Overblog
Segui questo blog Administration + Create my blog
30 settembre 2017 6 30 /09 /settembre /2017 05:00

Il significato storico della barbarie staliniana

 

Maximilien Rubel

L'unità negli obiettivi della politica russa deriva [...] dal suo passato storico, dalle sue condizioni geografiche e dalla necessità di acquisire dei porti di mari liberi nell'Arcipelago così come nel Baltico, se vuole mantenere la sua egemonia in EuropaTuttavia, il modo tradizionale con cui la Russia persegue i suoi obiettivi è lungi dal meritare il tributo d'ammirazione che le pagano i politici europei. Se il successo della sua politica ereditaria prova la debolezza delle potenze occidentali, la mania stereotipata di questa politica dimostra la barbarie inerente alla Russia in quanto tale.

Karl Marx, La politica tradizionale dello zarismo russo, New York Daily Tribune, 12 agosto 1853.Se la Russia continua a marciare nel sentiero seguito dal 1861, essa perderà la più bella occasione che la storia abbia mai offerto a un popolo, per subire tutte le peripezie fatali del regime capitalista.[...] se la Russia tende a diventare una nazione capitalista per mezzo delle nazioni dell'Europa occidentale, e durante questi ultimi anni si è data molto da fare in tal senso, essa non vi riuscirà senza aver preventivamente trasformato una buona parte dei suoi contadini in proletari; e dopo ciò, una volta giunta nel girone del regime capitalista, essa ne subirà le spietate leggi, come un tempo i popoli profani

Karl Marx, Risposta a Mikhaïlovski, novembre 1877

Nel 1882, Marx e Engels credevano ancora che la proprietà comune (mir) russa potesse diventare il punto di partenza di una rivoluzione comunista e che quest'ultima potesse diventare anche il segnale di una rivoluzione operaia in Occidente [1]. I narodnik [populisti] in un primo tempo, i socialisti rivoluzionari successivamente, continuavano a prendere sul serio questa alternativa formulata dai maestri del socialismo scientifico, quando invece Lenin ed il suo partito, e l'intera socialdemocrazia russa credevano di aver capito che la Russia avesse definitivamente scelto il suo destino: la rivoluzione borghese e il capitalismo selvaggio.Nell'ottobre del 1917, i bolscevichi volevano fare questa rivoluzione borghese, ma i soviet degli operai, contadini e soldati aspirarono ad altra cosa, ad una cosa per la quale né essi né le condizioni economiche della Russia erano ancora mature. Cosa accadde in queste circostanze? La rivoluzione occidentale? Per sfortuna di tutti essa non venne. La profezia geniale di Marx si compì allora: la Russia cominciò a trascinarsi sotto il giogo capitalista ed è il partito bolscevico che ve la spinse.Le fasi di questa evoluzione della Russia, del comunismo di guerra, attraverso la NEP, la pianificazione industriale e la collettivizzazione della classe contadina, sino al compimento definitivo del sistema economico statuale e di un regime cesareo, sono troppo note nei loro sanguinari e drammatici episodi per essere qui ricordati. Ma ciò che si deve sottolineare è che Lenin dovette sin dall'inizio rinunciare alla sua dottrina politica per la quale egli aveva per più di dodici anni condotto una spietata lotta contro il populismo ed il menscevismo.Così, nel 1917, egli si impadronì del programma dei socialisti rivoluzionari (smembramento e distribuzione delle terre) e, nel 1921, instaurando la NEP, ha realizzato quel "Termidoro proletario" che i menscevichi avevano sempre previsto come inevitabile nell'eventualità di una presa del potere da parte del partito proletario. Tuttavia, sempre prendendo in prestito le sue parole d'ordine politiche ai suoi avversari, Lenin non esitava a proibire ai suoi oppositori ogni attività di propaganda. Dopo la morte di Lenin, fu la volta di Trotski di preconizzare la "trascrescenza" della rivoluzione verso una statalizzazione forsennata, e la lasciò a Stalin che si incaricò di realizzare il programma di Trotski, naturalmente liquidando il trotskismo. Quest'ultimo doveva e deve logicamente continuare a glorificare se non Stalin per lo meno le "basi sociali" della Russia lasciate intatte, secondo Trotski ed i suoi fedeli, dal dittatore rosso.Tutto ciò è accaduto ed accade ancora sotto il nome di marxismo.Ma grazie a Marx, sappiamo che ogni classe dominante ha bisogno di ideologi e di ideologie che giustificano il suo regime di sfruttamento: il marxismo non è sfuggito a questa sorte e nel mondo in cui gli antagonismi di classe persistono non c'è nulla di sorprendente nel fatto che il "marxismo" si trasforma del tutto semplicemente in ideologia di tradimento e dell'oppressione- fenomeno che Marx ha freddamente intravisto quando egli affermò perentoriamente: "Tutto quel che so, è che io non sono marxista" [2].Marx non ha certamente pensato che una rivoluzione, che tutti i fattori soggettivi e oggettivi condannavano a essere capitalista, potesse richiamarsi al suo insegnamento. Che la più feroce dittatura minoritaria che la storia abbia conosciuta potesse pretendere di esercitarsi in suo nome.La discussione sulla realtà o l'irrealtà delle "basi sociali" in Russia è sterile e scolastica. Ciò che conta, è di sapere se il proletariato russo crede di difendere le conquiste d'Ottobre. Ciò che conta, è di sapere se il proletariato occidentale crede nella Russia, malgrado Stalin.Ora è certo che l'una e l'altra di questa supposizioni appartengono al regno della fantasia. Il merito del trotskismo non è da meno: solidarizzando con il proletariato russo contro Stalin, proclama il dovere per il proletariato occidentale di desolidarizzarsi dalla sua borghesia e dal suo Stato e di prendere una posizione disfattista e rivoluzionaria in caso di guerra. Con ciò, il trotskismo assume la posizione di disfattismo "ultra-sinistra" secondo la quale la Russia non merita di essere difesa. Il processo dei "traditori" e i campi di deportazione russi, i campi di sterminio tedeschi, la bomba atomica americana - tutto ciò ha molto più significato storico delle diatribe talmudiche sulle "basi sociali" della Russia. L'infamia umana è al livello dell'intelligenza scientifica dell'uomo. Nessun dubbio che la rivoluzione s'impone ovunque [3], la Russia non eccettuata - che importa il qualificativo che si amerebbe dare a questa rivoluzione nel paese delle "basi d'Ottobre".Ciò che importa, è di constatare che il regime russo offre l'immagine più perfetta di questa formidabile concentrazione del potere economico e del potere politico in un sola mano, concentrazione che F. Engels definiva come "capitalismo di Stato" [4]. Ciò che importa, è che la Russia offre lo spettacolo di una barbarie che sembra non voler rinnegare nulla dell'eredità, che sembra ben al contrario amplificare e arricchire quest'eredità utilizzando i metodi e le acquisizioni tecniche moderne che facevano ancora difetto allo zarismo.Ma questa barbarie non soltanto si giustifica (per così dire) storicamente, essa ha anche un significato storico. Essa si spiega con il passato della Russia e del mondo intero, poiché racchiude degli elementi positivi la cui importanza per la costruzione dell'avvenire è immensa.Per quanto concerne il passato, il passo ripreso da Marx e citato in epigrafe resta oggi del tutto valido, in un mondo in cui le rivalità nazionali non cessano di rinnovarsi e di accrescersi.Oggi come un tempo, il fattore politico è subordinato ai fattori economici e sociali, benché possa svolgere un ruolo autonomo, in determinate circostanze. Ma questo ruolo non è decisivo.In Russia in cui le condizioni materiali non erano affatto favorevoli a un'azione politica decisiva, l'autonomia del fattore politico non poteva in alcun modo rivestire un carattere proletario. Nulla nel passato della Russia permise di ben augurare l'impresa bolscevica a meno di una rivoluzione in Occidente. Quest'ultima fallendo condannò la Russia a subire le leggi inesorabili dell'evoluzione capitalista. Lo scacco del movimento operaio occidentale ha, di conseguenza, favorito il trionfo in Russia del fattore politico che, da allora non poteva avere che un aspetto negativo, cesareo.Non si può spiegare l'avventura russa né con il genio di un Lenin o di un Trotsky né con la mediocrità o il tradimento  di un Stalin, perché non sono le giuste o i false interpretazioni del marxismo che determinano la storia di un paese. In un certo senso, il socialismo è opera del capitalismo e non del marxismo - Marx stesso non la pensava altrimenti. Sin dal 1847, Marx afferma che se "il proletariato rovescia il dominio politico della borghesia la sua vittoria non sarà che passeggero, un semplice momento nel servizio che egli effettua verso la rivoluzione borghese stessa, come nel 1794, tanto che, nel corso della storia, nel suo "movimento", non si troveranno create le condizioni materiali che renderanno necessarie la soppressione del modo di produzione borghese e, di conseguenza, la caduta definitiva del dominio politico borghese" [5].Tuttavia la barbarie russa nasconde un nucleo positivo se la si giudica sotto l'angolo dello sviluppo storico del capitalismo imperialista. E' allora che si rivela il senso storico di questa barbarie.Innanzitutto in rapporto al processo di trasformazioni  che la struttura dell'economia russa ha subito grazie all'incomparabile sistema schiavista al quale Stalin e il suo partito hanno sottoposto il popolo russo. Le condizioni materiali dell'emancipazione proletaria non possono, seguendo un assioma dell'insegnamento di Marx, essere realizzate che attraverso un regime di sfruttamento a base d'antagonismo di classe. Nei paesi occidentali, questo ruolo di preparazione materiale dell'emancipazione proletaria e umana è compiuto dal sistema capitalista fondato sull'antagonismo proletariato - borghesia. In Russia, dove prima del 1917 il capitalismo non aveva ancora raggiunto il livello tecnico e economico dei paesi occidentali e in cui la struttura essenzialmente agraria dell'economia serviva da fondamento a un regime autocratico, le rivoluzioni di Febbraio e di Ottobre 1917 non potevano avere che un carattere politico, analogo all'effimera Comune di Parigi del 1871.Come quest'ultima, le rivoluzioni di Febbraio e di Ottobre 1917 in Russia erano dei movimenti popolari eroici in quanto furono l'opera dei soviet e nient'altro in quanto i partiti politici rivali si mischiavano allora ai movimenti di massa, molto spesso per sviarli dal loro cammino spontaneo. Il tragico episodio di Kronstadt segna al contempo la fine dell'iniziativa rivoluzionaria sovietica e l'inizio della supremazia del partito bolscevico che oramai si distaccherà completamente dalla sua base popolare. E' sin da quando, Lenin vivente, che si compie la transizione dalla fase rivoluzionaria sovietica alla fase reazionaria bonapartista, fase in cui, come Marx diceva a proposito del regno del secondo Bonaparte, "lo Stato sembra essersi reso indipendente dalla società, averla assoggettata" [6].Lenin comprese troppo tardi che aveva egli stesso favorito la nascita di una burocrazia bonapartista e morì troppo presto per estirpare il male. Con Stalin, il processo della burocratizzazione e della statizzazione cesarea ha raggiunto il suo apogeo e il suo compimento: il merito storico dello stalinismo è di preparare le condizioni di emancipazione del proletariato russo e di facilitare la futura esplosione rivoluzionaria attraverso la più formidabile centralizzazione del potere statale. Il bonapartismo staliniano è su scala dell'immensità geografica della Russia.Successivamente la portata storica della barbarie staliniana può misurarsi in rapporto alla scala del movimento operaio occidentale. Se in Russia il fattore politico ha riportato un trionfo negativo a causa dell'immaturità del fattore economico e intellettuale, l'assenza di rivoluzione occidentale si spiega con lo scacco del fattore politico malgrado la maturità economica e intellettuale dei paesi occidentali. Non è d'altronde il fallimento del movimento operaio occidentale ad aver provocato la grande avventura russa che si chiama costruzione del socialismo in un solo paese? Soltanto la combinazione efficace delle rivoluzioni occidentale e orientale avrebbe potuto generare e salvare la rivoluzione proletaria mondiale. Alla luce del doppio fallimento tragico dei movimenti rivoluzionari orientale e occidentale, la teoria della Rivoluzione permanente, formulata un secolo fa da Marx, e ripresa con meno fortuna da Trotski e i suoi fedeli, acquista tutta la sua importanza, sia per l'apprezzamento critico del passato sia per la preparazione rivoluzionaria del futuro.La Russia moderna, malgrado la trasformazione della sua struttura economica, malgrado le sue "basi d'Ottobre" erette in mitologia rivoluzionaria dai trotskisti mitomani, rappresenta oggi, dal punto di vista politico, ciò che essa rappresentava all'epoca in cui Marx la considerava come il più formidabile bastione della reazione.Ma tra ieri e oggi vi è una differenza fondamentale: quando Marx denunciava al proletariato occidentale il pericolo dello zarismo, quest'ultimo non poteva nascondere il suo vero volto alle masse dei popoli occidentali. Oggi, la reazione e la barbarie russe si esercitano in nome dell'insegnamento di Marx - è questo un fenomeno dalla portata incalcolabile, fenomeno che contiene in germe il fermento rivoluzionario che deve erodere le fondamenta sociali della burocrazia staliniana e dare al proletariato occidentale l'impulso rivoluzionario necessario per affrettare la caduta del capitalismo borghese.

[SEGUE] [7]

 

Traduzione di Ario Libert

 

 

 

NOTE

 

[1] K. Marx & F. Engels, "Prefazione" all'edizione russa (1882) di Il Manifesto comunista, K. Marx, Économie I. OEuvres I, Gallimard, Parigi, 1994 (rééd.), p. 1483-1485.[2] Frase di Marx a proposito dei suoi epigoni francesi e tedeschi degli anni 1879-1880, molte volte citata da Engels (K. Marx, Philosophie. Oeuvres III, Gallimard, Parigi, 1982, Introduzione, p. CXXVIII-CXXIV).[3] "L'imperativo della rivoluzione s'impone oggi così come si imponeva ieri", (M. Rubel, "Introduction à l’éthique marxienne", in K. Marx, Pages choisies pour une éthique socialiste, M. Rivière, Parigi, 1948, p. XXIV).[4] F. Engels, Anti-Dühring. M. E. Dühring bouleverse la science (1877-1878), Éd. sociales, Parigi, 1973 (rééd.), III parte, cap. II, p. 305 segg. Engels non impiega l'espressione ma analizza la "proprietà di Stato" - o lo Stato come "capitalista collettivo" (ibid., p. 315) – come uno stadio dello sviluppo capitalista di produzione. Marx ha avuto "l'intuizione" (Rubel) di un'evoluzione del modo capitalista verso la statizzazione sin dal 1867 (Il Capitale, Libro I, in: Économie I, op. cit., p. 1139), addirittura sin dal 1844 ("Communisme et propriété" [Comunismo e proprietà], Manoscritti economico-filosofici del 1844, Économie II, op. cit., p. 78).[5] K. Marx, "La critique moralisante et la critique morale. Contribution à l’histoire culturelle de l’Allemagne. Contre Karl Heinzen" [La critica moralizzante e la critica morale. Contributi alla storia culturale della Germania. Contro Karl Heinzen], Deutsche-Brüsseler Zeitung, n° 90-94, 11-15 novembre 1847; in: Sur la Révolution française. Écrits de Marx et Engels, anthologie publiée sous la responsabilité de Claude Mainfroy, Messidor-Éditions sociales, Parigi, 1985, p. 90.[6] K. Marx, Le 18 Brumaire de Louis Bonaparte [Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte], in K. Marx, Politique I, op. cit., p. 532.[7] Il seguito annunciato di quest'articolo non è mai uscito.

 

Condividi post
Repost0
30 settembre 2017 6 30 /09 /settembre /2017 05:00

Karl Marx e il primo partito operaio [1]

Maximilien Rubel

Il postulato dell'autoemancipazione proletaria attraversa, come un leit-motiv, tutta l'opera di Marx. E' l'unica chiave per una giusta comprensione dell'etica marxiana. Ha ispirato tutte le procedure, teoriche e politiche, di Karl Marx, dal 1844, quando, in La Sacra Famiglia, scriveva che "Il proletariato può e deve liberarsi da se stesso", attraverso le vicissitudini dell'Internazionale operaia la cui massima, proclamata da Marx, era: "L'emancipazione della classe operaia deve essere opera della stessa classe operaia", sin dai primi anni della sua vita, quando, preoccupato dalla sorte della rivoluzione russa, pose tutte le sue speranze nella plurisecolare obchtchina e i suoi contadini [2].

La forza — o la debolezza — dell'etica marxiana, è la sua fede nell'uomo che soffre e nell'uomo che pensa: — nell'uomo medio — tipo umano più numeroso — e nell'uomo eccezionale, pronto a far sua la causa del primo. Tra i due tipi umani si pone la minoranza onnipotente degli oppressori, padroni dei mezzi di vita e di morte, che ha al suo soldo un esercito che si rinnova senza posa di valletti della spada e della penna, che hanno come missione di mantenere lo statu quo o di ristabilirlo ogni volta che coloro che soffrono e coloro che pensano si uniscano per porvi fine, sognando di instaurare non il cielo sulla terra, ma semplicemente la città umana su una terra umana.

L'unione degli esseri sofferenti e degli esseri pensanti non è concepita da Marx come un'alleanza tra degli esseri che si attribuiscono dei compiti differenti, dal punto di vista di una divisione razionale del lavoro, i primi essendo condannati alla miseria e alla rivolta cieca contro la loro condizione inumana, i secondi aventi la vocazione di pensare per i primi, e di fornire a quest'ultimi delle verità bell'e pronte. A questo proposito, Marx si è espresso con una nettezza che esclude ogni ambiguità, sin dal 1843 in una lettera a Ruge: L'intesa di coloro che soffrono e di coloro che pensano è in verità un'intesa tra "l'umanità sofferente che pensa, e l'umanità pensante che è oppressa". In altri termini i proletari devono elevare l'opinione che essi hanno della loro miseria all'altezza di una coscienza teorica che dia alla miseria proletaria un significato storico e che, allo stesso tempo, permetta alla classe operaia di elevarsi alla comprensione dell'assurdità della sua condizione. Se "l'arma della critica non può sostituire la critica delle armi", se "la forza materiale non può essere rovesciata che dalla forza materiale", non resta tuttavia non meno valido il fatto che "la teoria si muti, essa stessa, in forza materiale, non appena essa ha afferrato le masse".

L'immagine del movimento rivoluzionario non è quella delle folle sofferenti e prive di coscienza guidate da un'élite di uomini chiaroveggenti, che patiscono la miseria, ma quella di una sola massa di esseri in stato permanente di rivolta e di rifiuto, coscienti di ciò che sono, vogliono e fanno.

