica che la connessione è soltanto indiretta, che risulta connessa soltanto nell'istanza finale, perché nella società capitalista il consumo segue la produzione".[6].

I seguaci del sottoconsumo costruirono il concetto della preponderanza della produzione sul consumo per arrivare al collasso automatico della società. Là dove i classici videro soltanto la tendenza verso l'equità, i critici piccolo borghesi vedono solo la tendenza via dall'equilibrio. Marx dimostra che tutte e due le tendenze sono inestricabilmente connesse.

3) I due settori della produzione sociale e le condizioni per la riproduzione allargata

Per illustrare il processo di accumulazione o di riproduzione allargata, Marx divide la produzione sociale in due settori principali; nel primo la produzione dei mezzi di produzione e nel secondo la produzione dei mezzi di consumo.

La divisione è sintomatica e rispecchia la divisione in classi della società. Marx categoricamente rifiutò di dividere la produzione sociale in più di due settori, per esempio, in un terzo settore per la produzione dell'oro, per quanto l'oro non sia né un mezzo di produzione né un mezzo di consumo, ma piuttosto un mezzo di circolazione. Si tratta tuttavia di un problema interamente al postulato base di una società chiusa nella quale esistono soltanto due classi e i pertanto i soltanto due decisive divisioni della produzione sociale. Sono le premesse che definiscono i limiti del problema. La relazione i due settori non è soltanto una relazione tecnica, essa ha le sue' radici relazione di classe tra il lavoratore ed il capitalista.

Il plusvalore non è uno spirito incorporeo che ondeggia tra il ciclo e la , è i incorporato i nei mezzi di produzione come nei mezzi di consumo. separare il plusvalore dai mezzi di produzione o dai mezzi di consumo è tentativo che conduce all'ideologia piccolo; borghese del sottoconsumo. Citiamo nuovamente Lenin:

«Il postulato che il capitalista non può realizzare il plusvalore è soltanto una ripetizione volgarizzata delle elucubrazioni di Smith rispetto al realizzo in generale. Soltanto parte del plusvalore consiste di mezzi di consumo; l'altra parte consiste di mezzi di produzione. Il consumo di quest'ultima parte viene realizzato i attraverso la produzione. Pertanto i populisti che predicano l'impossibilita di realizzare plusvalore devono logicamente riconoscere l'impossibilità di realizzare «il capitale costante» e così ritornare ad Adamo Smith» [7]

Questo concetto è fondamentale per l'intera concezione di Marx. Taglia attraverso tutte le varietà di mercati. Il punto di Marx è che la forma valore predetermina la destinazione delle merci. Il ferro non viene consumato dagli uomini, ma dall'acciaio; lo zucchero non viene consumato dalle macchine ma dalla gente. Il valore è indifferente rispetto all'uso dal quale è nato, ma deve essere incorporato in valori d'uso per venir realizzato. Soltanto il valore d'uso dei mezzi di produzione - scrive Marx - indica quanto sia «la determinazione dei valori d'uso nella determinazione degli ordini economici.» (8)

Nell'ordine economico capitalista i mezzi di produzione formano la parte maggiore dei due settori della produzione sociale; e perciò anche del «mercato». Negli Stati Uniti, per esempio, il 90 per cento della ghisa viene consumato dalle compagnie che la producono; il 50 per cento del mercato per i prodotti dell'industria dell'acciaio è l'industria dei trasporti.

È impossibile avere la più lieve comprensione delle leggi economiche della capitalista senza essere fermamente consci del ruolo della forma materiale del capitale costante. Gli elementi materiali della produzione seme della riproduzione - forza lavoro, materie prime e mezzi di produzione - sono gli elementi della riproduzione allargata. Per produrre maggiore Quantità di prodotti, occorrono più mezzi di produzione. Questa e non quella del «mercato» è la differenza specifica della riproduzione allargata.

Marx procede ulteriormente ad affermare l'importanza chiave della forma materiale del prodotto ai fini della riproduzione allargata, incominciando la sua illustrazione della riproduzione allargata con un diagramma che indica che «per quanto concerne il suo valore» la riproduzione allargata non è che riproduzione semplice.

Non è la quantità, ma la destinazione degli elementi dati della riproduzione semplice che viene cambiata, e attesta cambiamento è la base materiale susseguente riproduzione.

«La difficoltà nel comprendere la riproduzione allargata non consiste nella forma-valore della produzione, ma nel confronto, del valore con la sforma materiale» [9].

Il concetto di Marx è che - per non perdersi in s un circolo vizioso di prerequisiti - di dover andare costantemente al mercato con le merci prodotte e ritornare dal mercato con le merci acquistate - occorre porre il problema della riproduzione allargata nella sua «semplicità».

Questo può esser fatto rendendosi conto di due semplici fatti:

  1. che la legge di produzione capitalista comporta l'aumento della popolazione lavoratrice da cui consegue che, mentre parte del plusvalore deve essere incorporato nei mezzi di consumo e trasformato in capitale varia con il quale si comprerà ulteriore forza lavoro, quella forza lavoro sarà sempre disponibile;
  2. che la produzione capitalistica crea il suo proprio mercato - la ghisa è per l'acciaio, l'acciaio per la costruzione di macchine, ecc. e pertanto, per quanto si riferisce al mercato del capitale, i capitalisti sono i migliori clienti di se stessi ed i migliori compratori dei prodotti.

Pertanto conclude Marx l'intera complessa questione delle condizioni di riproduzione allargata può essere ridotta alla domanda seguente: può il plusprodotto nel quale il plusvalore è incorporato andare direttamente (senza essere prima venduto) in una produzione ulteriore? La risposta di Marx è la seguente: Non è necessario che quest'ultimo venga venduto; esso può in natura entrare nella nuova produzione (10).

Marx stabilisce che il prodotto sociale totale non può essere o «mezzi di produzione» o «mezzi di consumo»; vi è una preponderanza di mezzi di produzione sui mezzi di consumo. E non si tratta che è così, ma che deve essere così, perché i valori di uso prodotti nella società capitalistica non sono quelli usati dai lavoratori e nemmeno quelli usati dai capitalisti, ma quelli usati dal capitale. Non sono gli uomini che realizzano la parte maggiore del plusvalore; essa viene realizzata attraverso l'espansione costante del capitale costante. La premessa della riproduzione semplice - una società composta solamente di lavoratori e di capitalisti - rimane la premessa della riproduzione allargata. Contemporaneamente il plusvalore rimane unicamente determinato dalla differenza tra il valore del prodotto e il valore della forza lavoro. La legge del valore continua a dominare sulla riproduzione allargata. L'intero problema del secondo volume così discusso è di render chiaro che la realizzazione non è un problema di mercato, ma un problema di produzione. Il conflitto nella produzione e pertanto nella società è il conflitto tra il capitale ed il lavoro. Questa è la ragione per la quale Marx non ha mai voluto allontanarsi dalla sua premessa.

Capitolo secondo: la critica di Rosa Luxembourg

1) La realtà contro la teoria

Il peso principale della critica della. Luxembourg contro la teoria di accumulazione di Marx fu diretto contro la sua assunzione di una società capitalistica chiusa. Essa diede a questa assunzione un significato a doppio uso: primo uno società composta soltanto di lavoratori ; secondo dominio del capitalismo sul mondo intero.

Marx tuttavia non considerò il dominio del capitale nel mondo intero, ma il suo comportamento in una singola e isolata nazione. Quando i critici della [11] fecero notare questo punto la Luxembourg gettò su di parole di fuoco. Nella sua «Anticritica» (12) la Luxembourg scrisse che parlare di una singola società capitalista era una assurdità fantastica caratteristica dei più crassi epigoni. Essa insistette che. Marx non poteva avere dei concetti così stratosferici nella sua mente. .Ciò nonostante, come fu messo in rilievo da Bukarin, la Luxembourg non solo interpretava male il concetto di Marx, ma travisava il semplice fatto che Marx aveva con molta chiarezza messo sulla carta:

«allo scopo di semplificare il problema della riproduzione allargata noi ci astrarremo dal commercio estero ed esamineremo una nazione isolata.» (13)

La Luxembourg d'altra parte argomentava che una precisa dimostrazione della storia avrebbe indicato che la riproduzione allargata non ha mai avuto luogo in una società chiusa; ma piuttosto attraverso una distribuzione ed una espropriazione di strati o società non capitalistiche. La Luxembourg erroneamente mise a confronto la realtà con la teoria; la sua critica sorse teoricamente da questo solo fondamentale errore. Essa venne tradita dai potente sviluppo storico dell'imperialismo che era in corso e sostituì alla relazione del capitale lavoro la relazione del capitalismo con il non capitalismo. Ciò la condusse a negare l'assunzione di Marx di una società chiusa. Una volta abbandonata premessa, base dell'intera teoria marxista non vi era altra via di uscita lei che quella di entrare nella sfera dello scambio e del consumo.

Che non vi sia alcuna possibile via d'uscita da questo dilemma viene rivelata in forma molto chiara dalla stessa Luxembourg. Alcune delle parti meglio scritte, nel suo libro «L'accumulazione» sono le descrizioni del reale progresso di accumulazione attraverso le conquiste dell'Algeria, dell'India; attraverso la guerra dei Boeri e la formazione dell'impero africano; la descrizione della guerra dell'oppio contro la Cina e dello sterminio degli indiani d'America; il sempre crescente commercio con le società non capitaliste e le analisi delle tariffe protettive e del militarismo.

La Luxembourg era talmente accecata dal potente fenomeno imperialista dei suoi giorni che non riuscì a vedere che tutto ciò non aveva niente a che fare con il problema posto nel volume secondo del Capitale che riguarda la maniera in cui il plusvalore viene realizzato in un mondo capitalista ideale, come non aveva niente a che fare con il reale processo di accumulazione che Marx analizza nel terzo volume, giacché il processo ideale di accumulazione è un processo capitalista, ossia un processo di produzione di valori.

La Luxembourg d'altra parte scriveva:

«La cosa più importante è che il valore non può essere realizzato né dai lavoratori, né dai capitalisti, ma soltanto da strati sociali che non producono capitalisticamente.» (14)

Non era per un semplice caso che la Luxembourg non poteva discutere la accumulazione capitalistica senza far entrare nel ragionamento altri modi di produzione. Gli errori di pensiero, perfino quando sono commessi da grandi marxisti, hanno una logica propria. Così come è impossibile nella attuale lotta di classe prendere una posizione tra la classe capitalistica ed il proletariato, è altrettanto impossibile prendere una posizione tra i due modi di pensiero che riflettono il ruolo delle due classi nel processo di produzione, per cui vi era soltanto una cosa teoricamente disponibile per lei quella di seppellire, come vedremo, l'intera distinzione della produzione del valore.

Il mercato contro la produzione

Perché si produce?

Secondo la Luxembourg i marxisti russi erano profondamente in errore quando pensavano che preponderanza del capitale costante sul capitale variabile rivelava da solo la specifica caratteristica legge della produzione capitalistica,

«per cui la produzione fine a se stessa, ed al consumo individuale è semplicemente una condizione sussidiaria.»

Per sollevare il consumo da questa posizione subordinata, la Luxembourg trasforma l'essenza interna del capitalismo in un semplice involucro. Il rapporto di c/v essa scrive, è semplicemente il linguaggio capitalistico della produttività generale del lavoro. Con un solo colpo di penna la Luxembourg priva il rapporto c/v - prudentemente isolato - dal suo carattere di classe. La produzione di valori perde il suo carattere specifico di una ben definita tappa nello sviluppo dell'umanità. La Luxembourg viene così portata a identificare c/v che il marxismo aveva considerato legge caratteristica specifica produzione capitalistica, con tutte le forme di produzione precapitalistiche; così pure con la futura organizzazione socialista (15).

Il passo inevitabile seguente è quello di svestire la forma materiale del capitalismo del suo carattere di classe. Mentre Marx costruisce la relazione tra il I Settore, che produce mezzi di produzione, ed il II Settore che produce mezzi di consumo, egli riflette le relazioni di classe inerenti al rapporto c/v, la Luxembourg invece parla di «rami della produzione» come se si trattasse termini puramente tecnici. Essa dapprincipio priva del suo contenuto di capitale la forma materiale del capitale, quindi la scarta perché non ha contenuto di capitale:

«L'accumulazione non è soltanto una relazione interna tra i due settori della produzione. È innanzitutto una relazione tra i capitalisti ed i settori non capitalisti.» (16)

La Luxembourg ha trasformato l'accumulazione del capitale da una sostanza derivata dal lavoro in un'altra il cui principale sostegno è una forza estranea: i settori non capitalisti. Per completare questa inversione della fonte principale dell'accumulazione capitalistica essa è costretta a rompere i confini della società chiusa, fuori della cui soglia era già uscita. La sua soluzione mette l'intero problema sulla propria testa, ed ora prega che noi abbandoniamo la soluzione di una società chiusa e che «permettiamo che il plusvalore venga realizzato fuori della produzione capitalistica».

Essa dice che questo passo rivelerà che dalla produzione capitalista possono emergere «sia mezzi di produzione che mezzi di consumo» (17).

Non esiste una legge che obbliga i prodotti della produzione capitalista ad essere l'uno e non l'altro. Difatti, afferma la Luxembourg, senza alcuna coscienza di quanto si stia allontanando dal metodo Marxista, la forma materiale non ha niente a che fare con i bisogni della produzione capitalista. La sua forma materiale corrisponde ai bisogni di quegli strati non capitalistici che rendono possibile il suo realizzo (18).

Differenze su ciò che determina la produzione

Per il marxismo è la produzione che determina il mercato. Invece la Luxembourg si trova in una posizione dove, pur accettando il marxismo, fa sì che sia il mercato a determinare la produzione. Una volta eliminata la fondamentale distinzione marxista tra mezzi di produzione e mezzi di consumo, quale indicativa di una relazione di classe, la Luxembourg è obbligata a guardare al mercato nel senso borghese della «domanda effettiva». Avendo perso di vista la produzione, cerca gli uomini. Giacché è ovviamente impossibile che i lavoratori ricomprino i prodotti da essi creati, essa cerca altri «clienti» per comperare questi prodotti.

Dopo essersi cosi allontanata dal metodo marxista, essa procede a rimproverare Marx per non aver usato questo punto di vista come punto di partenza. Essa scrive che la formula marxista sembra affermare che la produzione lavora per la produzione stessa. Come Saturno divorava i suoi bambini, così ogni cosa prodotta viene consumata interamente:

«Nello schema l'accumulazione viene effettuata senza che sia possibile vedere, in alcuni grado, per chi, per quali nuovi consumatori, abbia corso in ultima analisi questa continua espansione della produzione. I diagrammi presuppongono il seguente corso delle cose. L'industria del carbone si espande allo scopo di espandere l'industria dell'acciaio. Quest'ultima si espande per permettere l'espansione dell'industria metalmeccanica. L'industria metalmeccanica si espande allo scopo di contenere la sempre crescente armata di lavoratori del carbone, dell'acciaio e della metalmeccanica. E così all'infinito, in un circolo vizioso.» (19)

Grazie alla sua sostituzione del settore non capitalista alla società chiusa di Marx, la Luxembourg riesce a rompere questo «vizioso». Essa afferma che i capitalisti non sono dei fanatici e non producono per amore della produzione. Né le rivoluzioni industriali, né la «volontà» di accumulare sono sufficienti ad incrementare la riproduzione allargata: «È necessaria un'altra condizione, l'espansione della domanda effettiva» (20). Eccettuato il plusvalore che è necessario per sostituire il capitale fisso e quello necessario a fornire ai capitalisti il lusso, il plusvalore non può altrimenti saltar fuori dall'accumulazione, non può essere «realizzato». Ossia:

«Soltanto i capitalisti sono in condizione di realizzare la parte consumata del capitale fisso e la parte consumata del plusvalore. Essi possono in questa maniera garantire la condizione per il rinnovamento della produzione scala precedente.» (21)

Sembra che all'attenzione della Luxembourg sia sfuggito il concetto che «la parte consumata del capitale fisso» non è consumata personalmente, ma «produttivamente». I capitalisti non mangiano né le macchine né il loro logorio, né le macchine nuove. La parte consumata del capitale fisso ed i nuovi investimenti in capitali sono realizzati attraverso la produzione Questo è il preciso significato della riproduzione allargata, come Marx non si stancò mai ripetere.

La Luxembourg invece di parlare delle leggi della produzione basate sulla relazione capitale-lavoro, non ha ora altra scappatoia che il desiderio soggettivo dei capitalisti per il profitto. Essa scrive che la produzione capitalistica si distingue da tutti gli altri ordini precedenti di sfruttamento perché non solo ha fame di profitti, ma ha fame di sempre maggiori profitti. Ora, come può la somma dei profitti aumentare quando i profitti stessi camminano sempre in un circolo, fuori da una tasca e dentro ad un'altra (23), cioè fuori della tasca dei produttori di acciaio e dentro a quella dei magnati dell'acciaio e dell'industria metalmeccanica? Non ci dobbiamo meravigliare se Marx era così insistente nello stabilire che:

«Il profitto e quel travestimento del plusvalore che dobbiamo togliere prima che la vera natura del plusvalore venga scoperta.» (22)

In qualità di teorica seria, la Luxembourg, fu costretta a sviluppare la sua deviazione fino alla sua logica conseguenza. Mentre per Marx, l'espansione della produzione, significa un aggravamento del conflitto tra lavoro e capitale, per la Luxembourg significava innanzitutto espansione della domanda e dei profitti.

Essa contestava a Marx di aver ammesso ciò che avrebbe dovuto provare, ossia che la riproduzione allargata era possibile in una società chiusa. Con la sua attenzione centrata sull'imperialismo, essa non vide che il capitalismo si stava con molta maggior estensione, capitalisticamente (espansione della fabbricazione di macchine dentro il mercato interno) e tra paesi capitalisti (per esempio Stati Uniti ed Inghilterra) che non attraverso terzi gruppi o tra paesi capitalisti e non capitalisti.

La Luxembourg aveva lasciato la sfera della produzione per quella dello scambio e del consumo. E lì rimase. Avendo abbandonato le premesse di Marx, non aveva alcun punto di vantaggio dal quale esaminare questi fenomeni. Essa arrivò sulla grande arena del mercato, domandando che venisse provato quello che era ovvio, mentre accettava per concessi i rapporti di produzioni che appunto quell'ovvio di prima oscurava. Restando sul mercato, non vi era altro per lei che adottare il linguaggio caratteristico di quella, che lei stessa, in altre circostanze aveva chiamato la «mentalità mercantile».

La forma pura del valore

La Luxembourg afferma che, per quanto il carbone possa esser richiesto dal ferro; ed il ferro dall'acciaio, e l'acciaio per l'industria metalmeccanica sia mezzi di produzione che dei mezzi di consumo, il plusprodotto non può venir incorporato nella produzione ulteriore senza aver prima assunto la pura forma del valore, che è evidentemente denaro e profitti:

«Il plusvalore, indipendentemente dalla forma materiale che possiede, non può essere direttamente trasferito alla produzione per l'accumulazione; venir prima realizzato.» (24)

Nella stessa maniera per cui il plusvalore deve esser realizzato dopo che è stato prodotto, così dopo deve riassumere la «produttiva»di mezzo di produzione, di forza lavoro e di mezzi di consumo. Come le altre condizioni della produzione questo ci porta nuovamente al mercato. Finalmente, dopo questi avvenimenti, continua la Luxembourg, la massa addizionale di merci deve esser nuovamente realizzata e trasformata in denaro. Questo ci porta nuovamente al mercato e soltanto dopo che è successo quanto sopra... Chiudendo la porta a quello che la Luxembourg pensa sia un «vizioso» produzione per amore della produzione, essa apre la porta a quello che Marx chiamava «circolo vizioso dei prerequisiti»(25).

