La Rivoluzione degiacobinizzata
Daniel Guérin
La fine dello stalinismo ha aperto nel movimento socialista internazionale un grande dibattito sui problemi della democrazia. È in questa prospettiva che pubblichiamo il presente articolo di Daniel Guérin, benché non ne condividiamo tutte le tesi.
Les Temps Modernes
Intorno a noi, oggi, tutto è rovine. Le ideologie che ci hanno ficcato in testa, i regimi politici che ci hanno fatto subire o fatto balenare davanti agli occhi vanno gli uni e gli altri in frantumi. Per riprendere l'espressione di Edgar Quinet [1], abbiamo smarrito i nostri bagagli.
Il fascismo, questa forma suprema e barbara del dominio dell'uomo sull'uomo, è affondato, poco più di dieci anni fa, in un bagno di sangue. E coloro che si erano aggrappati ad esso come ad un salvagente, che l'avevano chiamato alla riscossa contro i lavoratori, magari attraverso la punta delle baionette straniere, hanno perso molte penne nell'avventura e sono costretti, malgrado che gli conservino una segreta preferenza, di riporlo nel ripostiglio degli attrezzi.
Il meno che si possa dire, è che la democrazia borghese non è stata rinvigorita dal crollo del fascismo. Essa aveva d'altronde spianato la strada a quest'ultimo e si era mostrata incapace poi di sbarrargliela. Non ha più nessuna dottrina, nessuna fiducia in se stessa. Non è riuscita a ridare lustro al suo blasone utilizzando a suo profitto lo slancio delle masse popolari francesi contro l'hitlerismo. La "Resistenza" ha perso ogni ragione di essere dal giorno in cui è sparito ciò contro cui essa si batteva. La sua falsa unità si è presto disgregata. Il suo mito si è sgonfiato. I politici del dopoguerra sono stati i più penosi che abbiamo mai avuto. Hanno essi stessi volatilizzato la fiducia troppo credula di coloro che, contro Vichy, si erano, in mancanza di meglio, volti verso Londra. La democrazia borghese si è rivelata totalmente incapace di risolvere i problemi, le contraddizioni dell'anteguerra, contraddizioni ancor molto più insolubili di quanto non lo erano prima, una sedicente crociata intrapresa per trovar loro una soluzione. Non può più sopravviversi, all'interno, che come una caricatura vergognosa ed ipocrita dei metodi fascisti, all'esterno, con delle guerre coloniali ed anche con delle guerre di aggressione. Essa è, già dimissionaria. La sua successione è aperta.
Ed ecco che lo stalinismo, che si pretendeva e che molti credevano fatto di un metallo duro e durevole, che si pretendeva e che molti credevano fondato storicamente a sostituirsi alle forme moribonde (fasciste o "democratiche") del dominio borghese, affondare a sua volta nello scandalo delle ignominie rivelate dal rapporto Kruschiov, nell'orrore della repressione ungherese.
Ma un mondo che crolla è anche un mondo che rinasce. Lungi da noi lasciarci andare al dubbio, all'inazione, alla confusione, alla disperazione, è giunta l'ora per la sinistra francese di ricominciare da zero, di ripensare sin dalle loro fondamenta i suoi problemi, di rifare, come diceva Quinet, il proprio bagaglio di idee.
Era già una preoccupazione di quest'ordine che, all'indomani della "liberazione", mi aveva incitato a risalire sino alla Rivoluzione francese [2]. se avevo insufficientemente rivelato il mio disegno, e se esso è dunque sfuggito, senza dubbio per colpa mia, a molti dei miei lettori e contraddittori, un critico britannico lo ha tuttavia intravisto: "Ogni generazione" egli scriveva "deve riscrivere la storia per se stessa. Se il XIX secolo in Europa occidentale fu il secolo della libertà, il presente secolo è quello dell'eguaglianza. Gli ideali gemelli della Rivoluzione francese, così a lungo separati dall'ascesa politica del liberalismo del XIX secolo, stanno per ricongiungersi. Questo accostamento, dettato dal corso degli avvenimenti e la direzione del processo storico stesso, pone delle nuove esigenze a tutti coloro che aspirano a descrivere e ad interpretare questo processo. Se gli ideali gemelli che la civiltà occidentale deve così ampiamente alla Rivoluzione francese sono destinati ad essere riconciliati nell'azione, essi devono certamente esserlo anche - e per prima cosa - nella descrizione degli storici della loro evoluzione". E questo critico anonimo trovava naturale che al momento in cui la Francia passa attraverso una fase di ricostruzione politica e sociale... "essa cerca di essere guidata da un'interpretazione sociale più sfaccettata della sua storia" [3].
Ma la necessaria sintesi delle idee di eguaglianza e di libertà che questo critico raccomandava in termini troppo vaghi e confusi non può e non deve essere tentata, a mio avviso, nel quadro ed a profitto di una democrazia borghese bancarottiera. Può esserlo e deve esserlo nel quadro del pensiero socialista, che rimane, malgrado tutto, il solo valore solido della nostra epoca. Il doppio fallimento del riformismo e dello stalinismo ci pone un dovere urgente di riconciliare la democrazia (proletaria) ed il socialismo, la libertà e la Rivoluzione.
Ora, precisamente, la grande Rivoluzione francese ci ha fornito i primi materiali di questa sintesi. Per la prima volta nella storia, le nozioni antagonistiche di libertà e costrizione, di potere statale e di potere delle masse si sono affrontate, chiaramente se non pienamente, nel suo immenso crogiolo. Da questa feconda esperienza sono scaturite, come ha ben visto Kropotkin [4], le grandi correnti del pensiero socialista moderno a partire dalle quali non potremo rifare il nostro bagaglio ideologico se non giungeremo- infine- a trovarne la corretta sintesi.
Il ritorno alla Rivoluzione francese è stato sino ad ora molto infruttuoso perché i rivoluzionari moderni, che l'hanno tutti studiata nei dettagli e con passione, non si sono preoccupati che di analogie superficiali, di punti di somiglianza formale con quella situazione, quel gruppo politico, quei personaggi del loro tempo. Sarebbe divertente ricapitolare tutte queste fantasie, a volte brillanti, a volte semplicemente assurde, sulle quali degli storici della Rivoluzione russa come Boris Suvarin, Erich Wollenberg e Isaac Deutscher, hanno avuto ragione di fare delle riserve [5]. Ma occorrerebbero pagine e pagine, e noi abbiamo meglio da fare. Per contro, se abbandonando il piccolo gioco delle analogie, cerchiamo di andare in fondo ai problemi e di analizzare il meccanismo interno della Rivoluzione francese, possiamo trarne degli insegnamenti molto utili alla comprensione del presente.