Certo le aspirazioni radicali del proletariato nascono, molto spesso, spontaneamente, per il solo effetto di una situazione avvilente. Ma è allora che essi appaiono degli esseri che sentono la degradazione dell'uomo di massa come un'offesa inflitta alla loro propria dignità di uomini pensanti. Essi intravedono e annunciano per primi la possibilità e la necessità di una rivoluzione radicale, che trasformi le fondamenta materiali e il volto spirituale della società. Essi si uniscono al proletariato, di cui sentono i bisogni e gli interessi come i propri, e se ne fanno gli educatori alla maniera socratica, insegnando loro a pensare da sé. Gli insegnano, innanzitutto, che la lotta di classe non è soltanto un fatto storico, e cioè un fenomeno costante della storia passata, ma anche un dovere storico, e cioè un compito da compiere in piena conoscenza di causa, un postulato etico che, coscientemente posto in applicazione, evita all'umanità le miserie ineffabili che una civiltà tecnica giunta all'apogeo della sua potenza materiale non può mancare di generare per quanto a lungo si sviluppi seguendo le sue proprie leggi, e cioè, seguendo le leggi del caso. Mentre i predicatori religiosi o moralizzanti si danno da fare per apportare ai diseredati la consolazione di una redenzione o di una purificazione attraverso la sofferenza volontariamente accettata, i pensatori socialisti insegnano loro che essi sono la vittima di un meccanismo sociale di cui essi stessi sono i principali ingranaggi e che essi possono, di conseguenza, far funzionare per il vantaggio materiale e morale di tutta l'umanità, lo sviluppo storico avendo permesso all'homo faber di accedere a quella "totalità" delle forze produttive che favorisce la comparsa dell'"uomo totale": "Di tutti gli strumenti di produzione, il più grande produttivo è la classe rivoluzionaria stessa (Anti-Proudhon).

Il carattere etico del postulato dell'auto-emancipazione del proletariato è ampiamente dimostrato dall'idea che Marx si faceva del partito operaio. E' noto che nessuno dei partiti proletari che Marx ha visto costituirsi o ha aiutato a far nascere gli sembravano corrispondere a quest'idea. Ma ciò che si sa meno, è il fatto, - strano a prima vista - che, anche dopo la dissoluzione della Lega dei comunisti e durante tutto il periodo precedente la fondazione dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori, Marx non ha smesso di parlare del "partito" come di una cosa esistente. La sua corrispondenza con Lassalle e Engels è, a questo proposito, estremamente significativa. In numerose lettere scambiate tra i tre amici, nel corso di questo periodo, si discute del "nostro partito", mentre nessuna organizzazione politica degli operai esisteva realmente. Ma molto più rivelatrici sono, per il problema evidenziato, le lettere di Marx a Ferdinand Freiligrath, il cantore rivoluzionario degli anni 1848- 1849, al momento dell'affare Vogt. Freiligrath era appartenuto alla Lega dei comunisti e aveva pubblicato i suoi versi incandescenti sulla Nuova Gazzetta Renana diretta da Marx. Viveva, come quest'ultimo, a Londra, dove occupava, in una banca, un impiego "onorevole". Il suo nome essendo stato associato agli intrighi che si preparavano in rapporto alle calunnie sparsa da Vogt sul conto di Marx e del suo "partito", Freiligrath intraprese dei tentativi per essere esentato dall'obbligo di figurare come testimone a carico contro contro Vogt, nei processi intentati da Marx a Londra e a Berlino.

Marx tentò in una lettera il cui tono caloroso non cede in nulla al rigore politico, di convincerlo che i processi contro Vogt erano "decisivi per la rivendicazione storica del partito e per la sua ulteriore posizione in Germania" e che non era possibile lasciare Freiligrath fuori dal gioco, "Vogt", gli scrisse Marx, "tenta di trarre profitto dal tuo nome e finge di agire con la tua approvazione infangando l'intero partito, si vanta di averti tra i suoi sostenitori... Se abbiamo coscienza entrambi di aver, ognuno a proprio modo e nel disprezzo di tutti i nostri interessi personali, mossi dai moventi più puri, agitato per anni la bandiera al di sopra delle teste dei filistei, nell'interesse della 'classe la più lavoratrice e la più miserabile', sarebbe, io credo, un peccato meschino contro la storia, se ci urtassimo per delle bazzecole che poggiano su dei malintesi".

Freiligrath, pur assicurando Marx circa la sua amicizia indefettibile, puntualizzerà nella sua risposta che, se egli intendeva rimanere fedele alla causa proletaria, si considerava tuttavia tacitamente disimpegnato da ogni obbligo nei confronti del "partito", dalla dissoluzione della Lega comunista. "Alla mia natura", egli scrisse, "così come a quella di ogni poeta, occorre la libertà! Il partito somiglia, anch'esso, a una gabbia, e si può comporre meglio, anche per il partito, dall'esterno piuttosto che dall'interno. Sono stato un poeta del proletariato e della rivoluzione, per molto tempo prima di essere stato membro della Lega e membro della redazione della Nuova Gazzetta Renana! Voglio dunque continuare a volare con le mie ali, non voglio appartenere che a me stesso e voglio io stesso disporre interamente di me!". Nella parte conclusiva, Freiligrath non mancò di far allusione a "tutti gli elementi dubbiosi e abietti... che si erano accollati al partito" e di evidenziare la sua soddisfazione di non farne più parte, "non fosse che per il gusto della pulizia".

La replica di Marx, a più di un titolo, presenta un interesse particolare per ciò che costituisce, accanto al Manifesto del partito comunista e alla Critica del programma di Gotha uno dei rari documenti suscettibili di chiarire uno dei problemi più importanti, se non il più importante, dell'insegnamento marxiano, problema sul quale la più grande confusione non smette di regnare negli spiriti marxisti.

Ricordando a Freiligrath che la dissoluzione della Lega comunista aveva avuto luogo (nel 1852) su sua proposta, Marx dichiara che dopo quell'avvenimento non è appartenuto e non appartiene a nessuna organizzazione segreta o pubblica: "Il partito", egli scrive, " compreso in senso essenzialmente effimero, ha smesso di esistere per me da otto anni". In quanto alle discussioni sull'economia politica che egli aveva fatto dopo la pubblicazione del suo Per la critica dell'economia politica (1859), esse erano destinate non a qualche organizzazione chiusa ma a un piccolo numero di operai scelti tra i quali vi erano anche vecchi membri della Lega comunista. Sollecitato da alcuni comunisti americani di riorganizzare la vecchia Lega, egli aveva risposto che dal 1852 non era più in relazione con nessuna organizzazione di alcun genere: "Risposi... che avevo la ferma convinzione che i miei lavori teorici erano più utili alla classe operaia della mia collaborazione con delle organizzazioni, che, sul continente, non avevano più alcuna ragione di essere". Marx prosegue: "Dunque, dal 1852, non so nulla di un "partito" in senso letterale. Se sei un poeta, io sono un critico e ne avevo veramente abbastanza delle mie esperienze fatte tra il 1849 e il 1852. La Lega, - così come la Società delle stagioni di Parigi e come cento altre società, - non era che un episodio nella storia del partito il quale nasce spontaneamente dal terreno della moderna società [3]". Poco oltre leggiamo: "La sola azione che ho continuato dopo il 1852 per quanto tempo ciò era necessario, e cioè sino alla fine del 1853..., era il system of mockery and contempt (4)… contro gli inganni democratici dell'emigrazione e le sue velleità rivoluzionarie"... Marx parla allora degli elementi sospetti menzionati da Freiligrath appartenuti alla Lega. Gli individui nominati non erano in realtà mai stati membri di quell'organismo.

E Marx aggiunge: "E' certo che nelle tempeste, il fango viene agitato, che nessuna era rivoluzionaria profuma di acqua di rose, che in certi momenti si raccolgono ogni genere di rifiuti. Presentemente, quando si pensa agli sforzi giganteschi diretti contro di noi da tutto quel mondo ufficiale che, per rovinarci, non si è accontentato di sfiorare il delitto penale, ma vi si è immerso sino al collo; quando si pensa alle calunnie sparse dalla 'democrazia dell'imbecillità' che non ha mai potuto perdonare al nostro partito operaio di aver avuto più intelligenza e carattere di quanto essa non ne avesse mai avuto, quando si conosce la storia contemporanea di tutti gli altri partiti e quando, infine, ci si domanda ciò che si potrebbe realmente rimproverare al partito intero, si deve giungere alla conclusione che questo partito, in questo XIX secolo, si distingue brillantemente per la sua pulizia. Possiamo, con le usanze e i traffici borghesi, sfuggire all'infangamento? E' proprio nel traffico borghese che essi sono al loro posto naturale... Ai miei occhi, l'onestà della morale solvibile... non è in nulla superiore all'abietta infamia che né le prime comunità cristiane né i club dei giacobini né la nostra defunta Lega non sono riuscite a eliminare dal loro interno. Soltanto che, vivendo nell'ambiente borghese, si prende l'abitudine di perdere il senso dell'infamia rispettabile o dell'infame rispettabilità".

La lettera, la cui maggior parte è dedicata a delle questioni di dettaglio del processo contro Vogt, termina con queste frasi: "Ho cercato... di dissipare il malinteso a proposito di un 'partito': come se, con questo termine, intendessi una 'Lega' sparita da otto anni o una redazione di giornale dissolta da dodici anni. Con partito, intendevo il partito in senso eminentemente storico".

Il partito in senso eminentemente storico, - era per Marx il partito invisibile del sapere reale piuttosto che il sapere dubbio  di un partito reale, detto altrimenti, egli non concepiva affatto che un partito operaio, qualunque esso fosse, potesse incarnare, per il semplice fatto della sua esistenza, la "coscienza" o il "sapere" del proletariato [5].

Durante gli anni in cui Marx su teneva ai margini di ogni attività politica dedicandosi esclusivamente a un lavoro scientifico massacrante, non smetteva mai, quando gli si presentava l'occasione, di parlare in nome dell'invisibile partito di cui si sentiva responsabile. Così, nel 1859, ricevendo una delegazione del club operaio di Londra, non temeva di dichiarare loro che si considerava, insieme a Marx, come il rappresentante del "partito proletario". Lui e Engels diceva, non traevano questo mandato che da se stessi, ma quest'ultimo sarebbe "controfirmato dall'odio esclusivo e generale" che votano loro "tutte le classi del vecchio mondo e tutti i partiti".

Quando, durante gli anni 60, si assiste alla rinascita del movimento operaio nei paesi dell'occidente, Marx valutava che il movimento era venuto per "riorganizzare politicamente il partito dei lavoratori" e per proclamarne di nuovo apertamente gli scopi rivoluzionari. Nello spirito di Marx, l'Associazione Internazionale dei Lavoratori era la continuazione della Lega dei Comunisti di cui egli aveva, insieme a Engels, definito il ruolo, alla vigilia della rivoluzione di Febbraio. La Lega non doveva essere un partito tra gli altri partiti operai, essa aveva uno scopo più elevato, perché più generale: rappresentare in ogni momento "l'interesse del movimento totale" e "l'avvenire del movimento", indipendentemente dalle lotte quotidiane condotte su scala nazionale da parte dei partiti operai. L'Internazionale operaia, fondata a Londra nel 1864 in circostanze incomparabilmente più favorevoli nel 1847 della Lega dei Comunisti nella stessa città, doveva essere al contempo l'organo delle aspirazioni comuni dei lavoratori e l'espressione vivente del loro sapere teorico e della loro intelligenza politica. L'Associazione Internazionale dei Lavoratori era, secondo Marx, il partito proletario, la manifestazione concreta della solidarietà degli operai nel mondo. "Gli operai", scriveva Marx nell'Indirizzo inaugurale, hanno tra le loro mani un elemento di successo: il loro numero. Ma il numero non pesa sulla bilancia se non è unito dall'organizzazione e guidato dal sapere".

Per Marx, l'Internazionale operaia era il simbolo vivente di quell'"alleanza della scienza e del proletariato" alla quale Ferdinand Lassalle, prima di scomparire, aveva legato il suo nome. L'internazionale non potendo più, dopo la caduta della Comune di Parigi, svolgere il ruolo che gli assegnava il suo protagonista, quest'ultimo preferì una volta di più riprendere il suo lavoro, preso dal desiderio di lasciare alle generazioni operaie future uno strumento perfetto di autoeducazione rivoluzionaria. Marx fu il primo a riconoscere che "le idee non possono mai portare oltre un vecchio stato del mondo" e che "per realizzare le idee, ci vogliono degli uomini che pongano in opera una forza pratica" (La sacra famiglia). Ma se è vero che le idee non possono condurre che "al di là delle idee del vecchio stato del mondo", ne consegue che la vera metamorfosi  del mondo implica al contempo la trasformazione delle cose e quella delle coscienze", e che il tipo dell'uomo  vivente in stato permanente di rivolta e di rifiuto è, in qualche modo, un'anticipazione del tipo umano della città futura, dell'"uomo integrale".

Maximilien Rubel

[Traduzione di Ario Libert]

 

NOTE

[1] Articolo di Maximilien Rubel uscito in Masses (socialisme et liberté) N° 13 (febbraio 1948). Il titolo reca una prima nota: Frammento di una Introduzione all'etica marxiana in uscita presso M. Rivière.

[2] Cfr. Karl Marx e il socialismo populista russo, in La Revue socialiste, maggio 1947.

[3] Sottolineato da me (M. R.).

[4] "La beffa e il disprezzo sistematici" (M. R.).

[5] Engels non la pensava d'altronde diversamente, a giudicare dalle lettere che egli indirizzava a Marx durante la crisi attraversata dalla Lega. Eccone un campione: "Cosa abbiamo da cercare in un 'partito', noi che fuggiamo come la peste le posizioni ufficiali, che ci importa, a noi che sputiamo sulla popolarità, e che dubitiamo di noi stessi quando cominciamo a diventare popolari - un partito, e cioè una banda di asini che giurano su di noi, perché ci credono nostri simili?" (13 febbraio 1851).

Condividi post
Repost0
25 giugno 2017 7 25 /06 /giugno /2017 05:00

Presentazione delle lettere di Anton Pannekoek

 

Maximilien Rubel

Lettere di Pannekoek

 

Avvertenza

Le lettere ed estratti di lettere che pubblichiamo provengono da una corrispondenza che abbiamo avuto con Anton Pannekoek (1873-1960) negli anni 1951-1955, in lingua tedesca. Il lettore indovinerà facilmente il contenuto delle nostre lettere dalle risposte e critiche formulate dal pensatore olandese. Così ci siamo limitati a citare i passaggi delle nostre lettere fatte oggetto di osservazioni del nostro corrispondente. Ci è sembrato tanto più importante cedere la parola all'autore di I Consigli operai in quanto così gli viene offerta l'occasione di completare e precisare le sue concezioni "marxiste" a proposito delle questioni fondamentali del movimento operaio nei suoi aspetti eziologici e la sua finalità emancipatrice. Ci riproponiamo di fornire ulteriormente sotto forma di un libricino più ampiamente documentato, un'edizione integrale di questa corrispondenza. Il lettore francese che conosce il tedesco dovrà accontentarsi nell'intervallo delle spiegazioni in francese di cui facciamo precedere ogni lettera o estratto di lettere Abbiamo rispettato il testo originale delle lettere, tranne correggere alcuni errori grammaticali (regime dei verbi) e la punteggiatura in alcuni luoghi insufficiente; inoltre, abbiamo trascritto per intero le abbreviazioni utilizzate dall'autore.

Riteniamo utile completare quest'Avvertenza, citando qualche estratto della Presentazione che abbiamo posto in testa alla traduzione del testo tratto da I Consigli operai, pubblicato nel libro Conseils ouvriers et Utopie socialiste (Cahiers du Centre d'Etudes Socialistes, Paris, maggio-giugno 1969). Riassumendo la prima parte del libro di Pannekoek, scrivevamo: "La Seconda guerra mondiale avendo lasciato l'Europa in stato di devastazione e di miseria, incombe agli operai del mondo intero prendere in mano il proprio destino e la sorte dell'economia mondiale per liberarsi da se stessi e liberare il mondo dal modo di produzione capitalista. Essi devono dapprima prendere coscienza della loro condizione e della vera natura dell'organizzazione capitalista allo scopo di diventare i padroni della produzione, perché sono le principali vittime del sistema capitalista. I rapporti sociali devono subire un cambiamento totale e profondo. Cosciente delle contraddizioni del capitalismo, la classe operaia ha acquisito un nuovo senso del diritto e della giustizia. Essa aspira a un ordine sociale fondato sulla proprietà comune dei mezzi di produzione. Questo sistema di produzione sorgerà dalla lotta di classe e non dalla testa e dalla volontà di una nuova elite dirigente. Gli operai avranno cominciato l'organizzazione della produzione sul luogo stesso del loro lavoro, nelle officine, le fabbriche, in uno spirito di cooperazione e con la volontà di coordinare i compiti da compiere, secondo le regole d'amministrazione e di ripartizione stabiliti in comune. Ma gli operai devono capire innanzitutto che il capitalismo li opprime non soltanto economicamente ma anche e soprattutto intellettualmente. Il loro primo compito è dunque di vincere il capitalismo teoricamente prima di sconfiggerlo materialmente. Essi devono anche respingere il socialismo di Stato, fondato sulla proprietà pubblica dei mezzi di produzione e sul principio della direzione autoritaria e gerarchica. La trasformazione della società sarà essenzialmente la trasformazione delle masse operaie nell'azione, la rivolta, l'auto-emancipazione. Si può pensare che Pannekoek non fa che imitare i grandi utopisti, tracciando un ritratto così idealizzato della classe operaia. Ma ciò significa dimenticare la differenza essenziale che separa questo ritratto dal Lavoratore futuro, dal quadro della città futura. Perché per Pannekoek il primo è la condizione della seconda. Se il lavoratore non cambia mentalità, la società resterà una società di sfruttamento e di oppressione. Naturalmente, l'autore non esprime delle ipotesi, ma delle convinzioni, addirittura delle certezze. Astronomo e antropologo, ha fede nell'uomo e nelle sue possibilità evolutive. E' grazie a questa fede che ha potuto scrivere I Consigli operai in piena guerra, mentre le classi operaie dei paesi industrializzati erano intente a librarsi in uno dei più grandi massacri della storia. Ci si accorge di colpo che il "socialista scientifico" Pannekoek era innanzitutto  l'uomo di una fede per cui la scienza non era che un mezzo per costruire delle ragioni di credere e di esperire. Per completare queste osservazioni aggiungeremo degli estratti di una lettera che Pannekoek rivolse a un amico francese (M. R.) nel 1952.

"E' una buona idea voler discutere, in un circolo Zimmerwald, della situazione e della tattica del socialismo (...). Il nome (di questo circolo) traccia la prospettiva di fronte alla molteplicità delle organizzazioni che, durante la Prima guerra mondiale, in Europa, hanno seguito i governi capitalisti e hanno così impedito ogni lotta operaia (union sacrée), un piccolo numero di persone si sono riunite per proclamare la loro opposizione e chiamare di nuovo alla lotta.

Oggi, si tratta di piccoli gruppi di fronte alla massa dei socialisti e dei sindacalisti governativi (...). Certo, non può ancora trattarsi di altra cosa che di discutere nuove forme di lotta e di organizzazione. Oppure ancora non di questo: tutto ciò di cui si può discutere, sono dei punti di vista generali, della teoria dello sviluppo mondiale e della lotta di classe. Ora, voi ponete una serie di domande a proposito della teoria dei consigli; vi vedete delle contraddizioni, delle difficoltà, delle impossibilità, e desiderate più chiarimenti, dei dettagli che non trovate nel libro I consigli operai. Ma non dovete dimenticare che impiegando il termine "consiglio operaio", non proponiamo soluzioni, ma poniamo dei problemi.

E ciò vuol dire che in quanto piccoli gruppi di discussione, noi non possiamo risolvere questi problemi, e non siamo noi a poter preservare il mondo dalle crisi e dalle catastrofi; e anche se tutti gli uomini politici e capi di organizzazioni si riunissero e volessero salvare il mondo, essi non potrebbero anche loro risolvere questi problemi.