Mentre Marx diceva che soltanto il valore d'uso dei mezzi di produzione indica quanto sia importante la determinazione del valore d'uso nella determinazione dell'intero ordine economico, la Luxembourg lascia completamente fuori considerazione il valore d'uso del capitale: «Nel parlare della realizzazione del plusvalore» essa scrive noi a priori non consideriamo la sua forma materiale (26). Mentre Marx indica l'inseparabile modellazione del valore in valori d'uso, la Luxembourg tenta violentemente di separarli, come se il plusvalore potesse venir realizzato al di fuori della sua forma.

La contraddizione tra i valori d'uso ed il valore alla quale la produzione capitalista non può sfuggire, viene risolta dalla Luxembourg con il tentativo di scaricare il prodotto totale della produzione capitalistica sulle aree non capitalistiche.

La Luxembourg può aver così pensato di essersi liberata dal «circolo vizioso» dello schema di Marx. In realtà, liberando i suoi pensieri dalle leggi di produzione capitalistica, la Luxembourg liberava se stessa dall'attualità della lotta di classe. Ed è stato questo processo che le ha permesso di abbandonare la premessa di una società capitalistica , e di conseguenza le implicazioni e le limitazioni delle categorie marxiste.

Raya Dunajevskaja

 

[Traduzione di Gigante]

 

NOTE

[1] Accumulazione del capitale - un contributo alla spiegazione economica dell'imperialismo di Rosa Luxembourg, 1a ed. pubblicata 1913. Vi è stata molta confusione tra questo libro e la sua Anticritica, pubblicata per la prima volta nel 1919 e chiamata Accumulazione del capitale, ossia quello che gli epigoni han fatto della teoria di marx - una anticritica. Questo libro fu ripubblicato nel 1923 come Secondo volume del suo primo libro sull'Accumulazione. In questo articolo chiameremo Accumulazione il I Volume ed Anticritica il II. Il I volume citato è quello della russa di Dvoilatski, edita da Bukharin e pubblicato a Mosca nel 1921. L'Anticritica citata è l'edizione tedesca. Del 1923.

[2] Kalecki, Teoria della dinamica economica. Pag. 46.

[3] Capitale Vol. II pag. 548, Vol. III pag. 300 e Le teorie del plusvalore Vol. II, Part.II, pag. 161 (i riferimenti alle Teorie in questo articolo sono dell'edizione Russa).

[4] Capitale Vol. III, pag. 396.

(5) Quando in questo articolo la parola «realizzo» viene usata nel suo significato di sottoconsumo di vendita, verrà sempre messa tra virgolette.

(6) Lenin, Opere scelte Vol. II pag. 424 (Ed. Russa).

(7) Lenin, Opere scelte Vol. II pag. 32.

(8) Marx, Teorie del plusvalore Vol. II part. II pag. 170.

(9) Marx, Capitale Vol. II pag. 592.

(10) Vedi nota 8.

(11) La questione era complicata dal fatto che nella loro maggioranza i suoi critici erano riformisti. Essa d'altra parte attaccò indiscriminatamente sia i rivoluzionari che coloro che tradivano la rivoluzione, chiamando tutti i suoi critici «epigoni».

(12) Pag. 401.

(13) Teorie ecc. Vol. II pari. il pag. 161. Vedi pure Bukharim L'imperialismo e l'accumulazione di capitale, 1925 (in russo e tedesco).

(14) Accumulazione pag. 245 (sottolineato da me - F. F.).

(15) Accumulazione pag. 222.

(16) Idem pag. 297 (mia sottolineatura - F. F.).

(17) Idem pag. 247.

(18) Idem (mia sottolineatura - F.F.).

(19) Idem pag. 229.

(20) Accumulazione pag. 180.

(21) Idem pag. 244.

(22) Anticritica osa. 407-8.

(23) Capitale III pag. 62.

(24) Accumulazione pag. 86.

(25) Vedi la Parte I di questo articolo, relativo alla nota 10.

(26) Accumulazione pag. 245.

Condividi post
Repost0
20 luglio 2022 3 20 /07 /luglio /2022 15:00

L’idea di rivoluzione in Castoriadis

 
Daniel Blanchard
 
Castoriadis ci ha lasciati, tace eppure non posso impedirmi di riprendere la conversazione con lui. A volte, però, realizzo che non è più qui; allora è come salisse di numerose il suono di tutti i walkman nella metropolitana, di tutti i televisori dei vicini, come se il frastuono urlante dell'autostrada si avvicinasse al mio cranio. Nel vuoto lasciato da questa voce, che era la sola delle voci per così dire pubbliche, ad affermarsi ancora, e questo sino all'ultimo momento, quella di un rivoluzionario, è come se si serrasse un po' più su di noi l'informe discorso pieno di rumore e di furore, di una società idiota e cieca, votata alla sua sola riproduzione ripetitiva, al funzionamento del dominio.
Radicalmente estraneo al puro funzionamento o alla ripetizione sarà stato il lavoro di Castoriadis. E la sua opera, malgrado la sua ampiezza, mai si erigeva in monumento. E' una traiettoria, sovreccitata, lo si può dire, e mi piacerebbe mostrare qui la corrente che l'alimenta da un capo all'altro il suo slancio instancabile di comprensione del "socio-storico", è l'idea di rivoluzione. Avendo incontrato mediante il marxismo l'idea rivoluzionaria, questa "immensa voce che beve" la storia, tutto il reale, l'intelligenza, le passioni degli uomini per riconverti in energia creatrice, non si accontenta di aderirvi: la fa sua. E attraverso una serie di esperienze e di rotture, da vero rivoluzionario rivoluziona l'idea di rivoluzione.
Rottura con lo stalinismo, innanzitutto, la gioventù comunista illegale, alle quali aderisce a quindici anni, poi, per poco tempo, il PC greco. Il che lo illumina sullo stalinismo, è al contempo la sua personale esperienza e la testimonianza dei militanti, che, dopo aver partecipato alla rivoluzione, sono stati vittime del terrore bolscevico: Souvarin, Ciliga, Barmine, Serge... Rottura con il trotskismo successivamente: "la critica del trotskysmo e la mia personale concezione hanno preso forma definitiva durante il primo tentativo del colpo di Stato ad Atene nel dicembre 1944. Diventava infatti chiaro che il PC non era un "partito riformista" alleato della borghesia..., ma che mirava ad impadronirsi del potere per instaurare un regime dello stesso genere di quello esistente in Russia". (Les Carrefours du labyrinthe, IV, p. 83).

Rottura che sancisce, nel 1949, la creazione, insieme a Lefort e alcuni altri militanti, del gruppo Socialisme et Barbarie e della rivista dallo stesso nome. La III guerra mondiale sembra imminente. Il compito dei rivoluzionari è di trasformarla in una lotta dei lavoratori armati, al contempo contro la borghesia e contro la burocrazia che pretende di rappresentarli, per instaurare il socialismo, offrendo così all'umanità la sola alternativa alla barbarie...

Queste prime rotture si effettuano in nome del marxismo, benché occorra stiracchiare un po' i concetti per farvi rientrare la definizione della burocrazia come classe e la nozione di capitalismo burocratico. La rottura è categorica in compenso con il leninismo. Non è più ad essere il portatore del progetto rivoluzionario ma il proletariato stesso, votato dunque a darsi delle forme di organizzazione autonome. E il gruppo si assegna anche come compito di aiutarlo in ciò.

Negli anni successivi, il gruppo approfondisce la sua analisi dell'URSS e applica le sue nuove idee alla Iugoslavia, alla Germania orientale, alla Cina. Ma la rivista rende conto anche dei movimenti sociali che si svolgono in Occidente. Essa denuncia il ruolo dei PC e delle organizzazioni sindacali che le utilizzano per i loro propri obiettivi di potere. Si dedica anche a porre in rilievo l'importanza della lotta dei lavoratori contro la gerarchia nel lavoro stesso e la loro tendenza all'autorganizzazione informale, forma embrionale e conflittuale di una gestione operaia del processo di gestione.

E' questo uno dei contributi essenziali dei membri del gruppo che lavorano nelle imprese, come Mothé o Simon, e anche dei compagni di Correspondence a Detroit e di Solidarity in Inghilterra, più legati al mondo della produzione moderna. Questo equivale a dire l'importanza dell'elaborazione collettiva in questo gruppo che non era affatto un qualunque comitato di redazione di rivista, come si è troppo spesso detto per molto tempo, dove avrebbero compiuto le loro prime battaglie alcuni giovani intellettuali ulteriormente votati alla gloria (Castoriadis, Lefort, Lyotard, Debord per poco tempo...). Equivale a dire anche che malgrado il rigoroso isolamento che gli imponeva il ricatto ideologico esercitato su tutta la società francese di allora da parte del PC e dei suoi compagni di strada, tra cui Sartre, il gruppo non si trovava affatto tagliato fuori dalla realtà. Al contrario, era una specie di Nautilus, di osservatorio e di laboratorio immerso nei grandi fondali che rilevavano le correnti profonde che stavano facendo la storia.

E' talmente così poco tagliato dalla realtà che i fatti vengono a confermare le sue analisi, dapprima nel 1953 con la rivolta degli operai di Berlino Est. ma, durante l'autunno del 1956, accade davvero l'apparizione del pianeta Nettuno nel luogo e al momento previsti da Le Verrier. Alcune delle concezioni allora in circolazione sui paesi dell'Est non comportava la condizione di possibilità di un'insurrezione contro la burocrazia, di operai che si organizzavano in consigli - tranne quella di Castoriadis e dei suoi compagni. Momento straordinario per questo pugno di proscritti ideologici: fierezza di ricevere l'adesione della Storia alle loro idee, entusiasmo di fronte all'eroismo e la creatività degli insorti ungheresi, emozione di fronte al tragico esito del sollevamento. Eccesso di emozione, di cui Castoriadis se libera in lunghe improvvisazioni al piano.

Per Castoriadis, la prospettiva rivoluzionaria si trova rifondata. Elabora un testo programmatico che fonde in un insieme di audacia e di immaginazione a mio avviso ammirevoli, tutte le esperienze di lotta più significative dell'epoca: la rivoluzione ungherese, la contestazione dell'ordine capitalista nel lavoro, ma anche le lotte per l'emancipazione dei colonizzati, delle minoranze, delle donne, dei giovani... In un primo contributo della rivista (Socialisme ou Barbarie n° 22) in Sur le contenu du socialisme, estrapolando a partire dalle creazioni  più avanzate del movimento operaio e riprendendo sistematizzandole e amplificandole le proposte di Pannekoek e dei comunisti dei consigli, costruisce un modello coerente del progetto socialista sul principio dell'autogestione generalizzata. In un altro contributo, rovescia in qualche modo la prospettiva e, servendosi di questo progetto come di un rivelatore, rileva nella società capitalista la radice profonda del suo sistema di dominio, la sua irrazionalità, la sua crisi essenziale. "Ovunque la struttura capitalista consiste nell'organizzare la vita degli uomini dall'esterno, in assenza degli interessati e contro le loro tendenze e i loro interessi". (n° 22, p. 4). "Di fatto, il capitalismo è obbligato ad appoggiarsi sulla capacità di autorganizzazione dei gruppi umani, sulla creatività individuale e collettiva dei produttori, senza la quale non potrebbe sussistere un giorno (Ibid., p. 4). "Il proletariato fa vivere il capitalismo contro le norme del capitalismo... E' per questo che il capitalismo è una società pregna di prospettiva rivoluzionaria" (Ibid., p. 6).

Rottura, di nuovo, rottura con il marxismo questa volta, su un punto cruciale. Non vi sono "leggi" della Storia, né contraddizioni oggettive essenzialmente economiche che determinano l'ineluttabile rovina del capitalismo e l'avvento non meno ineluttabile del socialismo. E' la lotta degli uomini per la padronanza della loro propria vita (l'autonomia, comincia a dire Castoriadia) che mette in crisi il capitalismo, che apre la possibilità di una società libera e che gli dà un senso e un contenuto concreto.

Il Movimento rivoluzionario sotto il capitalismo moderno e Marxismo e teoria consumano l'abbandono del marxismo e in particolare l'idea che la lotta di classe costituisce il motore essenziale della dinamica rivoluzionaria. Nella società capitalista burocratizzata, a quasi tutti i livelli della piramide, i suoi membri sono sottoposti all'alienazione definita dall'alto. Tanto che la distinzione politicamente pertinente separa oramai coloro che accettano il sistema da coloro che lo combattono. La soggettività diventa decisiva, e in L'istituzione immaginaria della società, Castoriadis enumera tutti i desideri che lo portano all'impegno rivoluzionario e che potrebbero essere quelli di tutti.

In questo momento del suo percorso, vediamo che Castoriadis si ritrova molto vicino, ma senza mai riconoscerlo, da ciò che è sempre stato, mi sembra, la concezione anarchica e che pone in risonanza, e anche in sinergia, la rivolta dell'individuo e il movimento sociale. Non rinnegherà mai questo impegno ma l'analisi della "privatizzazione" lo porta, verso il 1965, ad allontanarsi dall'attività politica e a porre come in sospensione la prospettiva rivoluzionaria. Ma non l'idea di rivoluzione. Ci torneremo su.

E' questa constatazione della privatizzazione ad essere decisiva in quest'evoluzione e non l'abbandono del marxismo, come hanno affermato, ignorando l'esperienza anarchica, i compagni di Socialisme ou Barbarie che si sono separati da Castoriadis nel 1963. Questa constatazione risale alla fine degli anni cinquanta ma non smette di confermarsi, in termini sempre più severi, nel corso degli anni. Le persone si allontanano dalla sfera pubblica; non pongono che dei problemi parziali o categoriali e mai quello del sistema in quanto tale; si ripiegano sulla sfera privata del consumo e degli svaghi.

Ora, questo atteggiamento che è "l’inverso rigoroso della burocratizzazione", priva l’intellettuale rivoluzionario, innanzitutto, degli strumenti della sua critica, poiché, come abbiamo visto, sono le lotte concrete dei membri della società che devono fornirgliele. Lo priva anche evidentemente dell'alleato naturale della sua azione. In politica, rischierebbe di dire non importa cosa e di parlare a vuoto. E' per così dire votato alla filosofia.

Da parte mia, piuttosto che di "constatazione" penso che si tratta di una "disillusione illusoria". Disillusione, perché si direbbe che il realismo da lui invocato contro l'ideologia mistificante del marxismo gli rappresenta come insignificanti dei movimenti che un tempo gli sembravano portatori di un senso critico, gli impediscono - e tutto il gruppo con lui - di rilevare i prodromi dell'esplosione di maggio 1968, gli fa anche denunciare delle lotte come quella che ha mobilitato 300.000 Tedeschi contro l'installazione di missili Pershing nella Repubblica Federale Tedesca: "Siamo disposti a manifestare contro i pericoli biologici della guerra o contro la distruzione di un bosco; siamo però disinteressati alle questioni politiche e umane legate alla situazione mondiale contemporanea. " (Les Carrefours du labyrinthe, IV, p. 17).

Illusoria perché, per un buon secolo e mezzo, tutte le lotte, siano esse state condotte dai lavoratori, le donne, i giovani, ecc. sono state scatenate da delle rivendicazioni parziali, e il loro eventuale significato universale è rimasto essenzialmente implicito, tranne quando è stata portata sul piano politico globale da rari movimenti rivoluzionari o quasi tali - o dall'impostura burocratica. In realtà, dietro questa "osservazione", sento una negazione che cerca di nascondere l'esigenza personale, teorica indubbiamente, di dedicarsi alla filosofia. Ma in questo approccio, malgrado ciò che essa mi sembra avere di equivoco, Castoriadis non "tradisce" né la rivoluzione né se stesso. Proiettandosi sul piano della filosofia, resta fedele sia al contenuto delle sue idee sia al fondamento che dà loro.

Questo fondamento non è metafisico, è creazione degli uomi. Così come non esiste prospettiva rivoluzionaria se i soggetti umani non la tracciano nelle loro idee e nella loro pratica, così il concetto di autonomia può essere concepito soltanto perché, dalla città greca sino ai consigli operai, alcune invenzioni della storia europea lo hanno istituito come significato politico. In compenso, è la comparsa di questo significato che rivela nell'essere e nel tempo questo tratto essenziale del consistere in creazione.

Sul piano dei contenuti, Castoriadis non ha smesso di affermare il suo attaccamento al progetto di società definito in Sur le contenu du socialisme e basato sull'autogestione generalizzata, la democrazia diretta e l'uguaglianza. Nell'intervista rilasciata poco prima della sua morte a "Le Monde Diplomatique", sostenne che ai suoi occhi il dilemma "socialismo o barbarie", enunciato nel 1949, rimaneva perfettamente pertinente. Infine, e forse soprattutto, la rivoluzione, anche  tagliata fuori dalla prospettiva storica attuale, resta al centro della sua visione: è il momento inaugurale dell'autonomia, che non è uno stato ma una rottura, che non è che un momento inaugurale. La rivoluzione è l'autonomia in campo politico. A proposito dell'impresa di Castoriadis, Axel Honneth parla di "salvaguardia ontologica della rivoluzione". È anche un potente fondamento filosofico-ontologico, antropologico, epistemologico... - dell'idea libertaria.

Approccio, dunque, essenzialmente di rottura, quello di Castoriadis - e, tuttavia, si combina con dei movimenti di chiusura. Come se, una volta posta l'autonomia nell'orizzonte dell'umano in tutti i suoi aspetti, una volta posto il vuoto della determinazione nel cuore dell'essere e il tempo come creazione pura, questo pensiero, ogni volta che si collega a degli oggetti particolari del campo "socio-storico", avesse tendenza a irrigidirsi, a chiudere questo oggetto su una razionalità esaustiva e anche su una funzionalità.

E', io credo, il caso della teoria del capitalismo moderno che retrospettivamente può apparire una concettualizzazione abusiva nella misura in cui non contiene nemmeno in germe la possibilità del rovesciamento catastrofico del rapporto di forze che si è prodotto nelle società capitalistiche a partire dalla metà degli anni 70 e della restaurazione che ha portato alla "utopia del mercato autoregolatore" (la "grande trasformazione" di Polanyi, ma al contrario), nonostante la sua "assurdità" più che dimostrata.

Questo è anche il caso della burocrazia e della tendenza alla burocratizzazione. Nelle "strutture di potere, nell'economia e persino nella cultura... è chiaro che il problema è la burocrazia e non il 'capitale' nel senso di Marx", dichiara nel 1983 (Les Carrefours du labtrinthe, II, p. 84). Alla sua visione della burocratizzazione come una tendenza irreversibile del capitalismo, si possono obiettare gli sforzi attualmente condotti dalle imprese per deburocratizzarsi attraverso il "nuovo management", la "esternalizzazione", ecc.

Si può soprattutto, a mio avviso, dispiacersi che questa burocratizzazione oblitera totalmente il ruolo del rapporto mercantile, di cui il capitalismo si accanisce a fare l'unico modo di scambio tra gli uomini e che consiste nella negazione e, nei fatti, una distruzione del rapporto sociale e di ogni scambio simbolico, cosicché il capitalismo è essenzialmente desocializzazione e non  sopravvive se non divorando rapporti sociali sia ereditati, sia secreti suo malgrado. Non parlerò della "stratocrazia", che il crollo del regime sovietico ha rapidamente dimostrato di non essere altro che un artefatto inutile. Vorrei tornare alla privatizzazione. Alla sua apparizione, questo concetto descrive il ripiegamento delle persone nella disperazione, sulla sfera privata; resta dunque collegato al movimento sociale. Finisce per tradurre il fatto che la società attuale non produce più il tipo antropologico che gli sarebbe necessario per assicurare la sua sopravvivenza, ma un tipo - cinico, gaudente, irresponsabile, eccetera - che conviene alle esigenze a breve termine del suo funzionamento. La nozione si pietrifica allora in una funzionalità astratta.