La democrazia diretta del 1793
Innanzitutto, la Rivoluzione francese è stata la prima manifestazione storica, coerente e su vasta scala, di un nuovo tipo di democrazia. Anche quelli tra i miei critici che, pur richiamandosi al marxismo, esitano ancora a seguirmi in tutte le mie conclusioni, hanno finito con l'ammettere, con Albert Soboul, che il “sistema politico di democrazia diretta” scoperto spontaneamente dai sanculotti era “del tutto differente dalla democrazia liberale così come la concepiva la borghesia” [6]. Aggiungerei: non soltanto “differente” ma, spesso, anche antitetica. La grande Rivoluzione non fu soltanto, come troppi storici repubblicani hanno creduto, la culla della democrazia parlamentare: per il fatto che essa era, allo stesso tempo di una rivoluzione borghese, un embrione di rivoluzione proletaria, essa recava in sé il germe di una nuova forma di potere rivoluzionario i cui tratti emergeranno nel corso delle rivoluzioni della fine del XIX e del XX secolo. Dalla Comune del 1793 a quella del 1871 e da quest'ultima ai soviet del 1905 e del 1917, la derivazione è evidente.
Non volendo ripetermi in modo eccessivo, preferisco rinviare il lettore alle pagine dell'“Introduzione” nelle quali, a proposito della Rivoluzione francese, ho analizzato le principali componenti del potere "dal basso", evidenziato le differenze essenziali tra democrazia borghese e democrazia proletaria, fatto la critica del parlamentarismo e tentato di approfondire il fenomeno della dualità dei poteri: potere borghese e potere delle masse.
Vorrei qui limitarmi a precisare sommariamente alcuni dei tratti generali della “democrazia diretta” del 1793. Se scendiamo nelle sezioni, nelle società popolari dell'anno II, si ha l'impressione di prendere un bagno vivificante di democrazia. L'epurazione periodica della società da se stessa, con ognuno che sale alla tribuna per offrirsi al controllo di tutti, la preoccupazione di assicurare l'espressione la più perfetta possibile della volontà popolare, di impedire il suo soffocamento da parte dei bravi parlatori e degli oziosi, di permettere alle persone che lavorano di abbandonare i loro strumenti senza sacrificio pecuniario e di partecipare così pienamente alla vita pubblica, di assicurare il controllo permanente dei mandatari da parte dei mandanti, di piazzare, nelle deliberazioni, i due sessi su un piede di eguaglianza assoluta [7], questi sono alcuni dei tratti di una democrazia realmente spinta dal basso in alto.
Il Consiglio generale della Comune del 1793- almeno sino alla decapitazione dei suoi magistrati da parte del potere centrale borghese- ci offre anche un notevole campionario di democrazia diretta. I membri del Consiglio sono i delegati delle loro rispettive sezioni, costantemente in collegamento con esse e sotto il controllo di coloro dei quali detengono i loro mandati, costantemente tenuti al corrente della volontà della “base” attraverso l'ammissione di delegazioni popolari alle sedute del Consiglio. Alla Comune, non si conosce l'artificio borghese della “separazione dei poteri” tra l'esecutivo ed il legislativo. I membri del Consiglio sono al contempo degli amministratori e dei legislatori. Questi modesti sanculotti non sono diventati dei politici professionali, sono rimasti gli uomini del loro mestiere, esercitandolo ancora, nella misura in cui glielo permettono le loro funzioni alla Casa Comune [Maison Commune], o pronti ad esercitarlo di nuovo non appena il loro mandato avrà fine [8].
Ma, di tutti questi tratti, il più ammirevole, è senz'altro la maturità di una democrazia diretta sperimentata per la prima volta in un paese relativamente arretrato, appena uscito dalla notte della feudalità e dell'assolutismo, ancora immerso nell'analfabetismo e l'abitudine secolare della sottomissione. Niente "anarchia", niente “casino” in questa gestione da parte del popolo, inedita ed improvvisata. Basta per convincersene sfogliare i verbali delle società popolari, i resoconti delle sedute del Consiglio generale della Comune. Vediamo la massa, come se fosse cosciente delle sue tendenze naturali all'indisciplina, animata dalla preoccupazione costante di disciplinarsi da sé. Essa ordina le proprie deliberazioni, richiama all'ordine coloro che sarebbero tentati di provocare il disordine. Benché nel 1793 la sua esperienza della vita pubblica sia del tutto recente, benché la maggior parte dei sanculotti (guidati, è vero, da piccolo borghesi istruiti) non sappiano ancora né leggere né scrivere, essa dà prova già di una propensione al self-government che ancora oggi i borghesi, ansiosi di conservare il monopolio della cosa pubblica, si ostinano, contro ogni evidenza, a negarle e che alcuni teorici rivoluzionari, imbevuti della loro “superiorità” intellettuale, hanno a volte tendenza a sottovalutare [9].
Democrazia diretta e avanguardia
Ma, allo stesso tempo, le difficoltà, le contraddizioni del self government fanno la loro apparizione. La mancanza d'istruzione ed il relativo ritardo della loro coscienza politica sono altrettanti ostacoli alla piena partecipazione delle masse alla vita pubblica. Tutto il popolo non ha la nozione dei suoi veri interessi. Mentre alcuni danno prova di una straordinaria lucidità per l'epoca, altri si lasciano facilmente sviare. La borghesia rivoluzionaria mette a profitto il prestigio che la sua lotta senza compromessi le vale contro le conseguenze dell'antico regime per inculcare ai sanculotti un'ideologia seducente ma fallace e che, di fatto, va incontro alle loro aspirazioni di piena eguaglianza. Se si sfogliano le voluminose raccolte dei rapporti degli agenti segreti del ministero dell'Interno [10], si vedono gli indicatori riferire dei discorsi uditi per strada, effettuati da uomini del popolo, e di cui il contenuto è a volte rivoluzionario, a volte controrivoluzionario. E questi discorsi sono consegnati alla rinfusa, come se fossero tutti, allo stesso titolo, le espressioni della vox populi, senza stabilire tra di loro una discriminazione né analizzare le loro contraddizioni evidenti.
La relativa confusione del popolo e soprattutto dei lavoratori manuali ancora privi di istruzione, lascia il campo libero a delle minoranze, più educate o più coscienti. È così che alla sezione della Casa Comune un piccolo nucleo “faceva fare tutto quel che voleva” alla società sella sezione “composta da un gran numero di massoni” [11]. In molte società popolari, malgrado tutta la fatica e tutte le precauzioni prese per assicurare il funzionamento più perfetto possibile della democrazia, delle “frazioni” guidano il gioco, in un senso o nell'altro e a volte si oppongono l'una all'altra. Ho esposto nel mio libro [12] come i Giacobini, non si fidassero delle assemblee generali delle sezioni che essi consideravano come poco sicure, lo infiltrano dall'interno, per mezzo di un pugno di uomini scelti con cura e retribuiti, con funzionari politici in qualche modo: i membri del comitato rivoluzionario locale. Questa “infiltrazione”, essi la esercitavano al contempo contro i loro avversari di destra e contro i loro avversari di sinistra. Ma, quando l'avanguardia estremista entrò in conflitto aperto con i Giacobini robespierristi, essa dovette creare, contro la frazione giacobina, una nuova frazione, più radicale: la società delle sezioni, ed una lotta molto viva si svolse tra le due frazioni per il controllo della sezione.
In provincia, i funzionari locale erano, in teoria, elusi democraticamente dalle società popolari. Ma, in pratica, troppo spesso la piccola frazione che costituiva la cerchia immediata del rappresentante in missione faceva approvare dall'assemblea delle liste preparate in precedenza [13].