Lo potrebbero fare soltanto delle forze di masse, di classi, attraverso la loro lotte pratiche (e cioè un'epoca, un periodo storico di lotta di classe).

Non siamo in grado - e non è il nostro compito - d'immaginare come esse lo faranno; le persone che si trovano praticamente e a tutti i momenti davanti a compiti dovranno farlo, per quanto ne saranno capaci. Ma allora si tratterà meno di prendere delle misure particolari o di scoprire delle forme d'organizzazione, che dello spirito che anima le masse.


E' quanto evidenziate voi stesso molto giustamente. Ciò che importa dunque e che possiamo fare, non è di immaginare al loro posto come dovranno agire, ma di far loro conoscere lo spirito, i principi, il pensiero fondamentale del sistema dei consigli che si riassumono in questo: i produttori devono essere essi stessi i padroni dei mezzi di produzione. Se il loro spirito se ne compenetra, essi sapranno essi stessi, necessariamente, ciò che si dovrà fare. Ci troviamo oggi nella stessa situazione di un tempo, quando si è rimproverato ai socialisti di rifiutarsi a rivelare esattamente come essi volevano organizzare la società futura e di rinviare la rivoluzione: le persone che faranno la rivoluzione avranno anch'essi da risolvere i loro problemi. La stessa cosa vale per il caso che ci preoccupa: quando poniamo come principio vivente che i lavoratori vogliono essere padroni dei loro mezzi di produzione, non abbiamo bisogno di romperci la testa per sapere come, in quale forma organizzativa, la cosa dovrà essere realizzata. Anche se vi si dice: "Ditecelo esattamente, altrimenti ci rifiutiamo di partecipare". E' da questo punto di vista che si dovrebbe affrontare la discussione sui mezzi di lotta. Di conseguenza, la propaganda dell'idea dei consigli non significa che se i lavoratori abolissero domani i partiti e i sindacati e li sostituissero con dei consigli tutta la situazione verrebbe di colpo cambiata. Ciò significa che le differenze di classe, il dominio di classe e lo sfruttamento non possono essere abolite con il parlamentarismo  e i sindacati, ma soltanto per mezzo dell'organizzazione dei consigli. Del resto, potete leggerlo in I Consigli operai: "i consigli sono il tipo di organizzazione naturale del proletariato rivoluzionario".

 

LETTERA DEL 21 LUGLIO 1951

NB — Avevo fatto pervenire ad Anton Pannekoek, attraverso la mediazione di Henk Canne Meijer (Henk CM), due articoli pubblicati in La Revue socialiste: "Pour une biographie monumentale de Karl Marx" [Per una biografia monumentale di Karl Marx] (ottobre 1950) e "Réflexions sur la société directoriale" [Riflessioni sulla società manageriale] (febbraio 1951). Henk anne Meijer (1890-1962), comunista dei consigli olandesi, fu uno dei principali animatori del movimento negli anni trenta, "l'anima del Gruppo dei comunisti internazionalisti" (GIC) di cui redasse in tedesco il "lavoro collettivo" pubblicato nel 1930 con il titolo Grundprinzipien kommunistischer Produktion und Verteilung (Principi fondamentali di produzione e distribuzione comunista).

In una lettera datata 11 settembre 1953, rispondendo alal domanda che gli avevamo posta di fornirci qualche elemento autobiografico, Anton Pannekoek ci scriveva "Per quanto riguarda la nota biografica (destinata a un articolo che doveva uscire in La Revue socialiste, M .R.), basterà ampiamente citare che sono nato nel 1873, che sono entrato nel partito socialista nel 1900, che sono stato membro attivo del Partito socialista tedesco (1906-1914), e che fui dal 1918 professore di astronomia e matematica ad Amsterdam"; per quanto riguarda i miei scritti, basterà menzionare I Consigli operai.

Considero sempre che l'eventuale pubblicazione di una traduzione della prima parte di questo libro sarebbe il mio migliore contributo al movimento operaio".

M. R.

 

Allegato

Estratti dai Nota Bene di alcune lettere:

 

 

LETTERA DEL 22 GIUGNO 1952

NB – Nella mia lettera del 19-6-1952, avevo ripreso la questione delle nuove forme della lotta di classe nel loro rapporto con le istituzioni democratiche che soltanto rendono possibile l'organizzazione di massa del proletariato militante. Avevo citato a questo proposito un passaggio di I Consigli operai in cui è detto, tra altre cose: "A certain amount of social equality and political rights for the working class is necessary in capitalism" (edizione inglese, 1950, p. 74). Il sindacalismo rivoluzionario non era forse un movimento della stessa natura di quello dei consigli operai in circostanze indubbiamente diverse ma che perseguivano lo stesso obiettivo con dei mezzi la cui principale risorsa era il comportamento individuale dei combattenti? Avevo scritto: "La lotta non è affare di una nuova teoria ma di uomini nuovi", qualunque sia il modo di organizzazione praticato dai lavoratori. Nessuna organizzazione di consigli è immune contro lo spirito burocratico o la volontà di potenza di minorità che sappiano sfruttare la fiducia della "base".

Terminando la mia lettera, esprimevo il desiderio di parlare del libro di Anton Pannekoek  davanti al Circolo Zimmerwald (creato da Daniel Martinet e sostenuto dal gruppo di militanti che pubblicavano La Révolution prolétarienne). Speravo di avere anche l'occasione di sollevare il problema della pubblicazione di I Consigli operai in versione francese (vedere la traduzione di un'estratto di questa lettera nella nostra introduzione).

M. R.

 

LETTERA DEL 19 MAGGIO 1954

NB – Anton Pannekoek risponde alla mia lettera del 5-5-1954 di cui non ho conservato copia. Pur dicendo di diffidare del termine "etica", Anton Pannekoek attribuisce un'importanza decisiva alle iniziative d'auto-educazione e di lotta sindacale degli operai che fanno prova in tal modo della loro volontà di affermarsi come forza intellettuale ed economica. Rinvia alla lettera che aveva spedito alla rivista marxista Socialisme ou barbarie in cui uscì sul fascicolo IV, aprile-giugno 1954. La menzione del nome di M. Mitrany si spiega con il fatto che avevo inviato a Anton Pannekoek un estratto pubblicato sulla Revue d’histoire économique et sociale e dove criticavo l'opera di quest'autore su "Marx et la paysannerie".

M. R.

 

LETTERA DEL 12 APRILE 1955

NB – Avevo relazionato (nella mia lettera del 6 aprile 1955) a Anton Pannekoek di un dibattito che avemmo nel nostro piccolo circolo di studi sulla rivoluzione in Cina, non senza sollevare indirettamente la questione del nostro "compito" di fronte agli avvenimenti di cui le ripercussioni mondiali dovevano a più o meno lunga scadenza spingere il movimento operaio in Occidente a delle scelte politiche decisive - come un tempo davanti alla rivoluzione russa.

In quanto all'estratto dell'"articolo sul libro di Kautsky", si tratta della cronaca che avevo dedicato alla voluminosa opera del teorico socialista tedesco: Die materialistische Geschichtsauffassung (…). Ci vedevo la conferma al contrario dell'argomento che avevo sostenuto lungo tutto il nostro dialogo. La società umana, infine storica, non potrebbe essere creata da esseri angosciati che costruiscono le armi di annientamento totale: ogni marxismo che trascuri la responsabilità etica degli sfruttati nella decadenza della società globale si condanna a non essere più di una speculazione "materialista" sulle opportunità di sopravvivere offre all'eterno troglodita.

M. R.

 

[Traduzione di Ario Libert]

Condividi post
Repost0
7 febbraio 2017 2 07 /02 /febbraio /2017 06:00

Il dialogo di Daniel Guérin con il leninismo [1]

Ian Birchall

In un articolo sulla bisessualità di Guérin, Peter Sedgwick presenta quest'uomo di dialogo che era Daniel Guérin. Si augurava soprattutto di sviluppare la discussione tra le correnti spesso ostili del marxismo e dell'anarchismo: “Tutta la sua vita attiva è stata dedicata allo sforzo per interpretare l'uno e l'altro dei punti di vista che avevano una validità parziale ma che pretendevano di detenere una verità universale. In quanto mediatore tra il socialismo libertario e il bolscevismo 'Autoritario', in quanto difensore dell'anarchismo tra i marxisti e di marxista tra gli anarchicheggianti, è stato un interprete onesto allo stesso modo in cui è uno dei rari interpreti delle sessualità l'una in rapporto all'altra. Bifocale ma sinottico in politica come nel sesso, la sua impresa è stata raramente eguagliata in seno alla sinistra” [2].

Alcune volte, Guérin si fissò l'obiettivo ancora più ambizioso di riuscire in una sintesi tra Marx e Bakunin [3]. Ma insisteva anche sul fatto che il socialismo e l'anarchismo non dovevano essere soltanto giustapposti, rappresentando due correnti parallele in seno  ad uno stesso movimento per l'emancipazione umana: “Anarchismo, infatti, è, innanzitutto, sinonimo di socialismo. L'anarchico è, in primo luogo, un socialista che mira ad abolire lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. L'anarchismo non è altra cosa che uno dei rami del pensiero socialista” [4].

In realtà, l'importanza di Guérin poggia più sul suo ruolo di mediatore che di uomo di sintesi. Per sessant'anni, ha sempre manifestato la sua volontà di cooperare con tutte le componenti della sinistra francese, con quelli che condividevano i suoi scopi fondamentali di un'autoemancipazione del proletariato, della liberazione coloniale e della libertà sessuale. Era un polemista vigoroso, nessun lettore della sinistra, anche marginale, sfuggì alla sua attenzione. Nel 1967, scrisse una lettera piena di rabbia al bimestrale Pouvoir ouvrier [5] in difesa delle sue concezioni sull'anarchismo, accusando i suoi critici di cattiva interpretazione e di disonestà intellettuale. A quell'epoca, PO appariva sotto forma ciclostilata e non contava più di 30 persone [6]. Era anche molto generoso, non cercando mai di calunniare i suoi avversari, anche se era in profondo disaccordo con essi. Nel suo libro sull'Algeria, polemizza in modo vivace contro la difesa da parte di Francis Jeanson della politica del FLN e contro le sue critiche al Movimento nazionale algerino (MNA), ma rende subito omaggio al coraggio di Jeanson come militante anti-imperialista [7]. Desiderava sempre sfidare l'ortodossia, sia essa marxista o anarchica. Nelle prime pagine del suo libro su Proudhon, notava che molti dei suoi lettori potevano essere colpiti dalle sue critiche del pioniere dell'anarchismo [8]. Nel 1969, scriveva a proposito di sé: "I marxisti gli hanno voltato la schiena, in quanto 'anarchico' e gli anarchici, per via del suo 'marxismo', non hanno mai voluto considerarlo come uno dei loro" [9]. Al di là delle varie formulazioni, resta un principio centrale: "La Rivoluzione del nostro tempo si farà dal basso, o non si farà" [10].

Le discussioni classiche tra anarchismo e leninismo ritornano alla superficie secondo forme nuove nel movimento anticapitalista [11]. Per coloro tra di noi che si augurerebbero che questo scambio di argomenti conduca a un dialogo costruttivo, piuttosto che alla sterile futilità delle reciproche denunce, Guérin dovrebbe essere un modello, non tanto per le conclusioni alle quali approda quanto per il suo stile, E' in questo quadro che desidero esaminare alcun aspetti del suo atteggiamento evolutivo nei confronti di Lenin e del leninismo.

Critica del giacobinismo

Nel 1946, Guérin pubblicava Il suo monumentale studio La lutte de classes sous la première République, nel quale affermava che se la Rivoluzione francese era, in termini marxisti, una rivoluzione borghese, essa conteneva anche l'embrione di una rivoluzione proletaria. I salariati parigini avevano cominciato ad agire indipendentemente dai Giacobini, che Guérin considerava come diretti dall'ala sinistra della borghesia.

In questo senso, i Giacobini svolgevano un ruolo conservatore in rapporto alla minaccia dal basso. Tutto ciò sfidava la tradizionale concezione repubblicana e Fronte popolista secondo la quale la Rivoluzione era "un blocco" [12],  e lo ha portato ad essere vilipendiato da storici stalinisti come George Rudé [13] e criticato in termini più sfumati da Georges Lefebvre [14].

Come contributo alla comprensione della Rivoluzione francese, i lavori di Guérin devono essere giudicati con il metro di recenti lavori universitari. La ricerca di Jean-Marc Schiappa sui babuvisti sembra confermare con certezza la concezione di Guérin di una classe operaia emergente; benché Schiappa si riferisca esplicitamente a Edward Thompson [15] piuttosto che a Guérin, il suo termine "classe operaia in gestazione" è una variante del tutto minore della metafora dell'embrione di Guérin [16].

Ma Guérin aveva anche lanciato una polemica contro la tradizione giacobina, che egli vedeva come rappresentante una corrente autoritaria estranea alle migliori tradizioni di ciò che chiamò "il socialismo libertario". In una lettera a Marceau Oiver, dichiarò che "il libro è un'introduzione a una sintesi dell'anarchismo e del marxismo che un giorno mi piacerebbe scrivere" [17].

In una prefazione a La Lutte de classes, scritta nel 1977, ma nella quale "il presente e il futuro invadono il passato a tal punto che non potevo osare porla in evidenza nel mio libro" [18], Guérin argomenta che mentre un movimento  di massa deve unirsi con un'avanguardia cosciente, quest'avanguardia poteva essere "sia un partito comunista veramente comunista... o un nucleo libertario come la Federazione anarchica iberica o delle minoranze attive come quelle del sindacalismo rivoluzionario di prima del 1914" [19]. Apriva così un dibattito sulle forme organizzative che lo avrebbe occupato per i successivi quarant'anni.

La sua critica del giacobinismo è esposta in un articolo, "La rivoluzione degiacobinizzata", incluso nel suo studio del 1959, Jeunesse du socialisme libertaire" [20]. Qui, egli argomentava che vi era all'interno del marxismo una tensione non risolta tra una corrente libertaria e una corrente autoritaria o giacobina. Più tardi, Lenin "richiamandosi al contempo al 'giacobinismo' e al 'marxismo', inventerà la concezione della dittatura di un partito che si sostituisce alla classe operaia" [21]. Come faceva notare, prima del 1917, Lenin respingeva l'idea della rivoluzione permanente e credeva che la Rivoluzione russa non sarebbe andata oltre lo stadio della democrazia borghese; con questo risultato: Lenin "ha spesso tendenza a sopravalutare l'eredità della Rivoluzione francese" [22].

Guérin diede alle stampe due raccolte di articoli includenti "La revoluzione degiaconinizzata" come uno dei testi principali: Pour un marxisme libertaire (1969) - un titolo che, come ammise egli stesso più tardi, aveva colpito e disorientato i suoi nuovi amici libertari [23] - e A la recherche d'un communisme libertaire (1984).

Uno dei problemi nello studio del pensiero di Guérin è che è autocritico e in costante evoluzione, e che a partire da qui, produsse in permanenza delle versioni riviste delle vecchie versioni dei suoi vecchi testi. Molti di questi cambiamenti erano di natura puramente stilistica, ma alcuni rappresentavano una reale trasformazione nel suo pensiero. Quelli che abbiamo notato nel quadro di questo contributo sono stati osservati da noi più o meno per caso, leggendolo. Vi è posto per almeno una tesi sull'analisi delle revisioni realizzate da Guérin stesso. Il pensiero di Guérin era costantemente in movimento e, per rendere le cose ancora più complicate, non scorreva sempre nella stessa direzione.

Così, quando La lutte de classes fu ristampata nel 1968, Guérin vi portò un significativo numero di modifiche [24]. Come egli stesso pose in evidenza, trovava oramai la nozione di dittatura del proletariato "compromessa" e in questo lavoro, la sostituì con la frase "la costrizione rivoluzionaria" [25].

Nell'introduzione, due paragrafi sulla dittatura del proletariato, includenti il punto di vista di Lenin secondo il quale la dittatura del proletariato presentava una doppia faccia, essendo al contempo repressiva e diffondente la democrazia, sparivano [26].

Alcune pagine dopo, l'edizione del 1946 proponeva che, riformulando i concetti chiave del socialismo, si dovrebbe "prendere come punto di partenza il vertice della curva raggiunto dal pensiero marxista (prima che cominciasse a degenerare) e che, per quanto alto esso fosse, esso era lungi dall'essere l'ultima parola della scienza rivoluzionaria. Si potrebbe ad esempio partire, da Stato e Rivoluzione di Lenin". Queste due frasi sparivano nel 1968 e il paragrafo è riveduto. Tuttavia, l'indice dell'edizione del 1968 faceva riferimento a Lenin per la pagina sulla quale il paragrafo è rimaneggiato. Tuttavia l'indice dell'edizione del 1968 fa riferimento a Lenin per la pagina sulla quale il paragrafo in questione era situato, suggerendo che Guérin aveva preso una decisione all'ultimo istante, forse al momento della rilettura delle bozze, eliminando questo riferimento a Lenin. Il libro fu stampato nel novembre del 1968, questo cambiamento fu dunque effettuato senz'alcun dubbio negli eventi del Maggio 68 [27].

Nel secondo volume, un paragrafo che tratta della comparazione tra il ruolo dei fattori soggettivi e oggettivi supponeva che "senza Lenin e Trotsky, non è del tutto certo che le giornate d'Ottobre 1917 a Piegrogrado sarebbero terminate con una vittoria" Questo passo sparisce di nuovo nel 1968 [28]

Il capitolo finale, che tratta della sconfitta dei ceti popolari (bras nus) e delle attività di Babeuf, mostra anche delle riconsiderazioni. Nel 1946, un titolo di capitolo ci informa: "Ma una direzione rivoluzionaria manca loro". Nel 1968 ciò è trasformato in: "Ma una strategia rivoluzionaria manca loro" [29].

Un po' oltre, l'edizione del 1946 constata che "Non un istante, i babuvisti, nella loro evocazione dell'anno II, si pongono la domanda: chi aveva il potere?". Di nuovo, questa formula leninista sparisce nel 1968 [30].

 

 

disparaît en 1968 30.

 

Pourtant, l’argumentation principale sur les babouvistes demeure inchangée. Même si quelque part ailleurs, Guérin suggérait une continuité de Babeuf à Lénine via Blanqui, dans son analyse essentielle de Babeuf, Guérin n’a pas grand-chose à dire sur l’organisation. Il s’est peu appuyé sur les documents préparés pour le procès de Babeuf qui pourtant donnent une description vivante de la manière dont la soi disant conspiration de Babeuf avait en fait fonctionné. Au lieu de cela, Guérin dirige son tir presque exclusivement sur la manière dont les babouvistes cherchèrent à coopérer avec les anciens disciples de Robespierre, et ainsi omirent de proposer leur propre analyse de la période de pouvoir robespierriste. De fait, ce qui échappe à l’observation de Guérin, c’est que les babouvistes firent une première et hésitante tentative pour appliquer la tactique du front uni.

Pour comprendre pourquoi Guérin évolua politiquement entre 1946 et 1968, il est nécessaire d’examiner à la fois ses écrits politiques et son expérience pratique des organisations de gauche. Dans cette optique, un texte sur Lénine, publié en article dans une revue en 1957, apparaît décisif31. Il a été republié sous forme de livre avec quelques
brefs ajouts et des notes de bas de page en 1959, puis de nouveau en 1969 et en 1981, à chaque fois après le texte « La révolution déjacobinisée », apparemment comme un complément à ce dernier32.