Ma questa privatizzazione tradisce anche una chiusura sul piano della pratica del pensiero, per così dire. In un certo senso, l'universale della filosofia costituisce la sfera privata del filosofo. Ho l'impressione che Castoriadis si "ripieghi" in essa, si chiuda al balbettio irrazionale del dominato, che anneghi i suoi profili concreti, la sua singolarità di soggetto nel tutto di una società smontabile come un motore, con i suoi "significati immaginari", ecc. e che di colpo dimentichi che l'essenza stessa di questa società è il dominio e che l'ultima ratio della sua razionalizzazione è ancora il dominio, foss'anche a costo di mostruose "assurdità".

Chiunque abbia grequentato Castoriadis ha potuto rimanere colpito dal paradosso di un pensiero così radicalmente libertario nel suo contenuto e così reticente ad aprirsi al pensiero degli altri nella sua pratica. Al di là delle considerazioni psicologiche, vorrei cercare di individuare il senso di questo contrasto e mi permetterò di invocare la mia esperienza personale.

Dopo che gli oppositori di Castoriadis si sono separati dai suoi sostenitori, di cui io facevo parte, si può dire che il gruppo ha cominciato a parlare con una sola voce, quella di Castoriadis. Una voce certamente forte e appassionata, "voce immensa che beve, che beve", che beveva il mondo, la Storia, ma anche ogni altra voce, che assorbiva in sé tutto ciò che l'uno o l'altro poteva dire, così che il gruppo non era altro che la sua cassa di risonanza. Letteralmente, non ci si sentiva più parlare, non ci si sentiva più pensare. E' allora che ho lasciato il gruppo, per una sorta di riflesso psichico di sopravvivenza, incapace di esprimere il minimo disaccordo. E il gruppo stesso ha dichiarato la propria dissoluzione poco più di un anno dopo.

 

La posta in gioco in questa crisi, è l'essenza stessa del linguaggio che vuole che la relazione che intratiene con la realtà, che la "costituisce", la "sveli" o altro, non si effettui che in un processo che è sempre singolare, che è interminabile e che non può avere altro luogo che la molteplicità degli esseri parlanti. Per ogni membro del gruppo, un esercizio così autonomo del linguaggio era incompatibile con il fatto che ogni parola, ogni pensiero individuale, si trovasse istantaneamente, sin dal suo sorgere, catturato, digerito e assimilato in un grande insieme che sembrava essere sempre stato presente.

Come ho detto una volta a Castoriadis pensando a questo episodio, se è vero che l'uomo è una chimera di scimmia e di vuoto, questo vuoto, spetta a ciascuno di noi esaminarlo e trarne quell'inesauribile potenziale di creazione che costituisce l'essere stesso - altrimenti si resta o si torna ad essere scimmie. Ora, questa esperienza dell'alterità degli altri nel linguaggio è allo stesso tempo quella dell'irriducibile parte in ombra del reale. Quella parte, precisamente, che il pensiero di Castoriadis risparmia in questi "magmi" di significati inafferrabili con la sola logica "insiemista-identitaria".

Questa stessa parte davanti alla quale, tuttavia, questo stesso pensiero, nel suo vissuto, si irrigidisce, mi sembra, si stringa, si chiuda, o forse che non abbia smesso di fuggire in un discorso sperdutamente perentorio, votato all'affermazione costruttiva o alla negazione polemica, e ignorando la congettura, nella ricerca di una sognata coerenza circolare, chiusa. Quando egli stesso sapeva benissimo che, chiusa, non poteva essere, perché la coerenza stessa è creazione.

Questo vuoto dell'essere, questa indeterminatezza dell'umano davanti al quale mi sembra che il pensiero di Castoriadis indietreggi spaventato, non è forse quello che sta al fondo della domanda che ha posto l'affondamento sotto i colpi del nichilismo capitalista della certezza di essere umani, la folle domanda di sapere "se questo è un uomo", così come l'ha formulata Primo Levi? Non vi è qui un "significato immaginario" centrale della società moderna? E come si concilia con la ricerca dell'autonomia? Saremo in grado di conviverci, trasformare quest'angoscia in godimento della libertà? Ecco a cosa pensavo negli ultimi tempi di discutere con Castoriadis.

Ma per la prima volta forse, la sua parola è rimasta sospesa. Il suo lavoro, per quanto colossale sia, lascia aperta un'infinità di domande. Indubbiamente lui stesso sarebbe d'accordo sul fatto che, incompiuta, la sua opera rimane ancora più fedele all'impulso allo slancio che l'ha sostenuta.

[Traduzione di Ario Libert]

Condividi post
Repost0
17 luglio 2022 7 17 /07 /luglio /2022 05:07

Il pensiero anarchico

crapouillot-Serge

Victor Serge

Le origini: la rivoluzione industriale del XIX secolo

La più profonda rivoluzione dei tempi moderni, compiuta in Europa nella prima metà del XIX secolo, passa quasi inavvertita dagli storici. La rivoluzione francese le ha spianato la strada, i rovesciamenti politici che si succedono nel mondo, tra il 1800 ed il 1850, contribuiscono, per la maggior parte, ad evitarla. Il senso dello sviluppo storico di quest'epoca è nettamente discernibile: un nuovo modo di produzione si stabilisce, provvisto di una nuova tecnica. La rivoluzione industriale inizia a dir il vero durante il primo Impero, con le prime macchine a vapore. La locomotiva è del 1830. Già i lavori di tessitura, apparsi all'inizio del secolo, hanno formato, in centri come Lione, un proletariato industriale. In alcune decine di anni, la borghesia, armata del macchinismo, trasforma, spesso nel senso letterale del termine, la superficie del globo. Le fabbriche si aggiungono alle officine ed alle manifatture, mutando la fisionomia delle città, procurando loro a volte una crescita senza precedenti. Le ferrovie ed i battelli a vapore modificano le nozioni stesse di tempo e di spazio rimaste stabili dall'antichità.

Canuts--Lione--1831.jpg

La rivolta dei Canut di Lione del 1831

 

Vediamo evidenziarsi, con una forte nettezza, i profili di nuove classi sociali e che dopo lotte si uniscono. Il "Vivere lavorando o morire combattendo" dei canuti (canuts) di Lione significa per il mondo l'apparizione del Quarto Stato, nato nella disperazione. Meno di vent'anni dopo, due giovani pensatori, appena noti in alcuni circoli di rivoluzionari, affermeranno, come un tempo Sièyes per la borghesia, che, non essendo nulla, il proletariato doveva essere tutto: perché tale era il senso del Manifesto comunista che Karl Marx ed Engels redigono, nel 1847, a Parigi e Bruxelles, in miserabili camere d'albergo...

Alexander_I_of_Russia-2.pngL’Europa si appresta alle tormente del 1848. Questo mondo, ricco di esperienze, sordamente e violentemente provato dalle conseguenze della rivoluzione borghese (1789-1793-1800...) nel suo statuto politico, sconvolto dal macchinismo e le modificazioni di struttura sociale che esso accelera, vive su dei conflitti di idee che fanno pensare ad una lotta di Titani. La Germania, l'Italia, l'Europa centrale, spezzettate in piccoli Stati semi feudali, non fanno che entrare nella via dell'unità nazionale, di modo che le aspirazioni sociali si complicano con l'idealismo nazionale giovane-italiano, giovane-tedesco, giovane-ceco... La Russia, entrata nella via europea dalle guerre del primo Impero, che hanno portato Alessandro I ed i suoi cosacchi a Parigi, rimane una monarchia assoluta, fondata sulla servitù; l'Inghilterra, per contro, dove inizia la rivoluzione industriale, è una specie di repubblica coronata, nella quale i borghesi milionari non hanno meno sovranità dei landlords; le tradizioni del 89-93 non cessano di animare in Francia dei movimenti che fanno di questo paese il vero laboratorio delle rivoluzioni. Bisogna tener conto della complessità e del dinamismo, di molteplici aspetti di quel tempo per vedervi nascere le idee del nostro.

Marx.jpgKarl Marx e Engels, giunti dalla Germania a Parigi, cercano di realizzare la sintesi della filosofia tedesca, dell'esperienza rivoluzionaria della Francia e dei progressi industriali dell'Inghilterra. Essi gettano anche le basi del socialismo scientifico. Hanno dovuto, per pervenirvi, rifiutare l'affermazione individualista di un altro giovane hegeliano, che essi hanno conosciuto a Berlino, Max Stirner, l'autore di L'Unico e la sua proprietà, cioè di un trattato, ragionato a fondo, dell'individualismo anarchico. Nessuno ha meglio eretto, in tutta la sua fragile altezza, l'uomo solo, l'Unico, nel prendere coscienza di se stesso, per resistere a tutta la macchina sociale, di Max Stirner, che visse e morì oscuramente, in una campagna della Prussia, coltivando il suo campo, solo, incompreso anche dalla sua moglie. La sua opera aiuta, per opposizione, Marx et Engels, che la criticano nell'Ideologia tedesca, a porre il problema dell'uomo sociale. Essi incontrano a Parigi due altri fondatori dell'anarchismo, Proudhon e Bakunin. Essi trovano anche, e non dobbiamo stupircene, che i creatori di tutto il pensiero rivoluzionario moderno hanno maturato nelle stesse lotte, si sono formati attraverso le stesse aspettative, a volte contraddittorie, si sono sostenuti, stimati, chiariti gli uni con gli altri, prima di dividersi, ognuno obbedendo alla sua legge interiore - riflesso di altri leggi più generali - per compiere la propria missione.
stirner-rosso.JPGSin da allora, le idee sono fissate. La dottrina individualista di Stirner, se ha pochi adepti, non sembra, dopo ottanta anni, suscettibile di essere rivista o emendata: essa è definitiva, in astratto. La dottrina del Manifesto comunista rimane oggi la base del socialismo. La gestazione dell'anarchismo sarà più lunga, poiché non approda alle sue forme contemporanee che con Kropotkin, Élisée Reclus e Malatesta, molto più tardi, dopo il 1870 e la fine del bakuninismo propriamente detto; ma le linee essenziali ne sono date sin dalla metà del XIX secolo. Come non vedere in questo frammento di una lettera di Proudhon a Karl Marx, datata da Lione il 17 maggio 1846, una delle prime affermazioni dello spirito libertario nella sua marcia verso il socialismo:

Proudhon, di Courbet, 1853"Cerchiamo insieme, se volete, le leggi della società, il modo in cui queste leggi si realizzano, il progresso seguendo il quale giungiamo a scoprirle; ma per Dio! dopo aver demolito tutti i dogmatismi a priori, non pensiamo a nostra volta, a indottrinare il popolo; non cadiamo nella tradizione del vostro compatriota Martin Lutero, che, dopo aver rovesciato la teologia cattolica, si mise subito con grande profusione di scomuniche e anatemi, a fondare una teologia protestante. Da tre secoli, la Germania è occupata nel distruggere i rattoppi di Martin Lutero; non carichiamo il genere umano con il compito di  creare nuova malta. Plaudo di tutto cuore al vostro pensiero di produrre un giorno tutte le opinioni; facciamoci una buona e leale polemica; diamo al mondo l'esempio di una tolleranza saggia e previdente, ma perché siamo alla testa del movimento, non facciamoci i capi di una nuova intolleranza, non atteggiamoci in apostoli di una nuova religione; questa religione fosse pure la religione della logica, la religione della ragione. Accogliamo, incoraggiamo tutte le proteste; facciamo appassire tutte le esclusioni, tutti i misticismi; non consideriamo mai una questione  come esaurita, e quando avremo usato sino al nostro ultimo argomento, ricominciamo se c'è bisogno, con l'eloquenza e l'ironia. A questa condizione, entrerei con piacere nella vostra associazione, altrimenti, no!" [1].

Proudhon, Bakunin, Marx

kropotkin gr Cos'è la proprietà? di Proudhon è del 1840; la Filosofia della miseria del 1846. (Marx risponderà con Miseria della filosofia). Spirito giuridico, spirito anche pratico, di piccolo artigiano francese, Proudhon definisce la proprietà attraverso il furto, constata in termini di una chiarezza perfetta l'antagonismo dei possidenti e dei salariati sfruttati, ne deduce la necessità di una rivoluzione sociale, ma si rifugia presto nel mutualismo. Marx dirà di lui che "il piccolo borghese è la contraddizione vivente" e Blanqui che "Proudhon non è socialista che per l'illegittimità dell'interesse" [2]. Kropotkin lo giustificherà in questi termini: "Nel suo sistema mutualistico, cosa cercava, se non di rendere il capitale meno offensivo, malgrado il mantenimento della proprietà individuale, che egli detestava con tutto il cuore, ma che credeva necessario come garanzia per l'individuo contro lo Stato?" [3]. "La rivoluzione che resta da fare, consiste nel sostituire il regime economico o industriale al regime governativo, feudale e militare... Allora la bandiera rossa sarà proclamata stendardo federale del genere umano".

marx karl, LevineLa maggior parte degli argomenti che alimentarono la polemica tra Marx e Proudhon si ritrovano ancora nell'arsenale attuale dei marxisti e degli anarchici. L'avversione degli anarchici per l'azione politica, concepita come superflua in rapporto all'azione economica, la sola valida, data da Proudhon. Come molti sindacalisti oggi, che hanno cominciato con l'essere libertari e rivoluzionari, prima di abbrutirsi nel riformismo, Proudhon, nel sistema che prefigura, sfocia in un insieme di riforme destinate a garantire i diritti dell'individuo-produttore e dedotte, non dallo studio del divenire sociale, ma da principi astratti, a base di sentimenti e moralità. Il grande moralista rivoluzionario si muta così, malgrado lui, in conservatore. "Dopo aver scosso il sistema sociale e proclamato l'imminenza della rivoluzione, finiva con il salvaguardare il meccanismo sociale attuale sotto una forma più o meno attenuata. Se lo si pone accanto ai socialisti per la sua critica, rimane un conservatore piccolo borghese nel campo della pratica" [4] Il padre dell'anarchismo è anche quello del riformismo.

medium Stirner2Marx ha, sin dall'inizio della sua carriera, rifiutato Stirner, poi combattuto Proudhon; gli ultimi anni della sua vita, in seno alla I Internazionale, li userà in gran parte a combattere Bakunin, altra incarnazione - del tutto indomita - dello spirito anarchico. Appartenente alla piccola nobiltà russa, ufficiale nell'esercito dello zar Nicola I, nutrito di dispotismo a tal punto da non poter più vivere che per la rivoluzione, combattente del '48 a Dresda e a Praga, incatenato al muro della sua segreta di Olmütz, consegnato allo zar, rinchiuso nelle fortezze di Pietro e Paolo e di Schlüsselbourg, egli ha scritto là, in una casamatta, una Confessione, indirizzata a Nicola I, in cui formicolano i passaggi profetici, deportato in Siberia, evaso, riprendee ad Occidente la sua vita di rivoluzionario, discepolo e traduttore di Marx, avversario inconciliabile di Marx, fondatore di una internazionale segreta nella prima Internazionale dei lavoratori, rispunta, aspramente combattuto, a volte diffamato, rivoltoso, nei suoi ultimi anni, a Lione e cospiratore a Bologna, non rinunciò all'azione che all'ultimo momento della sua vita, per morire. Compì molte variazioni, con una potente fedeltà a se stesso. La sua definizione dell'anarchia, eccola, così come egli la dà in Dio e lo Stato: "Respingiamo ogni legislazione, ogni autorità e ogni influenza privilegiata, patentata, ufficiale e legale, anche tratta dal suffragio universale, convinti che non potrebbe tornare che a profitto della minoranza dominante e sfruttatrice, contro gli interessi dell'immensa maggioranza asservita".

BakuninCitiamo qui i suoi giudizi, poco noti, su Marx e Proudhon. Bakunin scrive a Marx, nel dicembre del 1868: "Mio caro amico! Capisco ora più che mai  quanto tu abbia ragione di seguire la grande via della rivoluzione economica e di invitarci a prendervi parte, disprezzando le persone che errano per le strade laterali dei branchi sia nazionali, sia politici. Faccio ora ciò che tu fai già da vent'anni... La mia patria è oramai l'Internazionale di cui tu sei uno dei fondatori. Così, mio caro amico, sono tuo discepolo e fiero di esserlo".

Franz MehringFranz Mehring, nella sua biografia di Marx, cita anche i seguenti testi, di Bakunin: "Marx è un pensatore economista serio e profondo. La sua immensa superiorità rispetto a Proudhon è dovuta al suo essere un autentico materialista.  Proudhon malgrado tutti gli sforzi fatti per staccarsi dalle tradizioni dell'idealismo classico, è tuttavia rimasto per tutta la vita un idealista impenitente, cadeva di volta in volta sotto l'influenza della Bibbia o del diritto romano, come gli ho detto due mesi prima della morte, ed era sempre un metafisico sino alla cima dei capelli... Marx, come pensatore è sulla buona strada. Egli ha stabilito - è la sua tesi essenziale - che tutti i fenomeni religiosi, politici e giuridici della storia sono non le cause ma le conseguenze dello sviluppo economico... D'altra parte, Proudhon capiva e sentiva molto meglio la libertà di Marx; Proudhon aveva l'istinto di un vero rivoluzionario quando non si lasciava sedurre dalle teorie e le fantasie. Adorava Satana e predicava l'anarchia. È possibile che Marx giunga ad elevarsi ad un sistema di libertà più ragionevole ancora di quello di Proudhon, ma non ha la potenza spontanea di quest'ultimo" [5].

Bakunin stesso, è stato chiamato dai suoi contemporanei "l'incarnazione di Satana". I dissensi, gli intrighi, le polemiche, i complotti in cui nessuno, veramente, svolge la parte principale, portano alla sua perdita l'Internazionale dei lavoratori, poco prima e poco dopo la sconfitta della Comune di Parigi, l'idea e le opinioni anarchiche si precisano. L'influenza di Bakunin finisce con il prevalere su quella di Marx in Spagna, In Italia, in Russia, nella Svizzera romanza e parzialmente in Belgio. Al "socialismo autoritario" di Marx, Bakunin oppone infaticabilmente, con delle organizzazioni segrete, il suo "socialismo antiautoritario" che prepara una rivoluzione sociale, immediata e diretta. "Rifiutiamo di associarci ad ogni movimento politico che non avrebbe come sopo immediato e diretto l'emancipazione completa dei lavoratori". Si tratta anche della diatriba del romanticismo rivoluzionario e del movimento operaio nascente [6].

Mentre Marx e Engels cercano di edificare una vasta organizzazione internazionale degli operai, chiamata a progredire un po' alla volta, per diventare lo strumento sempre più efficace della lotta di classe, intervenire nella vita politica, incamminarsi infine, con una potenza irresistibile, verso la conquista del potere, istituire la dittatura del proletariato (dittatura contro le classi possidenti vinte e, sotto la sua altra faccia essenziale, ampia democrazia dei lavoratori), i bakuninisti intendono provocare a breve termine il rovesciamento del capitalismo con il semplice scatenamento delle forze popolari; essi credono al contempo ad una spontaneità rivoluzionaria delle masse arretrate, e cioè non organizzate, e all'azione energica di minoranze; essi condannano l'azione politica, di cui denunciano l'inganno, opponendole l'azione insurrezionale; denunciano allo stesso modo il capitale, lo Stato e il principio d'autorità da cui procede.

