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30 settembre 2014 2 30 /09 /settembre /2014 05:00

Un ottimo scritto, concepito nello spirito della più onesto marxismo libertario. Degno di essere accostato a quelli oramai più che classici di Herman Gorter, Anton, Pannekoek, Paul mattick, Karl Korsch e altri ancora.

 

Il "rinnegato" Kautsky e il suo discepolo Lenin

Lenin Karpov

Jean Barrot



Kautsky"Le tre fonti del marxismo l’opera storica di Marx"
presenta un interesse storico modesto, Kautsky è stato indiscutibilmente l’ideologo della II Internazionale e l’uomo più potente all’interno del suo partito: il partito socialdemocratico tedesco. Custode dell'"ortodossia", Kautsky era considerato, quasi universalmente, come il maggiore conoscitore dell’opera di Marx ed Engels e come il loro interprete principale. Le posizioni di Kautsky sono dunque testimonianza di tutta un’epoca del movimento operaio e meritano di essere conosciute, non fosse altro che per questo motivo. Questa conferenza si incentra proprio su una questione centrale per il movimento proletario: il rapporto tra la classe operaia e teoria rivoluzionaria. La risposta che Kautsky dà a tale questione costituisce il fondamento teorico della pratica e dell’organizzazione di tutti i partiti che costituivano la II Internazionale e quindi del partito socialdemocratico russo, e della sua frazione bolscevica, membro "ortodosso" della II Internazionale fino al 1914, cioè fino al crollo di quest’ultima di fronte alla prima guerra mondiale.

Tuttavia, le tesi sviluppate da Kautsky in questo opuscolo non sono crollate contemporaneamente alla II Internazionale. Al contrario esse sono sopravvissute ed hanno costituito il fondamento della III Internazionale attraverso l’intermediazione del " leninismo" e delle sue sventurate espressioni staliniane e trotskyste.

leninIl leninismo sottoprodotto russo del kautskismo? Ecco ciò che farà sussultare coloro che non conoscono di Kautsky che gli anatemi lanciati contro di lui dal bolscevismo ed in particolare l’opuscolo di Lenin "La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky" e che non conoscono di Lenin se non ciò che è bene conoscere nelle differenti chiese, cappelle e sagrestie che frequentano.

Tuttavia il titolo stesso dell’opuscolo di Lenin definisce con estrema esattezza il suo rapporto con Kautsky. Se Lenin tratta Kautsky da rinnegato, è proprio perché ritiene che in precedenza egli fosse un adepto della vera fede, di cui si considera ora il solo valido difensore. Lungi dal criticare il "kautskismo", che egli si mostra incapace di identificare, Lenin in realtà si accontenta di rimproverare al suo antico maestro di tradire la sua stessa dottrina. Da tutti i punti di vista, la rottura di Lenin fu tardiva e allo stesso tempo superficiale. Tardiva, perché Lenin si era fatto delle grosse illusioni sulla socialdemocrazia tedesca e non aveva capito, se non in un secondo tempo, che il tradimento era stato consumato. Superficiale, perché Lenin si limita a rompere sui problemi dell’imperialismo e della guerra, senza risalire alle cause profonde del tradimento dei socialdemocratici nell’agosto 1914, legate alla natura stessa di questi partiti ed ai loro rapporti sia con la società capitalista che con il proletariato. Questi rapporti devono essere ricondotti al movimento stesso del capitale e della classe operaia e considerati come fase di sviluppo del proletariato e non come qualcosa suscettibile di modificazioni per la volontà di una minoranza, tanto meno da una dirigenza rivoluzionaria, per quanto consapevole.

Da ciò deriva l’importanza attuale delle tesi che Kautsky sviluppa in questo opuscolo in modo particolarmente coerente e che costituiscono il tessuto stesso del suo pensiero nel corso della sua vita e che Lenin riprende e sviluppa sin dal 1900 ne Gli obiettivi immediati del nostro movimento e poi in Che fare? nel 1902 dove tra l’altro cita diffusamente Kautsky, lodandolo continuamente. Nel 1913, Lenin riprenderà nuovamente queste concezioni ne Le tre fonti e le tre parti costitutive del marxismo in cui sviluppa gli stessi temi ripetendo a volte parola per parola il testo di Kautsky.