Guérin lecteur critique de Lénine

 

Les critiques adressées à Lénine sont très différentes à la fois de celles des attaques des courants de droite issus de la guerre froide en même temps que de l’approche anarchiste. Sa critique n’est pas d’ordre psychologique ou historique. Il ne met pas en doute les motivations de Lénine, ni ne suggére que ses idées « autoritaires » dérivent d’un désir de pouvoir personnel. Il ne procéde pas plus à une large discussion des actions du bolchévisme au pouvoir. Au lieu de cela, il procéde presque comme s’il était en train d’écrire une histoire de la philosophie, présentant largement les idées de Lénine sur le parti et l’Etat, avec une référence particulière à certains textes clés. Cette approche présente certains avantages significatifs. Elle permet de mettre l’accent sur des thèmes décisifs plus que sur les évènements anecdotiques ou des allégations d’atrocités, et permet ainsi une présentation plus calme et plus sobre du débat. Mais en même temps, elle présente de sérieuses limites, comme je vais tenter de le montrer.

Il commence en soulignant qu’il rejette l’idée d’une continuité entre Lénine et Staline, contre le postulat central partagé par les staliniens et par les courants de droite, aussi bien que par quelques anarchistes. Guérin affirme son admiration pour la stratégie révolutionnaire qui a abouti à la première révolution ouvrière réussie en Octobre 1917 33..

(Après avoir publié ce démenti introductif en 1957, 1959 et 1969, Guérin ne le reprend pas dans l’édition de 1984 de A la recherche d’un communisme libertaire. Que ce soit parce qu’il pense que le débat était devenu obsolète ou parce qu’il accepte désormais un degré de continuité entre Lénine et Staline, il est impossible de le déterminer).

Après une brève évocation du mouvement socialiste depuis Babeuf, Guérin met l’accent sur la critique du Que faire ?de Lénine de 1902. Le tiers décisif de l’article est consacré à une critique de ce qu’il présente comme un texte central. Cependant, sa présentation de l’argumentation de Lénine n’est pas toujours précise. Ainsi, il accuse Lénine d’une admiration mal contenue pour le narodnik Tkatchev, quand la seule référence à Tkatchev dans Que faire ? lui attribue ironiquement une importance en opposition avec un de ses disciples des derniers jours, en référence à la formulation sarcastique de Marx sur la première fois comme tragédie et la seconde comme farce 34.

.

Guérin donne une importance particulière à l’usage que fait Lénine dans Que faire? d’une formulation de Kautsky : « Ainsi la conscience socialiste est introduite dans le

 

 

da pagina 5

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE:

[1] Traduction Georges Ubbiali, relue par l’auteur. Merci également à J.-P. Salles et J.-G. Lanuque, pour leur attentive relecture. Ce texte a par ailleurs été édité en version originale dans Revolutionary History, Vol 9,
n°2 (2006). Il est également disponible en ligne à l’adresse suivante : http://www-
staff.lboro.ac.uk/~eudgb/Birchall_paper.DOC

[2] P. Sedgwick, « Out of Hiding : The Comradeships of Daniel Guérin », Salmagundi 58-59, 1982-83, pp.
197-220, en particulier p. 219.
3
Introduction à la ré-édition de Rosa Luxembourg et la spontanéité révolutionnaire, Paris, 1982, p. 4. Pour
une contribution récente sur ce point de vue, voir A. Woodward, « Marx, Bakunin or What ? », What
Next ?, n° 28 (2004), pp. 22-28.
4
D. Guérin, L’anarchisme, Paris, 1965, p. 15.
5
Pouvoir ouvrier, n° 84, mai-juin 1967, p. 23. C’était une réponse à un compte-rendu non signé et très
hostile de son livre L’anarchisme, qui caractérisait l’autogestion comme réformiste et dénonçait le soutien
de Guérin à l’Algérie et à la Yougoslavie (n° 83, mars-av. 1967, pp. 21-23). Voir aussi les réponses dans les
numéros 85, juil.-août 1967, p. 15 et 86, sept.-oct. 1967, pp. 10-16.
6
P. Gottraux, Socialisme ou barbarie, Lausanne, 1997, p. 167.

 

 

 

 

 

[7] D. Guérin, Quand l’Algérie s’insurgeait, Claix, 1979, pp. 80-83.
[8] D. Guérin, Proudhon oui et non, Paris, 1978, p. 7.
9
D. Guérin, Pour un marxisme libertaire, Paris, 1969, p. 7.
10
Pour un marxisme libertaire, p. 39.
11
Pour un compte rendu de quelques-uns de ces débats, voir C. Harman, « Anti-capitalism : theory and
practice », International socialism n° 88 (autumn, 2000), pp. 3-59.
12
La phrase était de Clémenceau. Voir G. Dallas, At the Heart of a Tiger, London, 1993, p. 292-297.
13
G. Rudé, « Les ouvriers parisiens dans la révolution française », La pensée, XLVIII-XLIX (1953), pp.
108-109.
14
G. Lefebvre, compte rendu de La lutte de classes, Annales historiques de la Révolution Française, XIX
(1947), pp. 173-179.
15
Historien anglais, auteur de La formation de la classe ouvrière anglaise, Gallimard-Seuil, 1988, ouvrage
de la plus grande importance dans l’historiographie marxiste [Note du traducteur].
16 J.-M. Schiappa, Les babouvistes, Saint Quentin, 2003, pp. 34 et 146-147.

[17] Guérin, Le Feu du sang, Paris, 1977, p. 137.

[18] Le Feu du sang, p. 135.

[19] Guérin, La Révolution française et nous, pp. 55-56.
20
Guérin, Jeunesse du socialisme libertaire, Paris, 1959, pp. 29-63.
21
Guérin, Jeunesse…, p. 43.
22
Guérin, Jeunesse…, p. 61.
23
Guérin, A la recherche d’un communisme libertaire, Paris, 1984, p. 9.
24 D. Guérin, La lutte de classes sous la Première République, Paris, 1946, Paris, 1968. Ci après LDC 46 et
LDC 68. Une tentative d’analyse de quelques différences entre les deux éditions est proposée dans N. Carlin, « Daniel Guérin and the working class in the French Revolution », International socialism, n° 47
(summer 1990), pp. 197-223.
25
Guérin, A la recherche d’un communisme libertaire, Paris, 1984, p. 9.
26
LDC 46, I, pp. 38-39 ; LDC 68, I, p. 54.
27
LDC 46, p. 143 ; LDC 68, I, p. 58; II, p. 591.
28
LDC 46, II, p. 292 ; LDC 68, II, p. 326.
29
LDC 46, II, p. 333 ; LDC 68, II, p. 370.
30
LDC 46, p. 353 ; LDC 68, II, p. 392.

 

 

 

LINK:

 

 

Le dialogue de Daniel Guérin avec le léninisme

link
https://docs.google.com/viewer?a=v&q=cache:1SAun3JniI4J:www.dissidences.net/documents/complement_vol2_birchall.pdf+Le+dialogue+de+Daniel+Gu%C3%A9rin+avec+le+l%C3%A9ninisme+[1]&hl=it&gl=it&pid=bl&srcid=ADGEEShJTwZKCPpxrp7s5j31Ho1h2Vr166G5USHOkElUlNjPX8Pqo8RrbdPPi77AWu9cFZ14LbzO6rEsQDDLpKqM3rSUHnaypagHJw_dOqV5QbVg-sKjcmmaAzzhpAejptzdsfU86bTq&sig=AHIEtbSCmEUzfXMpsU4APYa4iHCZ_zOaNQ&pli=1

Condividi post
Repost0
30 dicembre 2016 5 30 /12 /dicembre /2016 06:00

Il significato storico della barbarie staliniana

 

Maximilien Rubel

la-flamme-n2-1946.jpg

Testo di Maximilien Rubel pubblicato senza firma sul n°5 di La Flamme [La Fiamma], rivista teorica dell'Unione dei comunisti internazionalisti (novembre 1945). Ripreso nel n°25 della rivista "Agone" (2001).

 

L'unità negli obiettivi della politica russa deriva [...] dal suo passato storico, dalle sue condizioni geografiche e dalla necessità di acquisire dei porti di mari liberi nell'Arcipelago così come nel Baltico, se vuole mantenere la sua egemonia in Europa.
Tuttavia, il modo tradizionale con cui la Russia persegue i suoi obiettivi è lungi dal meritare il tributo d'ammirazione che le pagano i politici europei. Se il successo della sua politica ereditaria prova la debolezza delle potenze occidentali, la mania stereotipata di questa politica dimostra la barbarie inerente alla Russia in quanto tale.
 
Karl Marx, La politica tradizionale dello zarismo russo, New York Daily Tribune, 12 agosto 1853.

 

Se la Russia continua a marciare nel sentiero seguito dal 1861, essa perderà la più bella occasione che la storia abbia mai offerto a un popolo, per subire tutte le peripezie fatali del regime capitalista.
[...] se la Russia tende a diventare una nazione capitalista per mezzo delle nazioni dell'Europa occidentale, e durante questi ultimi anni si è data molto da fare in tal senso, essa non vi riuscirà senza aver preventivamente trasformato una buona parte dei suoi contadini in proletari; e dopo ciò, una volta giunta nel girone del regime capitalista, essa ne subirà le spietate leggi, come un tempo i popoli profani.
 
Karl Marx, Risposta a Mikhaïlovski, novembre 1877.

 

Nel 1882, Marx e Engels credevano ancora che la proprietà comune (mir) russa potesse diventare il punto di partenza di una rivoluzione comunista e che quest'ultima potesse diventare anche il segnale di una rivoluzione operaia in Occidente [1]. I narodnik [populisti] in un primo tempo, i socialisti rivoluzionari successivamente, continuavano a prendere sul serio questa alternativa formulata dai maestri del socialismo scientifico, quando invece Lenin ed il suo partito, e l'intera socialdemocrazia russa credevano di aver capito che la Russia avesse definitivamente scelto il suo destino: la rivoluzione borghese e il capitalismo selvaggio. 

Nell'ottobre del 1917, i bolscevichi volevano fare questa rivoluzione borghese, ma i soviet degli operai, contadini e soldati aspirarono ad altra cosa, ad una cosa per la quale né essi né le condizioni economiche della Russia erano ancora mature. Cosa accadde in queste circostanze? La rivoluzione occidentale? Per sfortuna di tutti essa non venne. La profezia geniale di Marx si compì allora: la Russia cominciò a trascinarsi sotto il giogo capitalista ed è il partito bolscevico che ve la spinse. 

Le fasi di questa evoluzione della Russia, del comunismo di guerra, attraverso la NEP, la pianificazione industriale e la collettivizzazione della classe contadina, sino al compimento definitivo del sistema economico statuale e di un regime cesareo, sono troppo note nei loro sanguinari e drammatici episodi per essere qui ricordati. Ma ciò che si deve sottolineare è che Lenin dovette sin dall'inizio rinunciare alla sua dottrina politica per la quale egli aveva per più di dodici anni condotto una spietata lotta contro il populismo ed il menscevismo.

Così, nel 1917, egli si impadronì del programma dei socialisti rivoluzionari (smembramento e distribuzione delle terre) e, nel 1921, instaurando la NEP, ha realizzato quel "Termidoro proletario" che i menscevichi avevano sempre previsto come inevitabile nell'eventualità di una presa del potere da parte del partito proletario. Tuttavia, sempre prendendo in prestito le sue parole d'ordine politiche ai suoi avversari, Lenin non esitava a proibire ai suoi oppositori ogni attività di propaganda. Dopo la morte di Lenin, fu la volta di Trotski di preconizzare la "trascrescenza" della rivoluzione verso una statalizzazione forsennata, e la lasciò a Stalin che si incaricò di realizzare il programma di Trotski, naturalmente liquidando il trotskismo. Quest'ultimo doveva e deve logicamente continuare a glorificare se non Stalin per lo meno le "basi sociali" della Russia lasciate intatte, secondo Trotski ed i suoi fedeli, dal dittatore rosso.

Tutto ciò è accaduto ed accade ancora sotto il nome di marxismo.

Ma grazie a Marx, sappiamo che ogni classe dominante ha bisogno di ideologi e di ideologie che giustificano il suo regime di sfruttamento: il marxismo non è sfuggito a questa sorte e nel mondo in cui gli antagonismi di classe persistono non c'è nulla di sorprendente nel fatto che il "marxismo" si trasforma del tutto semplicemente in ideologia di tradimento e dell'oppressione- fenomeno che Marx ha freddamente intravisto quando egli affermò perentoriamente: "Tutto quel che so, è che io non sono marxista" [2].

Marx non ha certamente pensato che una rivoluzione, che tutti i fattori soggettivi e oggettivi condannavano a essere capitalista, potesse richiamarsi al suo insegnamento. Che la più feroce dittatura minoritaria che la storia abbia conosciuta potesse pretendere di esercitarsi in suo nome.

La discussione sulla realtà o l'irrealtà delle "basi sociali" in Russia è sterile e scolastica. Ciò che conta, è di sapere se il proletariato russo crede di difendere le conquiste d'Ottobre. Ciò che conta, è di sapere se il proletariato occidentale crede nella Russia, malgrado Stalin.

Ora è certo che l'una e l'altra di questa supposizioni appartengono al regno della fantasia. Il merito del trotskismo non è da meno: solidarizzando con il proletariato russo contro Stalin, proclama il dovere per il proletariato occidentale di desolidarizzarsi dalla sua borghesia e dal suo Stato e di prendere una posizione disfattista e rivoluzionaria in caso di guerra. Con ciò, il trotskismo assume la posizione di disfattismo "ultra-sinistra" secondo la quale la Russia non merita di essere difesa. Il processo dei "traditori" e i campi di deportazione russi, i campi di sterminio tedeschi, la bomba atomica americana - tutto ciò ha molto più significato storico delle diatribe talmudiche sulle "basi sociali" della Russia. L'infamia umana è al livello dell'intelligenza scientifica dell'uomo. Nessun dubbio che la rivoluzione s'impone ovunque [3], la Russia non eccettuata - che importa il qualificativo che si amerebbe dare a questa rivoluzione nel paese delle "basi d'Ottobre".

Ciò che importa, è di constatare che il regime russo offre l'immagine più perfetta di questa formidabile concentrazione del potere economico e del potere politico in un sola mano, concentrazione che F. Engels definiva come "capitalismo di Stato" [4]. Ciò che importa, è che la Russia offre lo spettacolo di una barbarie che sembra non voler rinnegare nulla dell'eredità, che sembra ben al contrario amplificare e arricchire quest'eredità utilizzando i metodi e le acquisizioni tecniche moderne che facevano ancora difetto allo zarismo.

Ma questa barbarie non soltanto si giustifica (per così dire) storicamente, essa ha anche un significato storico. Essa si spiega con il passato della Russia e del mondo intero, poiché racchiude degli elementi positivi la cui importanza per la costruzione dell'avvenire è immensa.

Per quanto concerne il passato, il passo ripreso da Marx e citato in epigrafe resta oggi del tutto valido, in un mondo in cui le rivalità nazionali non cessano di rinnovarsi e di accrescersi.

Oggi come un tempo, il fattore politico è subordinato ai fattori economici e sociali, benché possa svolgere un ruolo autonomo, in determinate circostanze. Ma questo ruolo non è decisivo.

In Russia in cui le condizioni materiali non erano affatto favorevoli a un'azione politica decisiva, l'autonomia del fattore politico non poteva in alcun modo rivestire un carattere proletario. Nulla nel passato della Russia permise di ben augurare l'impresa bolscevica a meno di una rivoluzione in Occidente. Quest'ultima fallendo condannò la Russia a subire le leggi inesorabili dell'evoluzione capitalista. Lo scacco del movimento operaio occidentale ha, di conseguenza, favorito il trionfo in Russia del fattore politico che, da allora non poteva avere che un aspetto negativo, cesareo.

Non si può spiegare l'avventura russa né con il genio di un Lenin o di un Trotski né con la mediocrità o il tradimento  di un Stalin, perché non sono le giuste o i false interpretazioni del marxismo che determinano la storia di un paese. In un certo senso, il socialismo è opera del capitalismo e non del marxismo - Marx stesso non la pensava altrimenti. Sin dal 1847, Marx afferma che se "il proletariato rovescia il dominio politico della borghesia la sua vittoria non sarà che passeggero, un semplice momento nel servizio che egli effettua verso la rivoluzione borghese stessa, come nel 1794, tanto che, nel corso della storia, nel suo "movimento", non si troveranno create le condizioni materiali che renderanno necessarie la soppressione del modo di produzione borghese e, di conseguenza, la caduta definitiva del dominio politico borghese" [5].

Tuttavia la barbarie russa nasconde un nucleo positivo se la si giudica sotto l'angolo dello sviluppo storico del capitalismo imperialista. E' allora che si rivela il senso storico di questa barbarie.

Innanzitutto in rapporto al processo di trasformazioni  che la struttura dell'economia russa ha subito grazie all'incomparabile sistema schiavista al quale Stalin e il suo partito hanno sottoposto il popolo russo. Le condizioni materiali dell'emancipazione proletaria non possono, seguendo un assioma dell'insegnamento di Marx, essere realizzate che attraverso un regime di sfruttamento a base d'antagonismo di classe. Nei paesi occidentali, questo ruolo di preparazione materiale dell'emancipazione proletaria e umana è compiuto dal sistema capitalista fondato sull'antagonismo proletariato - borghesia. In Russia, dove prima del 1917 il capitalismo non aveva ancora raggiunto il livello tecnico e economico dei paesi occidentali e in cui la struttura essenzialmente agraria dell'economia serviva da fondamento a un regime autocratico, le rivoluzioni di Febbraio e di Ottobre 1917 non potevano avere che un carattere politico, analogo all'effimera Comune di Parigi del 1871.

Come quest'ultima, le rivoluzioni di Febbraio e di Ottobre 1917 in Russia erano dei movimenti popolari eroici in quanto furono l'opera dei soviet e nient'altro in quanto i partiti politici rivali si mischiavano allora ai movimenti di massa, molto spesso per sviarli dal loro cammino spontaneo. Il tragico episodio di Kronstadt segna al contempo la fine dell'iniziativa rivoluzionaria sovietica e l'inizio della supremazia del partito bolscevico che oramai si distaccherà completamente dalla sua base popolare. E' sin da quando, Lenin vivente, che si compie la transizione dalla fase rivoluzionaria sovietica alla fase reazionaria bonapartista, fase in cui, come Marx diceva a proposito del regno del secondo Bonaparte, "lo Stato sembra essersi reso indipendente dalla società, averla assoggettata" [6].

Lenin comprese troppo tardi che aveva egli stesso favorito la nascita di una burocrazia bonapartista e morì troppo presto per estirpare il male. Con Stalin, il processo della burocratizzazione e della statizzazione cesarea ha raggiunto il suo apogeo e il suo compimento: il merito storico dello stalinismo è di preparare le condizioni di emancipazione del proletariato russo e di facilitare la futura esplosione rivoluzionaria attraverso la più formidabile centralizzazione del potere statale. Il bonapartismo staliniano è su scala dell'immensità geografica della Russia.