Alla centralizzazione statale egli oppone il federalismo (non senza centralizzare d'altronde la loro organizzazione). Infine, Bakunin, che sembra non aver mai capito Marx a fondo, conserva per certi aspetti  delle idee specificamente russe, sul ruolo, nella rivoluzione futura, della malavita, dei declassati, dei fuorilegge, dei banditi: attribuisce loro una funzione utile e importante. Il banditismo fu spesso, infatti, nella vasta Russia contadina, consegnata al dispotismo, una forma sporadica della protesta rivoluzionaria delle masse; e i declassati, nobili e piccolo borghesi passati alla causa popolare cominciavano a formare una intelligentsia rivoluzionaria. Marx per contro, istruito dall'esperienza dei paesi industriali, sapeva che il "lumpen-prolétariat" o "sotto-proletariato straccione" che costituisce la plebaglia delle grandi città, lungi dall'essere per la sua stessa natura, un fattore rivoluzionario, è infinitamente corruttibile e instabile, e cioè incline a servire la reazione; è sulle masse operaie organizzate che egli fondava la sua speranza e non sullo scatenamento della plebaglia. In Stato e anarchia, Bakunin si indigna del fatto che "la plebaglia contadina che... non gode della simpatia dei marxisti e si trova al gradino più basso della cultura" debba essere, secondo lo schema della rivoluzione di Marx, "probabilmente governata dal proletariato delle città e delle fabbriche".

Nella Russia assolutista e semi-feudale, la classe contadina più povera è, infatti, un fattore di rivoluzione - di cui Bakunin non fa che sopravalutare le capacità; e poiché non vi era affatto proletariato, si è portati a comprendere l'errore teorico dell'anarchico. Marx, al contrario, commentando queste righe, osserva con ragione che in Europa occidentale, i piccoli proprietari rurali "fanno fallire ogni rivoluzione operaia come hanno fatto già sino ad ora in Francia" – ed imporranno loro in futuro tutta una politica governativa. "Bakunin vorrebbe", egli fa osservare, "che la rivoluzione sociale europea, fondata sulla produzione capitalista, si compisse a livello dell'agricoltura dei popoli pastori russi e slavi!" [7].

Osserveremo che l'anarchismo bakuninista non si radicò che nei paesi agricoli, dove non vi era quasi un vero e proprio proletariato: Russia, Spagna, Italia. Fu anche influente su alcuni punti in cui, congiungendosi alla tradizione libertaria e mutualistica di Proudhon, divenne l'ideologia di piccoli artigiani: a Parigi, nella Svizzera francofona, in Belgio. Finché lo sviluppo industriale non si accentuerà in questi stessi paesi, l'anarchismo non cederà la preminenza, nel movimento rivoluzionario, al socialismo operaio, marxista.

Kropotkin, Reclus, Malatesta

Bakunin muore nel 1876. Le tre teste che ripenseranno il problema da capo sono già pronte a prendere la sua successione. Il principe Piotr Kropotkin, ufficiale, viaggiatore e geografo, si è legato ai circoli rivoluzionari di Russia, ha subito l'influenza bakuninista, studiato Fourier, Saint-Simon, Černyševskij. Evade dalla fortezza di Pietro e Paolo dove va a finire per forza di cosa durante l'Impero poliziesco degli zar ogni pensiero disinteressato. Élisée Reclus, giovane ricercatore appassionato della conoscenza del pianeta Terra, è passato attraverso i battaglioni della Comune, visto fucilare Duval, marciato, come prigioniero dalla faccia polverosa, sulla strada per Versailles. Enrico Malatesta è un operaio italiano. Con essi il comunismo anarchico raggiunge alla fine del secolo una formidabile chiarezza intellettuale, una illuminante altezza morale. Il movimento operaio si appesantisce di scorie e si impantana all'interno di una società capitalista in pieno vigore. Vaste organizzazioni sindacali, potenti partiti di massa di cui la socialdemocrazia tedesca è l'esempio, si incorporano in realtà al regime che essi affermano di combattere. Il socialismo si imborghesisce, sin nel pensiero che respinge deliberatamente le previsioni rivoluzionarie di Marx; si inserisce nella prosperità capitalista all'epoca benedetta in cui, la spartizione del mondo, e cioè dei paesi produttori di materie prime e dei mercati, non essendo terminata, l'industria, il commercio e la finanza possono credersi votate ad incessanti progressi. Le aristocrazie operaie e le burocrazie politiche e sindacali danno il tono alla rivendicazione proletaria sfumata o ridotta a un rivoluzionarismo puramente verbale. Non è che opportunismo, parlamentarismo, riformismo, revisione del socialismo con Bernstein, ministerialismo con Millerand, intrighi politici. La generosa intelligenza di un Jaurès non gli impedisce di accettare la presenza, in un governo Waldeck-Rousseau, del socialista Millerand, a fianco del fucilatore della Comune generale marchese de Galliffet. L'intransigenza dottrinale, quando si manifesta, con un Kautsky, un Guesde, non riescono a risalire la corrente; essa rimane teorica. Per di più, sgradevole, perché la vita profonda mancava alle sue formule. Considerare le conseguenze di questo stato di cose nella vita personale: questo conta di più di quanto non si pensi comunemente. Il militante ha ceduto il passo al funzionario e al politico; il politico non è spesso che un politicante. Questo socialismo che ha perso la sua anima rivoluzionaria - più di una volta avendola venduta per un piatto di lenticchie ben servite in un piatto colmo di burro - può soddisfare tutta la classe operaia?

Il proletariato comprende degli strati di operai mal pagati, attività e professioni sfavorite (si abbozzerà anche su questo argomento una teoria dei mestieri maggiori e dei mestieri minori), degli immigrati giunti da paesi industrialmente arretrati, dei declassati, degli artigiani colti minacciati di proletarizzazione: in breve molti irrequieti, insoddisfatti, per i quali non vi è prosperità capitalista, per i quali sin da allora sussiste, in tutta la loro durezza, il problema della rivoluzione e, con esso, quello della vita dei rivoluzionari. Kropotkin, Élisée Reclus, Malatesta (e presto Jean Grave, Sébastien Faure, Luigi Fabbri, Max Nettlau...) apportano loro un'ideologia virile, il cui merito notevole è di essere inseparabile dalla vita personale. L'anarchismo, pur essendo una dottrina d'emancipazione sociale, è una regola di comportamento. Vi vediamo una reazione profondamente sana contro la corruzione del socialismo alla fine del XX secolo.

Così come essa non potrebbe essere considerata in sé, come distaccata dal suo contenuto sociale, un'ideologia non può essere distaccata dal suo contenuto morale, da ciò che oggi chiameremmo la sua mistica. La teoria del comunismo anarchico, benché Kropotkin e Reclus abbiano avuto cura di collegarla alla scienza, procede meno dalla conoscenza, dallo spirito scientifico di un'aspirazione idealista. È un utopismo armato di conoscenza, e di una conoscenza del meccanismo del mondo moderno meno obiettiva, meno scientifica di quella del marxismo. È anche un ottimismo da declassati disperati: le bombe di Ravachol e di Émile Henry lo attestano.

Dalla constatazione dell'iniquità sociale e dalla tendenza, che egli osserva, verso forme collettive di proprietà, Kropotkin (La Conquista del pane, Pagine di un ribelle) deduce la necessità della rivoluzione. Quest'ultima deve essere fatta contro il capitale e contro lo Stato. La società di domani sarà comunista e federalista: una federazione di liberi comuni, formati a loro volta da molte associazioni di lavoratori liberi. In Il mutuo appoggio, uno dei suoi libri più notevoli, Kropotkin si dedica a dimostrare che la solidarietà è stata in ogni tempo la base stessa della vita sociale. I comuni della bella epoca del medioevo, che facevano a meno dello Stato, gli sembravano prefigurare le comuni future di una società decentralizzata, senza Stato. Come lavorare per la rivoluzione? Il comunismo anarchico rifiuta l'azione politica e non ammetterà, che dopo molti anni di lotte interne, l'azione sindacale. Fa appello, più che alle classi sociali, agli uomini di buona volontà, alla coscienza più che agli interessi economici delle masse. Vivendo secondo il loro ideale di uomini liberi e disinteressati, gli anarchici risveglieranno lo spirito di rivolta e di solidarietà delle masse; susciteranno in esse una nuova coscienza; scateneranno le loro forze creatrici - e la rivoluzione si farà il giorno in cui le masse avranno capito...

Idealismo

Gli scritti procurano una singolare impressione di intelligenza ingenua, di energia morale, di fede e, diciamolo pure, di accecamento: "Per risolvere il problema sociale a vantaggio di tutti non vi è che un mezzo: espellere rivoluzionariamente il governo; espropriare rivoluzionariamente i detentori della ricchezza sociale; mettere tutto a disposizione di tutti e fare in modo che tutte le forze, tutte le capacità, tutte le buone volontà esistenti tra gli uomini agiscano per provvedere ai bisogni di tutti" (Errico Malatesta, L'Anarchia).

Non ritaglio arbitrariamente un testo: non vi è alcun contesto. Le affermazioni di questo genere abbondano nelle pubblicazioni anarchiche. Sul "come farlo", non una parola di spiegazione. Scorriamo la Encyclopédie anarchiste pubblicata a Parigi pochi anni fa. Prima pagina: "Benessere per tutti! Libertà per tutti! Nulla per la costrizione: tutto per la libera intesa! Questo è l'ideale degli anarchici. Non esiste nulla di più preciso, di più umano, di più elevato".

La sociologia di Sébastien Faure procede semplicemente da simili constatazioni:

1° L'individuo ricerca la felicità:

2° La società ha per scopo di procurargliela;

3° La miglior forma di società è quella che si avvicina di più a questo scopo... [1].

Da ciò si deduce, per il semplice meccanismo del ragionamento logico, la dottrina dell'intesa universale. Grotius, Bossuet, Mably, Helvetius, Diderot, Morelly, Stuart Mill, Bentham, Buchner sono citati per finire con Benoît Malon: "La più grande felicità del maggior numero, attraverso la scienza, la giustizia, la bontà, il perfezionamento morale: Non si potrebbe trovare il più vasto e più umano motivo etico".

Senz'altro, senz'altro, saremmo tentati di obiettare, se non ci si sentisse disarmati da questa passione del bene pubblico accanita a trarre da se stessa tutto un edificio di ragionamenti dietro ai quali sparisce la realtà, ma, ancora una volta, come fare?

La conclusione di Sébastien Faure è di tono profetico: "Ovunque, ovunque lo Spirito di Rivolta si sostituisce allo Spirito di sottomissione; il soffio vivificante e puro della Libertà si è sollevato; è in marcia; niente lo fermerà; l'ora si avvicina in cui, violento, impetuoso, terribile, si trasformerà in uragano e rovescerà, come un covone di paglia, tutte le istituzioni autoritarie. E' in questo senso che si compie l'Evoluzione. E' verso l'anarchia che essa guida l'Umanità".

Il vecchio militante scrive queste righe al termine di una lunga vita di lotte, nel momento in cui i regimi totalitari s'impongono al contempo attraverso la controrivoluzione e attraverso la rivoluzione socialista; dove non è più che questione di piani, di economia diretta, di dittatura democratica e di democrazia autoritaria.

"... Nei fatti come in teoria, l'anarchico è antireligioso, anticapitalista (il capitalismo è la fase presentemente storica della proprietà) e antistatalista. Conduce frontalmente la tripla lotta contro l'Autorità. Non risparmia i suoi colpi né allo Stato, né alla Proprietà, né alla Religione. Vuole sopprimerli tutti e tre... Non vogliamo abolire soltanto tutte le forme dell'Autorità, vogliamo anche distruggerle tutte simultaneamente e proclamiamo che questa distruzione totale e simultanea è indispensabile" [9].

Dal punto di vista scientifico, questa dottrina di agitazione è in regressione molto netta sulle sintesi ottimiste di Kropotkin e di Elisée Reclus, che approda a un'etica e a un socialismo libertario realmente fondati sulla conoscenza dell'evoluzione storica. (L'ottimismo filosofico, oltre tutto, non ha bisogno di essere giustificato; è un'idea forza e ben radicata in noi). Assistiamo a un declino dell'anarchismo che, dopo la guerra mondiale, non ha più prodotto un solo ideologo comparabile a quelli della vecchia generazione. I militanti di reputazione di oggi - Rudolph Rocker, Emma Goldman, Luigi Bertoni, Sébastien Faure, E. Armand, Max Nettlau, Volin, Vladimir Barnach, Aaron Baron [10] sono degli uomini dell'avanguerra. Gli uomini d'azione sono andati al sindacalismo.

NOTE

1 Proudhon : Lettres (Grasset, 1929).

2 Paul Louis : Hist. du socialisme en France (Rivière).

3 Kropotkine : Le salariat.

4 Paul Louis : Hist. du socialisme en France (Rivière).

5 Franz Mehring : Karl Marx, p. 327, d’après l’édition russe de 1920, mise au pilon en U.R.S.S.

6 Voir le ch. XVIII (Michel Bakounine) du Karl Marx de B. Nikolaievsky et O. Menchen-Helfen (Gallimard).

7 Note su l’État et l’anarchie dans Contre l’anarchisme (K. Marx et F. Engels) (Bureau d’éditions).

8 Encyclopédie anarchiste, t. I, p. 59, Anarchie.

9 Sébastien Faure : Op. cit., p. 84.

10 Aaron Baron est emprisonné en U.R.S.S. depuis dix-neuf ans. Les délégations de la C.N.T.-F.A.I. envoyées à Moscou ont-elles songé a s’enquérir du sort de ces hommes ?

 

[SEGUE]

Condividi post
Repost0
15 ottobre 2018 1 15 /10 /ottobre /2018 05:00

Marx all'Est

Maximilien Rubel è nato nel 1905 a Czernowitz, all'epoca città austro-ungarica e capitale della Bucovina che è passata alla Romania nel 1918 e all'URSS nel 1947. Diplomato in diritto e in filosofia, giunge a Parigi nel 1933, dove continua i suoi studi alla Sorbona. Si diploma in lettere nel 1934 e diventa dottore nel 1954. E' durante la guerra che si rende conto che non esiste né edizione completa né bibliografia completa, né biografia soddisfacente di Marx e della sua opera. Si dedicherà d'ora in poi a cercare di colmare queste lacune. Nel 1947, entra al CNRS dove lavorerà sino al 1970. Rubel ha dato il nome di "marxologia" agli studi che ha intrapreso su Marx. Nel 1959, crea una rivista dedicata a quest'argomento, "Études de Marxologie". Uno dei risultati dell'opera di Maximilien Rubel, oltre ai suoi numerosi scritti, è l'edizione della Pléiade degli scritti di Marx di cui ha la responsabilità. Le pagine che seguiranno non possono, come Rubel stesso dice, riassumere i lavori di tutta una vita. Ma permettono di introdurre due aspetti delle sue ricerche che ci sono sembrati importanti. Innanzitutto il posto occupato da Marx all'Est: egli ha ampiamente dimostrato che anche Marx e Engels, benché qui deificati, sono tuttavia censurati. Inoltre Rubel appariva isolato e in disparte nel grande dibattito, per non dire combattimento, tra marxismo e anarchismo. Infatti, egli critica violentemente tanto il marxismo quanto gli anarchici e in modo particolare Bakunin. Ma considera che Marx è teorico dell'anarchismo.

 

Nicolas: Ho pensato a una intervista di circa 20 minuti, tuttavia ecco la questione Marx / marxismo / Paesi dell'Est; ecco le domande che vorrei porti (se vuoi aggiungerne altre o modificarle, non c'è problema per me):

1. Dall'URSS all'Etiopia, passando per le democrazie popolari, la Cina o Cuba, si rivendica e si invoca, da parte del potere, Marx. Puoi sviluppare, per Radio-Libertaire, la tua posizione, in quanto marxologo, a questo proposito?

2. Come spiegare il fatto che nel blocco detto socialista, il riferimento a Marx svolge un ruolo infimo presso coloro che criticano, contestano o combattono il regime costituito. Ad esempio in Polonia nel 1980/81, anche delle persone come Modzelewski o Kuron, marxisti critici negli anni dopo il 1965, hanno respinto ogni riferimento a Marx. Contro-esempio, gli intellettuali iugoslavi legati strettamente o un po' alla rivista Praxis, che si richiamano a Marx ma che sono spesso su posizioni lusemburghiane, libertarie o anche anarchiche (senza che ciò appaia loro come contraddittorio).

3. Quali sono stati gli echi delle tue ricerche su Marx negli ambienti comunisti occidentali (PC, trotskysti) e soprattutto all'Est?

4. Qual è la critica dello Stato "socialista" che tu fai a partire da Marx?

5. Potresti sviluppare la tua tesi su "Marx teorico dell'anarchismo" in rapporto alla contestazione esistente all'interno dei regimi marxisti-leninisti?

 

Maximilien Rubel : è dietro mia richiesta che hai letto le cinque domande che mi hai inviato per una "intervista di circa venti minuti" destinata agli uditori di Radio Libertaire, e hai voluto precisare tu o modificarle".

La mia prima reazione rileggendo il tuo questionario fu quella dello stupore, ma riflettendo, mi sono detto: di due cose l'una, o tu hai una così buona opinione della mia intelligenza e del mio sapere che mi credi capace di riassumere in poche formule incisive delle idee e giudizi che necessitano delle ore, addirittura delle giornate di riflessione e di discussioni, oppure possedevi te stesso, formulando le tue domande, le risposte a simili interrogativi che sono maturate nel tuo spirito e potevano dunque trovare facilmente risposta in un breve dialogo con me. Non so quale ipotesi scegliere, ma sia quel che sia, penso di essere in grado di formulare un certo numero di tesi generali a partire dalle quali ognuna delle tue cinque domande potrebbero trovare una risposta adeguata.

1. - Affermo che vi sia incompatibilità di natura tra non importa quale forma di marxismo da una parte, e l'insegnamento di Marx dall'altra. Se è vero, come lo pretende l'opinione comune, che un terzo del nostro pianeta è "ufficialmente marxista", è anche altresì vero che il carattere marxista di questi paesi o regimi è semplicemente un'etichetta ornamentale per far credere che si tratta di società funzionanti secondo i desideri e le ricette di Marx, allorché il semplice fatto che questi regimi hanno scelto di definirsi "marxisti" è già in sé una prova che si tratta di un'impostura o, per ricorrere alla teoria di Marx, di una ideologia. Un regime che si dica "marxista" e pretenda di governare conformemente alle regole e norme di una scienza chiamata marxismo cade per questo stesso fatto anche sotto la critica delle ideologie elaborate da Marx anche se i padroni di questi regimi si richiamano allo stesso tempo a ciò che essi chiamano "il socialismo scientifico". Questa sarebbe la mia risposta, forzatamente lapidaria e paradossale, alla tua prima domanda.

Per esprimerla sotto forma di una tesi, direi che il marxismo ufficiale di un terzo del nostro mondo prova al contrario l'esattezza della teoria materialista e critica di Marx, la sua scoperta scientifica della genesi e del ruolo delle ideologie politiche in quanto strumenti di istupidimento e di dominio dell'uomo sull'uomo. Non è il marxismo che ci fa conoscere il pensiero di Marx, è al contrario la teoria critica di Marx che ci aiuta ad analizzare l'ideologia marxista delle classi e delle caste dei paesi "socialisti" che hanno bisogno di legittimare moralmente l'esercizio del potere di Stato, leva della nuova accumulazione capitalista, ecc.