Uno scrittore di destra, Augustin Cochin, ha scritto, ai nostri giorni, un intero libro [14] per tentare di provare che la democrazia diretta del 1793 non era che una caricatura di democrazia, perché, nelle società popolari, un “circolo interno” di alcuni agitatori faceva legge su una maggioranza passiva e conformista. Ma l’intenzione dell’autore è troppo evidente: egli cerca di calunniare la democrazia. L'accento è posto, non sulle sue imprese esplosive, ma sulle deficienze del suo noviziato. Inoltre, la questione non può essere affrontata in astratto. Manca alla dimostrazione troppo ingegnosa e troppo interessata di Augustin Cochin il criterio di classe. La democrazia non deve essere considerata soltanto nella sua forma, esse deve essere apprezzata in funzione di coloro al beneficio dei quali funziona: ogni volta che “frazione” è costituita da un'avanguardia audace, che guida e stimola una maggioranza timorata o che non ha ancora una coscienza chiara dei suoi interessi, l'intervento di questa minoranza è, in una certa misura, benefattrice.
La grande lezione del '93, non è soltanto che la democrazia diretta sia fattibile, è anche che l'avanguardia di una società, quando essa è ancora una minoranza in rapporto alla massa del paese che essa trascina, non può evitare, in questa battaglia di vita o di morte qual è una Rivoluzione, di imporre la sua volontà alla maggioranza, innanzitutto, e di preferenza, con la persuasione, e, se la persuasione fallisce, con la costrizione. Qui, non volendo ripetermi, devo rinviare il lettore alla sezione dell'Introduzione dedicata alla "dittatura del proletariato" [15]. Ho tentato di dimostrare che è nell'esperienza stessa della Rivoluzione francese che Marx ed Engels hanno attinto questa famosa nozione, aggiungendovi io stesso il correttivo che abbiamo a che fare, in realtà, nel 1793, con due tipi di "dittatura" antitetiche: la "dittatura" borghese dall'alto, quella del governo rivoluzionario, dittatura popolare dal basso, quella dei sanculotti in armi, organizzati democraticamente nei loro club e nella Comune.
Su questo punto, tuttavia, il mio libro comportava una lacuna. Avrei dovuto precisare che la nozione di "dittatura del proletariato" non è veramente mai stata elaborata dai suoi autori. Senza pretendere, certo, come Kautsky, all'epoca in cui era diventato riformista, che non è nella loro opera che un Wörtchen, un parolina senza importanza, pronunciata occasionalmente (gelegentlich) [16], siamo obbligati di constatare che essi non l'hanno menzionata che raramente, ed ogni volta troppo brevemente, nei loro scritti. E quando, in particolare, essi la scoprono nella Rivoluzione francese, i termini che essi impiegano sono lungi dall'essere chiari [17], e sono discutibili. Infatti, i rivoluzionari dell'anno II, convinti com'erano della necessità di misure d'eccezione, del ricorso alla costrizione, aborrivano ad impiegare la parola dittatura. La Comune del 1793, come la sua continuatrice del 1871, voleva guidare e non “imporre la sua supremazia” [18]. Marat stesso, il solo rivoluzionario del suo tempo che si augurò la dittatura, era obbligato a ricorrere a delle precauzioni di linguaggio: egli chiedeva una "guida" e non un "maestro". Ma, anche sotto questa forma velata, scandalizzò i suoi fratelli d'arme e si attirò le loro vive proteste.
Che si capisca: la democrazia aveva appena emesso il suo primo vagito. Il tiranno era stato rovesciato da poco, la Bastiglia era stata rasa al suolo. La parola dittatura suonava male. Risvegliava l'idea di una specie di ricaduta nella tirannia, nel potere personale. Infatti, per degli uomini del XVIII secolo, nutriti di ricordi antichi, la dittatura aveva un suono preciso e temibile. Essi si ricordavano - e l'Encyclopédie era lì a ricordarglielo - che i Romani, "avendo cacciato i loro re, si videro obbligati, in tempi difficili, a creare, a titolo temporaneo, un dittatore che godeva di un potere più grande di quanto avessero mai avuto gli antichi re". Essi si ricordavano che, più tardi, l'istituzione degenerando, Silla e Cesare si erano fatti proclamare dittatori perpetui ed avevano esercitato una sovranità assoluta che andava, nel caso del secondo, sino a farsi sospettare di mire monarchiche. Essi non volevano né un nuovo monarca né un nuovo Cesare.
Della rivoluzione inglese, gli uomini del 1793 avevano un ricordo ancora più vivo. Come avrebbero potuto dimenticare che nel secolo precedente Oliver Cromwell, dopo aver rovesciato un sovrano assoluto, aveva usurpato il potere popolare, instaurato una dittatura ed anche tentato di farsi incoronare re? Essi si fidavano come della peste di un nuovo Cromwell e fu alla vigilia del Termidoro, una delle loro lamentele contro Robespierre [19].
Infine, i sanculotti della base, gli uomini delle società popolari avevano una diffidenza istintiva verso la parola dittatura, perché quest'ultima non avrebbe tradotto che una parte della realtà rivoluzionaria: essi volevano innanzitutto convincere, aprire a tutti le porte della nascente democrazia, e non fecero ricorso alla costrizione che quando coloro che avrebbero voluto convincere ed ammettere nella democrazia risposero loro con il piombo.
Forse essi avevano l'intuizione che è sempre un errore prendere in prestito delle parole dal vocabolario del nemico. “Sovranità del popolo” è, come lo sottolineava già Henri de Saint-Simon [20], uno di questi prestiti spiacevoli. Il popolo, il giorno in cui si amministra da sé, non è il sovrano di nessuno. “Dispotismo della libertà” (formula che gli uomini del 93 arrischiarono a volte ad impiegare preferendolo a “dittatura”, perché aveva una risonanza più collettiva), “dittatura del proletariato”, non sono meno antinomici. Il genere di costrizione che l'avanguardia proletaria si trova obbligata ad esercitare sui controrivoluzionari è di una natura così fondamentalmente differente dalle forme di oppressione del passato ed è compensata da un grado così avanzato di democrazia per gli oppressi della vigilia che la parola dittatura giura con quella di proletariato.
Questa è stata l'opinione dei collettivisti libertari tipo Bakunin, ben decisi a non trattare con i borghesi se quest'ultimi si pongono contro la Rivoluzione sociale, ma respingendo allo stesso tempo, in modo categorico, ogni parola d'ordine di “dittature sedicenti rivoluzionarie” [21]. In quanto ai riformisti, essi non respingono, soltanto le parole “dittatura del proletariato” ma anche ciò che è stato definito come valido nel loro contenuto. Anche per troppo tempo, i rivoluzionari che si richiamavano al marxismo non hanno osato porre delle riserve in quanto alle parole, per paura di vedersi sospettati di “opportunismo”.