Queste tesi, fondate su una analisi storica superficiale e sommaria dei rapporti tenuti da Marx ed Engels sia con il movimento degli intellettuali della loro epoca sia con il movimento operaio, possono essere riassunte in poche parole, ed alcune citazioni basteranno a chiarirne la sostanza:

"Un movimento operaio spontaneo e sprovvisto di ogni teoria che dalle classi lavoratrici si indirizzi contro un capitalismo in fase di crescita, è incapace di compiere...l’azione rivoluzionaria"

È anche necessario realizzare ciò che Kautsky chiama l’Unione del movimento operaio e del socialismo.

Ora "La coscienza socialista di oggi (!?) non può sorgere che sulla base d’una profonda conoscenza scientifica… Ora, il portatore della scienza non è il proletariato, ma gli intellettuali borghesi,… così dunque la coscienza socialista è un elemento importato dal di fuori all’interno della lotta di classe del proletariato e non qualcosa che sorge spontaneamente da essa". Queste parole di Kautsky sono, secondo Lenin, "profondamente giuste".

Va da sé che questa unione tanto auspicata del movimento operaio e del socialismo non poteva realizzarsi allo stesso modo nelle condizioni tedesche ed in quelle russe. Ma è importante vedere che le divergenze profonde del bolscevismo sul terreno organizzativo non risultano dalle condizioni differenti, ma unicamente dall’applicazione degli stessi principi in situazioni politiche, economiche e sociali differenti.

In effetti, lungi dal conseguire una unione sempre più grande del movimento operaio e del socialismo, la socialdemocrazia non realizzerà altro che l’unione con il capitale e con la borghesia. Quanto al bolscevismo, dopo essere stato nella rivoluzione russa come un pesce nell’acqua (i rivoluzionari sono nella rivoluzione come l’acqua nell’acqua) e per effetto dello scacco di questa, realizzerà una fusione quasi completa col capitale statale gestito da una burocrazia totalitaria.

Tuttavia il "leninismo" continua ad ossessionare la coscienza di molti rivoluzionari di più o meno buona volontà, alla ricerca di una ricetta suscettibile di riuscita.. Persuasi di essere "l’avanguardia" perché sono la "coscienza", mentre non possiedono che una falsa teoria, essi militano per unificare questi due mostri metafisici che sono:" Un movimento operaio spontaneo, privo di ogni teoria"e una coscienza socialista disincarnata.

Questo atteggiamento è semplicemente volontaristico. Ora, così come ha detto Lenin:"L’ironia e la pazienza sono le principali qualità del rivoluzionario","l’impazienza è la principale fonte dell’opportunismo (Trotsky), l’intellettuale, il teorico rivoluzionario non deve preoccuparsi di essere legato alle masse perché se la sua teoria è rivoluzionaria, è già legato alle masse. Egli non ha da "scegliere il campo del proletariato" (non è Sartre a utilizzare questo vocabolario, ma Lenin) perché, dicendolo più chiaramente, non ha altra scelta. La critica teorica e pratica ,di cui è il portatore, è determinata dal rapporto che intrattiene con la società. Egli non può liberarsi da questa passione che sottomettendovisi (Marx). Se "ha delle scelte", vuol dire che non è già più rivoluzionario e che la sua critica teorica è invecchiata. Il problema della penetrazione delle idee rivoluzionarie che egli propaganda negli ambienti operai è, per questo motivo, completamente trasformato: allorché le condizioni storiche, i rapporti di forza tra le classi in lotta, principalmente determinati dal movimento autonomo del capitale, impediscono ogni irruzione rivoluzionaria del proletariato sulla scena della storia, l’intellettuale fa come l’operaio: ciò che può. Studia, scrive, fa conoscere i suoi lavori il più possibile, generalmente assai male. Quando studiava al British Museum, Marx, prodotto del movimento storico del proletariato, era legato, se non ai lavoratori, per lo meno al movimento storico del proletariato. Egli non era più isolato dai lavoratori di quanto un lavoratore qualsiasi non lo fosse dagli altri, nella misura in cui le condizioni del momento limitavano i suoi rapporti a quelli permessi dal capitalismo.