2. — In questi paesi, è normale che le masse lavoratrici sfruttate si occupano molto poco di conoscere la "verità di Marx" e che esse respingono il marxismo che non riesce nemmeno a diventare il sostituto di una religione e di suscitare una vera credenza. Gli operai polacchi si accontentano di una vera religione - non di una religione vera -, la grande religione cattolica, ma è mio parere che un grande numero tra di loro se ne freghi del cattolicesimo così come del marxismo, di Walesa e dei marxisti "ufficiali" come Adam Schaff; Modzelewski e Kuron avevano capito un tempo questo, e hanno cambiato bandiera, per delle ragioni psicologiche che sarebbe troppo lungo - e inutile - spiegare. In quanto agli Iugoslavi, in cui lo stalinismo ha potuto essere contenuto, una certa libertà di pensiero ha fatto nascere la corrente PRAXIS: ciò non ha impedito ai miei "colleghi" di rifiutare la discussione con me quando ho esposto a Korcula le mie tesi sulla nuova sulla nuova borghesia e la sua missione nei paesi etichettati "socialisti" o "autogestionari".

3. — Io pratico la "marxologia" da più di quattro decenni e se dovessi fare il bilancio dei miei "successi", direi innanzitutto, non senza una certa soddisfazione, addirittura fierezza, che i miei lavori scientifici - poiché è in quanto ricercatore collaboratore al CNRS (dunque pagato dallo Stato) che ho potuto dedicarmi alla mia specialità - dunque direi che ho dei lettori più numerosi negli ambienti non intellettuali che tra i miei "confratelli" che, anche quando utilizzano i miei scritti o le mie ricerche, preferiscono non nominarmi né citarmi: gli anti-marxisti perché oppongo Marx al marxismo, e i marxisti perché, in nome della teoria di Marx, li critico in diversi modi, a secondo della categoria o il cenacolo ai quali essi appartengono e secondo la posizione politica o "filosofica" che essi assumono nei confronti del "socialismo realmente esistente", proclamandosi discepoli di Marx. Tutto ciò per parlare degli "echi" delle mie ricerche negli ambienti occidentali, comunisti e altri, soprattutto in Francia. All'estero, diciamo negli Stati Uniti, in Giappone, in Inghilterra, un certo numero di confratelli mi apprezzano più o meno al mio "giusto valore", prendendo seriamente il mio modo di editare gli scritti di Marx: il Marx della Pléiade si offre ai lettori specialisti e non, intellettuali e non, come un autore su cui meditare e da consultare anche in questo tempo di crisi e di confusione, di nevrosi e di violenza. In quanto all'Est", dovrei parlare soprattutto dell'URSS del tempo di Stalin, fui il "falsificatore" di Karl Marx, di più. Dopo l'era staliniana, si manifesta un po' più di riserva nei giudizi sui miei lavori, pur condannando in blocco la marxologia come un pensiero "borghese" e i "marxologi" come anti.marxisti... Ma qui ancora, occorrerebbe più tempo per spiegare il perché di questo rigetto delle mie ricerche e giudizi.

4. - A questa domanda risponderei di colpo che né la parola né il concetto di "Stato socialista" si trovano in Marx. Un dettaglio: a proposito del bonapartismo del secondo impero, Marx ha parlato di un "socialismo" imperiale, e di questo fenomeno bonapartista, ha fornito degli elementi di un'analisi che si ricollegano alle moderne ricerche sul "totalitarismo"! A proposito delle riforme di Bismarck, ha parlato di "socialismo di Stato", non per approvare questo genere di socialismo, ma per condannarlo. Nel conflitto con Bakunin, Marx e Engels sono stati portati a evocare il "socialismo da caserma" di certi regimi sudamericani, lo Stato degli Inca del Perù, ecc. Ma questa critica intempestiva si basava sulla denuncia del modo di organizzazione delle società segrete di cui Bakunin si erigeva a maestro e istruttore, allora che sulla natura dello Stato e l'oligarchia capitalista, Bakunin e Marx si accordavano perfettamente, Bakunin essendosi riconosciuto discepolo di Marx che egli amava trattare da prussiano, da ebreo, da hegeliano, e dunque da "comunista di Stato". Eccomi trascinato sul terreno scivoloso della tua ultima domanda, che mi sembra la più importante: Marx teorico dell'anarchismo.

5. - In fondo, è da qui che avrei dovuto cominciare la mia comunicazione, dato che si tratta di una tesi che è difficile se non impossibile far capire e accettare quando si discute con delle persone che si richiamano all'anarchismo, benché si dovrebbe essere più specifici, viste le tendenze o modalità di anarchismo spesso contraddittorie. Tuttavia sembra esservi unanimità nella condanna di Marx e del suo pensiero, qualunque anarchico (diciamo piuttosto: adepto dell'anarchismo) condivide con le critiche più reazionarie su Marx la convinzione di trovarsi in presenza di un "comunista autoritario", e anche del principale teorico del socialismo o comunismo di Stato; nell'ipotesi meno negativa, si concederà a Marx di aver dato la critica scientifica del capitalismo, addirittura dello Stato borghese, critica che egli avrebbe sventuratamente posto al servizio di una nuova forma di dominio oligarchico, sia con il suo discorso sulla dittatura del proletariato sia sullo spirito "riformista" del programma politico chiaramente definito in Il Manifesto del partito comunista e costantemente preconizzato da allora, ad eccezione del breve episodio della Comune di Parigi, quando Marx si sarebbe, per un momento, identificato con le concezioni di Bakunin. Credo di aver rifiutato parzialmente questo genere di ragionamento nelle quattro risposte precedenti, dimostrando che non si può rendere Marx responsabile del marxismo, soprattutto dello sfruttamento leninista dell'insegnamento marxiano. E' a Bakunin che si deve il dubbio merito di aver inventato il marxismo e i marxisti come delle creazioni  o prodotti del loro malinteso maestro: ed è per sfida che Engels volendo cambiare l'insulto in titolo di gloria, ha creduto bene sanzionare l'invenzione verbale di Bakunin e di rivendicare per se stesso e i suoi compagni il titolo nobiliare di "marxisti" e per la teoria elaborata da Marx e, in parte da lui stesso, la denominazione laudativa di "marxismo"; questo gesto di adozione infantile è all'origine di quel che io chiamo il nuovo culto onomastico. il feticismo del nome, in una parola così come in cento: la mitologia marxista.

Mi obietterai: cosa tutto ciò ha a che vedere con la mia domanda che mi permetto di ripeterti: "Potresti sviluppare la tua tesi su "Mar, teorico dell'anarchismo" in rapporto alla contestazione esistente all'interno dei regimi marxisti leninisti?".

Hai ragione, non ho fatto che abbozzare i preliminari di una risposta, ma non aspettarti che porti a te come ai miei ascoltatori, la prova convincente di un argomento che condensa in qualche modo l'insieme dei miei contributi a una migliore comprensione degli insegnamenti di Marx e che è il senso stesso dei miei sforzi: Marx teorico dell'anarchismo. Ho risposto, mi sembra, attraverso la negativa, con un contrattacco, rendendo una certa corrente anarchica responsabile della nascita della mitologia marxista. Ecco che è più facile giustificare la mia concezione - non dico la mia interpretazione, da parte di Marx, di una teoria dell'anarchismo, addirittura della sola teoria dell'anarchismo.

Se avessi da proporre alcune affermazioni di Marx che rivelano sotto forma di un aforisma il credo anarchico di critica del sistema capitalista, citerei innanzitutto questa frase del Manifesto del partito comunista:

"Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe subentra un'associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo".

Questa citazione la completerei con una altro aforisma, anteriore al precedente:

"L'esistenza dello Stato e l'esistenza del la schiavitù sono inseparabili. Quanto più potente è lo Stato, quanto più politico quindi è un paese, tanto meno esso è disposto a ricercare nel principio dello Stato, dunque nell'odierno ordinamento della società, della quale lo Stato è l'espressione attiva, autocosciente e ufficiale, il fondamento delle infermità sociali, e ad intenderne il principio generale." (Glosse marginali di critica all'articolo: Il re di Prussia e la riforma sociale, Firmato: un Prussiano, Vorwarts1844).

Queste due citazioni, le porrei in epigrafe a un'esposizione della teoria anarchica di Marx, e poteri moltiplicare queste denunce dello Stato (di cui l'ascoltatore troverà una scelta più ricca nel mio saggio pubblicato nel 1973 "Marx teorico dell'anarchismo" e nella raccolta del 1974, "Marx critico del marxismo"). Bakunin che fu uno dei primi attenti lettori degli scritti di Marx non aveva dunque bisogno di aspettare l'Indirizzo sulla Comune di Parigi del 1871 per scoprire un adepto dell'anarchismo nella persona del preteso "comunista di Stato". Avrebbe potuto fare la stessa constatazione in un altro documento, di qualche mese soltanto posteriore a questo indirizzo, e cioè il libello redatto da Marx con il titolo "Le pretese scissioni nell'Internazionale", opuscolo diretto contro Bakunin e i suoi adepti, in cui figura quella che chiamerei la professione di fede anarchica di Marx:

"L'anarchia, ecco il grande cavallo di battaglia del loro maestro Bakunin che dei sistemi socialisti non ha preso che le etichette. Tutti i socialisti intendono con anarchia questo: lo scopo del movimento proletario, l'abolizione delle classi una volta raggiunta, il potere di Stato, che serve a mantenere la grande maggioranza produttrice sotto il giogo di una minoranza sfruttatrice poco numerosa, sparisce, e le funzioni governative si trasformano in semplici funzioni amministrative. L'Alleanza (si tratta di un'organizzazione fondata da Bakunin, l'Alleanza per la Democrazia Socialista) prende la cosa al contrario: essa proclama l'anarchia nei ranghi proletari come il mezzo più infallibile per spezzare la potente concentrazione di forze sociali e politiche tra le mani degli sfruttatori. Con questo pretesto, essa chiede all'Internazionale, nel momento in cui il vecchio mondo cerca di schiacciarla, di sostituire la sua organizzazione con l'anarchia" (Freymond II, p. 295).

Bakunin ha risposto con degli insulti razzisti e germanofobi, dapprima nel Bulletin de la Fédération jurassienne dove tratta Marx e i suoi associati come ebrei, e nel 1873, poco prima della sua morte, in Stato e Anarchia dove il ritratto di Marx è molto più completo con certi lati molto positivi in cui possiamo vedere che Bakunin ha seguito da vicino la carriera intellettuale di Marx ma dove argomenta in quanto razzista. Lo tratta da ebreo, da prussiano, vede in lui un hegeliano e condanna Lassalle come discepolo di Marx. Ma questo richiederebbe molti incontri per districare e soprattutto per analizzare e commentare ciò che io chiamo la mitologia marxista.

N. Si dovrebbe ricordare la russofobia ben nota di Marx.

M. R. Naturalmente, si deve prendere in considerazione il cattivo carattere di Marx. Per tua informazione, risponderei con la chiaroveggenza con la quale Marx si è giudicato da se stesso, quando alla domanda quale era la sua massima, egli rispondeva, in latino, "Sono umano, e nulla di umano mi è estraneo". Ha avuto dei lati negativi e tuttavia se dovessi scegliere tra due maestri per ritrovare nelle circostanze attuali un filo di spiegazione della miseria del mondo attuale, credo che sceglierei l'opera di Marx di preferenza a quella di Bakunin. Per quel che riguarda l'applicazione dell'anarchismo nella vita quotidiana, è certo che Bakunin era più vicino a un uomo emancipato rispetto ai pregiudizi borghesi di Marx. Marx conduceva una vita da piccolo borghese e anche di paria in margine alla società borghese, il che lo faceva somigliare a Bakunin inoltre, un mendicante permanente, malato, che non ha lasciato che un frammento di un'opera che egli pensava di portare a termine durante la sua carriera e che ha lasciato alla posterità come una specie di avvertimento. Ed è in quanto tale che continua a interessarmi e che dovrebbe interessare i libertari e in mondo che pensa in generale.

 

Radio-Libertaire, 25 febbraio 1982.

 

Riportiamo di seguito una breve bibliografia dei lavori di Maximilien Rubel attinenti agli argomenti trattati in questa intervista:

  • Karl Marx, auteur maudit en URSS? I. l’Edition fantôme, Preuves I n°7 (Sept. 1951), 14-16 ; « II. l’Édition censurée », Ibid n°8 (Oct. 1951), 11-13, avec un appendice (K. Marx, révélations sur l’histoire de la Russie).
  • Le sort de l’œuvre de Marx et d’Engels en URSS, La Revue socialiste (Avr. 1952), 327-49.
  • Staline jugé par Marx, Preuves n° 12 (1952), 41-2.
  • Staline et Cie devant le verdict d’Engels, La Revue socialiste (jan. 1952) , 64-74.
  • La croissance du capital en URSS. Essai de confrontation critique, Économie appliquée (Archives de l’ISEA, X (Avr.-Sept. 1957), 363-408 repris dans Marx critique du marxisme.
  • De Marx, au bolchevisme : partis et conseils, Arguments VI, n° 25-6 (1962), 31-9, repris dans Marx critique du marxisme.
  • La fonction historique de la nouvelle bourgeoisie, Praxis 1/2 (1971), 257-68, repris dans Marx critique du marxisme.
  • La société de transition. Notes critiques sur le Nouveau Léviathan de P. Naville, Sociologie du travail XIII, n° 4 (Oct.-Dec. 1971) 416-25, repris dans Marx critique du marxisme.
  • Marx Théoricien de l’anarchisme, L’Europe en formation n°163-4 (Oct. Nov. 1973), 39-54, repris dans Marx critique du marxisme.
  • Marx critique du marxisme. Essais Paris, Payot, 1974 (451 pp.).
Condividi post
Repost0
15 marzo 2018 4 15 /03 /marzo /2018 06:00

L'agonia postuma di Karl Marx

Maximilien Rubel intervistato da Olivier Corpet e Thierry Paquot, Le Monde dimanche, 10 aprile 1983

In quest'anno, del centenario della morte di Marx, le commemorazioni, colloqui, pubblicazioni, fioriscono, sia a Parigi che sulla piazza Rossa. Ma cosa si sta per celebrare esattamente: l'opera di Marx o ciò che ne hanno fatto dei marxismi differenti? Qual è, di fronte a questo nuovo funerale, la reazione di un marxologo, familiare dell'opera in questione, ma che si riconosce anche nel progetto etico e rivoluzionario di Marx di una autoemancipazione delle classi oppresse?

Quando avremo fatto il bilancio delle manifestazioni e delle mascherate di ogni genere alle quali questa celebrazione avrà dato luogo, in quest'anno memorabile, potremo constatare che il messaggio rivoluzionario dell'autore di Il Capitale sarà stato soffocato in tre diversi modi: Primo, attraverso la glorificazione eccessiva del preteso fondatore del marxismo, fandazione alla quale i fedeli del culto marxista associano, come regola generale, l'alter ego di Marx: Friedrich Engels. Secundo, attraverso la messa a morte postuma del pensatore le cui dottrine, lungi dall'essere scientifiche, sarebbero state comprovate o smentite dalla storia economica, politica e sociale degli ultimi cento anni e sarebbero erronee da capo a piedi. Tertio, attraverso l'apprezzamento detto oggettivo che sa separare il grano dall'oglio degno, il primo, di essere immagazzinato per l'arricchimento delle scienze umane.

Di queste tre maniere di evacuare la sostanza emancipatrice dell'opera marxiana, la terza mi sembra la meno riprovevole. Essa può rendere giustizia allo spirito scientifico che impregna la teoria sociale di Marx, senza deformare sistematicamente la sua opera. Il marxologo che mi sforzo di essere assume un compito difficile: far rispettare l'ultimo desiderio di Marx che protestava contro l'usurpazione del suo nome a fini ideologici e politici, ma che si solleva anche contro l'identificazione quasi religiosa della coscienza supposta degli schiavi moderni con una teoria abusivamente battezzata "marxismo".

Un difensore "borghese" dei diritti dell'uomo.

Questa doppia usurpazione ha finito con l'assumere la forma di un vero culto onomastico. E' la ragione dell'insistenza che pongo nel ricordare l'ultimo avvertimento di Marx: "Ciò che vi è di certo, è che io non sono marxista". Non si tratta di una battuta, ma di un divieto assoluto, conforme a un insegnamento scientifico e a una convinzione etica che hanno la loro fonte nel movimento emancipatore autonomo del proletariato moderno, e non nell'opera di quell'individuo cosmo-storico come gli ammiratori di Hegel, quell'anti-Marx, chiamavano  Marx quando egli era ancora vivo.

Da qualche anno, vediamo numerosi intellettuali dedicarsi a una critica severa di Marx e del marxismo. Alcuni hanno creduto vedere in Marx un "borghese tedesco", prigioniero dello "spirito" del suo tempo; per altri, Marx non avrebbe pensato il politico. Da cui il gulag. L'opera di Marx vi sembra totalmente innocente da tutte queste derive, deviazioni, peggio, da questi crimini di cui la si rende responsabile?

– La vostra domanda riguarda soprattutto i due ultimi modi di soffocare l'appello rivoluzionario e emancipatore di Marx. Il primo consiste nell'opporre alla sua teoria la smentita dell'esperienza storica. Da questo punto di vista, quest' cento anni sarebbero stati segnati da un progresso immenso, inimmaginabile per i più grandi pensatori del diciannovesimo secolo, compreso Marx. Malgrado terribili catastrofi e regressioni di ogni ordine, il bilancio sarebbe "globalmente positivo", La storia del ventesimo secolo avrebbe dunque sventato tutte le speculazioni di Marx sulla sparizione del capitalismo e la sua sostituzione con il socialismo nei paesi industrialmente sviluppati; in compenso, dei paesi industrialmente e politicamente arretrati sarebbero riusciti ad avviarsi sulla via del comunismo. In breve: naufragio della teoria dell'uomo di scienza, inefficacia totale della politica dell'uomo di partito!

In quanto agli affossatori accademici, va fatta una distinzione netta. Non è questione, infatti, di rifiutare di ascoltare coloro la cui critica utile, necessaria, prende in conto lo stato di incompiutezza dell'opera scientifica di Marx per separare gli elementi teorici, la cui validità permanente deve essere riconosciuta, dagli errori storicamente e psicologicamente spiegabili. Al contrario! Ma cosa dire quando quelli che, ieri, non giuravano che sul padre fondatore lo rendono oggi responsabile degli errori di una posterità intellettuale e politica la cui perversità rileva della patologia più elementare?

Questi apostati del marxismo sospettano il padre ripudiato di aver di proposito omesso o sottovalutato il "politico" e di non aver risposto alla domanda essenziale del perché della messa in tutela della società civile da parte del potere dello Stato. Altri lo accusano di "accecamento di fronte ai diritti dell'uomo". Ora, i fatti parlano da sé: Marx ha passato i quattro decenni della sua carriera di comunista militante a vituperare, come difensore "borghese" dei diritti dell'uomo, le tre maggiori forme del "totalitarismo" del suo tempo: il bonapartismo, lo zarismo e l'assolutismo prussiano.