Successivamente la portata storica della barbarie staliniana può misurarsi in rapporto alla scala del movimento operaio occidentale. Se in Russia il fattore politico ha riportato un trionfo negativo a causa dell'immaturità del fattore economico e intellettuale, l'assenza di rivoluzione occidentale si spiega con lo scacco del fattore politico malgrado la maturità economica e intellettuale dei paesi occidentali. Non è d'altronde il fallimento del movimento operaio occidentale ad aver provocato la grande avventura russa che si chiama costruzione del socialismo in un solo paese? Soltanto la combinazione efficace delle rivoluzioni occidentale e orientale avrebbe potuto generare e salvare la rivoluzione proletaria mondiale. Alla luce del doppio fallimento tragico dei movimenti rivoluzionari orientale e occidentale, la teoria della Rivoluzione permanente, formulata un secolo fa da Marx, e ripresa con meno fortuna da Trotski e i suoi fedeli, acquista tutta la sua importanza, sia per l'apprezzamento critico del passato sia per la preparazione rivoluzionaria del futuro.

La Russia moderna, malgrado la trasformazione della sua struttura economica, malgrado le sue "basi d'Ottobre" erette in mitologia rivoluzionaria dai trotskisti mitomani, rappresenta oggi, dal punto di vista politico, ciò che essa rappresentava all'epoca in cui Marx la considerava come il più formidabile bastione della reazione.

Ma tra ieri e oggi vi è una differenza fondamentale: quando Marx denunciava al proletariato occidentale il pericolo dello zarismo, quest'ultimo non poteva nascondere il suo vero volto alle masse dei popoli occidentali. Oggi, la reazione e la barbarie russe si esercitano in nome dell'insegnamento di Marx - è questo un fenomeno dalla portata incalcolabile, fenomeno che contiene in germe il fermento rivoluzionario che deve erodere le fondamenta sociali della burocrazia staliniana e dare al proletariato occidentale l'impulso rivoluzionario necessario per affrettare la caduta del capitalismo borghese.

 

(SEGUE) [7]

 

[1] K. Marx & F. Engels, "Prefazione" all'edizione russa (1882) di Il Manifesto comunista, K. Marx, Économie I. OEuvres I, Gallimard, Parigi, 1994 (rééd.), p. 1483-1485.

[2] Frase di Marx a proposito dei suoi epigoni francesi e tedeschi degli anni 1879-1880, molte volte citata da Engels (K. Marx, Philosophie. Oeuvres III, Gallimard, Parigi, 1982, Introduzione, p. CXXVIII-CXXIV).

[3] "L'imperativo della rivoluzione s'impone oggi così come si imponeva ieri", (M. Rubel, "Introduction à l’éthique marxienne", in K. Marx, Pages choisies pour une éthique socialiste, M. Rivière, Parigi, 1948, p. XXIV).

[4] F. Engels, Anti-Dühring. M. E. Dühring bouleverse la science (1877-1878), Éd. sociales, Parigi, 1973 (rééd.), III parte, cap. II, p. 305 segg. Engels non impiega l'espressione ma analizza la "proprietà di Stato" - o lo Stato come "capitalista collettivo" (ibid., p. 315) – come uno stadio dello sviluppo capitalista di produzione. Marx ha avuto "l'intuizione" (Rubel) di un'evoluzione del modo capitalista verso la statizzazione sin dal 1867 (Il Capitale, Libro I, in: Économie I, op. cit., p. 1139), addirittura sin dal 1844 ("Communisme et propriété" [Comunismo e proprietà], Manoscritti economico-filosofici del 1844, Économie II, op. cit., p. 78).

[5] K. Marx, "La critique moralisante et la critique morale. Contribution à l’histoire culturelle de l’Allemagne. Contre Karl Heinzen" [La critica moralizzante e la critica morale. Contributi alla storia culturale della Germania. Contro Karl Heinzen], Deutsche-Brüsseler Zeitung, n° 90-94, 11-15 novembre 1847; in: Sur la Révolution française. Écrits de Marx et Engels, anthologie publiée sous la responsabilité de Claude Mainfroy, Messidor-Éditions sociales, Parigi, 1985, p. 90.

[6] K. Marx, Le 18 Brumaire de Louis Bonaparte [Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte], in K. Marx, Politique I, op. cit., p. 532.

[7] Il seguito annunciato di quest'articolo non è mai uscito.

Condividi post
Repost0
16 dicembre 2016 5 16 /12 /dicembre /2016 06:00

MARX LIBERTARIO

Maximilien Rubel

Nel centenario della morte di Marx questo saggio, pubblicato dieci anni fa, avrebbe bisogno di una revisione, per rinforzarne la tesi centrale: la fondazione da parte di Marx di una teoria politica dell'anarchismo [1].

Se si astrae dalla tradizionale critica di carattere puramente formale, di cui questa teoria è oggetto da parte di ideologi anarchici e libertari, occorre ammettere che il vero dibattito sui modi di transizione delle società dominate dal capitale e dallo Stato è molto lontano dall'essere iniziato. Di massima, il verbalismo prende il posto di argomento privilegiato nei due campi, anarchico e marxista, senza che sia preso realmente in considerazione l'insegnamento del principale interessato. Il fatto che la quasi totalità delle risoluzioni "politiche", redatte da Marx per i successivi congressi dell'Internazionale operaia, abbiano ottenuto l'accordo unanime dei delegati, basta, tuttavia, per riconoscere l'inanità delle critiche sedicenti antiautoritarie. In realtà gli "antiautoritari" non erano certo meno "marxisti" dei loro oppositori, poiché, votando queste risoluzioni di cui essi probabilmente ignoravano l'autore, rendevano omaggio all'autorità di quest'ultimo [2].

E che dire del voto unanime, da parte dell'insieme delle sezioni dell'A.I.T., a favore dell'indirizzo sulla guerra civile in Francia, in cui il "vero seguito" della natura della Comune è rivelato in questi termini: "Essenzialmente è un governo della classe operaia, il risultato della lotta della classe dei produttori contro la classe degli accaparratori, la forma politica infine disvelata sotto la quale si compirà l'emancipazione economica del lavoro" [3].

Come fare a non stupirsi di una fraseologia "antiautoritaria" sempre rifiorente, quando si sa che questa concezione del carattere politico della Comune fu condivisa senza riserve sia dagli adepti di Proudhon sia da quelli di Bakunin, il quale, poco tempo dopo, si è ingegnato a diffondere fra i suoi compagni di lotta alcuni libelli in cui Marx è trattato da "rappresentante del pensiero tedesco", da "ebreo tedesco", da "capo dei comunisti autoritari della Germania", come chi si comporta da "dittatore-messia", da partigiano fanatico del "pangermanesimo" [4]. Che dire di quei "Documenti probanti" in cui Marx è descritto, da una parte come un "economista profondo... appassionatamente votato alla causa del proletariato", come "l'iniziatore e l'ispiratore principale della fondazione dell'Internazionale" e, d'altra parte, come un dottrinario che "è giunto a considerarsi molto seriamente come il papa del socialismo, o piuttosto del comunismo?". Il che significa in altri termini, che, "per l'intera sua teoria, egli è un comunista autoritario, che vuole come Mazzini... l'emancipazione del proletariato attraverso la potenza centralizzata del proletariato". Che cosa pensare di un "anarchico" o di un "comunista rivoluzionario" che crede ed afferma che l'ebreo Marx è circondato da una "folla di piccoli giudei", che "tutta questa gente ebrea", questo "popolo sanguisuga" è "intimamente organizzato al di là di ogni differenza sul piano delle opinioni politiche", che esso è "in gran parte a disposizione di Marx, da un lato, e di Rothschild dall'altro?" [5].

Come prendere sul serio un "anarchismo" che, "anti-autoritario" per essenza e per proclama, attribuisce proprio a Marx il glorioso merito di aver redatto "le così belle e profonde considerazioni degli statuti", e d'aver "dato corpo alle aspirazioni istintive, unanimi del proletariato in quasi tutti i paesi d'Europa col concepire l'idea e proporre l'istituzione della Internazionale negli anni 1863/1864", dimenticandosi dunque o fingendo di dimenticarsi che la Carta dell'Internazionale fu un documento politico, un manifesto che conferisce alla lotta politica della classe dei produttori il carattere di un imperativo categorico, condizione assoluta e mezzo ineludibile dell'emancipazione umana [6].

Non Marx, ma Bakunin praticava il principio della liberazione "dall'alto verso il basso", esaltando la costituzione di un'autorità centralizzata e segreta, di un'élite avente per missione l'esercizio di una "dittatura collettiva ed invisibile" al fine di far trionfare "la rivoluzione ben diretta" [7].

Confidando nel movimento reale degli operai, Marx sottolineava l'importanza dei sindacati, delle cooperative e dei partiti politici in quanto creazioni "dal basso verso l'alto", mentre Bakunin, al contrario, ripercorrendo magistralmente la traiettoria di Mazzini, eroe delle spedizioni al margine della vita reale delle masse, progettava per i rivoluzionari italiani, chiamati a coordinare una "grande rivoluzione popolare", un piano d'azione per sollevare e spingere alla rivoluzione i contadini "necessariamente" federalisti e socialisti. Il programma prevedeva la formazione di un "partito attivo e potente", un'avanguardia, in realtà, che marciava "parallelamente" ai mazziniani, guardandosi bene dal congiungersi con loro e sorvegliando che essi non si infiltrassero nel nuovo partito, ecc. Non era certamente Marx che, di fronte alle persecuzioni dei governi e delle polizie di cui era vittima l'Internazionale in tutti i paesi del continente europeo, consigliava la creazione, "dentro le sezioni" di "nuclei" composti dai membri più sicuri, più devoti, più intelligenti e più energici, in una parola "i più intimi", con la "doppia missione" di formare "l'anima ispiratrice e vivificante di quest'immenso corpo che si chiama Associazione Internazionale dei Lavoratori in Italia, come altrove... Essi formeranno il ponte necessario fra la propaganda delle teorie socialiste e la pratica rivoluzionaria". Non era Marx che raccomandava agli Italiani così reclutati di formare "un'alleanza segreta" che "non avrebbe accettato nel suo seno che un piccolissimo numero di individui i più sicuri, i più devoti, i più intelligenti, i migliori, poiché in questo tipo di organizzazioni, "non è la quantità ma la qualità che occorre ricercare"; non occorreva imitare mazziniani e "reclutare soldati per formare piccole armate segrete, capaci di tentare colpi di mano", poiché, per la rivoluzione popolare, l'armata è il popolo. Non era certo Marx che suggeriva di formare "stati-maggiori", una "rete ben organizzata e ben ispirata di capi del movimento popolare", un'organizzazione per cui "non è assolutamente necessario avere una grande quantità di individui iniziati nell'organizzazione segreta" [8].

Si può immaginare quest'uomo, come la personificazione del "comunismo-autoritario", che si rivolge nel modo prima descritto ad una rete segreta di compagni o che impiega i suoi talenti di uomo di scienza e di militante per "convertire l'Internazionale in una specie di Stato, ben regolamentato, ben disciplinato, che obbedisce ad un governo unitario e di cui tutti i poteri sarebbero concentrati nelle sue mani [nel testo di Marx] [9]? Come spiegare il fatto che, per suffragare il loro dogma "antiautoritario", i sedicenti anarchici non possono fare altro che ricorrere all'invocazione ripetuta incessantemente, di alcuni passi del Manifesto Comunista od alla citazione di estratti di lettere private, così come, naturalmente, al richiamo delle manovre, ambigue e subdole, di Marx ed Engels, per far escludere Bakunin ed i suoi fedeli dall'Internazionale? Se è facile comporre un'antologia di scritti giacobini e blanquisti-babeuvisti a partire dall'opera di Bakunin, una simile impresa si rivela impossibile se tesa alla dimostrazione del "comunismo di Stato  ipoteticamente esaltato da Marx.

La storia di Marx s'inscrive, da un capo all'altro, in un processo di militanza contro l'autorità. Lo Stato e la Chiesa di Prussia furono il principale ostacolo che il "dottore in filosofia" si trovò di fronte, ormai giunto alle soglie della professione di insegnante universitario: fu il primo insuccesso ma anche il primo stimolo a combattere contro l'autorità politica. Da allora la vita di Marx si confonde con una lotta politica condotta in tutti i luoghi d'esilio così come nel paese natale, dove egli poté tornare nel 1848, non come cittadino tedesco, ma come apolide. Ad eccezione dell'Inghilterra, luogo di relativa libertà, i paesi dove Marx ha soggiornato hanno sempre messo la polizia alle sue calcagna. Godendo del diritto di libera espressione in Gran Bretagna, egli non si astenne mai dal praticare un giornalismo schiettamente anti-autoritario ed a cercare contatti nell'ambiente del cartismo, allora senza grandi prospettive politiche. A Colonia, a Parigi, a Bruxelles ed a Londra, egli militò secondo le sue convinzioni socio-politiche, non come un avventuriero che fomentava cospirazioni di nessun effetto contro l'ordine stabilito, ma a viso scoperto, là dove le libertà borghesi erano assicurate, e nella clandestinità, quando la borghesia doveva ancora fronteggiare le vestigia dell'assolutismo feudale. In breve, la sua lotta era sempre diretta contro i regimi reazionari e, dunque, autoritari.

Un insieme di principi non merita di chiamarsi "teoria", se non sviluppa tesi empiricamente verificabili determinandone le norme di realizzazione in modo razionalmente formulabile. La teoria marxiana dell'anarchismo riunisce queste due caratteristiche: essa, da una parte, analizza i fenomeni storico-sociali nel loro sviluppo, col suffragio di testimonianze verificate e verificabili, dall'altra parte, formula pronostici relativamente credibili in funzione dei comportamenti umani e delle tendenze trasformatrici della realtà sociale. Analitica e normativa, questa teoria non può eguagliare l'esattezza delle scienze naturali, anche se l'epistemologia moderna rimette in questione i presupposti deterministici delle scienze cosiddette esatte, assicurando in qualche modo il trionfo postumo di quel principio del "rischio", chiave dell'atomismo epicureo (che fu il tema della tesi dello studente Marx, candidato al dottorato in filosofia). In opposizione alla maggioranza dei pensatori che si richiamano all'anarchismo od all'individualismo nichilista (Max Stirner!), scarsamente preoccupandosi, però dei mezzi pratici che possono condurre a norme di comunità liberate da quelle istituzioni di classe che favoriscono, invece, lo sfruttamento e la dominazione dell'uomo sull'uomo, Marx ha cercato di conoscere i modi di trasformazione rivoluzionaria delle società nel passato, per dedurre da queste esperienze storiche, insegnamenti generali. Quando egli affermava di aver assegnato alle sue ricerche l'obiettivo ambizioso di "rivelare la legge economica del movimento della società moderna", aveva già, dietro sé, quasi tre decenni di studi in molteplici campi del sapere. Non è dunque come specialista dell'economia politica che egli si poneva, nella pretesa di rivaleggiare con Adam Smith o David Ricardo ed i loro epigoni. L'originalità del suo metodo doveva esercitarsi nell'analisi dei rapporti umani che sottendono i cosiddetti fenomeni economici, tanto nella loro espressione teorica che nella loro manifestazione pratica. Separare il critico dell'economia politica dal teorico della politica rivoluzionaria, vuol dire precludersi la comprensione del senso profondo della sua opera, ma anche misconoscere l'influenza drammaticamente costrittiva delle condizioni "borghesi", più esattamente di quella "miseria borghese" che ha segnato tutta la sua carriera di paria intellettuale.

Abbiamo a disposizione molti indici per poter affermare che il Libro sullo Stato previsto nel piano dell'"Economia", definito da Marx nella Prefazione alla Critica dell'economia politica (1859), doveva esporre anche una "Teoria dell'Anarchismo". Quando, per commemorare il centenario della morte di Marx, un cronista si rammarica che l'economista abbia avuto la meglio sul teorico della politica, egli sembra proprio fondarsi su questo progetto che, però, a Marx non fu concesso di portare a compimento [10].

Ora, l'autore della "Critica" afferma di disporre di "materiali" destinati a cinque "rubriche" o "Libri"; parla anche di "monografie" suscettibili di modificarsi, con l'aiuto delle circostanze, in scritti elaborati conformemente allo schema delle due triadi da cui facilmente emerge il rapporto con il metodo dialettico di un Hegel precedentemente "raddrizzato" [11].

L'alone di leggenda che circonda l'opera di Marx ha finito per raggiungere un grado di mistificazione mai toccato, e bisogna necessariamente ammettere che "libertari" ed "anti-autoritari" hanno contribuiti per una parte non trascurabile a questo, facendosi anche complici, spesso involontari, degli ideologi liberali e democratici arruolati al servizio degli interessi del capitalismo vero contro quel socialismo, falso, che si cela sotto il vessillo del demone totalitario.

Per la verità, è proprio "il politico" che attraversa da un capo all'altro l'intera opera di Marx, rimasta frammentaria per ragioni evidenti. Per ciò che riguarda la "monografia" menzionata fra i materiali parzialmente redatti come testo provvisorio del "Libro", essa potrebbe essere ricostruita a partire da elementi sparsi ma numerosi in quasi tutti gli scritti, pubblicati e inediti, ormai accessibili, grazie alle edizioni e riedizioni di cui fu iniziatore Engels. Queste riedizioni si scaglionano, fin dalla sua comparsa, per più di otto decenni, all'inizio dei quali la questione posta da Kautsky a Marx nell'aprile del 1881 sembra infine ricevere una risposta definitiva grazie all'impresa editoriale più recente, la "Marx-Engels-Gesamtausgabe" [12].

 

[SEGUE]

 

[Traduzione di Marco Melotti]

 

NOTE

[1] Vedi Louis Janover e Maximilien Rubel, Materiali per un lessico di Marx - Stato, Anarchismo. Studi di Marxologia, “Quaderni dell’I.S.M.E.A.”, n. 19-20, gennaio/febbraio 1978, pp. 11/161.

[2] M. Rubel, La carta della Prima Internazionale. Saggio sul "marxismo" nella Associazione Internazionale dei lavoratori, in Marx critico del marxismo, Cappelli, Bologna 1981, pp. 67/68. Il Rapporto del Consiglio Centrale dell’A.I.T., redatto da Marx per il Congresso di Ginevra (1866), contiene, sotto il punto “Lavoro dei giovani e dei fanciulli – dei due sessi”, un paragrafo in cui è detto fra l’altro: “la parte più illuminata della classe operaia comprende benissimo che il suo avvenire come classe, e conseguentemente il futuro dell’umanità dipende dalla formazione della generazione che cresce. Sa che soprattutto i bimbi e i giovani lavoratori devono essere tenuti lontani dagli effetti distruttori del sistema presente. E ciò può essere realizzato soltanto attraverso la trasformazione della ragione sociale in forza sociale: e, nelle circostanze presenti, non possiamo fare ciò se non mediante leggi generali, che vengono attuate tramite il potere dello Stato. Facendo introdurre tali leggi, la classe operaia non accrescerà la forza del potere governativo. Come vi sono leggi per difendere i privilegi della proprietà, perché non ne dovrebbero esistere per impedirne gli abusi? Al contrario tali leggi trasformerebbero il potere diretto contro di esse in loro proprio agente. La classe operaia allora, tramite una misura generale, farà quanto essa tenterebbe invano di compiere con un numero altissimo di sforzi individuali”. A.I.T. “Resoconto del Congresso di Ginevra”, pubblicato nel “Corriere internazionale”, Londra 1867; cfr. G. M. Bravo, La Prima Internazionale, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 176. Votando a grande maggioranza questo rapporto, i delegati, indubbiamente, non si sono accorti di aderire alla teoria del “comunismo di Stato”, costruito più tardi dall’ostinata propaganda di Bakunin e dei suoi amici.