Di contro, quando il proletariato si costituisce in classe e dichiara, in un modo o nell’altro, guerra (e non ha bisogno che gli si trasmetta il SAPERE per farlo, non essendo esso stesso, nei rapporti di produzione capitalistici, altro che capitale variabile. Basta che voglia cambiare di poco la sua condizione per essere di colpo nel cuore del problema che l’intellettuale avrà qualche difficoltà a cogliere) il rivoluzionario non è ne più ne meno legato al proletariato di quanto non lo fosse di già. Ma la critica teorica si fonde allora con la critica pratica, non perché è stata portata dall’esterno, ma perché sono un tutt’uno.

 Se nel periodo precedente, l’intellettuale ha avuto la debolezza di credere che il proletariato restava passivo perché gli mancava la "coscienza" e per questo era giusto considerarsi "avanguardia" al punto da voler dirigere il proletariato, allora egli si riserva delle amare delusioni.

 Tuttavia è questa la concezione che costituisce la parte essenziale del leninismo e che mostra l'ambiguità storica del bolscevismo. Questa concezione è potuta sopravvivere soltanto perché la rivoluzione russa è fallita, vale a dire perché i rapporti di forza, su scala internazionale, tra capitale e proletariato non hanno permesso a quest’ultimo di farne una critica teorica e pratica. È ciò che tenteremo di dimostrare analizzando sommariamente quanto è avvenuto in Russia e il vero ruolo del bolscevismo.

Credendo di vedere nei circoli rivoluzionari russi il frutto dell’"unione del movimento operaio e del socialismo", Lenin si ingannava fortemente. I rivoluzionari organizzati nei gruppi socialdemocratici non apportavano alcuna "coscienza" al proletariato. Beninteso, un opuscolo o un articolo teorico sul marxismo era molto utile agli operai; non serviva certo a trasmettere la coscienza, la conoscenza della lotta di classe, ma solamente a precisare le cose e a far riflettere maggiormente. Lenin non comprendeva questa realtà. Non solamente egli voleva trasmettere alla classe operaia la conoscenza della necessità del socialismo in termini generali, ma voleva nello stesso tempo offrirle delle parole d’ordine imperative che esprimessero ciò che essa avrebbe dovuto fare al momento opportuno. D’altronde ciò è normale, poiché il partito di Lenin, depositario della coscienza di classe, è, per prima cosa, il solo capace di discernere gli interessi generali della classe operaia al di là di tutte le sue divisioni in strati diversi, e, secondariamente, il solo capace di analizzare in permanenza la situazione e di formulare parole d’ordine adeguate. Ora, la rivoluzione del 1905 doveva mostrare l’incapacità pratica del partito bolscevico di dirigere la classe operaia e rivelare il ritardo del partito d’avanguardia. Tutti gli storici, anche quelli favorevoli ai bolscevichi, riconoscono che nel 1905 il partito bolscevico non aveva capito assolutamente niente del fenomeno dei soviet. L’apparizione di nuove forme di organizzazione aveva suscitato la diffidenza dei bolscevichi. Lenin afferma che i Soviet non erano:"né un parlamento operaio né un organo di autogoverno proletario". La cosa importante da notare è che gli operai russi non sapevano di accingersi a costituire dei soviet, tra di loro, solo una esigua minoranza conosceva l’esperienza della Comune di Parigi e tuttavia crearono un embrione di Stato Operaio, benché nessuno li avesse educati. La tesi kautskista-leninista infatti nega ogni possibilità per la classe operaia di creare qualcosa di originale se non è guidata dal partito-fusione-del-movimento-operaio-e-del-socialismo. Ora si nota che nel 1905. per riprendere la frase delle "Tesi su Feuerbach", "l’educatore ha bisogno lui stesso di essere educato".

Lenin tuttavia ha compiuto un lavoro rivoluzionario (si veda, tra l’altro, la sua posizione sulla guerra) al contrario di Kautsky. Ma in realtà, Lenin non fu rivoluzionario che contro la sua teoria della coscienza di classe. Prendiamo il caso della sua azione tra il febbraio e l’ottobre del 1917. Lenin aveva lavorato più di quindici anni, a partire dal 1900, per creare una organizzazione d’avanguardia capace di realizzare l’unione del "socialismo" e del "movimento operaio", che raggruppasse "dirigenti politici", i "rappresentanti d’avanguardia capaci di organizzare il movimento e di dirigerlo". Ora, nel 1917, come nel 1905, questa direzione politica, rappresentata dal comitato centrale del partito bolscevico, si dimostra incapace per i compiti del momento, in ritardo rispetto alle attività rivoluzionarie del proletariato". Tutti gli storici, ivi compresi gli storici stalinisti e trotskysti, mostrano che Lenin dovette fare una battaglia lunga e difficile contro la direzione della sua organizzazione per far trionfare le sue tesi, e non ci sarebbe riuscito se non si fosse appoggiato agli operai del partito, l'avanguardia genuina organizzata nelle officine e all'interno o vicina ai circoli socialdemocratici. Si dirà che tutto ciò sarebbe stato impossibile senza l’attività condotta per anni dai bolscevichi, sia nelle lotte quotidiane degli operai sia nella difesa e nella propaganda delle idee rivoluzionarie.