E' questo nemico accanito del Leviatano moderno che tutta questa letteratura accademica antimarxista assocerà al "gulag"! Aggiungiamo che è per scelta che egli si è collocato nel campo della democrazia "borghese": vittima sin dai suoi esordi letterari della violazione dei diritti dell'uomo in Germania, in Francia e in Belgio, si è rifugiato in Inghilterra, questa metropoli del capitale che gli ha offerto un rifugio sicuro dove poteva non soltanto continuare a scrivere liberamente, ma anche condurre campagna per il diritto di associazione e il suffragio universale.

Su questo Marx democratico e liberale, ma anche democratico rivoluzionario, mi è stato dato di dire l'essenziale nei miei lavori come nei miei commenti degli scritti di Marx pubblicati nella Pleiade: mi applico a demolire la leggenda di Marx costruita sia da degli adepti zelanti che da avversari ottusi. In questo stesso momento, preferisco tenermi lontano dalla mischia e dal baccano provocati dalle celebrazioni ufficiali e ufficiose. Ho in cantiere un opuscolo dedicato a questa leggenda, di cui i misfatti ideologici, tanto intollerabili possano essi essere, sono poca cosa in confronto alla miseria reale del mondo, che nessuna teoria, fosse essa marxiana o marxista, non potrebbe far scomparire. Sarà il mio contributo a un omaggio di cui il defunto celebrato e maledetto può certo fare a mano, ma che si collocherà fuori dalla triplice impresa di sotterramento ricordato.

Ma riaffermando che si deve considerare Marx come il primo - e il più efficace - critico del marxismo, ci si può domandare se, a vostra volta, non contribuite anche a una certa mistificazione di Marx, ad esempio scaricandolo totalmente dal peso dei suoi "discepoli", caricando Engels di tutti i mali e in particolare quello di aver inaugurato il culto del suo amico, il giorno stesso del suo funerale?

– Mi sono accontentato di mostrare che una intelligentsia affetta da ideologia consolatrice si sforza nel ridurre, spesso per pura piccola gloria, in qualche specie come l'investimento più redditizio del suo capitale intellettuale, la potenza demistificatrice dell'opera di Marx. Soltanto la sua carriera di autore marginale e privo di mezzi ha impedito Marx di elaborare sistematicamente il progetto di una triplice critica scientifica delle istituzioni borghesi.

Ma basta leggere la sua opera per capire che, lungi dal rifiutare di "pensare il politico", egli ha posto il "politico" al centro delle sue preoccupazioni. Sicché la sua Economia è rimasta incompiuta, che non ha potuto che a fatica porre l'ultima mano all'unico libro del Capitale, mentre l'insieme dei suoi scritti storico-politici, di fatto, la sua critica del politico, appariva come un insieme relativamente compiuto. Essa si impone oggi alla nostra riflessione con più pertinenza convincente della Critica della filosofia e la Critica dell'economia politica, come l'opera del primo teorico dell'anarchismo, dunque del critico e denunciatore senza concessione sia del vero capitalismo quanto del falso socialismo.

E' su questo punto essenziale che dovrebbe aver luogo il dibattito riguardante il ruolo di Engels. Contrariamente a ciò che si pretende a volte, non lo ritengo affatto come responsabile di tutte le metamorfosi e distorsioni subite dal pensiero marxiano - soprattutto dopo l'istituzione del marxismo-leninismo come religione di Stato - nella fondazione di ciò che ha vincolato, suo malgrado, sotto il concetto di "marxismo".

Ma come rimanere indifferenti di fronte alle conseguenze, oggi chiaramente percettibili, di questo gesto di consacrazione elevato presto alla dignità di un dogma indiscutibile? Come disconoscere il fatto che specializzandosi nelle questioni militari Engels ha lasciato, senza sospettarlo, alla posterità marxista un'eredità ambigua e alienante che, battezzato "marxismo-leninismo", costituirà la negazione assoluta della causa emancipatrice per la quale Marx ha vissuto e combattuto?

Tuttavia, quest'ambiguità può volgersi contro gli eredi alienati: Engels avrebbe senza difficoltà riconosciuto in loro i continuatori arrabbiati e ciechi della politica zarista. Non dimentichiamo che Marx stesso non ha cessato di predicare "la guerra rivoluzionaria". A prezzo di una concessione volgarmente "riformista" alla vocazione civilizzatrice dell'Occidente borghese, contro il dispotismo asiatico, e specialmente contro la Russia, questo "ultimo bastione della reazione europea".

Siamo seri! Engels sarebbe stato l'ultimo a farsi prendere in trappola da una ideologia politica accomodata in salsa "marxista", e nulla di ciò che ha detto o fatto, in quanto legatario spirituale del suo amico, può servire a legittimare quel marxismo.

Il monopolio della Mecca marxista

In quali condizioni e in quale spirito avete intrapreso la pubblicazione delle opere di Marx nella "Pléiade"? Con quali ostacoli e critiche, sopratutto politiche, vi siete dovuto confrontare? Non pensate di essere oggi meglio recepito e capito? In fin dei conti, vi è, a vostro parere, un uso possibile, fecondo, di Marx? O si tratta di un pensiero superato?

Accettando la pesante responsabilità di un'edizione delle opere di Marx nella "Bibliothèque de la Pléiade", conoscevo i rischi di un'impresa concepita a controcorrente di una tradizione radicata. Essa urtava un'usanza editoriale diventata per così dire una legge non scritta, affrontando il mito della doppia fondazione di una scienzia nova chiamata "marxismo". Inoltre, essa spezzava il monopolio che la Mecca marxista possiede nel campo delle edizioni che si pretendono scientifiche dei "classici del marxismo".

Se oggi ho la convinzione di essere riuscito, malgrado le difficoltà e gli ostacoli che è facile immaginare, in compenso, ho fallito in una simile impresa, ma molto più ambiziosa: il progetto di un'edizione del giubileo delle opere di Marx nel testo originale. La storica di questo scacco formerà indubbiamente un capitolo della Legenda di Marx che ho in cantiere. Il mio progetto doveva conformarsi al desiderio dell'autore di far udire un appello sempre ricominciato e sempre attuale, una requisitoria eticamente giustificato.

L'edizione del giubileo doveva soprattutto far apparire perché quest'opera, non appena essa si afferma in simbiosi con le sue fonti apertamente o tacitamente riconosciute, ripugna a presentarsi come un tutto compiuto, il compimento non essendo concepibile in questo continuo processo di teoria e di prassi, orientato verso una fine chiaramente enunciata: la generazione della società umana o dell'umanità sociale, compimento delle concezioni degli utopisti, dei riformatori e dei rivoluzionari.

Non avendo mai ricercato l'approvazione o brigato il verdetto della confraternita degli specialisti, la disapprovazione dei Magister scholarum della teologia marxista non è affatto riuscita ad ostacolare la ricezione più che favorevole del mio lavoro di editore e di commentatore dell'insegnamento marxiano. Ciò che mi importava innanzitutto, è che questa edizione possa raggiungere gli ambienti ai quali Marx destinava le sue opere.

"La classe operaia è rivoluzionaria o non è nulla", ha dichiarato Marx, cosciente che tutti i prestigi del verbo dialettico rimangono vani davanti all'atteggiamento di rassegnazione o di sottomissione degli iloti moderni. A rischio di urtare l'opinione universalmente ammessa, affermo che la vita postuma dell'autore di Il Capitale è lungi dall'aver cominciato. Se è vero, come credeva Nietzsche, che "alcuni individui nascono postumi", questa proposizione non si applica ancora a Marx.

In verità, i cento anni di marxismo trionfante dimostrano il contrario di una resurrezione spirituale di questo pensatore che si riconosceva essenzialmente nella sua attività di educatore in situazione di apprendimento permanente. Il trionfo del marxismo come ideologia del socialismo realmente inesistente dissimula di fatto una sconfitta flagrante: la carriera postuma del pensatore e pratico dell'etica proletaria somiglia a una lunga agonia piuttosto che a una presenza rivoluzionaria.

 

[Traduzione di Ario Libert]

Condividi post
Repost0
21 febbraio 2018 3 21 /02 /febbraio /2018 06:00

Il partito della mistificazione

Maximilien Rubel

Nel dibattito sull'«abbandono» da parte del partito comunista francese della dittatura del proletariato, nessuno sembra aver menzionato un fatto che meriterebbe tuttavia di essere posto in luce. Esso permette di illuminare, infatti, meglio di ogni altro il senso e la natura di questa procedura: è il partito che si arroga il diritto di decidere se il proletariato deve oppure non esercitare la sua dittatura; è il partito, addirittura il suo segretario circondato dai suoi ideologi, che, sostituendosi alla classe e alla massa dei lavoratori, decide di cancellare con un colpo di penna ciò che, secondo Marx, rappresenta un "periodo", transitorio certo, ma necessario e inevitabile dell'evoluzione della società e affatto un fenomeno accidentale suscettibile di essere abbandonato o accettato a piacere degli imperativi della nuova strategia politica dettata dal programma comune. Il partito si guarda bene dal rimettere in questione l'essenziale, e cioè le sue prerogative, di rappresentante autoproclamato della classe operaia. E' sempre lui che, attraverso la voce dei suoi capi, decide al posto della classe operaia, è lui che definisce la natura e la forma che deve assumere l'azione di questa classe; e nulla garantisce che l'abbandono della dittatura del proletariato comporti l'abbandono della dittatura sul proletariato, la sola che importa al partito.

Il concetto di dittatura del proletariato è parte integrante della teoria dello sviluppo del modo di produzione capitalista e della società borghese, sviluppo di cui Marx afferma di aver rivelato "la legge naturale". Engels colloca questa teoria tra le due grandi scoperte scientifiche del suo amico, dopo la concezione materialistica della storia comparabile alla scoperta di Darwin: "Così come Darwin ha scoperto la legge dell'evoluzione della natura organica, Marx scoprì la legge dello sviluppo della storia umana". Il postulato politico della dittatura del proletariato si inscrive nella prospettiva di una società capitalista pienamente sviluppata, terreno dello scontro tra una classe possidente fortemente minoritaria, ma al culmine del suo potere, e una classe operaia ampiamente maggioritaria, espropriata economicamente e socialmente, ma intellettualmente e politicamente matura e adatta a stabilire il suo dominio per la "conquista della democrazia" per mezzo del suffragio universale. Giunta a questa posizione dominante, il proletariato non userà la violenza, soltanto nel caso in cui la borghesia lasciasse il terreno  della legalità allo scopo di conservare i suoi privilegi di dominio. La dittatura del proletariato è descritta nella conclusione di Il Capitale come "espropriazione degli espropriatori", detto altrimenti come "espropriazione di alcuni usurpatori da parte della massa".

Pur limitate a una determinata tappa dell'evoluzione globale del genere umano, le leggi e le tendenze dello sviluppo dell'economia capitalista "si manifestano e si realizzano con una necessità di ferro", i paesi sviluppati industrialmente mostrano ai paesi meno sviluppati "l'immagine del loro proprio futuro". Donando la parola a un critico russo di Il Capitale, Marx sottoscriveva senza riserva una interpretazione che poneva del tutto l'accento sul determinismo implacabile della sua teoria sociale: essa "dimostra", dichiarava questo critico, "al contempo la necessità dell'attuale organizzazione, la necessità di un'organizzazione nella quale la prima deve necessariamente passare, che l'umanità vi creda creda oppure non, che ne abbia oppure non coscienza". Marx stesso non è meno categorico: "Quando una società è giunta a scoprire la pista della legge naturale che presiede al suo movimento (...) essa non può superare con un salto né abolire attraverso dei decreti le fasi del suo sviluppo; ma può abbreviare il periodo della gestazione e attenuare i mali del loro parto". (Il Capitale).

Cosa si dovrebbe pensare di una società di scienziati che oserebbe proclamare la "rinuncia" alla legge newtoniana dell'attrazione universale o alle leggi mendeliane della ibridazione delle piante  e dell'ereditarietà nei vegetali? E chi invocherebbe, per giustificare la sua decisione, il carattere "non dogmatico" di queste leggi, senza preoccuparsi di confutarle con dei metodi scientifici, ma pretendendo un profondo cambiamento dei modi di pensiero nelle classi non intellettuali? Questa società "sapiente" si ricoprirebbe di ridicolo. Questo è tuttavia l'atteggiamento della compagnia sapiente che si proclama comunista e marxista che, pur richiamandosi ad una teoria di cui non cessa di proclamare il carattere scientifico, ne respinge l'insegnamento maggiore, quello stesso che interessa l'esistenza della maggioranza degli uomini: agendo in nome del "socialismo scientifico", i suoi dirigenti e ideologi non dichiarano che l'evoluzione delle società capitaliste ha reso caduco l'imperativo della dittatura del proletariato, il che equivarrebbe a rimettere in questione una tesi che Marx stesso considerava come il suo principale apporto al socialismo scientifico.

Importa poco di sapere se "l'abbandono della dittatura del proletariato" risponde a degli imperativi di tattica elettorale o rinvia ad altre preoccupazioni: perché questo "abbandono" significa in fondo che i responsabili della politica del partito eliminando dal dibattito il principale interessato, il proletariato, il solo che abbia come "missione storica" di liberare le società dalla schiavitù del denaro e dello Stato, dunque di esercitare la sua dittatura. Così lo esige la scienza di Marx così come il semplice buon senso non marxista: la dittatura del proletariato non potendo essere altro che affare degli sfruttati - dunque della quasi totalità della specie umana, - la decisione di un partito, qualunque esso sia, di cancellare un postulato la cui portata etica la contende al rivestimento scientifico non potrebbe non avere il minimo effetto sull'evoluzione della società e la vocazione rivoluzionaria ed emancipatrice dei moderni schiavi. Perché se il movimento operaio è, secondo il Manifesto comunista "il movimento dell'immensa maggioranza", la dittatura del proletariato può essere definita come il dominio dell'immensa maggioranza nell'interesse dell'immensa maggioranza, detto altrimenti, l'autodeterminazione del proletariato. Insomma, essa è destinata a realizzare le promesse di una democrazia integrale, l'autogoverno del popolo, contrariamente alla democrazia parziale (borghese) di cui le istituzioni assicurano la dittatura dei possidenti - del capitale che controlla il potere politico, dunque di una minoranza di cittadini - sui non possidenti, dunque sull'immensa maggioranza dei cittadini. In queste condizioni, come spiegare che un partito che si richiama a Marx e al comunismo abbandona una concezione della dittatura del proletariato che - a torto o a ragione - annuncia l'avvento della democrazia integrale?

Quando prima del 1917 Lenin sognava per la Russia un autogoverno degli operai e dei contadini, dopo la presa del potere, si orienterà verso la concezione di una dittatura del proletariato suscettibile di essere esercitata dalla "dittatura di alcune persone", addirittura "dalla volontà di uno solo"; questa concezione corrispondeva perfettamente allo stato economico e sociale di un paese che poteva tutto "sviluppare" tranne il... socialismo, la dittatura del partito avendo come obiettivo la creazione del proletariato "sovietico" e non l'abolizione di quest'ultimo. Dunque la creazione di rapporti sociali compatibili con lo sfruttamento del lavoro salariato e il dominio dell'uomo sull'uomo. E' a questa scuola e non a quella di Marx che i dirigenti dei partiti comunisti hanno preso le loro lezioni di uomini politici. E' essi stessi che condannano prendendo la distanza con un regime che ha saputo costruire per milioni di contadini proletarizzati un arcipelago di gulag la cui descrizione non ha eguali che nell'Inferno di Dante.

L'imperativo della dittatura del proletariato implica la visione dell'abbreviamento e dell'addolcimento dei mali del parto della società infine umana. Le rivoluzioni "marxiste", russa e cinese, non hanno fatto che suscitare il male che esse ritenevano di aver soppresso. Questa è la mistificazione della nostra epoca. E se i partiti detti operai possono decretare "l'abbandono della dittatura del proletariato", non è perché il proletariato non ha (ancora?) questa coscienza rivoluzionaria che la concezione materialista della storia considera come il risultato fatale del divenire-catastrofico del modo di produzione capitalista in piena espansione mondiale?

 

 

[Traduzione di Ario Libert]

Condividi post
Repost0
20 febbraio 2018 2 20 /02 /febbraio /2018 06:00

Karl Marx e l'autogestione

Yvon Bourdet

 

Ciò non vuol dir affatto che basta secondo loro aspettare, come abbiamo già detto e come la polemica di Marx contro Bakunin l'ha dimostrato. Non si tratta qui di trattare a fondo la comparazione tra marxismo e anarchismo [22], ma soltanto nella prospettiva della presente messa a punto. Ciò che ci interessa, infatti, è di precisare come Marx concepisce la società, una volta spezzata l'oppressione capitalista, e con quali mezzi si può accelerare questa liberazione. Ora, le note scritte nel 1874 da Marx, in margine al libro di Bakunin Stato e Anarchia, sono, a questo riguardo, molto chiarificatrici [23]. A partire da queste note, si può restituire il seguente dialogo (senza cambiare una parola, naturalmente, al testo dell'uno e dell'altro):

 

Bakunin. – “I Tedeschi sono circa 40 milioni. Tutti i 40 milioni, ad esempio, saranno membri del governo?”.

Marx. – “Certainly! Perché la cosa inizia con il self-governement della comune”.

Bakunin. – “Allora, non vi sarà nessun governo, nessun Stato, ma, se vi è uno Stato, vi saranno dei governi e degli schiavi (…). Questo dilemma nella teoria marxista si risolve facilmente. Con governo del popolo essi (i marxisti – no! interrompe Marx, è Bakunin che lo pretende) intendono il governo del popolo con l'aiuto di un piccolo numero di dirigenti eletti dal popolo”.

Marx. - “Asino! Si tratta di sproloquio democratico, di chiacchiera politica! L'elezione è una forma politica (…) che dipende (…) dai rapporti economici tra gli elettori; non appena le funzioni hanno cessato di essere politiche: 1. - non esiste più funzione governativa; 2 – la ripartizione delle funzioni generali è diventata una cosa di mestiere e non conferisce nessun potere; 3 – l'elezione non ha nulla del carattere politico attuale.”.

Bakunin. – “Il suffragio universale di tutto il popolo. …”.

Marx. – “Tutto il popolo nel senso attuale della parola è una pura chimera”.

Bakunin. – “La nozione di «rappresentanti del popolo» costituisce «una menzogna sotto la quale si nasconde il dispotismo della minoranza governate (sottolineato da Bakunin) tanto più pericolosa quanto più appare come l'espressione della sedicente volontà del popolo»”.

Marx. – “Sotto la proprietà collettiva, la sedicente volontà del popolo fa posto alla volontà reale del cooperativo”.

 

Come si vede, da questo dialogo, che trattandosi dei fini ultimi, Bakunin fa una cattiva polemica a Marx; quest'ultimo ammette molto bene che l'organizzazione sociale attraverso tecniche di autogestione (cooperative) rileva di un mestiere ma non conferisce alcun potere. Si deve tuttavia riconoscere a Bakunin una visione profetica, perché malgrado le negazioni di Marx, i marxisti-leninisti hanno, - attraverso il centralismo democratico – realizzato esattamente le funeste predizioni di Bakunin: “dispotismo di una minoranza tanto più pericolosa quanto più appare come l'espressione della sedicente volontà del popolo”.