[3] Cfr. K. Marx, La guerra civile in Francia, in K. Marx, Scritti sulla Comune di Parigi, a cura di Paolo Flores d’Arcais, La Nuova Sinistra / Samonà e Savelli, Roma 1971, p. 53.

[4] Ci asteniamo qui dal produrre un florilegio di asserzioni razziste e germanofobe che la figura di Marx ha ispirato a Bakunin. Si possono trovare, fedelmente riportate ma scarsamente commentate, negli Archivi Bakunin, Vol.I, Michail Bakunin e l'Italia 1871-1872, 2a parte: “La prima Internazionale in Italia e il conflitto con Marx”, Leiden 1963. La prevenzione “antiautoritaria” dell’editore, A. Lehning, non favorisce un giudizio equilibrato e chiarificatore sul fondamento teorico d’un conflitto il cui studio dovrà essere ripreso fin dall’inizio, stante la confusione degli epigoni di entrambi i campi, “marxista” e “antimarxista”.

5) M. Bakunin, Rapporti personali con Marx. Documenti probanti n. 2, op. cit., pp. 124 e segg. “Ciò può sembrare strano. … Ah! E’ che il comunismo di Marx vuole la potente centralizzazione dello Stato, e là dove c’e centralizzazione dello Stato deve esserci necessariamente una Banca centrale dello Stato, e là dove esiste una simile Banca, la natura parassita degli Ebrei, speculando sul lavoro del popolo, troverà sempre modo di esistere” (ibid. p. 125).

6) Vedi la Lettera agli internazionalisti della Romagna, del 23-1-1972, Archivi Bakunin, Vol.I, 1963, op. cit. pp. 207/228. Bakunin qui fa il suo mea culpa per aver contribuito ad allargare i poteri del Consiglio generale dell’A.I.T. durante il Congresso di Basilea (1869) e aver rafforzato in tal modo l’autorità della “setta marxista”.

7) Michail Bakunin, Lettera ad Albert Richard, 1° aprile 1870, Archivi Bakunin, op. cit., p.XXXVI e segg. A. Lehning riassume, nella sua introduzione, le attività di Bakunin che tendono a “dare alle masse una direzione veramente rivoluzionaria”, moltiplicando le organizzazioni segrete.

8) M. Bakunin, Lettera a Celso Ceretti, del 13-27 marzo 1872, Archivi Bakunin, op.cit., pp.251 e segg.

9) M. Bakunin, Lettera agli internazionalisti della Romagna, cit., p. 220. Prima di usare l’espressione “marxista” per designare gli amici di Marx, Bakunin parlava di “marxiani” e di “nucleo marxiano”.

10) Cfr. Jacques Jullard, Marx morto e vivo, in “Le nouvel Observateur”, 25-31 marzo 1983, p. 60: Marx avrebbe “trascurato la teoria politica” a vantaggio di una “teoria dello sfruttamento economico [ … ] per nostra sfortuna”.

11) K. Marx, Opere, Pléiade-Gallimard, Tomo I.

[12] Questa edizione è dovuta all'iniziativa congiunta degli Istituti del Marxismo-leninismo di Mosca e di Berlino.

Condividi post
Repost0
31 gennaio 2016 7 31 /01 /gennaio /2016 06:00

Il socialismo realmente inesistente

I paesi in cui, in pieno XX secolo la classe operaia è chiamata a combattere per i diritti politici che durante il XIX secolo il movimento operaio ha conquistato lottando strenuamente sotto i regimi dominati dalla borghesia, il suo Stato e il suo capitale, questi paesi hanno ancora da varcare la tappa della rivoluzione democratica, condizione sine qua non dello sviluppo di questo movimento verso la rivoluzione socialista sinonimo di abolizione del salariato e dello Stato. Questa è la premessa della dottrina che i padroni del potere politico e poliziesco nei paesi che essi hanno proclamato pretendono "applicare" richiamandosi al "socialismo scientifico".

L'azione "riformista" dei lavoratori polacchi, in lotta per i diritti che la classe operaia ha ottenuto durante il XIX secolo dai poteri borghesi, costituisce la confutazione più eclatante delle pretese "scientifiche" dei dirigenti politici dell'Est e degli ideologi al loro servizio. Essa è a immagine delle battaglie operaie del secolo scorso: operai "cartisti" in Inghilterra, operai francesi - associati ai "borghesi" - durante le Tre Gloriose, rivoluzione di febbraio 1848, movimento "riformista" degli operai tedeschi prima e dopo il regime bismarkiano. Potremmo aggiungervi il movimento operaio e contadino nella Russia zarista a partire dalle riforme agrarie, movimento di cui menscevichi e bolscevichi uniti proclamavano, in quanto fedeli discepoli di Marx, che essi costituivano una tappa democratica borghese e dunque capitalista sulla strada rivoluzionaria che portava alla fine della "preistoria umana".

Gli operai polacchi smascheravano così la demagogia e la volontà di potenza del potere. La loro azione prova che questo potere non è socialista, ma reazionario, e che la sua essenza, per parlare come Marx, è propriamente bonapartista.

L'azione operaia in Polonia e l'appoggio che essa ha ricevuto dall'insieme della popolazione, provano che l'ideologia religiosa, dispensata dalla Chiesa cattolica è meglio accolta e sostenuta dall'ideologia marxista-leninista; essa è "il sospiro della creatura oppressa, l'anima di un mondo senza cuore" (Marx), mondo diretto da un'oligarchia che si è appropriata dei poteri signorili, politici e economici. Questo regime spinge l'impostura sino a coprire con l'etichetta "socialista-scientifica" una merce avariata, di cui tutti gli ingredienti sono ripresi al modo di produzione classicamente capitalista, senza i vantaggi democratici conquistati dalle classi lavoratrici nella maggior parte dei paesi in cui regna il capitale, privato o anonimo, nazionale o multinazionale.

Questa nuova variante del "socialismo imperiale" possiede delle caratteristiche certamente originali (spiegabili con le condizioni storiche create nell'emisfero orientale dopo la seconda guerra mondiale), ma può soprattutto vantarsi di particolarità che ha saputo prendere in prestito al capitalismo occidentale nelle sue forme sia primitive sia evolute.

Realmente inesistente, il socialismo sovietico - modello imposto militarmente e poliziescamente ai paesi della zona d'influenza ottenuta nel 1945 - ha assunto la maschera di un regime che so vanta di aver superato lo stadio borghese capitalista dell'evoluzione sociale, mentre non ha nemmeno raggiunto questo stadio, il quale conformemente agli insegnamenti della teoria "classica", deve essere il prodromo di una rivoluzione chiamata a far sparire le classi sociali, dunque il salariato; il denaro, dunque il capitale; il potere politico, dunque lo Stato, dunque i conflitti tra Stati, dunque gli eserciti, la guerra, e le miserie che la specie umana sembra orgogliosa a infliggersi da sé.

 

Maximilien Rubel

[Traduzione di Ario Libert]

Condividi post
Repost0
30 settembre 2015 3 30 /09 /settembre /2015 05:00

Il fascismo tedesco all’attacco

Helmut Wagner

I

La creazione della “Grande Germania” costituisce il punto decisivo del programma del fascismo tedesco e l’obbiettivo che esso persegue con più tenace fanatismo. Il graduale logoramento del Trattato di Versailles, la surrettizia “coordinazione” di Danzica, la conquista delle regioni tedesche dei Sudeti attraverso il partito di Henlei in Cecoslovacchia, e la lenta penetrazione nell’Austria, parallela al riarmo interno della Germania stessa, sono altrettante tappe della preparazione tedesca alla prima azione aperta. L'Anschluss con l’Austria fu programmato proprio in questo modo, anche se il momento dell’intervento decisivo fu determinato dagli eventi stessi: da un lato, la necessità di Hitler di contrapporre un decisivo successo esterno alla sconfitta interna subita in occasione del processo di Niemohller e alla parziale ribellione dei generali; e dall'altro la vittoria della politica esterna di Chamberlain in Inghilterra e la crisi governativa in Francia. Hitler riuscì a conseguire questo successo senza correre rischi di sorta; il che dimostra una volta di più la superiorità dell’aggressiva politica estera fascista - per la quale la preparazione bellica diventa il principale strumento di diplomazia imperialistica - nei confronti del tradizionale gioco politico portato avanti dalle potenze aderenti alla Società delle Nazioni.

Hitler ha abbandonato da tempo il tentativo di realizzare le sue vaghe idee socialiste, ma sarebbe del tutto inadeguato caratterizzarlo come mero “strumento” del grande capitale tedesco. Il fascismo tedesco va visto come un processo economico e politico che crea condizioni di esistenza qualitativamente nuove per il capitalismo monopolistico, il quale, dopo aver sfiorato il crollo nella crisi del 1929-1933, ha infine ceduto gran parte delle sue funzioni sociali e politiche all'apparato statale fascista, affidandogli il compito di abbattere quelle barriere della proprietà privata divenute ormai un ostacolo al suo ulteriore sviluppo. Questa trasformazione dell’ordine sociale in Germania dimostra ancora una volta che non esiste una situazione dalla quale il capitalismo non possa trovare una via d’uscita, e che il sistema capitalistico non “crollerà” automaticamente se gli operai, come accadde in Germania dal 1918, mancano di riconoscere la loro decisiva funzione sociale. L’imperialismo non è “la fase suprema” del capitalismo: questo è, invece, sempre in grado di imporre la sua persistenza con forme sempre più efficaci e violente. La teoria secondo la quale il socialismo è un risultato emanato dal processo di concentrazione capitalistico viene spesso fraintesa in senso meccanicistico, ma in realtà essa significa, dal punto di vista economico, che il capitale monopolistico richiede ad un certo punto del suo sviluppo l’abolizione delle barriere fra i gruppi monopolistici privati in concorrenza fra di loro e la creazione di una forma meno ristretta di organizzazione e di controllo. Con ciò non viene detto niente circa i contenuti sociali del progresso organizzativo richiesto dal capitale monopolistico. Se gli operai non completano questo processo in senso socialista, esso verrà completato dai fascisti in senso capitalista con l’aiuto dell’apparato statale totalitario che, lentamente e contraddittoriamente, si trasforma da capitalista complessivo meramente “ideale” in un capitalista complessivo in carne ed ossa, quale Marx, ai tempi della democrazia liberale, non poteva neanche sognare.

In questo senso il capitalismo di stato dell’Unione sovietica costituisce il principale modello economico ed “ideale” del fascismo tedesco. Una delle principali debolezze dell’opposizione antifascista tedesca ed internazionale è proprio la sua mancanza di una adeguata concezione di questo processo sociale di transizione. Pure, lo studio attento di questo evento e la conoscenza della concreta struttura del fascismo è mille volte più importante del moralistico “smascheramento” dei suoi oltraggi. Agli inizi del 1933, la classe dirigente tedesca, ormai sull'orlo della bancarotta economica e sociale, consegnò il potere statale al Partito nazionalsocialista; ma né il partito di Hitler né la borghesia tedesca erano allora coscienti delle conseguenze che un passo del genere avrebbe avuto. Hitler non poteva mantenersi al potere se non abolendo gradualmente gli ostacoli politici che, da un lato, bloccavano la sua politica di creare lavoro a spese del reddito medio e, dall'altro, frenavano il suo programma di riarmo forzato a spese dei vari interessi capitalistici privati. Egli perseguì, quindi, la classica politica di “un colpo al cerchio e un colpo alla botte”, liberando da una parte gli industriali tedeschi dalla pressione delle lotte operaie per sottometterli però, dall'altra, alla sua politica statale e militare. Un gruppo capitalistico dopo l’altro perdette così il potere di disposizione sul suo capitale e sui suoi prodotti, nel quadro del programma hitleriano di militarizzazione dell’industria tedesca che, nonostante le resistenze e le lacune ancora persistenti, sta per essere gradualmente portato a termine.

In questo nuovo assetto socio-economico la massimizzazione dei profitti costituisce ancora la base del sistema, ma gli imprenditori hanno perduto il potere di comando che il profitto aveva loro fin ad ora assicurato. Le funzioni classiche del capitale sono ora sotto il controllo dello stato, che ha asservito le forze produttive alla sua politica di preparazione nazionale totalitaria alla guerra. Questo processo è ben lontano dall'essere concluso o scevro di contraddizioni; il solo fatto che lo sviluppo continui a procedere sulla base del mantenimento, anche se in forme diverse, dell’appropriazione privata del profitto, dà origine a momenti di pericolosa tensione. Se, nonostante tutto, esso va avanti, ciò è dovuto, oltre che alla forza dell’apparato statale, soprattutto al fatto che la politica economica del governo favorisce direttamente e in maniera decisiva le grandi imprese edili e i tre grandi gruppi industriali: industria estrattiva, industria pesante ed industria chimica. La politica hitleriana del riarmo va anche incontro agli interessi immediati dei grandi monopoli che, già burocratizzati e spersonalizzati, non hanno da opporre grandi resistenze alla sostituzione dell’iniziativa privata con quella pubblica. Per queste industrie sono infatti assai più redditizie ordinazioni statali a lunga scadenza anche con un ristretto margine di profitto, che non guadagni più alti ma irregolari costantemente esposti alla minaccia di crisi capaci di mettere in pericolo i loro programmi di continuo ampliamento e rinnovamento degli impianti.

Così la politica economica fascista non è “agli ordini” del capitale monopolistico, nonostante quest’ultimo ne costituisca, in ultima istanza, l’asse portante. La posizione tenuta dallo stato fascista tedesco in relazione alla sua economia ne rafforza incommensurabilmente l’azione rispetto, ad esempio, alle possibilità che Roosevelt ha a disposizione, in quanto la centralizzazione di tutte le funzioni politiche nelle mani dell’apparato statale permette a quest’ultimo di sfruttare al massimo grado i mezzi e le riserve del paese. (Ciò spiega perché le catastrofi pronosticate da tanti osservatori che analizzano l’economia tedesca sulla base di parametri liberali non si siano verificate). Si può quindi a buon diritto affermare che il capitalismo di stato fascista è riuscito, almeno per il momento, ad allontanare considerevolmente il pericolo del crollo economico. Certo, l’economia totalitaria tedesca non si trova affatto in una posizione ideale. Che la produzione di surrogati non possa neanche lontanamente rimediare alla mancanza di certe materie prime indispensabili dal punto di vista bellico, e che sotto la cappa di piombo della dittatura siano ancora intatti spaventosi antagonismi tra le diverse forze sociali e gli stessi gruppi capitalistici, ben lontani dall'essere uniti, tutto ciò non è altro che l'altra faccia del processo più sopra descritto; e saranno probabilmente queste contraddizioni a fornire gli stimoli che porteranno infine, in una situazione di particolare tensione, all'esplosione del sistema nazionalsocialista. Ma attualmente il fascismo tedesco ha posto sotto controllo questi nodi conflittuali a tal punto da poter sfruttare, proprio come fa il sistema economico sovietico, soltanto i lati positivi della concentrazione economica e sociale. Il Putsch in Austria è stata una mossa importante non solo ai fini della stabilizzazione interna del sistema nazional-socialista, ma anche nel quadro della lotta dell’industria tedesca per la conquista dell’autonomia nel campo delle materie prime (viveri, legname, minerali estrattivi). È vero che non è stata chiesta l’approvazione della borghesia tedesca prima di compiere questo passo; ma la “Grande Germania”, preparata accuratamente sia dal punto di vista economico che politico ed oggi realizzata, spiana la strada all'espansione imperialistica del capitale tedesco verso il sud-est dell’Europa, e serve quindi a puntino gli interessi proprio della classe borghese. Se Hitler non si spinge troppo oltre come ha fatto Mussolini in Abissinia, se, cioè, valuta appena correttamente la situazione politica estera, in modo particolare la politica estera britannica, il “colpo” austriaco non spezzerà, bensì rafforzerà la catena dei suoi successi.

II

Il fascismo tedesco non fu creato nel 1933; le sue radici affondano nel fallimento della “rivoluzione” tedesca del 1918-1919. Gli operai capirono troppo tardi, e solo a livello di avanguardia, che il loro compito storico era di dare inizio ad un processo di socializzazione per distruggere le basi economiche della reazione industriale ed agraria. La codardia e l’ignoranza delle forze socialdemocratiche allora al potere impedirono l’adozione di quelle misure che avrebbero almeno permesso l’instaurazione di una vera democrazia parlamentare in Germania. (L’annientamento dei latifondi feudali avrebbe distrutto una delle colonne portanti del fascismo; l’abolizione degli Sande, accompagnata da una radicale riforma amministrativa avrebbe segnato la condanna a morte del particolarismo reazionario e del sabotaggio degli alti ufficiali; la creazione di una milizia popolare avrebbe sconfitto la reazione dei “corpi volontari” che, dopo aver combattuto come interventisti contro la Russia, continuarono a mettere le loro forze a disposizione di tutte le iniziative di repressione anti-operaia a livello nazionale). Hitler rafforzò notevolmente la sua posizione in Germania proprio emanando una serie di provvedimenti che sarebbe stato compito della repubblica approvare. Con l'Anschluss austriaco egli ha, ad esempio, realizzato l’idea della “Grande Germania” cara non solo ai democratici, ma anche ai socialisti tedeschi sin da prima della rivoluzione del 1848. Mentre Marx ed Engels, Bebel e Lassalle ponevano questa realizzazione fra i compiti della futura rivoluzione tedesca, Bismarck vi aveva rinunciato, accondiscendendo alla “Piccola Germania”, corrispondente agli interessi del re di Prussia. Sulla linea di Bismarck si posero anche i dirigenti della giovane repubblica tedesca, oltre che per indecisione ed ignoranza, anche per il fatto che per loro il problema prioritario era la sconfitta dell’offensiva operaia nell'interesse della borghesia tedesca e della reazione feudale. Ma un campo in cui la socialdemocrazia tedesca, che, nei primi mesi, aveva in mano i destini della repubblica tedesca, dimostrò in modo particolare la sua assenza di programma fu proprio quello della politica estera. Pure l'Anschluss, ratificato dall'85% della popolazione della smembrata Austria sotto la guida più radicale_ dei socialisti austriaci, sarebbe stato possibile anche senza il ricorso a mezzi rivoluzionari, con un minimo di coraggio democratico, attraverso un appello basato sulla “auto-determinazione dei popoli” tratto dai programmi di guerra e di pace dell’Intesa, e ciò molto prima che venissero imposti a Germania ed Austria i trattati di Versailles e di St. Germain. Di più, un governo tedesco forte di un risoluto programma interno e dell’appoggio di larghe masse chiamate a partecipare direttamente alla sua attuazione avrebbe sicuramente avuto molte più probabilità di sconfiggere la reazione dei generali francesi ebbri di vittoria, così come i freddi calcoli ed intrighi della diplomazia britannica. Un tale atteggiamento avrebbe consentito persino di respingere l’invasione che - quando furono occupati il Reno e la Ruhr - i tedeschi dovettero subire senza poter opporre resistenza e a tutto vantaggio della reazione. La storia delle rivoluzioni europee dal 1789 fino al 1917-1919 e, in negativo, l’attuale Guerra civile spagnola dimostrano che una politica interna nettamente rivoluzionaria è l’unica base sulla quale possa essere portata avanti una politica estera nettamente rivoluzionaria. Ci permettiamo qui di ricordare ai nostri lettori che non furono John L. Garvin e Lord Lothian i primi a chiedere una “Mitteleuropa tedesca” (“Observer”, 3/14, 5/16, 1937), bensì i memorandum_ dello stato maggiore inglese sulle condizioni di pace nel 1916, e in modo particolare quello di Sir William Robertson, in data 31 agosto, nel quale egli lodava il memorandum di Lloyd George degno, secondo la sua opinione, dell’intuizione “di un grande statista”, nella misura in cui riconosceva la necessità di conservare una forte Germania nell'Europa centrale, auspicando nel quadro della politica dell’“equilibrio del potere” l’Anschluss di Austria e Germania. Ciò egli affermava, non avrebbe “in alcun modo costituito uno svantaggio” per l’Inghilterra. Così Hitler deve il suo massimo trionfo in politica estera - l’Anschluss - così come la sua vittoria interna, alla debolezza e alla codardia dei padri della repubblica tedesca. E probabilmente è qui che va ricercata la ragione del rinnovato consenso da lui riscosso con questa mossa, dopo anni di malumore e di insoddisfazione fra tutti gli strati della popolazione, presso larghe masse del popolo tedesco.