Effettivamente, la maggioranza dei bolscevichi, ed in primo luogo Lenin, con la loro propaganda e con la loro agitazione incessanti hanno contribuito alla sollevazione dell'ottobre 1917. In quanto militanti rivoluzionari hanno giocato un ruolo efficace, ma in quanto "direzione della classe", "avanguardia cosciente", sono stati in ritardo sul proletariato. La rivoluzione russa si è svolta contro le idee del "Che fare?" , e nella misura in cui queste idee sono state applicate (creazione di un organo dirigente della classe operaia ma separato da essa), si sono rivelate un freno e un ostacolo alla rivoluzione. Nel 1905, Lenin è in ritardo sulla storia perché si rifà alle tesi del "Che fare?". Nel 1917, Lenin partecipa al movimento reale delle masse russe e facendo ciò rigetta - nella pratica - la concezione sviluppata nel "Che fare?".

Se applichiamo a Kautsky e a Lenin il trattamento inverso di quello che essi hanno fatto subire a Marx, se limitiamo le loro concezioni alla lotta di classe invece di separarle da essa, il kautskysmo-leninismo appare come caratteristico di tutto un periodo della storia del movimento operaio dominato principalmente dalla II Internazionale. Dopo essersi sviluppato ed organizzato alla meno peggio, il proletariato si è trovato, sin dalla fine del XIX secolo, in una situazione contraddittoria. Possiede diverse organizzazioni il cui scopo è di fare la rivoluzione e nello stesso tempo è incapace di farla perché le condizioni non sono ancora mature. Il kautskysmo-leninismo è l’espressione e la soluzione di tale contraddizione; postulando che il proletariato, per essere rivoluzionario, deve passare per il cammino tortuoso della conoscenza scientifica, consacra e giustifica l’esistenza di organizzazioni capaci di inquadrare, dirigere e controllare il proletariato.

Così come è stato presentato, il caso di Lenin è più complesso di quello di Kautsky, nella misura in cui Lenin fu, per una parte della sua vita, rivoluzionario contro il kautskysmo-leninismo. D'altronde la situazione della Russia era totalmente differente da quella della Germania, che possedeva un regime pressoché di democrazia borghese dove esisteva un movimento operaio fortemente sviluppato ed integrato nel sistema. Al contrario, in Russia bisognava costruire tutto e la questione non era se si dovesse partecipare ad attività parlamentari, borghesi e sindacali riformiste poiché non esistevano affatto. In tali condizioni, Lenin poteva adottare una posizione rivoluzionaria malgrado le sue idee kautskyste. Tra l’altro bisogna anche sottolineare che, fino alla guerra mondiale, egli considerava la socialdemocrazia tedesca come un modello.

Nelle loro storie, riviste e corrette, del leninismo gli stalinisti ed i trotzkysti ci mostrano un Lenin capace di comprendere lucidamente e di denunciare, prima del 1914, il "tradimento" della socialdemocrazia e dell’Internazionale. Ciò è pura leggenda e bisognerebbe studiare bene la storia della II° Internazionale per dimostrare che non soltanto Lenin non la denunciò, me che, prima della guerra, non aveva affatto compreso il fenomeno della degenerazione della socialdemocrazia. Prima del 1914, Lenin fa anche l’elogio del partito socialdemocratico tedesco per aver saputo riunire il "movimento operaio" e il "socialismo" (cfr. Che fare?). Citiamo soltanto questi passi tratti dall’articolo necrologico "August Bebel" (che contiene d’altronde numerose superficialità ed errori di fondo sulla vita di questo "dirigente", di questo "modello di capo operaio" e sulla storia della II° Internazionale.