L'imprecisione dei termini compare ancora più chiaramente se si risale alle fonti i babuvisti furono i primi a parlare di "dittatura" rivoluzionaria. Se ebbero il merito di trarre la netta lezione dalla sottrazione della rivoluzione da parte della borghesia, si sa che essi apparvero troppo tardi, in un'epoca in cui il movimento delle masse aveva reso l'anima. Minoranza minuscola e isolata, essi dubitarono della capacità del popolo a dirigersi, per lo meno nell'immediato. E si augurarono una dittatura, sia la dittatura di uno solo, sia quella di "mani saggiamente e fortemente rivoluzionarie" [22].
Il comunista tedesco Weitling e il rivoluzionario francese Blanqui presero in prestito dai babuvisti questa concezione della dittatura. Incapaci di legarsi a un movimento di massa ancora embrionale, a un proletariato ancora troppo ignorante e demoralizzato per governarsi da sé, essi credettero che piccole minoranze audaci avrebbero potuto impadronirsi del potere per sorpresa e instaurare il socialismo dall'alto, per mezzo della centralizzazione dottrinaria più rigorosa, aspettando che il popolo sia maturo per dividere il potere con i suoi capi. Mentre l'idealista Weitling prendeva in considerazione una dittatura personale, quella di un "nuovo Messia", Blanqui, più realista, più vicino al movimento operaio nascente, parlava di "dittatura parigina", e cioè del proletariato parigino, ma, nel suo pensiero, il proletariato non era ancora capace di esercitare questa "dittatura" se non attraverso persona interposta, attraverso la mediazione della sua elite istruita, di Blanqui e della sua società segreta [23].
Marx e Engels, benché opposti alla concezione minoritaria e volontaristica dei blanquisti, credettero dovere, nel 1850, fare a quest'ultimi la concessione di riprendere la loro celebre formula [24], giungendo, questo stesso anno, sino a identificare comunismo e blanquismo [25]. Senz'altro, nello spirito dei fondatori del socialismo scientifico, la costrizione rivoluzionaria sembra essere esercitata dalla classe operaia e non, come presso i blanquisti, da un'avanguardia distaccata della classe [26]. Ma essi non hanno mai differenziato in modo sufficientemente netto una tale interpretazione della "dittatura del proletariato" da quella dei blanquisti. Più tardi, Lenin, richiamandosi alo stesso tempo al "giacobinismo" e al "marxismo", inventerà la concezione della dittatura di un partito che si sostituisce alla classe operaia, agendo per procura e in suo nome e i suoi discepoli dell'Ural, andando sino in fondo alla sua logica, proclameranno chiaramente, senza essere sconfessati, che la dittatura del proletariato sarebbe una dittatura sul proletariato! [27].
Ricostituzione dello Stato
La doppia esperienza della Rivoluzione francese e della Rivoluzione russa ci insegna che tocchiamo qui un punto centrale di un meccanismo al termine del quale la democrazia diretta, il self-government del popolo, muta gradualmente, attraverso l'instaurazione della "dittatura" rivoluzionaria, nella ricostituzione di un apparato di oppressione del popolo. Beninteso, il processo non è assolutamente identico nelle due rivoluzioni. La prima è una rivoluzione essenzialmente borghese (benché contenente, già, un embrione di rivoluzione proletaria). La seconda è una rivoluzione essenzialmente proletaria (benché avente da compiere allo stesso tempo i compiti della Rivoluzione borghese). Nella prima, non è la "dittatura" dall'alto (che, tuttavia, aveva già fatto la sua apparizione), è la "dittatura" dall'alto, quella del "governo rivoluzionario" borghese che fornisce il punto di partenza di un nuovo apparato di oppressione. Nel secondo, è a partire dalla "dittatura" dal basso, quella del proletariato in armi, al quale, ben presto, si sostituisce il "Partito", che l'apparato di oppressione si è infine ricostituito. Ma nei due casi, malgrado questa differenza importante, un'analogia salta agli occhi: la concentrazione del potere, la "dittatura" sono presentate come il prodotto della necessità [28]. All'interno come all'esterno, la Rivoluzione è in pericolo. La ricostituzione dell'apparato di oppressione è invocato come indispensabile allo schiacciamento della contro-rivoluzione.
Non volendo ripetermi, mi limiterò qui a rinviare il lettore al capitolo [29] nel quale ho tentato di descrivere, dettagliatamente, il "rafforzamento del potere centrale" e mostrato come, alla fine del 1793, la borghesia si applicò nel distruggere con le proprie mani il regime essenzialmente democratico e decentralizzatore che, nella sua fretta nel sopprimere il centralismo rigoroso dell'antico regime, si era dato due anni prima.
La "necessità", il pericolo contro-rivoluzionario furono veramente il solo motivo di questo brusco voltafaccia? È quanto pretendono la maggior parte degli storici di sinistra. Georges Lefebvre afferma, nella sua critica del mio libro, che la Rivoluzione poteva essere salvata soltanto se il popolo era "inquadrato e commandato da borghesi". "Si dovevano radunare tutti gli sforzi della nazione a profitto dell'esercito; ciò non si poteva fare che per mezzo di un governo forte e centralizzato. La dittatura dall'alto... poteva riuscirvi; oltre alle capacità che gli sarebbero mancate, essa non avrebbe potuto far a meno di un piano d'insieme e di un centro esecutivo [30]. Albert Soboul valuta che la democrazia diretta dei sanculotti era, per via della sua "debolezza", impraticabile nella crisi che la Repubblica stava attraversando [31]. Prima di loro, Georges Guy-Grand, minimizzando la capacità politica dell'avanguardia popolare, aveva sostenuto: "Il popolo di Parigi non sapeva cosa fare delle sommosse. Le sommosse servono per distruggere, ed a volte si deve distruggere; ma demolire delle Bastiglie, massacrare dei prigionieri, puntare dei cannoni sulla Convenzione non bastava a far vivere un paese. Quando si dovette ricostruire i quadri, far funzionare le industrie e le amministrazioni, si dovette necessariamente ricorrere ai soli elementi disponibili che erano borghesi" [32].
Per la mia modesta parte, non credo di aver mai sottovalutato il contributo delle tecniche borghesi nella vittoria finale degli eserciti della Repubblica. Quando Georges Lefebvre mi rimprovera di non aver detto nulla sugli "ostacoli materiali", sulle "difficoltà nemiche" contro le quali urtavano gli approvvigionamenti, le produzioni di guerra, le forniture militari, ecc. [33], sono tentato di opporgli le pagine che ho dedicato a Robert Lindet [34], organizzatore di un "sistema metodico e quasi scientifico di requisizioni estendentisi a tutto il territorio nazionale", "tecnica" brillante che "assicurò l'approvvigionamento degli eserciti", e quelle in cui ammetto che la creazione di un potere forte, la centralizzazione amministrativa, l'organizzazione razionale e metodica delle requisizioni, delle produzioni di guerra, della condotta delle operazioni militari", "questa abbozzo di Stato totalitario, come si dice oggi" conferirono al governo rivoluzionario "una forza di cui nessun altra potenza d'Europa disponeva all'epoca [35]".