III

L’Austria post-bellica era, come la Saar nel 1935, matura per l’Anschluss. Dopo la disintegrazione dell’Impero alla fine della Grande guerra, da questo grande corpo smembrato - originariamente composto da sette nazioni, con una popolazione di 56 milioni di anime - erano sorti, sulla base del principio alleato della cosiddetta autodeterminazione dei popoli, tanti staterelli nazionali, uno dei quali - una piccola regione montagnosa attorno a Vienna - venne ora chiamato Austria. Vienna, l’antica capitale di vasti domini, un tempo anello di congiunzione dei traffici tra l’Europa occidentale e quella sud-orientale, ed anche di per sé un importante centro industriale, perdette da un giorno all'altro le sue basi politiche ed economiche. Caduta la domanda del famoso legno austriaco, anche tutta la grande regione industriale a sud di Vienna, un tempo fiorente per l’industria di estrazione del ferro, divenne un’area depressa. L’Austria, il prodotto più infelice degli artefici della pace di Versailles, divenne così, a partire del 1919, una nazione condannata all'eterna miseria, tenuta artificiosamente in vita dalla reciproca pressione delle grandi potenze. Incapace di avere un’esistenza economica e politica autonoma, essa fu posta agli inizi sotto la “protezione” francese, ma quando la Francia, tributaria degli interessi inglesi, cominciò a perdere la sua influenza sulla Piccola Intesa e sulla zona danubiana, l’Austria tedesca divenne praticamente un protettorato dell’Italia che cercava di controbilanciare l’aggressiva avanzata tedesca, finché non fu escogitata la politica dell’Asse. Il prezzo che la reazione clericale austriaca dovette pagare per questa “protezione” fu l’abolizione della democrazia parlamentare, la violenta repressione del movimento operaio e la formazione di un cosiddetto “stato corporativo” sorretto esclusivamente dal clero cattolico, lo stato maggiore della Heimwehr (vassallo dell’Italia) e la borghesia ebraica. Il regime di Dollfuss-Schuschnigg, incapace sia di schiacciare completamente il movimento operaio illegale sia di fermare l’impetuosa avanzata del nazionalsocialismo, era stretto nella morsa di Germania ed Italia ed era destinato a crollare non appena si fosse allentata la pressione di una delle due parti. L’alleanza dell’Asse segnò il destino di Schuschnigg, con l’abbandono da parte dell’Italia di qualsiasi ambizione nei confronti dell’Austria. Col paese economicamente stremato dall’avventura abissina e dall'intervento in Spagna, Mussolini era costretto a venire a patti con l’Inghilterra; e solo l’alleanza col fascismo tedesco, pagata con l’abbandono dell’Austria, poteva ancora assicurargli la possibilità di trattare da una posizione di forza con la diplomazia inglese, che sarebbe ora diventata la principale beneficiaria della guerra spagnola del “duce” italiano. Ma anche così Mussolini fu indubbiamente colto di sorpresa dall’occupazione militare dell’Austria da parte della Germania, e adesso saprà come interpretare l’indirizzo di ringraziamento fattogli pervenire da Hitler nei termini seguenti: “Mussolini, non ti dimenticherò mai per questo”, né dimenticherà più; probabilmente, la dimostrazione di fiducia datagli da Hitler con l’invio di un forte distaccamento di truppe tedesche sul Brennero. Né potrà fare a meno di udire i portavoce ufficiali del partito nazionalsocialista nelle province alpine dichiarare apertamente e liberamente che l’Italia non “sarà in grado di rifiutare la restituzione alla Germania del Sud Tirolo quando si troverà ad aver di nuovo bisogno dell’aiuto tedesco per la sua politica estera. Esiste così nell’Asse una seria incrinatura, anche se è improbabile che si arrivi ad una rottura finché l’Italia non si riavrà, con l’aiuto inglese, dal suo attuale stato di debolezza. Ma nel frattempo la Germania potrà continuare, ancora per un certo numero di anni, a perseguire indisturbata i suoi obbiettivi di politica estera. La decisione della questione austriaca fu un affare esclusivamente italo-tedesco. Dietro pressione inglese, la Francia rinunciò alla risoluta difesa dei suoi interessi economico-imperialistici nella regione danubiana; e così, quando Schuschnigg chiese, di fronte alle minacce di Berchtesgaden, di tornare a Parigi, ottenne la platonica assicurazione che la lotta per l’indipendenza del suo paese godeva della “simpatia” incondizionata della Francia. I francesi temono il conflitto armato con la Germania fascista e credono di poter ottenere l’appoggio inglese solo allineandosi con la politica dell’Inghilterra, decisa a lasciare campo libero all’espansione tedesca verso il sud-est, come dimostra l’atteggiamento inglese nei confronti dei Sudeti, direttamente consegnati nelle mani di Hitler. I diplomatici francesi non sembrano capire neppure il semplice fatto che il Reno è la reale frontiera dell’Inghilterra, la quale, non potendo assolutamente tollerare un’avanzata tedesca verso il Mare del Nord, sarebbe in ogni caso costretta ad aiutare militarmente la Francia se gli eserciti tedeschi marciassero verso occidente. La Francia paga con pesanti sacrifici in politica estera ciò che potrebbe ottenere gratis dall’Inghilterra, come faceva giustamente notare alcune settimane or sono Robert Dell. In questo modo, l’imperialismo inglese si copre le spalle in Europa e può dedicare i suoi sforzi maggiori allo scacchiere politico per esso più importante, l’Estremo Oriente, dove l’invasione giapponese della Cina minaccia direttamente l’Impero. Mentre guadagna tempo per il programma di riarmo interno, l’Inghilterra contribuisce a creare nella Grande Germania un contrappeso decisivo nei confronti della Russia - la sua seconda grande rivale in Asia - e una minaccia per l’Italia e la Francia che costringe questi due paesi ad accettare i dettati inglesi, e tiene contemporaneamente lontana dalle proprie sfere di influenza, almeno per il momento, l’avanzata tedesca. Quanto tempo possa reggere questa complessa costruzione della politica di equilibrio di potere, può dirlo solo il futuro. In ogni caso, i metodi della politica estera nazista hanno dimostrato di possedere un insospettato potere “dinamico”, in quanto espressione della necessità di espansione di un capitalismo altamente organizzato sotto la direzione centralizzata di un potente stato militare per il quale l’avanzata imperialistica costituisce un’immediata necessità economica e sociale.

Il destino dell’Austria fu deciso da costellazioni di politica estera sulle quali essa non aveva alcuna influenza. Pure, l’Austria era matura per l’Anschluss non soltanto perché era stata abbandonata dalle grandi potenze, bensì anche in virtù del suo sviluppo politico interno. In questo stato, ormai incapace di esistere economicamente, crisi e pauperizzazione divennero un fenomeno talmente permanente che, come in Germania nell’inverno 1932-1933, quasi il 50% della popolazione aveva cominciato anche prima dell’Anschluss a guardare al nazionalsocialismo come all’unica via di salvezza: l’abolizione della disoccupazione ad opera della corsa agli armamenti, i salari ed il tenore di vita relativamente più elevati della Germania fascista facevano apparire altamente desiderabili le condizioni sociali del Terzo Reich agli occhi degli austriaci, proprio come accadeva anche ai tedeschi dei Sudeti. I piccoli contadini delle zone alpine, privati dei mezzi di sussistenza, divennero la base di massa interna del nazionalsocialismo che, grazie anche alla debolezza della dittatura clericalfascista, penetrò gradualmente all’interno dello Heimwehr, il corpo amministrativo, assicurandosi il controllo dell’esercito e della polizia.

L’Austria fu conquistata dall’interno non meno che dall’esterno. Al momento della caduta, Schuschnigg riconobbe che l’unica forza capace di evitare la sconfitta interna era il movimento operaio, e fece perciò un ultimo sforzo disperato, cercando di annullare il febbraio 1934 e di richiamare in vita i sindacati e la socialdemocrazia, affinché gettassero gli operai viennesi contro l’assalto fascista. Ma Hitler pose bruscamente fine a questo tentativo, e perfino gli ufficiali dell’esercito austriaco si rifiutarono di eseguire gli ordini del governo fallimentare di Schuschnigg. Ben più drammatica della dissoluzione del clerical-fascismo è, però, l’accettazione da parte dei sindacati, che conducevano le loro riformistiche battaglie in condizioni di semi-illegalità, e particolarmente da parte dei comunisti del Fronte popolare appoggiati dagli operai arretrati delle province e, benché in misura minore per la diversità della tradizione, da parte dei socialdemocratici, dell’appello di Schuschnigg alla lotta per “l’indipendenza dell’Austria” e le sue vaghe promesse di un futuro ripristino della democrazia nel paese. E, fatto ancora più grave, tutte queste forze erano pronte a farlo non mediante una propria azione autonoma, bensì all’interno del Fronte patriottico, a fianco della polizia e dell’esercito. La mancanza di scrupoli e di intelligenza politica illustrata dall’adesione a questo tipo di politica è un esempio significativo della estrema debolezza del movimento operaio europeo che, giunto ormai alla fine della sua parabola, è tuttora incapace di tirare le ultime conseguenze dai grandi trionfi del fascismo e dal crollo dei partiti e dei sindacati mitteleuropei, e tenta ora di salvarsi dietro le bandiere del nazionalismo. L’illegale movimento operaio austriaco era pronto a salvare il derical-fascismo dal fascismo tedesco. I comunisti ed i socialdemocratici italiani hanno lanciato un appello nel quale accusavano Mussolini di essere pronto a consegnare il suolo italiano a Hitler. I comunisti ed i socialdemocratici francesi chiedevano, e l’hanno adesso ottenuta, una unione nazionale coi gruppi più reazionari del capitale finanziario, i quali però, da parte loro, non avevano alcuna fretta di accettare questa “comunità del popolo”. I socialisti inglesi già pensano di appoggiare un governo diretto da quello stesso Eden che ha promosso la conquista dell’Abissinia, la sconfitta del Fronte popolare spagnolo, il riarmo del fascismo tedesco e la liquidazione della politica della “sicurezza collettiva”. I partiti operai dei piccoli paesi - di fronte a questi esempi e di fronte alla scomparsa degli ultimi bolscevichi russi noti a livello internazionale - non sanno far altro che assoggettarsi di buon grado alla politica della “unità nazionale”, della “pace sociale” e della “difesa della patria”. Il fatto che nell’attuale caos imperialistico europeo i piccoli stati vengano “traditi” dalle grandi potenze, che l’estinzione dello spirito rivoluzionario delle masse operaie e contadine spagnole richiesta dalla Russia non abbia portato nessun appoggio al governo del Fronte popolare da parte dei paesi imperialistici “democratici”, che non ci sia in Europa nessun’altra politica estera vincente se non quella fascista: tutto ciò non ha suscitato quasi nessuna reazione nella classe operaia; l’ha anzi spinta a stringersi ancor di più attorno alle bandiere delle varie borghesie nazionali e ad abbandonare perfino l’apparenza di autonomia che fino ad ora aveva conservato. Il movimento operaio europeo non ha ancora capito che solo una vera e militante Internazionale dei lavoratori può opporsi alle vittorie internazionali del fascismo e dei suoi sostenitori democratici. Per questo il fascismo determinerà, forse ancora per molti anni, il duro destino dell’Europa.

Condividi post
Repost0
30 settembre 2015 3 30 /09 /settembre /2015 05:00

Engels, editore di Il Capitale

 

Maximilien Rubel

 

Marx non ha lasciato un testamento scritto. Sembra che all'approssimarsi della sua fine, abbia dato a sua figlia minore delle istruzioni orali e designato Eleanor e Engels come "esecutori testamentari". Abbiamo già visto quale stimolante intellettuale Engels sapeva essere per il suo amico. Marx aveva potuto apprezzarlo anche come giudice letterario. E' Engels che, leggendo le prove del Libro I, aveva reclamato più esempi storici in appoggio dei risultati dialettici, criticato severamente la composizione del volume, le sue divisioni e suddivisioni, la mancanza di proporzioni dei cfapitolo, ecc. [1].

Marx aveva molte ragioni per rimettersi nelle sue mani. In tutto ciò che Engels ha detto a proposito delle carte inedite di Marx, non si può mancare di percepire delle impressioni mitigate. Dopo la pubblicazione del Libro I di Il Capitale, poteva pensare che i Libri successivi non avrebbero posto che dei problemi di forma. Alla vista della massa dei manoscritti, abbozzi, schizzi, di "due metri cubi" di statistiche americane e russe, grandi hanno dovuto essere la sua sorpresa e la sua delusione.

Zentralbibliothek Zürich Das Kapital Marx 1867.jpg

"Mi chiedi come sia stato possibile che mi abbia nascosto, proprio a me, a che punto fosse con il suo lavoro? E' molto semplice: se lo avessi saputo, non gli avrei lascisto un minuto di riposo; lo avrei sollecitato giorno e notte, finché l'opera non fosse del tutto compiuta e stampata" (Engels a Bebel, 30 agosto 1883).

Conosceva così male il suo amico? Pensava davvero che Marx avrebbe accettato di progredire sotto il suo pungolo? Scrivendo quelle righe, Engels ignorava ancora lo stato in cui Marx aveva lasciato i suoi lavori per i libri II e III. Se giudichiamo dalle sue lettere e le sue prefazioni, ha finito con l'arrendersi all'evidenza: gli appunti erano spesso informi.

Sin dall'inizio, il suo atteggiamento è ambiguo. Lo diventerà ancor più su un altro piano. Marx, che tardava a pubblicare il risultato dei suoi lavori, sapeva che Engels poteva incaricarsene, rimanendo fedele allo spirito di critica sociale che era loro comune [2]. Ora, Engels non ha osato sostituirsi al suo amico: se ne diceva incapace. Ha voluto fare in modo che Marx rimanesse "l'autore esclusivo" dei suoi scritti postumi, limitandosi a renderli presentabili, migliorandone lo stile soltanto se sentiva che Marx avrebbe fatto altrettanto. Non ha prodotto dei materiali per un'opera da costruire: non ha costruito l'opera a partire da questi materiali: le ha dato una facciata. Questa formula media ha dei meriti insigni e ci mostra degli scrupoli notevoli, un'estrema prudenza, una preoccupaziome di distinguere nettamente ciò che appartiene all'autore e ciò che proviene dal suo editore. Ha pure il suo inconveniente, perché fa passare come "Libri" compiuti ciò che non è stato altro  che un abbozzo, a volte disperati tantonamenti. Tre volumi, quattro "Libri", un "tutto artistico": l'augurio di Marx, che sognava di dare almeno i "Principi" della sua "Economia", non è stato compiuto, malgrado gli sforzi e la pietà del suo amico. Si può pensare che Engels ne abbia avuto coscienza. Sin dall'inizi ha constatato che il Libro II era costituito di abbozzi, di cui alcuni offrivano molte varianti. Ricopiarli, renderli leggibili, è stata una dura prova per i suoi occhi [3].

Non gli sono occorsi che due anni per pubblicare il Libro II. "Il secondo volume [si tratta probabilmente del secondo Libro] di Il Capitale mi darà molto da fare. La maggior parte del manoscritto data da prima del 1868 [ciò vale per il terzo Libro, perché il manoscritto del secondo data agli anni 1875-1878] e non è altro che un abbozzo. Il secondo Libro deluderà molti socialisti volgari; esso contiene quasi esclusivamente delle ricerche molto sottili e rigorosamente scientifiche su dei fatti che accadono all'interno della classe dei capitalisti stessi; dunque, nulla da cui si possa trarre delle formule fragorose e degli slogan" [4]. "Il secondo Libro è puramente scientifico e non tratta che di questioni da borghesi a borghesi; ma il terzo avrà dei passaggi che mi fanno dubitare della possibilità stessa di pubblicare in Germania sotto le leggi eccezionali" [5].

Vi è delusione in queste righe; esse possono essere anche un modo per consolarsi. Engels ha la sollecitudine di dire al lettore "che si tratta di un'opera di Marx" quella che egli pubblica; e che egli lo fa perché è il solo a poter "decifrare questa scrittura e quelle abbreviazioni" [5]. Dettando il manoscritto del Libro III, egli nota delle "forti lacune" nella seconda sezione; "la redazione, naturalmente, non è che provvisoria; ma sa dove va, e "questo basta" [6]. Ci tiene ad effettuare il suo punto di vista  e non detta che il giorno [7]. Il terzo Libro sarà meno deludente, pensò; apporterà dei "risultati decisivi", "rovescerà tutta l'economia e susciterà un enorme scalpore" [8].

Esso "produrrà l'effetto della folgore, perché tutta la produzione capitalista vi è analizzata nel suo concatenamento e tutta l'economia borghese ufficiale viene abbattuta". Giunta alla metà di questo Libro III, deve constatare tuttavia che "i capitoli più importanti si presentano in un disordine abbastanza grande - per quanto concerne la forma" [9].

Precauzione retorica, convinzione autentica? Resta il fatto che lo stabilimento del testo gli richiederà non "quattro mesi" come credeva, ma nove anni, e tanto più aridi in quanto un silenzio totale, sia della "scienza tedesca" sia degli ambienti socialisti, avrà accolto il Libro II. Il Libro III, egli spera, "forzerà" gli economisti tedeschi a parlare (lettera a Danielson, 13 novembre 1885). In verità, egli sa a presente che delle parti importanti del "abbozzo" del Libro III non sono che materiale grezzo, prodotto dalla "ricerca empirica" e non dall'eposizione astratta": queste due procedure, ci si ricordi, si distinguono formalmente, ma sono complementari nel metodo di Marx [10]. Così, si attendeva nella sezione V, il tema centrale del Libro III, il problema del capitale finanziario, dell'interesse e del credito. Engels non vi trova che un accenno nemmeno uno schema: semplicemente, un cumulo di note e di estratti [11].

Questo lavoro di Marx, terrà tuttavia a presentarlo come "un'opera di Marx". A un critico serio che glielo rimprovera, dà una risposta molto significativa. Si tratta di un processo di perequazione dei tassi di profitto differenti che sfocia oggettivamente (ma all'insaputa dei "protagonisti storici") ai tassi generali e medi del profitto: "Come si è realizzato questo processo di uniformazione? E' un punto molto interessante, però Marx non ha detto a proposito granché. Tutta il modo di concepire, presso Marx, non è una dottrina, è un metodo. Esso non offre dogmi già pronti, ma dei punti di riferimenti per un'ulteriore ricerca, e il metodo di questa ricerca. A questo proposito, vi sarebbe un lavoro da tentare, che Marx non ha fatto in questo primo abbozzo. [...] Infine, vi devo ringraziare per la buona opinione che avete di me, pensando che avrei potuto fare del Libro III un'opera migliore di quanto esso non sia. Non potrei condividere quest'opinione, e credo aver fatto il mio dovere lasciando Marx esprimersi nel suo proprio linguaggio , a rischio di esigere dal lettore un maggior sforzo di riflessione personale" [12].