D'altra parte, Marx resta indirettamente la causa della deformazione bolscevica attraverso la sua teoria della fase di transizione. Se, infatti, ciò a cui si deve mirare è l'autogoverno della società nel suo insieme e se con questo fatto, come scrive Marx nella stessa nota su Bakunin: “lo Stato popolare di Liebknecht (…) è un'inezia”, rimane il fatto che il proletariato secondo Marx, “durante il periodo della lotta per il rovesciamento della vecchia società, agisce ancora sulla base di questa vecchia società e, di conseguenza (...) durante questo periodo di lotta, impiega per la sua liberazione dei mezzi che spariranno dopo questa liberazione”. Sono questi mezzi – imposti dalla società di classe e che si pretendono provvisori – che Bakunin rifiuta prudentemente, perché con il pretesto di liberare il proletariato dal dominio borghese, si istituisce un nuovo dominio politico, in senso peggiore del precedente. Allora che fare? Secondo Marx, ecco la risposta di Bakunin: “Da qui, il signor Bakunin conclude che deve piuttosto non fare assolutamente nulla..., che deve aspettare il giorno della liquidazione universale (sottolineato da Marx), il giudizio universale”.

 

Come si vede, da questo dialogo, che trattandosi dei fini ultimi, Bakunin fa una cattiva polemica a Marx; quest'ultimo ammette molto bene che l'organizzazione sociale attraverso tecniche di autogestione (cooperative) rileva di un mestiere ma non conferisce alcun potere. Si deve tuttavia riconoscere a Bakunin una visione profetica, perché malgrado le negazioni di Marx, i marxisti-leninisti hanno, - attraverso il centralismo democratico – realizzato esattamente le funeste predizioni di Bakunin: “dispotismo di una minoranza tanto più pericolosa quanto più appare come l'espressione della sedicente volontà del popolo”.

D'altra parte, Marx resta indirettamente la causa della deformazione bolscevica attraverso la sua teoria della fase di transizione. Se, infatti, ciò a cui si deve mirare è l'autogoverno della società nel suo insieme e se con questo fatto, come scrive Marx nella stessa nota su Bakunin: “lo Stato popolare di Liebknecht (…) è un'inezia”, rimane il fatto che il proletariato secondo Marx, “durante il periodo della lotta per il rovesciamento della vecchia società, agisce ancora sulla base di questa vecchia società e, di conseguenza (...) durante questo periodo di lotta, impiega per la sua liberazione dei mezzi che spariranno dopo questa liberazione”. Sono questi mezzi – imposti dalla società di classe e che si pretendono provvisori – che Bakunin rifiuta prudentemente, perché con il pretesto di liberare il proletariato dal dominio borghese, si istituisce un nuovo dominio politico, in senso peggiore del precedente. Allora che fare? Secondo Marx, ecco la risposta di Bakunin: “Da qui, il signor Bakunin conclude che deve piuttosto non fare assolutamente nulla..., che deve aspettare il giorno della liquidazione universale (sottolineato da Marx), il giudizio universale”.

Va da sé che Bakunin, a sua volta, griderebbe allo scandalo davanti a questa deduzione di Marx [24].

 

[Continua]

 

[Traduzione di Ario Libert]

Condividi post
Repost0
10 febbraio 2018 6 10 /02 /febbraio /2018 06:00

Dall'autogestione alla burocrazia sovietica, 1917-1921

Daniel Guérin

 

Testo dell'intervento di Daniel Guérin durante il colloquio "De Kronstadt à Gdansk", organizzato nel novembre 1981 e pubblicato in: A la recherche d’un communisme libertaire.

 

Dopo la rivoluzione di Febbraio 1917, gli operai s'impadroniscono delle fabbriche e si organizzano in comitati o consigli. Essi prendono così alla sprovvista i professionisti della rivoluzione. Per ammissione dello stesso Lenin, le masse operaie e contadine sono allora "cento volte più a sinistra" dei bolscevichi.

Tuttavia il partito bolscevico, benché ancora minoritario, è la principale forza politica rivoluzionaria organizzata. Guarda con sospetto le diverse strutture che gli fanno ombra. La tendenza alla socializzazione è dapprima canalizzata dal controllo operaio. Il decreto del 14 novembre 1917 legalizza la partecipazione dei lavoratori nella gestione delle imprese, nel calcolo del prezzo di ricavo, abolisce il segreto commerciale, obbliga i padroni a esibire la loro corrispondenza e i loro conti. I leader della rivoluzione non vogliono andare oltre. Nell'aprile del 1918, prendono in considerazione ancora la costruzione di società miste per azioni, alle quali parteciperebbe, insieme allo Stato sovietico, il capitale russo e straniero.

Tuttavia, sin dalla primavera del 1917, la classe operaia, organizzata nelle sue proprie istituzioni, i comitati di fabbrica, ha affermato concretamente la sua volontà di superare queste misure transitorie e opposte spesso di fatto al controllo operaio dei bolscevichi la sua propria visione dei compiti del momento: la gestione operaia.

Soltanto gli anarchici avanzavano allora delle parole d'ordine di occupazione delle terre e delle fabbriche, di espropriazione della borghesia e di soppressione della proprietà privata.

Il 20 ottobre 1917, alla alla prima Conferenza panrussa dei comitati di fabbrica, una mozione richiede "il controllo della produzione", precisando: "Le commissioni non devono essere soltanto  delle commissioni di verifica ma [...] le cellule del futuro che, sin da ora, preparano il trasferimento della produzione nelle mani degli operai". In quanto ai capitalisti, essi oppongono la più viva resistenza all'applicazione del decreto sul controllo operaio e continuano  a rifiutare l'ingerenza dei lavoratori nella produzione. Gli operai rispondono a questo boicottaggio impadronendosi della fabbrica e rimettendola in funzione per loro proprio conto. Molto presto il controllo operaio deve cedere il posto alla socializzazione.

Per molti mesi dopo la rivoluzione questo movimento, già impegnato prima di ottobre, va amplificandosi. I lavoratori assumono un ruolo crescente nell'insieme dei problemi di gestione di numerose imprese. In molte di loro, dopo la fuga dei vecchi proprietari o la loro espropriazione, essi sono oramai i soli padroni.

Questo movimento spontaneo della classe operaia è all'opposto dell'ideologia tradizionale di Lenin e del Partito bolscevico. Da lunga data, dopo il Che fare? del 1902, sono degli autoritari, appassionati dalle nozioni di Stato, di dittatore, di centralizzazione, di partito dirigente, di gestione dell'economia dall'alto, tutte cose in contraddizione con una concezione libertaria della democrazia sovietica.

Nell'opuscolo Stato e Rivoluzione, redatto e non terminato alla vigilia dell'insurrezione d'Ottobre, Lenin prende come modello il capitalismo di Stato tedesco, l'economia di guerra (Kriegswirtschaft). Egli esalta il monopolio delle Poste: "Che meccanismo ammirabilmente perfezionato! Tutta la vita economica organizzata come la Posta [...] ecco lo Stato, ecco la base economica che ci occorre". Fare a meno di "autorità" e di "subordinazione", sono questi, egli afferma seccamente, dei "sogni anarchici". Tutti i cittadini diventano "gli impiegati e operai di un solo trust universale di Stato", tutta la società p convertita in "un grande ufficio e una grande fabbrica".

Soltanto, dunque, delle considerazioni d'ordine tattico hanno spinto nel 1917 i bolscevichi a sostenere delle pratiche che, come quelle dei comitati di fabbrica, andavano contro le loro convinzioni più profonde. Ma si metteranno contro di loro una volta al potere.

La contraddizione tra il linguaggio formalmente libertario e i tratti autoritari del pensiero leninista è così flagrante che si tradurrà ben presto nei fatti. E' accelerata dalla disorganizzazione dei trasporti, la penuria di tecnici e, soprattutto, dalle terribili circostanze della guerra civile, dall'intervento straniero. I dirigenti bolscevichi sono spinti ad assumere delle misure eccezionali, la dittatura, la centralizzazione, il ricorso al "pugno di ferro".

Il potere alla base non durerà di fatto che per qualche mese, dall'ottobre 1917 alla primavera del 1918. Molto presto, i comitati di fabbrica sono spogliati delle loro attribuzioni.

Così, il decreto del 14 novembre 1917, già citato, dopo aver precisato i poteri dei comitati di fabbrica, si affretta di definire i limiti - ristretti -  della loro autonomia. Il controllo operaio "instaurato nell'interesse di una regolamentazione pianificata dell'economia nazionale" (articolo 1) è organizzato su un modello piramidale e gerarchizzato, i comitati di fabbrica sottoposto allo stretto controllo di un "consiglio generale di controllo operaio", la cui composizione è decisa dal partito.

Nei fatti, le intenzioni dei bolscevichi sono chiare: si tratta per essi di integrare i comitati di fabbrica nell'insieme delle organizzazioni statali, nella loro propria logica di un'economia centralizzata e, di fatto, burocratizzata.

Due concezioni del controllo operaio si oppongono allora: quella dei bolscevichi che pensano a un controllo esercitato dallo Stato, e quello dei comitati di fabbrica che esigono che il controllo sia esercitato dagli stessi operai, e che affermano così la loro volontà autogestionaria.

Il movimento dei comitati di fabbrica è diventato fastidioso. Esso è rapidamente soffocato dai bolscevichi che l'annettono ai sindacati aspettando di sottoporre i sindacati stessi.

Il pretesto invocato è che l'autogestione non terrebbe conto dei bisogni "razionali" dell'economia, che genererebbe un egoismo di impresa che si farebbero l'un l'altra concorrenza, contendendosi magre risorse, volendo ad ogni costo sopravvivere, benché altre fabbriche siano più importanti "per lo Stato" e meglio equipaggiate.

Di fatto i bolscevichi si oppongono a ogni tentativo fatto da parte dei comitati di fabbrica per formare la loro propria organizzazione nazionale, giungendo perfino a vietare, usando i sindacati, che essi già controllavano, la tenuta di un congresso panrussa dei comitati. Questa è l'ipocrisia di un partito che, da una parte, rimprovera ai comitati di fabbrica la loro visione cosiddetta localistica e che dall'altra, vieta loro di federarsi per dedicarsi proprio ai problemi dell'economia su una scala regionale e nazionale.

Ma la centralizzazione non è che un aspetto della concezione bolscevica dell'economia di transizione.  Lenin non tarda a porre in rilievo le sue preferenze per la "volontà di uno solo" nella gestione delle fabbriche. I lavoratori devono obbedire "incondizionatamente" alla volontà unica dei dirigenti del processo del lavoro. Allo stesso tempo preconizza l'introduzione del taylorismo e del salario a cottimo nelle fabbriche sovietiche.

Con il nome di "specialisti", vecchi membri delle classi sfruttatrici sono reintegrati all'interno delle imprese nelle loro funzioni e loro privilegi.

Si è molto discorso su queste decisioni: per molti, il ricorso agli specialisti borghesi era necessario alla ricostruzione dell'economia. Conviene qui ricordare che il "Manuale pratico per l'esecuzione del controllo operaio nell'industria" una specie di manifesto dei comitati di fabbrica di Pietrogrado, menzionava la possibilità di una partecipazione dei tecnici alle istanze di controllo, con voce consultiva.Ciò che gli operai contestano dunque, non è la presenza di questi specialisti, né l'utilità di alcune loro competenze, ma bensì il ristabilimento delle loro posizioni gerarchiche e dei loro privilegi, soprattutto salariali.

Per di più l'amministrazione è invasa da numerosi elementi piccolo-borghesi, residui dell'antico capitalismo russo, che essendosi adattati velocemente alle istituzioni sovietiche, si sono fatte attribuire dei posti di responsabile nei diversi commissariati in attesa che sia loro affidata la gestione economica.

Si assiste alla crescente immissione della burocrazia di Stato nell'economia. Il Congresso panrusso dei consigli dell'economia (26 maggio - 4 giugno 1918) decide la formazione di direzione d'impresa di cui i due terzi dei membri sono nominati dai consigli regionali o il Consiglio superiore dell'economia e il terzo terzo eletto soltanto sul posto dagli operai. Il decreto del 28 maggio 1918 estende la collettivizzazione all'insieme dell'industria, ma, allo stesso tempo, trasforma le socializzazioni spontanee dei primi mesi della rivoluzione in semplici nazionalizzazioni. E' il Consiglio superiore dell'economia che è incaricato di organizzare l'amministrazione delle imprese nazionalizzate. I direttori e quadri tecnici rimangono in funzione in quanto incaricati dallo Stato.

Per la facciata, delle elezioni ai comitati di fabbrica continuano ad aver luogo, ma un membro della cellula comunista dà lettura di una lista di candidati elaborata in anticipo e si procede al voto per alzata di mano, in presenza delle "guardie comuniste", armate, dell'impresa. Chiunque si dichiara contro i candidati proposti si vede infliggere delle sanzioni pecuniarie (declassamento di salario, ecc.). I rapporti tra gli operai e questo nuovo padrone ridivengono quelli esistiti un tempo tra il lavoro e il capitale.

"Volete diventare le cellule statali di base", dichiara Lenin il 27 giugno 1918, al Congresso dei comitati di fabbrica. Quest'ultimi non hanno più che l'ombra di un potere. Oramai il "controllo operaio" è esercitato da un organismo burocratico: l'ispezione operaia e contadina.

La classe operaia non reagisce né abbastanza velocemente, né abbastanza vigorosamente. Essa è dispersa, isolata in un immenso paese arretrato e in gran parte rurale, esaurito dalle privazioni e le lotte rivoluzionarie, più ancora, demoralizzata. I suoi migliori elementi l'hanno abbandonata per i fronti della guerra civile o sono stati assorbiti dall'apparato di partito o del governo. Tuttavia, abbastanza numerosi sono i lavoratori che si sentono frustrati dalle loro conquiste rivoluzionarie, privati dei loro diritti, posti sotto tutela, umiliati dall'ignoranza o l'arbitrio dei nuovi padroni, e che cominciano a prendere coscienza, della vera natura del preteso "Stato proletario".

 

[Traduzione di Ario Libert]

Condividi post
Repost0
10 gennaio 2018 3 10 /01 /gennaio /2018 06:00

Karl Marx e l'autogestione

 

Yvon Bourdet

 

Prima parte di un articolo uscito su "Autogestion et socialisme" (n° 15, marzo 1971), e ripreso come paragrafo in Pour l'autogestion, (Anthropos, 1974).

 

La parola autogestione è di uso corrente che da una decina di anni e sembrerebbe anacronistica associarla al nome di Marx [1]. Tuttavia – per coloro che lo ignorassero non vadano ad immaginare che stiamo per dedicarci a non so quale esercizio di scolastica di accostamento artificiale del genere: “Cosa ne penserebbe oggi Platone della televisione?” - precisiamo subito che se Marx non impiega la parola autogestione si interessa (lo proveremo con numerosi testi) a ciò che la parola designa e che si chiamavano allora “le cooperative di produzione”.

Certo, il fatto che questo termine “autogestione” non sia comparso che recentemente non manca di significato. Esso testimonia, sicuramente da una parte, l'ignoranza del passato e possiamo capire che alcuni anarchici, fourrieristi o proudhoniani, ad esempio, si irritino per il fatto che molti “consiliaristi” o “autogestionari” credono di aver trovato qualcosa di nuovo con una nuova parola. Non resta tuttavia meno, in compenso che il bisogno di una nuova terminologia segna almeno l'esigenza di una delimitazione con le dottrine esistenti. Anche se, ora, la maggior parte degli anarchici si mostrano interessati all'azione di massa e dei mezzi economici di transizione per molti, a torto o a ragione, il termine anarchismo evoca soprattutto la volontà di distruggere i poteri esistenti piuttosto che l'esigenza di costruire, a livello nazionale o internazionale, un'organizzazione di nuovo tipo. Sul piano politico, la loro azione appare soprattutto negativa e i loro tentativi di realizzazioni positive sembrano limitarsi alla concentrazione libera di piccoli gruppi che cercano di realizzare in modo marginale, “un aumento immediato del godimento”. Non si tratta qui, tuttavia, sempre, della ricerca di una salvezza egoista; essi credono di essere il fermento o i “detonatori” della rivoluzione universale; ma la loro procedura, fosse anche “esemplare”, resta l'attività di alcuni pionieri.

Il termine autogestione, al contrario, sembra designare un'organizzazione più ampia, più tecnica e che, in tutti i casi, è legata più alla produzione che al godimento. Così, la rivendicazione dell'autogestione sembra più vicina al progetto dei marxisti benché tra di loro si scavi, agli occhi di quasi tutti, un abisso quasi infinito, perché di solito con “autogestione” si intende la concertazione delle autonomie, e con “marxismo” il sin troppo famoso centralismo democratico di Lenin che le sue anomalie, da più di cinquant'anni, non pongono in alcun modo in questione poiché tutti i vizi del sistema sono infaticabilmente spiegati con i pretesi difetti della personalità dei dirigenti. Anche coloro che accettano di dissociare il marxismo dallo stalinismo, dal leninismo o dal trotskysmo non insistono non di meno a ritenere che gli appelli che Marx fa ai “violenti parti della storia” e alla “dittatura del proletariato” sono incomprensibili con i metodi e gli scopi dei sostenitori dell'autogestione.

Per vederci chiaro, è dunque necessario liberare i testi di Marx dallo spesso strato accumulato non tanto dalle glosse dei teorici quanto dalle “ricadute” - per mezzo secolo – della prassi dei partiti comunisti che pretendono di incarnare la teoria di Marx. Quanto ci riproponiamo è dunque, come per altri, una rilettura, ma non per proiettare, tra le righe, ciò che Marx non ha scritto. È al contrario, per dare o ridare a vedere i testi dimenticati, trascurati, respinti o semplicemente mai letti.

 

I. I mezzi della rivoluzione secondo Marx

 

L'opera di Marx è una critica della società capitalista e la sua vita una lotta per affrettare l'ora dell'espropriazione degli espropriatori. Tuttavia, per molti il passaggio dalla teoria all'azione politica costituisce un problema. Nel capitolo XXII del libro primo di Il Capitale, si può leggere: “La produzione capitalista genera la sua propria negazione con la fatalità che presiede alle metamorfosi della natura” [2]. Con ciò, d'altronde non faceva che riprendere la conclusione della prima parte di Il manifesto del partito comunista che dava per “inevitabile l'eliminazione della borghesia e il trionfo del proletariato” [3]. Da quel momento il “Che fare?” sembra sprovvisto di senso come è stato spesso notato: “i marxisti che annunciano l'avvento ineluttabile del regime postcapitalista fanno pensare a un partito che lotterebbe per provocare un eclissi di luna” [4]. Allo stesso modo Lenin metteva in bocca ai populisti degli anni 1894-1895 questa riflessione: “Se i marxisti considerano il capitalismo in Russia come un fenomeno inevitabile (…), Si deve far loro aprire un negozio di alcolici…” [5]. Questa “obiezione” non era sfuggita a Marx che l'aveva egli stesso introdotta ad esempio di bufala [6] in una bozza di articolo su Il Capitale che Engels doveva incaricarsi di far pubblicare, sotto un nome fittizio, in un giornale diretto da Karl Mayer: “Quando egli (Marx) dimostra che l'attuale società (…) porta in sé i germi di una nuova forma sociale superiore, non fa che mostrare sul piano sociale lo stesso processo di trasformazione che Darwin ha stabilito nelle scienze della natura (…). L'autore ha, con lo stesso colpo, (…) forse malgrado lui (sottolineato da Marx) suonato la campana a morto di tutto il socialismo professionale...” [7]. La “confutazione” di questa “obiezione” si trovava già nella prefazione di Il Capitale quando Marx spiegava che una società che è giunta “a scoprire la pista della legge naturale che presiede al suo movimento (sottolineato da Marx) (…) non può né superare con un salto né abolire con dei decreti le fasi del suo sviluppo naturale, ma può abbreviare il periodo della gestazione e attenuare i dolori delle loro doglie” [8]. Troviamo qui il celebre tema della violenza concepita come la “levatrice di ogni vecchia società al lavoro” [9], o, come la vulgata della violenza levatrice della storia. Di fatto, precisa Marx, “la forza è un agente economico”. Equivale dunque ad appiattire “il marxismo” ridurlo sia a un'azione politica che ignorasse le fasi dello sviluppo naturale, sia all'economicismo beato del laisser-faire. Certo la forza non può “far girare alla rovescia la ruota della storia” [10], ma i comunisti non dichiarano meno “apertamente che non possono raggiungere i loro obiettivi che distruggendo con la violenza il vecchio ordine sociale” [11]. Ritroviamo così la famosa e controversa questione della “dittatura del proletariato”. Sappiamo che Kautsky, per criticare i bolscevichi, affermò che Marx non aveva mai, per così dire, preconizzato una tale dittatura, che si trattava qui di una battuta, scritta, “di sfuggita” in una lettera [12].