Ma non è certo soltanto attraverso queste tecniche e dall'alto che la Rivoluzione poteva essere salvata. Ho dimostrato, nel mio libro, che prima che questa centralizzazione rigorosa fosse instaurata, una collaborazione relativamente efficace si era istituita, alla base, tra l'amministrazione degli approvvigionamenti e le società popolari, tra il governo e i comitati rivoluzionari. Il rafforzamento del potere centrale soffocò e uccise l'iniziative dall'alto che era stato il nerbo della Rivoluzione. La tecnica borghese fu sostituita dalla foga popolare. La Rivoluzione perse la sua forza essenziale, il suo dinamismo interno [36].
D'altronde, confesso di non fidarmi molto di coloro che invocano il pretesto della "competenza" per legittimare, in periodo rivoluzionario, l'uso esclusivo e abusivo delle "tecniche" borghesi. Innanzitutto, perché gli uomini del popolo sono meno ignoranti, meno incompetenti di quanto, per i bisogni della causa, si voglia credere; poi, perché i plebei del 1793, quando erano sprovvisti di capacità tecniche, supplivano a questa mancanza attraverso il loro ammirevole senso della democrazia e l'alta coscienza che essi avevano del loro dovere verso la Rivoluzione; infine, perché le tecniche borghesi, ritenute indispensabili e insostituibili, misero troppo spesso a vantaggio della loro situazione per intrigare contro il popolo e anche stringere dei legami sospetti con dei controrivoluzionari. I Carnet, i Cambon, i Lindet, i Barère furono dei grandi commessi della borghesia, ma, credo di averlo dimostrato, nemici giurati dei sanculotti. In Rivoluzione, un uomo mancante di competenza ma devoto anima e corpo alla causa del popolo, assumesse delle responsabilità civili o militari, vale meglio di una competenza pronta a tradire [37].
Durante i circa sei mesi in cui sbocciò la democrazia diretta, il popolo diede prova del suo genio creativo; rivelò, anche se in modo ancora embrionale, che esistevano altre tecniche rivoluzionarie oltre a quelle della borghesia, di quelle dall'alto in basso. Furono senza dubbio infine quest'ultime che prevalsero perché, all'epoca, la borghesia aveva una maturità e un'esperienza che gli conferivano un'enorme preminenza sul popolo. Ma l'anno II della Repubblica, se si sa decifrare il suo messaggio, annuncia che le feconde potenzialità delle tecniche rivoluzionarie dal basso un giorno prevarranno, nella rivoluzione proletaria, sulle tecniche ereditate dalla borghesia giacobina.
Per terminare con questo punto, conservo la convinzione che il rafforzamento del potere centrale, operato alla fine del 1793, non aveva come unico obiettivo la necessità di comprimere la contro-rivoluzione. Se alcune delle disposizioni adottate trovano facilmente la loro giustificazione nella suddetta necessità, altre non possono spiegarsi che attraverso la volontà cosciente di reprimere la democrazia diretta dei sanculotti. Non è forse significativo, ad esempio, che il decreto del 4 dicembre 1793 sul rafforzamento del potere centrale sia coinciso con un affievolimento e non un aggravamento della severità nei confronti dei contro-rivoluzionari? Jaurès ha capito molto bene che questo decreto era, per una buona parte, una macchina da guerra contro gli "Hebertisti", e cioè, di fatto, contro l'avanguardia popolare [38]. Non è un caso che Albert Mathiez, abituato a "considerare la Rivoluzione dall'alto" [39], abbia tracciato un parallelo tra la "dura" dittatura del Comitato di salute pubblica del 1793 e quella del 1920 in Russia.
L'embrione di una burocrazia plebea
Per il fatto che la Grande Rivoluzione non fu che borghese e che essa si accompagnò ad un embrione di Rivoluzione proletaria, vi si vede apparire il germe di un fenomeno che assumerà tutta la sua ampiezza nella degenerazione della Rivoluzione russa: già nel 1793, la democrazia dal basso ha fatto nascere una casta di plebei che si sarebbe progressivamente differenziata dalla massa e la cui aspirazione era quella della confisca a loro profitto della Rivoluzione popolare. Ho cercato di analizzare la mentalità ambivalente di questi "plebei" presso cui la fede rivoluzionaria e gli appetiti materiali erano strettamente intrecciati. La Rivoluzione appariva loro, secondo l'espressione di Jaurès, "come un ideale e allo stesso tempo come una carriera". Essi servirono la rivoluzione borghese nello stesso tempo in cui se ne servirono. Robespierre e Saint-Just, come più tardi doveva farlo Lenin, denunciarono le ambizioni di questa burocrazia nascente e già invadente [40].
Albert Soboul, da parte sua, mostra (in uno studio ancora inedito) come i più attivi e i più coscienti dei sanculotti delle sezioni ottennero degli incarichi retribuiti. La preoccupazione di salvaguardare i loro interessi personali, oramai legati a quelli del potere, fece loro acquisire una mentalità conformista. Essi diventarono molto presto degli strumenti docili nelle mani del potere centrale. Da militanti si trasformarono in impiegati. Il loro assorbimento da parte dell'apparato dello Stato, nello stesso tempo in cui indebolì la democrazia all'interno delle sezioni, ebbe come risultato una sclerosi burocratica che privò l'avanguardia popolare di una buona parte dei suoi quadri.
Ma Soboul, la cui attenzione è soprattutto attratta dalla coesione delle forze montagnarde così come dai loro conflitti interni, non ha occhi che per i militanti la cui promozione li rese docili servitori del governo rivoluzionario borghese. Ho dimostrato che un certo numero di essi, coloro che ho chiamato i plebei hebertisti, entrarono in aperto conflitto con il Comitato di salute pubblica. Se il loro attaccamento al diritto borghese, alla proprietà borghese derivava dalle loro stesse brame, essi avevano tuttavia degli interessi particolari da difendere contro la borghesia rivoluzionaria. Quest'ultima, infatti, non voleva abbandonare loro che una parte quanto più ristretta della torta: innanzitutto perché questa enorme plebe budgettivora costava molto cara, e poi perché la borghesia diffidava della sua origine e del suo attaccamento popolare e, soprattutto, del sostegno ottenuto demagogicamente dai sobborghi allo scopo di occupare tutte le cariche, infine perché la borghesia intendeva conservare tra le mani dei suoi "tecnici" fidati il controllo del governo rivoluzionario. La lotta per il potere che oppose i plebei ai tecnici fu delle più vive e fu, in fin dei conti, risolta con la ghigliottina. Alcuni settori importanti, come il ministero della Guerra, i fondi segreti, le produzioni di guerra, ecc. furono la posta di questa rivalità. La battaglia per le produzioni di guerra è particolarmente rivelatrice perché qui, già due modi antagonistici di gestione economica si affrontarono: la libera impresa e ciò che oggi chiamiamo il "capitalismo di Stato". Se i plebei erano giunti ai loro scopi e se le produzioni di guerra erano state nazionalizzate, come essi lo richiedevano, una parte dei benefici della produzione, ambite e infine accaparrate dalla borghesia rivoluzionaria, finirono nelle loro tasche [41].