Questa invocazione ostinata di un dovere di fedeltà letterale non è del tutto priva di contraddizioni. Un tale rispetto dei lavori preparatori non avrebbe dovuto condurre Engels a prendere in considerazione i manoscritti anteriori al 1861, come gli scritti del 1844-45, o i Grundrisse del 1857-58? Per l'originalità dello stile e del contenuto, questi lavori sono spesso superiori agli inediti del periodo successivo. Il suo atteggiamento dà luogo a un'altra domanda: perché non ha mai dato il minimo chiarimento sul piano della "Economia", lui che ne aveva seguito la minima messa a punto? Ignoriamo anche questo. Ma un'osservazione si impone: Engels ha preferito rieditare delle opere di Marx piuttosto che dedicare tutto il suo tempo e i suoi sforzi ai solo abbozzi e manoscritti di Il Capitale. Se non ha parlato del piano della "Economia", ha mostrato che a suo parere tutto era coerente nell'opera di Marx e che degli scritti precedenti offrivano già, su molti punti, la materia che si poteva ricercare nell'inedito.

E' così che si dedica a far leggere Lavoro salariato e capitale, le Lotte di classe in Francia, le Rivelazioni sul processo dei comunisti di ColognaLa guerra civile in Francia, la Critica del programma di Gotha: revisiona due riedizioni tedesche e la traduzione inglese del primo Libro di Il Capitale, compito che egli valuta anche meno importante della messa a punto degli altri Libri. A ben vedere, il suo lavoro di primo editore postumo è ammirevole. Il miglior omaggio che si possa dargli, è di poter seguire, per quanto ci è possibile, il suo cammino, di lavorare come lui sull'originale e sul materiale informe. E' anche riconoscere che una parte della "Economia" non è il tutto; che, anche portata a termine non sarebbe stato un sistema; che non abbiamo sotto gli occhi una bibbia marxista dal canone fissato per sempre. Equivarrebbe a sostituire l'indagine ai racconti. La cospirazione del silenzio ha lasciato il posto a una cospirazione brontolante: spezziamola e profaniamo il rosario, soprattutto durante le messe dei centocinquantesimo anniversario. Questi Libri, per grandi che siano, si elevano su dei frammenti dal tracciato completo... (…).

 

[Tratto dall'Introduzione al tomo II delle Opere di Karl Marx].

 
Note
 
[1] Marx a Engels, 27 giugno 1867.
[2] E' da Eleanor che Engels riceveva quest'ultimo messaggio dal suo amico (lettera a Bebel).
[3] Prima della sua morte, inizierà Bernstein e Kautsky a decifrare dei "geroglifici", per la pubblicazione delle Teorie sul plusvalore.
[4] A Kautsky, 18 settembre 1883.
[5] A Lavrov, 5 febbraio 1884.
[6] A Kautsky, 26 giugno 1884.
[7] A Kautsky, 23 maggio 1884.
[8] A Becker, 2 aprile 1885. Vedere anche la Prefazione del Libro II.
[9] Engels a Sorge, 3 giugno 1885.
[10] Postfazione di Il CapitaleOeuvres, t. I, p. 558.
[11] "Molte cose nuove e ancor più cose da terminare" (Engels a Schmidt, 1° luglio 1891).
[12] Colui che Engels ringrazia in questa lettera degna di nota, Werner Sombart, autore di un articolo sul Libro III, pubblicato nel 1894. Vedere anche Engels, Complément et supplément au Livre III du "Capital"Werke, vol. XXV, p. 903 seguenti; evita di rispondere alle critiche sollevate contro il suo lavoro di editore.
Condividi post
Repost0
31 marzo 2015 2 31 /03 /marzo /2015 05:00

La Rivoluzione degiacobinizzataLes_Temps_modernes_aprile_1957.jpg

 

Daniel Guérin

 

La tradizione "giacobina"

È, non dimentichiamolo, nella Rivoluzione francese, nell'esperienza del 1793-94, che Proudhon aveva attinto la sua folgorante diatriba contro la restaurazione dello Stato. E Bakunin, suo discepolo, sottolinea che il loro pensiero essendosi "nutrito di una certa teoria" che "non è altro che il sistema politico dei Giacobini modificato più o meno ad uso dei socialisti rivoluzionari", "gli operai socialisti della Francia" ("non hanno mai voluto... capire" che "quando, in nome della Rivolzione, si vuole fare dello Stato, non fosse che dello Stato provvisorio, si fa... della reazione e si lavora per il dispotismo" [56]. Il disaccordo tra marxisti e libertari deriva, in una certa misura, dal fatto che i primi non naffrontano sempre la Rivoluzione francese sotto lo stesso angolo dei secondi. Deutscher ha percepito che esiste nel bolscevismo  un conflitto tra due spiriti, lo spirito marxista e lo spirito "giacobino", un conflitto che non sarà mai completamente risolto, né da Lenin, né dallo stesso Trotsky [57]. Nel bolscevismo, ritroviamo infatti, come vedremo, delle sequenze di giacobinismo più accentuate che nel marxismo originale. Ma credo che il marxismo stesso non ha mai del tutto superato una contradizione analoga. Vi è in esso un lato di spirito libertario e una lato di spirito "giacobino" o autoritario.

Questa dualità trae, a mio avviso, la sua origine, per un'ampia parte, in un apprezzamento a volte giusto, ma a volte anche erroneo, del vero contenuto della Rivoluzione francese. I marxisti vedono bene che quest'ultima ha tradito le aspirazioni popolari per il fatto stesso che essa è stata, oggettivamente e nei suoi risultati immediati, una rivoluzione borghese. Ma, allo stesso tempo, accade loro di essere obnubilati da un'applicazione abusiva della concezione materialista della storia, che la fa considerare loro a volte soltanto sotto l'angolo e nei limiti della rivoluzione borghese. Essi hanno ragione, sicuramente, di sottolineare i tratti relativamente (tutt'altro che indiscutibili) progressivi della rivoluzione borghese, ma questi tratti (che per di più anche dei libertari come Bakunin e Kropotkin, se non Proudhon, hanno esaltato come loro), vi sono dei momenti in cui essi li presentano in modo troppo unilaterale, in cui li sopravvalutano, in cui li idealizzano.

Boris Nicolaïevski pone certamente in modo esagerato l'accento, perché è un menscevico, su questa tendenza del marxismo. Ma c'è qualcosa di vero nella sua analisi. E l'estremista di sinistra tedesca del 1848, Gottschalk, non aveva torto di non essere disposto davanti alla prospettiva marxista "di sfuggire all'inferno del Medioevo" per "precipitarsi volontariamente nel purgatorio" del capitalismo [58]. Ciò che Isaac Deutscher dice dei marxisti russi di prima del 1917 (perché, oh paradosso, vi era molto menscevismo presso questi "bolscevichi"!) è valido, io credo, in una certa misura, per i fondatori stessi del marxismo "perché vedevano nel capitalismo una tappa sul cammino che portava dal feudalesimo al socialismo, essi esageravano i vantaggi di questa tappa, i suoi caratteri progressivi, la sua influenza civilizzatrice..." [59].

Se si confrontano i numerosi passi degli scritti di Marx e Engels riguardanti la Rivoluzione francese (di cui ho dato, nel mio libro alcuni estratti) non si può non constatare che a volte si accorgono mentre altre volte invece perdono di vista il suo carattere di "rivoluzione permanente". La rivoluzione dal basso, essi la vedono certa, ma soltanto per eclissi. Come hanno la tendenza a fare, nel loro zelo, i discepoli di ogni maestro, ho avuto il torto, nel mio libro, di presentare le vedute di Marx e di Engels sulla Rivoluzione francese come una "sintesi" coerente, di "dogmatizzarli", mentre in realtà esse presentavano delle contraddizioni difficilmente conciliabili (e che non sono soltanto dialettiche", e cioè riflettenti delle contraddizioni che esistono nella natura). Per dare un solo esempio (perché sarebbe troppo lungo ricapitolarle qui) Marx non esita a presentare gli umili sostenitori di Jacques Roux e di Varlet nei sobborghi come i "principali rappresentanti" del movimento rivoluzionario [60], ma sfugge ad Engels di scrivere che al "proletariato" del 1793 "poteva, tutt'al più, essere portato un aiuto dall'alto" [61].

Si capisce già meglio ciò che si deve intendere con questo spirito "giacobino" di cui parla Deutscher. A prima vista, il termine è privo di senso, perché chi potrebbe dire ciò che era veramente il "giacobinismo" nel 1793? La lotta di classe (benché ancora embrionale) passava attraverso la Società dei Giacobini. I suoi capi erano dei borghesi di sinistra difidenti, in fondo, nei confronti delle masse popolari e il cu obiettivo più o meno cosciente era di non superare i limiti della rivoluzione borghese. I Giacobini popolari erano dei plebei che, più o meno coscientemente, volevano varcare questi limiti. Alla fine, le due tendenze antagoniste divennero, per il fatto stesso del loro conflitto aperto, molto più coscienti e i Giacobini che erano in alto spedirono al patibolo i Giacobini che erano in basso (aspettando di esservi spediti essi stessi sotto la mannaia da borghesi più reazionari). Con "spirito giacobino", credo che si debba intendere la tradizione della rivoluzione borghese, della "dittatura" dall'alto del 1793, un po' idealizzata e insufficientemente differenziata dalla dittatura dal basso. E per estensione, si deve intendere anche la tradizione del cospirativismo babuvista e blanchista, che riprende dalla rivoluzione borghese le sue tecniche dittatorialio e minoritarie per porle al servizio di una nuova rivoluzione.

Si capisce perché i libertari vedono nel socialismo (o comunismo) del XIX secolo una certa tendenza "giacobina", "autoritaria", "governativa", una propensione al "culto della disciplina dello Stato" ereditata da Robespierre e dai Giacobini, che essi definiscono un'"umore borghese", una "eredità politica del rivoluzionarismo borghese", a cui oppongono l'affermazione che "le Rivoluzioni sociali dei nostri giorni non hanno nulla o quasi nulla da imitare nelle procedure rivoluzionarie dei Giacobini del 1793" [62].

Marx e Engels cadono, certamente, molto meno in questo rimprovero rispetto alle altre correnti socialiste, autoritarie e statiste, del XIX secolo. Ma ebbero essi stessi molte difficoltà dal liberarsi dalla tradizione giacobina. È per questo, per fare un solo esempio, che essi sono stati lenti nel disfarsi del mito "giacobino" della "centralizzazione rigorosa offerta come modello dalla Francia del 1793". L'hanno infine respinta, sotto la pressione dei libertari, ma non senza aver barcollato, esitato, rettificato il loro tiro e, anche nel loro ravvedimento, effettuato ancora un falso percorso [63]. Questo esitazione doveva permettere a Lenin di dimenticare i passi anticentralizzatori dei loro scritti - soprattutto una messa a punto fatta da Engels nel 1885 e che ho citato nel mio libro [64] - per non rotenere che "i fatti citati da Engels e riguardanti la Repubblica francese, centralizzata, dal 1792 al 1799" e per battezzare Marx un "centralista" [65].

Sui bolscevichi russi, infatti, l'impresa "giacobina è ancora più accentuata che sui fondatori del marxismo. E, per un'ampia parte, questa deviazione prende la sua origine in un'interpretazione a volte inesatta e unilaterale della Rivoluzione francese. Lenin, certo, ha molto bene rilevato il suo aspetto di "rivoluzione permanente". Ha dimostrato che il movimento popolare (che egli chiama impropriamente "rivoluzione democratica borghese") è stata lungi dal raggiungere nel 1794 i suoi obiettivi e che non vi perverrà, nei fatti, soltanto nel 1871 [66]. Se la vittoria completa non è stata conseguita sin dalla fine del XVIII secolo, è perché le "basi materiali del socialismo" facevano ancora difetto [67]. Il regime borghese non è progressivo che in rapporto all'autocrazia che l'ha preceduto, che come forma ultima di dominio e "l'arena più comoda per la lotta del proletariato contro la borghesia" [68]. Solo il proletariato è capace di spingere la rivoluzione sino in fondo "perché va molto oltre alla rivoluzione democratica" [69].

Ma, d'altronde, Lenin ha a lungo respinto la concezione della rivoluzione permanente e sostenuto che il proletariato russo dovrebbe, dopo la conquista del potere, limitarsi volontariamente a un regime di democrazia borghese. È perché ha spesso tendenza a sopravvalutare l'eredità della Rivoluzione francese, affermando che resterà "forse per sempre il modello di certi metodi rivolzuionari" e che gli storici del proletariato, devono vedere nel giacobinismo "uno dei punti culminanti che la classe oppressa raggiunge nella lotta per la sua emancipazione," i "migliori esempi di rivoluzione democratica" [70]. È per questo che idealizza Danton [71] e non esita a proclamarsi egli stesso un "Giacobino" [72]

Gli atteggiamenti giacobini di Lenin gli attirarono, nel 1904, una viva replica del giovane Trotsky. Per quest'ultimo (che non si era ancora allineato al bolscevismo), il giacobinismo, "è il massimo grado di radicalismo che possa essere fornito dalla società borghese". I rivoluzionari moderni devono difendersi dal giacobinismo quanto dal riformismo. Giacobinismo e socialismo proletario sono "due mondi, due dottrine, due tattiche, due psicologie separate da un abisso". Se entrambi sono intransigenti, le loro intransigenze sono qualitativamente diverse. Il tentativo per introdurre i metodi giacobini nel movimento di classe del proletariato, nelle rivoluzioni proletarie del XX secolo, non è altro che opportunismo. Essa esprime, allo stesso titolo del riformismo, "una tendenza a legare il proletariato ad un'ideologia, una tattica e infine una psicologia estranea e nemica dei suoi interessi di classe". A cosa serve, chiedeva il giovane Trotsky, aggiungere alla parola "Giacobino", come faceva Lenin, il correttivo "legato indissolubilmente all'organizzazione del proletariato" se si conservava allo stesso tempo una psicologia giacobina di sfiducia verso le masse? Indubbiamente lo stadio del "giacobinismo" o "blanquismo" corrispondeva allo stato arretrato della Russia. Ma, continuava Trotsky, "Non c'è da essere fieri se, in conseguenza del nostro ritardo politico, siamo ancora al giacobinismo" [73]. Sono tuttavia i metodi rivoluzionari borghesi e giacobini [74] derivanti da questo "ritardo politico" della Russia e poggianti "su vecchie tradizioni, su abitudini superate" [75] che più tardi saranno imposte in blocco come un dogma al proletariato mondiale...

 

Verso una sintesi

In conclusione, la Rivoluzione francese è stata la fonte di due grandi correnti di pensiero socialista che, attraverso tutto il XIX secolo, si sono perpetuate sino ai nostri giorni, una corrente giacobina autoritaria e una corrente libertaria. La prima di "umore borghese", orienta dall'alto in basso, è soprattutto preoccupata di efficacia rivoluzionaria e vuole tener conto soprattutto della "necessità", l'altra, di spirito essenzialmente proletario, orienta dall'alto in basso, pone in primo piano la salvaguardia della libertà. Tra queste due correnti sono stati elaborati numerosi compromessi, più o meno traballanti. Il collettivismo libertario di Bakunin cercava di conciliare Proudhon e Marx. Il marxismo si sforzò di trovare, nella Prima Internazionale, una via di mezzo tra Blanqui e Bakunin. La Comune del 1871 fu una sintesi, empirica del giacobinismo e il federalismo. Lenin stesso, in Stato e rivoluzione, è diviso tra l'anarchismo e il comunismo di Stato, tra la spontaneità delle masse e la "disciplina di ferro" del giacobinismo. Tuttavia la vera sintesi di queste due correnti rimane da fare. Come scrive H. E, Kaminsky, essa non è soltanto necessaria, ma inevitabile. "La storia... costruisce essa stessa i suoi compromessi" [76]. La degenerazione della Rivoluzione russa, il collasso e la bancarotta storica dello stalinismo la mettono, più che mai, all'ordine del giorno. Essa soltanto può permetterci di rifare il nostro bagaglio idee e evitare per sempre che le nostre rivoluzioni siano confiscate da nuovi "Giacobini" che dispongono di blindati in confronto dei quali la ghigliottina del 1793 fa la figura di un giocattolino.

 

Daniel Guerin

 

 

[Traduzione di Ario Libert]

 

NOTE

 

[56] Bakunin, Oeuvres, II, p. 108, 232, - È accaduta la stessa cosa per i socialisti tedeschi: Rudolf Rocker ha evidenziato (nel suo Johann Most, Berlino, 1924, p. 53) quanto Wilhelm Liebknecht fosse "influenzato dalle idee dei vecchi giacobini comunisti".

[57] Deutscher, The Prophet, cit., p. 95.

[58] Boris Nicolaïevski, Karl Marx, 1937, p. 146, 158...

[59] Deutscher, Stalin, cit., p. 39; - Cfr. anche Sir John Maynard, Russia in flux, New York, 1955, p. 118.

[60] Marx, La sainte famille, Oeuvres philosophiques, (Costes) II, p. 213.

[61] Engels, Anti-Duhring, 1878, (Costes) III, p. 8.

[62] Proudhon, Idée générale de la Révolution au XIX siècle, cit., p. 234-323; - Bakunin, Oeuvres, II, p. 108, 228, 296, 361-362; VI, p. 257.

[63] Engels, Karl Marx devant les jurés de Cologne (Ed. Costes), p. 247 e note; - Marx, Dix-Huit Brumaire de Louis-Bonaparte (Ed. Schleicher), p. 342-344; Marx, La Guerre Civile en France, cit., p. 16, 46, 49; Engels, Critique du Programme d'Erfurt, op. cit.

[64] Daniel Guérin, II, p. 4.

[65] Lénine, L'Etat et la Révolution, 1917, Petite Bibliothèque Lénine, 1933, p. 62, 84-85.

[66] Lénine, Pages choisies, (Ed. Pascal), II, p. 372-373.

[67] Lénine, Oeuvres (in francese), XX, p. 640.

[68] Pages..., II. p. 93.

[69] Ibid., II, p. 115-116.

[70] Pages..., II, p. 296: - Oeuvres, XX, p. 640.

[71] Pages..., III, p. 339.

[72] Oeuvres, XX, p. 640; Pages choisies, I, p. 192 (1904).

[73] Trotsky, Nos tache politiques, cit.

[74] Rosa Luxemburg, La Révolution Russe, 1918, edizione francese 1937, p. 27.

[75] Voline, La Révolution inconnue (1917-1921), 1947, p. 154-156, 212; [tr. it.: La rivoluzione sconosciuta, Savelli, Roma, 1970].

[76] H. E. Kaminski, Bakounine, 1938, p. 17.

Condividi post
Repost0

Presentazione

  • : La Tradizione Libertaria
  • : Storia e documentazione di movimenti, figure e teorie critiche dell'esistente storico e sociale che con le loro azioni e le loro analisi della realtà storico-politica hanno contribuito a denunciare l'oppressione sociale sollevando il velo di ideologie giustificanti l'oppressione e tentato di aprirsi una strada verso una società autenticamente libera.
  • Contatti

Link