Di fatto, Marx ha parlato diverse volte del ruolo e della necessità di una tale dittatura [13], ma il semplice esame critico e contabilità dei testi non serve a gran cosa se non ci si intende sul senso, in Marx, della parola “dittatura”. In una nota del 20 ottobre 1920, Lenin caratterizza la dittatura come un potere che non riconosce “nessun altro potere, nessuna legge, nessuna norma, da qualunque parte essi provengano (…) il potere illimitato, extralegale, che si appoggia sulla forza, nel senso più stretto della parola, è questa la dittatura” [14]. Ed è una bella dittatura che deve esercitare il proletariato, che esso sia minoritario o maggioritario nella nazione. Max Adler, al contrario distingue accuratamente tra “dittatura maggioritaria” e “dittatura minoritaria” [15]: quando una minoranza opprime una maggioranza, si è in presenza del dispotismo che Marx ha sempre combattuto, in tutte le sue forme; se Marx preconizza la dittatura del proletariato è perché essa non può essere altra cosa che la forza della maggioranza: “Tutti i movimenti del passato sono stati opera delle minoranze o sono andati a vantaggio delle minoranze. Il movimento proletario è il movimento autonomo dell'immensa maggioranza nell'interesse dell'immensa maggioranza” [16]. Per Marx, la rivoluzione proletaria sarà l'ultima possibile; infatti, quando il proletariato, classe universale, avrà preso il potere, non vi saranno presto più nessuna classe e di conseguenza nessuna lotta tra di esse: “La vecchia società borghese, con le sue classi e i suoi conflitti, lascia il posto a un'associazione in cui la libera espressione di ognuno è la condizione della libera espressione di tutti” [17]. Facciamo notare di sfuggita che Marx dà così la definizione esatta di una società autogestita. In quanto alle vie e mezzi per il passaggio a questo dominio immensamente maggioritario del proletariato, essi saranno vari a secondo delle circostanze; la violenza, come abbiamo visto, sarà spesso necessaria ma non sempre; nel suo discorso dell'8 settembre 1872 agli operai di Amsterdam, Marx dichiarò che “l'America e l'Inghilterra (potevano) giungere al socialismo attraverso mezzi pacifici” [18]. Nella prefazione all'edizione inglese di Il capitale, nel 1886, Engels assicura che non fu questa una dichiarazione di circostanza, e che Marx aveva espresso il suo vero pensiero. D'altronde, Engels scrisse egli stesso, un po' più tardi nel 1991, che “si può concepire che la vecchia società potrà evolvere pacificamente verso la nuova nei paesi in cui la rappresentazione popolare concentra in essa tutti i poteri” e anche più esplicitamente, che “la repubblica democratica (…) è la forma specifica della dittatura del proletariato” [19]). Precisando il suo pensiero, nella Introduzione, scritta nel 1895, a Le lotte di classe in Francia, Engels affermava che l'uso illegale della forza armata non era più un buon mezzo per il proletariato di impadronirsi del potere e che anche “la borghesia e il governo” erano un po' giunti “ad aver più paura dell'azione legale che dell'azione illegale del partito operaio” [20].

Dicendo ciò, Engels aveva indubbiamente dato troppa importanza alla celebre dichiarazione di Odilon Barrot: "La legalità ci uccide!" e all'esperimento della Comune di Parigi che era terminata con una catastrofica carneficina del proletariato. Il suo punto di vista fu in seguito generalmente abbastanza contestato dai marxisti [21].

Sia quel che sia, resta dalla lettura di tutti questi testi che Marx e Engels non hanno sempre avuto la stessa teoria per quel che riguarda i mezzi di passaggio al socialismo e meglio ancora che essi avevano sostenuto esplicitamente che ci si doveva adattare alle circostanze.

Ciò non vuol dir affatto che basta secondo loro aspettare, come abbiamo già detto e come la polemica di Marx contro Bakunin l'ha dimostrato. Non si tratta qui di trattare a fondo la comparazione tra marxismo e anarchismo [22], ma soltanto nella prospettiva della presente messa a punto. Ciò che ci interessa, infatti, è di precisare come Marx concepisce la società, una volta spezzata l'oppressione capitalista, e con quali mezzi si può accelerare questa liberazione. Ora, le note scritte nel 1874 da Marx, in margine al libro di Bakunin Stato e Anarchia, sono, a questo riguardo, molto chiarificatrici [23]. A partire da queste note, si può restituire il seguente dialogo (senza cambiare una parola, naturalmente, al testo dell'uno e dell'altro):

 

Bakunin. – “I Tedeschi sono circa 40 milioni. Tutti i 40 milioni, ad esempio, saranno membri del governo?”.

Marx. – “Certainly! Perché la cosa inizia con il self-governement della comune”.

Bakunin. – “Allora, non vi sarà nessun governo, nessun Stato, ma, se vi è uno Stato, vi saranno dei governi e degli schiavi (…). Questo dilemma nella teoria marxista si risolve facilmente. Con governo del popolo essi (i marxisti – no! interrompe Marx, è Bakunin che lo pretende) intendono il governo del popolo con l'aiuto di un piccolo numero di dirigenti eletti dal popolo”.

Marx. - “Asino! Si tratta di sproloquio democratico, di chiacchiera politica! L'elezione è una forma politica (…) che dipende (…) dai rapporti economici tra gli elettori; non appena le funzioni hanno cessato di essere politiche: 1. - non esiste più funzione governativa; 2 – la ripartizione delle funzioni generali è diventata una cosa di mestiere e non conferisce nessun potere; 3 – l'elezione non ha nulla del carattere politico attuale.”.

Bakunin. – “Il suffragio universale di tutto il popolo. …”.

Marx. – “Tutto il popolo nel senso attuale della parola è una pura chimera”.

Bakunin. – “La nozione di «rappresentanti del popolo» costituisce «una menzogna sotto la quale si nasconde il dispotismo della minoranza governate (sottolineato da Bakunin) tanto più pericolosa quanto più appare come l'espressione della sedicente volontà del popolo»”.

Marx. – “Sotto la proprietà collettiva, la sedicente volontà del popolo fa posto alla volontà reale del cooperativo”.

 

Come si vede, da questo dialogo, che trattandosi dei fini ultimi, Bakunin fa una cattiva polemica a Marx; quest'ultimo ammette molto bene che l'organizzazione sociale attraverso tecniche di autogestione (cooperative) rileva di un mestiere ma non conferisce alcun potere. Si deve tuttavia riconoscere a Bakunin una visione profetica, perché malgrado le negazioni di Marx, i marxisti-leninisti hanno, - attraverso il centralismo democratico – realizzato esattamente le funeste predizioni di Bakunin: “dispotismo di una minoranza tanto più pericolosa quanto più appare come l'espressione della sedicente volontà del popolo”.

D'altra parte, Marx resta indirettamente la causa della deformazione bolscevica attraverso la sua teoria della fase di transizione. Se, infatti, ciò a cui si deve mirare è l'autogoverno della società nel suo insieme e se con questo fatto, come scrive Marx nella stessa nota su Bakunin: “lo Stato popolare di Liebknecht (…) è un'inezia”, rimane il fatto che il proletariato secondo Marx, “durante il periodo della lotta per il rovesciamento della vecchia società, agisce ancora sulla base di questa vecchia società e, di conseguenza (...) durante questo periodo di lotta, impiega per la sua liberazione dei mezzi che spariranno dopo questa liberazione”. Sono questi mezzi – imposti dalla società di classe e che si pretendono provvisori – che Bakunin rifiuta prudentemente, perché con il pretesto di liberare il proletariato dal dominio borghese, si istituisce un nuovo dominio politico, in senso peggiore del precedente. Allora che fare? Secondo Marx, ecco la risposta di Bakunin: “Da qui, il signor Bakunin conclude che deve piuttosto non fare assolutamente nulla..., che deve aspettare il giorno della liquidazione universale (sottolineato da Marx), il giudizio universale”.

 

Come si vede, da questo dialogo, che trattandosi dei fini ultimi, Bakunin fa una cattiva polemica a Marx; quest'ultimo ammette molto bene che l'organizzazione sociale attraverso tecniche di autogestione (cooperative) rileva di un mestiere ma non conferisce alcun potere. Si deve tuttavia riconoscere a Bakunin una visione profetica, perché malgrado le negazioni di Marx, i marxisti-leninisti hanno, - attraverso il centralismo democratico – realizzato esattamente le funeste predizioni di Bakunin: “dispotismo di una minoranza tanto più pericolosa quanto più appare come l'espressione della sedicente volontà del popolo”.

D'altra parte, Marx resta indirettamente la causa della deformazione bolscevica attraverso la sua teoria della fase di transizione. Se, infatti, ciò a cui si deve mirare è l'autogoverno della società nel suo insieme e se con questo fatto, come scrive Marx nella stessa nota su Bakunin: “lo Stato popolare di Liebknecht (…) è un'inezia”, rimane il fatto che il proletariato secondo Marx, “durante il periodo della lotta per il rovesciamento della vecchia società, agisce ancora sulla base di questa vecchia società e, di conseguenza (...) durante questo periodo di lotta, impiega per la sua liberazione dei mezzi che spariranno dopo questa liberazione”. Sono questi mezzi – imposti dalla società di classe e che si pretendono provvisori – che Bakunin rifiuta prudentemente, perché con il pretesto di liberare il proletariato dal dominio borghese, si istituisce un nuovo dominio politico, in senso peggiore del precedente. Allora che fare? Secondo Marx, ecco la risposta di Bakunin: “Da qui, il signor Bakunin conclude che deve piuttosto non fare assolutamente nulla..., che deve aspettare il giorno della liquidazione universale (sottolineato da Marx), il giudizio universale”.

Va da sé che Bakunin, a sua volta, griderebbe allo scandalo davanti a questa deduzione di Marx [24].

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sono queste le leggi della polemica. Ciò che ci interessa soltanto qui, è la contraddizione evidenziata da Bakunin tra lo scopo ultimo di Marx (società omogenea senza classi) e i mezzi spuri che egli crede indispensabili utilizzare per distruggere la macchina oppressiva della borghesia. Le colombe non possono né convincere né vincere gli avvoltoi con la violenza degli avvoltoi. Colui che conserva le mani pulite non ha mani. Marx si pone così all'opposto dell'assioma evangelico: i mansueti erediteranno la terra che è stato ripreso dagli attuali sostenitori della non-violenza, coloro che non hanno che fiori (amore e pace) come armi o che, radunati intorno al Pentagono, speravano farlo espellere dalla terra con i loro pensieri associati nella fede che solleva le montagne. Sono questi, si dirà, dei sognatori gentili, ma resta il fatto che Marx non era nemmeno lui, soddisfatto dall'obbligo politico di lottare contro i borghesi con delle armi simili alle loro. È per questo, d'altronde, che egli non raccomandava esattamente una tale imitazione. Non voleva che il suo “partito” fosse un partito come gli altri, né la sua azione un insieme di piccole astuzie architettate nel segreto degli apparati “direttivi”. I lavoratori dovevano, secondo Marx, autogestire le loro lotte.

È un tema costante che riaffiora, ad intervalli, nei suoi scritti e nei suoi atti. Si giudichi attraverso questi brevi richiami: nel 1848, “il movimento proletario è il movimento autonomo dell'immensa maggioranza” [25]; nel 1864, “l'emancipazione della classe operaia deve essere opera degli stessi lavoratori” [26]; nel 1866 “l'opera dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori è di generalizzare e di unificare i movimenti spontanei della classe operaia, ma non di prescrivere loro o imporre loro un sistema dottrinario qualunque” [27]; nel 1868 “l'Associazione Internazionale dei Lavoratori (…) non è figlia né di una setta né di una teoria. Essa è il prodotto spontaneo della classe proletaria [28]; nel 1871, dopo la Comune, “sarebbe disconoscere del tutto la natura dell'Internazionale parlare di istruzioni segrete provenienti da Londra (…) di qualche centro pontificale di dominio e d'intrigo (…). Di fatto, l'Internazionale non è affatto il governo della classe operaia, è un legame, non è un potere” [29]. Il 17 settembre 1879: “Abbiamo formulato, durante la creazione dell'Internazionale, la massima della nostra lotta: l'emancipazione della classe operaia sarà opera della classe operaia stessa. Non possiamo, di conseguenza, far rotta comune con della gente che dichiarano apertamente che gli operai sono troppo incolti per liberarsi da sé, e che devono essere liberati dall'alto, e cioè da grandi e piccolo borghesi filantropi” [30].

Marx non ha mai voluto essere alla testa di un partito settario che non rappresentasse che una parte della classe operaia; sin dal 1848, precisava: “I comunisti non formano un partito distinto di fronte agli altri partiti operai. Non hanno interessi distinti da quelli del proletariato nel suo insieme” [31]. In una lettera a Freiligraph, Marx aggiunge: “con il termine partito, intendo partito nel grande senso storico”, e cioè la causa dell'insieme del proletariato. Non si tratta di pavoneggiarsi sui podi o durante i convegni, ma di comprendere, di far comprendere, e, con questo, sollecitare il movimento storico della società di classe verso il suo superamento. I pettegolezzi e i piccoli intrighi della vita politica dei partiti sono sempre risultati sgraditi da Marx; come scriveva a Engels, l'11 febbraio 1851, era irritato di essere portato ad avallare indirettamente delle prese di posizione, a sentirsi legato da delle dichiarazioni 'di somari' e a subirne il ridicolo. Due giorni più tardi, il 13 febbraio 1851, Engels risponde: “Abbiamo l'occasione di mostrare che non abbiamo bisogno né di popolarità né del 'sostegno' di qualunque partito (…). Come potrebbero delle persone come noi, che fuggono come la peste dalle situazioni ufficiali, essere di un partito? Cosa importa a noi di un partito, noi che sputiamo sulla popolarità?”. Non si vuole spesso vedere, in queste lettere, che il segno di un'irritazione passeggera. La prova si dice, che non si tratta che di accessi di cattivo umore, è che Marx ha aderito in seguito, nel 1864, all'Associazione Internazionale dei Lavoratori. Ecco appunto ciò che ne pensava Marx, in una lettera a Engels, del 26 dicembre 1865: “In quanto all'Associazione Internazionale, essa mi pesa come un incubo e sarei contento di potermene sbarazzare”. Marx non assiste al congresso di Bruxelles del 1868, pensando di essere più utile alla classe operaia continuando la sua opera teorica. Applicava così la consegna data da Engels, diciasette anni prima: “l'essenziale è di farci stampare” [32]. Non verrà in mente a nessuno che, così dicendo, Marx o Engels miravano a una gloria letteraria qualunque. Ma il movimento autonomo dell'emancipazione proletaria è, allo stesso tempo, una prtesa di coscienza e quest'ultima diventa presto un fattore complementare del movimento di emancipazione. Certo, “l'arma della critica non potrebbe sostituire la critica delle armi, la forza materiale deve essere rovesciata dalla forza materiale. Ma la teoria si trasforma, anch'essa, in forza materiale non appena afferra le masse” [33]. È dunque sui luoghi di lavoro stessi che gli operai devono capire concretamente le modalità di sfruttamento della loro forza lavoro da parte della classe dominante. Il ruolo del teorico è di rendere visibile quest'invisibile quotidiano così come Galilei ha spiegato il movimento apparente del sole, scardinando per sempre al contempo la mitologia religiosa precedente. Chi non capisce, da allora, che per Marx, militare non è giocare allo stratega negli stati maggiori del comitato federale o del comitato centrale, con la pretesa di comandare, dall'esterno, la manovra. Sono i lavoratori i soli capaci non soltanto di organizzare, autogestire le loro lotte, ma anche d'instaurare, all'interno stesso della vecchia società, le nuove strutture di una cooperazione egualitaria e fraterna che non ha nulla a che fare con capi e dirigenti. Nel suo Speech on the Anniversary of the People’s Paper, il 19 aprile 1856, Marx metteva in risalto che le rivoluzioni risultano dia da cause economiche e scoperte scientifiche e tecniche che dall'azione dei cosiddetti “agitatori”; diceva, infatti: “Vapore, elettricità e macchine tessili avevano un carattere altrettanto pericoloso quanto gli stessi cittadini Barbès, Raspail e Blanqui” [34].

Quindici anni più tardi, a Kugelmann che contestava, in una lettera del 15 aprile 1871, l'opportunità dell'insurrezione della Comune perché la sconfitta priverebbe “di nuovo gli operai dei loro capi”, Marx rispose, il 17 dello stesso mese: “La smobilitazione della classe operaia sarebbe stata una sciagura ben più grande della perdita di un qualunque numero di 'capi'”. (le virgolette sulla parola capo sono di Marx). Così non si può insistere ulteriormente sul fatto che Marx non lo faccia sulle capacità di auto-emancipazione della classe operaia che può, non soltanto autogestire la sua lotta, ma autogestire la produzione, il che è inoltre il mezzo più radicale di sopprimere l'alienazione e lo sfruttamento. Così, in questa dialettica, la realizzazione dello scopo finale non si separa dalla creazione di mezzi specifici per raggiungerlo. L'autogestione delle lotte è una condizione dell'autogestione della produzione e viceversa. Certo questa conquista dell'autonomia attiva non può essere che progressiva e spuria come Marx spiegava a Bakunin, ma il compito del rivoluzionario è di chiarire quest'impresa, di “aderire” e di “aderirvi”. Non appena l'organizzazione ha pretesa liberatrice diventa una specie di istituzione esterna, che funziona in quanto strumento di lotta per gli operai invece di essere una bozza di nuova organizzazione della produzione stessa, Marx se ne disinteressa e soffre di farne parte. Non vi è nemmeno da distinguere tra autogestione delle lotte e autogestione della produzione perché queste due forme di emancipazione si condizionano reciprocamente.

Ma si obietterà, forse, che queste non sono che deduzioni a partire dal “montaggio abile” di alcuni testi. Si deve dunque vedere, più precisamente ciò che Marx dice egli stesso dal fondo del dibattito poiché egli lo ha affrontato in un gran numero di testi che le interpretazioni dei diversi apparati dei partiti politici marxisti hanno lasciato nell'ombra.

 

NOTE

 

 

[1]

 

 

 

 

[24] Zola mette in bocca a Souvarine una delle possibili “risposte” degli anarchici, “Il vostro Karl Marx vuole ancora lasciar agire le forze le forze naturali. Niente politica, niente cospirazione, non è così? [Tutto alla luce del giorno, e unicamente attraverso l'aumento dei salari... Lasciatemi in pace con la vostra evoluzione! Incendiate i quattro angoli delle città...”, Emile Zola, Germinal.

(25) - (29) note mancanti.

[30] Lettera circolare indirizzata da Marx e Engels a

Condividi post
Repost0