Non credo che Trotsky, non completamente informato, abbia del tutto ragione quando afferma che lo stalinismo "non aveva nessuna preistoria", che la rivoluzione francese non ha conosciuto nulla che somigliasse alla burocrazia sovietica, scaturita da un partito rivoluzionario unico e che affondava le sue radici nella proprietà collettiva dei mezzi di produzione [42]. Penso, al contrario, che i plebei hebertisti annunciavano con più di un tratto i burocrati russi dell'era staliniana [43]. Ma, nel 1793, malgrado i loro tratti specifici fossero già relativamente manifesti, e che la parte di potere che essi si attribuivano non fosse trascurabile, essi non poterono prevalere sulla borghesia, che era la classe più dinamica, meglio organizzata, più "competente" e quella che meglio corrispondeva alle condizioni oggettive dell'epoca; ed è infine la borghesia, non i plebei, che operò, a suo esclusivo profitto, il "rafforzamento del potere centrale".
L'"anarchia" dedotta dalla Rivoluzione francese
Non appena terminata la Rivoluzione francese i "teorici" d'avanguardia, come si direbbe oggi, si immersero con passione ardente e una lucidità spesso notevole all'analisi dei suoi meccanismi e alla ricerca dei suoi insegnamenti. La loro attenzione si concentrò essenzialmente su due grandi problemi: quello della "Rivoluzione permanente" e quello dello Stato. Essi scoprirono, innanzitutto, che la grande Rivoluzione, per il fatto di essere stata borghese, aveva tradito le aspirazioni popolari e che doveva essere continuata sino alla liberazione totale dell'uomo. Essi ne dedussero, tutti quanti [44], il socialismo. Quest'aspetto del problema è stato esposto in dettaglio nel mio libro e non vi tornerò sopra. Ma alcuni di loro scoprirono anche che, nella Rivoluzione, un potere popolare di un nuovo genere, orientato dal basso verso l'alto, aveva fatto la sua comparsa storica e che era stato infine sostituito da un apparato di oppressione dall'alto verso il basso, potentemente ricostituito. E si chiesero con angoscia come il popolo avrebbe potuto in futuro evitare di vedersi sequestrare la sua Rivoluzione. Essi ne dedussero l'anarchia.
Il primo che, sin dal 1794, intravide questo problema fu l'Arrabbiato (Enragé) Varlet. Nel suo libricino edito molto prima di Termidoro, scrisse questa frase profetica: "Per ogni essere che ragiona, governo e rivoluzione sono incompatibili". E accusò il "governo Rivoluzionario" di avere, in nome della salute pubblica, "instaurato una dittatura" [45]. Questa è la conclusione, scrivono gli storici dell'anarchismo, che il primo degli Arrabbiati trasse dal 93, e questa conclusione è anarchica"[46]. Vi era tuttavia in questa illuminazione di genio, un errore, che questi storici omettono di rivelare. Benché il suo compagno di lotta, Jacques Roux, due anni prima, avesse ammesso che nelle circostanze rivoluzionarie si era "costretti a ricorrere a delle misure violente"[47], Varlet non seppe distinguere tra la necessità della costrizione rivoluzionaria, esercitata dal popolo in armi sui contro-rivoluzionari, e la dittatura esercitata da un'ampia parte contro l'avanguardia popolare da parte della borghesia rivoluzionaria. Ma vi era tuttavia nel suo libretto un pensiero profondo: una rivoluzione guidata dalle masse e un potere forte (contro le masse) sono due cose incompatibili [48].
Questa conclusione i babuvisti la trassero a loro volta: "I governanti," scriveva Babeuf, "non fanno delle rivoluzioni se non per continuare a governare. Noi ne vogliamo fare una per assicurare per sempre la felicità del popolo attraverso la vera democrazia".
E Buonarroti, suo discepolo, prevedendo con una straordinaria prescienza, il sequestro delle future rivoluzioni da parte di nuove "elite", aggiungeva: "Se si formasse... nello Stato una classe esclusivamente dedita ai principi dell'arte sociale, delle leggi e dell'amministrazione, essa troverebbe presto il segreto di crearsi delle distinzioni e dei privilegi".
Buonarroti ne deduceva che soltanto la soppressione radicale delle ineguaglianze sociali, che soltanto il comunismo avrebbe permesso di liberare la società dal flagello dello Stato: "Un popolo senza proprietà e senza i vizi e i crimini che essa genera... non necessiterebbe del bisogno del grande numero di leggi sotto le quali gemono le società civilizzate d'Europa" [49].
Ma i babuvisti non seppero trarre tutte le conseguenze di questa scoperta. Isolati dalle masse, essi si contraddirono, come abbiamo visto, reclamando, oltrettutto la dittatura di un solo uomo o di una "saggia" elite, il che farà scrivere, più tardi a Proudhon che "la negazione governativa che gettò un bagliore, presto soffocato, attraverso le manifestazioni... degli Arrabbiati e degli Hebertisti sarebbe scarturita dalle dottrine di Babeuf, se Babeuf avesse saputo ragionare e dedurre il suo proprio principio" [50].
È a Proudhon che spetta il merito storico di aver tratto dalla Rivoluzione francese un'analisi veramente approfondita del problema dello Stato. L'autore di Idée générale de la Révolution au XIX siècle [Idea generale della Rivoluzione nel XIX secolo] (1851) [51] si dedica, dapprima, ad una critica della democrazia borghese e parlamentare, della democrazia dall'alto, della democrazia attraverso decreti. Ne denuncia l'"inganno". Se la prende con Robespierre, avversario dichiarato della democrazia diretta. Sottolinea le insufficienze della costituzione democratica del 1793, punto di partenza senz'altro, ma compromesso bastardo tra democrazia borghese e democrazia diretta, che prometteva tutto al popolo e non gli dava nulla e che inoltre, presto promulgata, fu rinviata alle calende greche. E, penetrando al cuore del problema, dichiara, seguendo Varlet, che "proclamando la libertà delle opinioni, l'eguaglianza davanti alla legge, la sovranità del popolo, la subordinazione del potere al paese, la Rivoluzione ha fatto della società e del governo due cose incompatibili".
Afferma la "incompatibilità assoluta del potere con la libertà". E pronuncia una folgorante requisitoria contro lo Stato: "Nessuna autorità, nessun governo, anche popolare: la Rivoluzione è là... Il governo del popolo sarà sempre l'espediente del popolo... Se la Rivoluzione lascia sussistere il Governo da qualche parte, esso tornerà ovunque". E se la prende contro "i più arditi tra i pensatori", i socialisti "autoritari" che, pur ammettendo i misfatti dello Stato, "sono giunti a sostenere che il Governo era senz'altro un flagello... ma un male necessario". "Ecco perché", egli aggiunge, ... "le rivoluzioni più emancipatrici... sono sfociate costantemente in un atto di fede e di sottomissione al potere; perché tutte le rivoluzioni non sono servite che a ricostituire la tirannia". "Il popolo, invece di un protettore,... si dà un tiranno... Ovunque e sempre, il governo, per quanto popolare sia stato alla sua origine,... dopo essersi mostrato per un po' di tempo liberale,... è diventato a poco a poco eccezionale, esclusivo".
La centralizzazione operata a partire dal decreto del 4 dicembre 1793, egli la condanna con un lucido rigore. Questa centralizzazione, poteva essere comprensibile durante l'antica monarchia, ma "con il pretesto della Repubblica una e indivisibile, sottrarre al popolo la disponibilità delle proprie forze;... trattare da federalisti, e in quanto tali designare alla proscrizione coloro che si dicono favorevoli alla libertà e sovranità: equivale a mentire al vero spirito della Rivoluzione francese, alle sue tendenze più autentiche... Il sistema della centralizzazione, che ha prevalso nel '93..., non è altra cosa che quello della feudalità trasformata... Napoleone, che vi pose mano per ultimo, ne ha reso testimonianza". Più tardi Bakunin, suo discepolo, gli farà eco: "Strana cosa, questa grande Rivoluzione che, per la prima volta nella storia, aveva proclamato la libertà, non più soltanto quella del cittadino, ma dell'uomo, - che si faceva l'erede della monarchia che essa uccideva, aveva resuscitato allo stesso tempo questa negazione di ogni libertà: la centralizzazione e l'onnipotenza dello Stato" [52].
Ma il pensiero di Proudhon va oltre e più in fondo ancora. Insegna che l'esercizio della democrazia diretta, che le formule più ingegnose in vista di promuovere un autentico autogoverno del popolo per il popolo (confuzione dei poteri legislativo ed esecutivo, elezione e revocabilità dei funzionari reclutati dal popolo al proprio interno, controllo popolare permanente), che questo sistema "irreprensibile" in teoria "non incontra nella pratica una difficoltà". Infatti, anche in questa ipotesi optima, l'incompatibilità tra la società e il potere rischia di sussistere: "Se il popolo intero, a titolo di sovrano, diventa governo, si cerca invano dove saranno i governati... Se il popolo così organizzato per il potere, non ha effettivamente più nulla sopra di lui, chiedo cosa ha sotto?". Non vi è via di mezzo: si deve "o lavorare o regnare". "Il popolo in massa passando allo Stato, lo Stato non ha più la minima ragione d'essere, poiché non resta più popolo: l'equazione del governo dà come risultato zero".
Come uscire da questa contraddizione, da questo "circolo infernale"? Proudhon risponde che bisogna dissolvere il governo nell'organizzazione economica.
"L'istituzione governativa... ha la sua ragione nell'anarchia economica. La rivoluzione, facendo cessare quest'anarchia e organizzando le forze industriali, la centralizzazione politica, non ha più pretesti".
Tuttavia vi è in Proudhon una grave lacuna. Egli attacca lo Stato in astratto. Il suo utopismo piccolo borghese lo rende incapace di definire come e perché lo Stato si dissolverà nella "organizzazione economica". Si accontenta di alcune formule vaghe come la "solidarietà industriale", il "regno dei contratti". Aggrappandosi alla proprietà privata, nella quale crede di trovare la garanzia della libertà, è opposto, in principio, alla gestione collettiva [53] e francamente ostile al comunismo. È qui che il materialismo storico di Marx illumina e concretizza la critica proudhoniana dello Stato: il potere politico, è il potere organizzato di una classe in vista dell'oppressione di un'altra classe e soltanto il comunismo, sopprimendo le condizioni di produzione borghesi, porrà fine all'antagonismo di classe e, di conseguenza, abolirà lo Stato [54]. Anarchici e marxisti sono d’accordo sul deperimento finale di quest'ultimo [55].
Tuttavia, i marxisti sostengono che lo stato non potrà essere abolito subito dopo la Rivoluzione proletaria, ma soltanto al termine di un periodo di transizione più o meno lungo. I libertari rispondono che resuscitare lo Stato all'indomani della presa del potere da parte dei lavoratori, equivale a instaurare una nuova forma di oppressione. Tra questi due antipodi, sottoposti, nella Prima Internazionale, alla pressione opposta dei bakuninisti e dei blanchisti, oscilla il pensiero di Marx ed Engels....
[Traduzione di Ario Liberti]
NOTE
[1] Edgar Quinet, La Révolution [La Rivoluzione], 1865, edizione del 1869, I, p. 8.
[2] La lutte de classes sous la Première République [La lotta di classe durante la Prima Repubblica], 2 vol., Gallimard, 1946.
[3] Times, Literary Supplement, 15 novembre 1946.
[4] Kropotkin, La Grande Révolution, 1909, p. 745; tr. it: La Grande Rivoluzione, Edizioni Anarchismo, Catania, 1975. La maggior parte degli storici del pensiero socialista hanno avuto il torto di non sottolineare abbastanza che queste correnti di pensiero sono nate non soltanto nel cervello degli ideologi del XIX secolo (essi stessi eredi dei filosofi del XVIII secolo), ma anche nell'esperienza vivente della lotta di classe, in particolare quella del 1793. Questa lacuna è particolarmente visibile nel capitolo sulla Rivoluzione francese con il quale G. D. H. Cole apre la sua monumentale Storia del pensiero socialista [A History of Socialist Thought, 1953, I); tr. it: Storia del pensiero socialista. I precursori (1789-1850), Laterza, Bari, 1967.
[5] Boris Souvarine, Stalin, 1935, p. 265; tr. it: Stalin, Adelphi, Milano, 1983. Erich Wollenberg, The Red Army, 2a ed., Londra 1940, p. 78-80; Isaac Deutscher, Stalin, 1953, p. 7; tr. it. Stalin, Longanesi, Milano, 1969.
[6] Albert Soboul, Classes et Lutte de classes sous la Révolution française, Pensée, janvier-février, 1954; tr. it: Classi e lotta di classe durante la Rivoluzione francese.
[7] Cfr. tra gli altri Marc-Antoine Jullien alla Societé populaire de La Rochelle, 5 mars 1793 in: Edouard Lockroy, Une mission en Vendée, 1793, p. 245, 248 (Daniel Guérin, l, p. 177-178).
[8] Cfr. Paul Sainte-Claire Deville, La Commune de l'an II, 1946.
[9] Per non dovermi ripetere, mi astengo dall'esporre qui un altro aspetto della democrazia diretta e comunale del 1793: la federazione, non avendo altro da aggiungere a quanto già sostenevo nel mio libro (I, 34-37). Vorrei tuttavia precisare che è a questa fonte che Proudhon, poi Bakunin hanno attinto il loro federalismo libertario.
[10] Pierre Caron, Paris sous la Terreur, 6 volumi, di cui 4 già usciti.
[11] Ibid., VI (di imminente uscita) (obs. Boucheseiche, 29-3-94). 12.
[12] Daniel Guérin II, p. 74.
[13] Lockroy, op. cit., p. 45, 57.
[14] Augustin Cochin, La Révolution et la libre pensée [La Rivoluzione e il Libero pensiero], 1924.
[15] Daniel Guérin, I, p. 37-41. Questa sezione non ha trovato il gradimento di alcuni anarchici (Cfr. Le Libertaire, del 3 gennaio 1947).
[16] Karl Kautsky, La Dictature du Prolétariat, [La dittatura del proletariato, SugarCo, Milano, 1977], Vienna, 1918; - dello stesso autore Materialistische Geschichtsaufassung, 1927, II, p. 409 ; - Cfr. Lenin, La Révolution prolétarienne et le renégat Kautsky, 1918, ed. 1920; [tr. it. La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, Opere scelte, Editori Riuniti - Edizioni Progress, Roma - Mosca, 1974.
[17] Così, nella sua Critica al Programma di Erfurt, 1891, Engels scrive che la Repubblica democratica è "la forma specifica della dittatura del proletariato, come l'ha già dimostrato la grande Rivoluzione francese".
[18] Daniel Guérin, I, p. 35-36, 20. Ibid., p. 39.
[19] Saint-Just avendo proposto che il potere fosse concentrato tra le mani di Robespierre, la prospettiva di una dittatura personale suscitò una protesta tra i suoi colleghi, e Robert Lindet avrebbe esclamato: "Non abbiamo fatto la Rivoluzione a profitto di uno solo". (Daniel Guérin, II; p. 273-274).
[20] Cit. da Daniel Guérin, I, p. 23.
[21] Bakunin, articolo apparso sull'Egalité del 26 giugno 1869 in Mémoire de la Fédération jurassienne..., Sonvillier, 1873, annesso; - (Oeuvres, edizione Stock) IV, p. 344; - "Programma dell'Organizzazione rivoluzionaria dei Fratelli internazionali" in L'Alliance Internationale de la Démocratie socialiste et l'Association Internationale des Travailleurs, Londres-Hambourg, 1873. Tuttavia Bakunin ammette che per "dirigere" la Rivoluzione, una "dittatura collettiva" dei rivoluzionari è necessaria, ma una "dittatura senza emblema, senza titolo, senza diritto ufficiale, e tanto più potente in quanto non avrà le forme del potere" (lettera a Albert Richard, 1870, in Richard, Bakounine et l'Internationale, éd. Lione, 1896).
[22] Philippe Buonarroti, Conspiration pour l'Egalité dite de Babeuf, 1828, p. 93, 134, 139, 140 (D. G., I, p. 40); [tr. it.: La Congiura per l'Eguaglianza detta di Babeuf, Einaudi, Torino, 1971].
[23] Kautsky, La dictature di prolétariat, [tr. it.: La dittatura del proletariato, SugarCo, Milano, 1977], cit. - Prefazione di V. P. Volguine ai Textes Choisis di Blanqui, 1955, p. 20, 41.
[24] Cfr. “Cahiers du bolchevisme”, 14 marzo 1933, p. 451.
[25] Marx, La lutte des classes en France, 1850, éd. Schleicher, 1900, p.147; [tr. it.: Rivoluzione e reazione in Francia (1848-1850), Einaudi, Torino, 1976].
[26] Maximilien Rubel, Pages choisies de Marx, 1948, p. L. note et 224-225.
[27] Cfr. Léon Trotsky, Nos Taches politiques, Genève, 1904 (in russo), [I nostri compiti politici, Samonà e Savelli, Roma, 1972], alcuni brani in: Deutscher, The Prophet Armed, Trotsky: 1879-1921, New York e Londra, 1954, p. 88-97; [tr. it.: Il profeta armato, Longanesi, Milano, 1956, 1983; Pgreco, Milano, 2011]. Conviene precisare che il pensiero di Lenin, in seguito, oscillerà tra una concezione blanquista e una concezione più democratica della "dittatura del proletariato".
[28] Cfr. Proudhon, Idée générale de la Révolution au XIXe siècle, 1851 (Oeuvres Complètes, Rivière) p. 126-127 [tr. it. parziale: L'idea della Rivoluzione nel XIX secolo, Centro Editoriale Toscano, Firenze, 2001]; - Deutscher, op. cit., p. 8-9 (secondo Albert Sorel).
[29] Daniel Guérin, II, p. 1-16.
[30] Georges Lefebvre, Annales Historiques..., aprile-Giugno 1947, p. 175.
[31] Albert Soboul, Robespierre and the Popular Movement of 1793-1794, in: Past and Present, maggio 1954; p. 6.
[32] Georges Guy-Grand, La démocratie et l'après-guerre, 1922 p. 230.
[33] Lefebvre, ibid., p. 177.
[34] Daniel Guérin, I, p. 347, II, p. 22-23.
[35] Oggi, allo stesso modo, le critiche più severe della dittatura staliniana non contestano che delle tecniche analoghe hanno fatto dell'URSS, soprattutto sul piano atomico, una delle due più grandi potenze del mondo.
[36] Daniel Guérin, II, p. 22-23.
[37] Daniel Guérin I, p. 185, 188, 223.
[38] Daniel Guérin II, p. 3-7.
[39] Georges Lefebvre, Etudes sur la Révolution française, 1954, p. 21.
[40] Daniel Guérin, I, p. 251-256.
[41] Daniel Guérin, I, p. 255, 326 ; II, p. 125-128.
[42] Trotsky, Staline, 1948, p. 485, 556, 559-560; [tr. it.: Longanesi, Milano, 1947].
[43] Allo stesso modo, sul piano militare, una volta eliminate i generali dell'antico regime, traditori della Rivoluzione, quest'ultima fecero sorgere, accanto ai generali sanculotti, devoti ma spesso incompetenti, un nuovo tipo di giovani capi usciti dalle fila, capaci ma divorati dall'ambizione, e che più tardi, si faranno gli strumenti della reazione e della ditattura militare. In una certa misura, questi futuri marescialli dell'Impero sono la prefigurazione dei marescialli sovietici (D. G., I, p. 229-230).
[44] Ritroviamo l'espressione "rivoluzione permanente" sotto la penna di Bakunin come sotto quella di Blanqui e di Marx.
[45] Varlet, L'Explosion, 15 vendémiaire an III (D. G., II, p. 59).
[46] Alain Sergent e Claude Harmel, Histoire de l'Anarchie, 1949, p. 82.
[47] Jacques Roux, Publiciste de la République Française, n° 265 (D. G., I, p. 85).
[48] Daniel Guérin, II, p. 59.
[49] Babeuf, Tribun du Peuple, II, 294, 13 aprile 1796; - Buonarroti, op. cit., p. 264-266 (D. G., II, p. 347-348). 53.
[50] Proudhon, Idée générale..., p. 195.
[51] Du principe d'autorité, p. 177-236.
[52] Bakunin, Oeuvres, I, ll.
[53] Tuttavia Proudhon ammette la gestione collettiva dei "grandi mezzi di produzione" come "ad esempio, le ferrovie" (Idée générale..., cit., p. 175). Bakunin, benché discepolo di Proudhon, si alleerà, contro i proudhoniani, al collettivismo della Prima Internazionale (congresso di Bruxelles, 1868). Tuttavia, ripudierà sempre il "comunismo di Stato".
[54] Manifesto comunista, 1847, Ed, Costes, 1953, p. 96-97; - Marx, “Neue Rheinische Zeitung”, 1850, in: Pages choisies, a cura di Rubel, 1948, p. 170.
[55] Bakunin, Oeuvres, IV, p. 250; Les prétendues scissions de l'Internationale, Londres, 5 mars 1872, p. 49; James Guillaume, L'Internationale: II, 1907, p. 298.