"Le basi della tattica parlamentare della socialdemocrazia tedesca (e internazionale), che non cede un pollice ai nemici, che non si lascia scappare la minima possibilità di ottenere un miglioramento, per quanto possa essere minimo, per gli operai, che, nello stesso tempo, si mostra intransigente sul piano dei principi e si orienta sempre verso la realizzazione dell’obiettivo finale, le basi di questa tattica furono messe a punto da Bebel…".

Lenin rivolgeva queste lodi alla "tattica parlamentare della socialdemocrazia tedesca (e internazionale),"intransigente sul piano dei principi"(!) nell’agosto del 1913. Quando un anno più tardi egli credette che il numero del "Vorwärts" (organo del partito socialdemocratico tedesco), che annunciava il voto favorevole ai crediti di guerra da parte dei deputati socialdemocratici, era un falso fabbricato dallo stato maggiore tedesco, egli manifestava soltanto l’illusione che aveva nutrito da tempo, in realtà dal 1900-1902 e dal Che fare?, sull’internazionale in generale e sulla socialdemocrazia tedesca in particolare. (Noi non consideriamo qui l’atteggiamento di altri rivoluzionari di fronte a questi problemi, ad esempio Rosa Luxemburg. Tale questione meriterebbe infatti uno studio dettagliato).

Abbiamo visto come Lenin avesse abbandonato nella pratica le tesi del Che fare? nel 1917. Ma l’immaturità della lotta di classe a livello mondiale, ed in particolare l’assenza di rivoluzioni in Europa, comportò il fallimento della rivoluzione russa. I bolscevichi si trovarono al potere con il compito di "amministrare la Russia" (Lenin), di portare a termine i compiti della rivoluzione borghese che non si era potuta verificare, ossia di assicurare, in effetti, lo sviluppo dell’economia russa, non potendo tale sviluppo che essere capitalista. Un obiettivo fondamentale fu di richiamare all’ordine la classe operaia – ed alcune opposizioni all’interno del partito. Lenin, che nel 1917 non aveva rinnegato esplicitamente il "Che fare?", riprende subito le concezioni "leniniste" che sole permettono il "necessario"inquadramento degli operai. I Centralismi Democratici, l’Opposizione Operaia ed il Gruppo Operaio sono schiacciati per aver negato "il ruolo dirigente del partito". Allo stesso modo la teoria leninista del partito viene imposta all’Internazionale. Dopo la morte di Lenin, Zinoviev, Stalin e tanti altri, dovevano svilupparla insistendo sempre più sulla "disciplina di ferro" , "l’unità di pensiero e l’unità di azione", mentre il principio sul quale poggiava l’Internazionale stalinizzata era lo stesso che era alla base dei partiti socialisti riformisti (il partito separato dai lavoratori che forniva loro la coscienza di ciò che erano) e chiunque rifiutasse la teoria leninista-stalinista cadeva nella "palude opportunista, socialdemocratica, menscevica,…" Da parte loro i trotzkysti s’agganciavano al pensiero di Lenin e recitavano Che fare? . La crisi dell’umanità non è altro che "la crisi della direzione" diceva Trotzky: occorreva dunque creare ad ogni costo una direzione. Supremo idealismo, la storia del mondo veniva spiegata con la crisi della sua coscienza.

In definitiva, lo stalinismo non doveva trionfare che nei paesi in cui lo sviluppo del capitalismo non poteva essere assicurato dalla borghesia, senza che le condizioni fossero unificate affinché il movimento operaio, successivamente, potesse distruggerle. Nell’Europa dell’Est, in Cina, a Cuba si è formato un gruppo dirigente nuovo, composto da quadri del movimento operaio burocratizzato, da vecchi specialisti o tecnici borghesi, talora da quadri dell’esercito o di vecchi studenti in sintonia col nuovo ordine sociale come in Cina. In ultima analisi, un tale processo non era possibile se non a causa della debolezza del movimento operaio. In Cina, per esempio, il sostrato sociale motore della rivoluzione fu la classe dei contadini, incapace di dirigersi da sola, non poteva che essere diretta dal "partito" . Prima della presa del potere, questo gruppo organizzato nel "partito" dirige le nasse e le "regioni liberate" se dovessero esservi; in seguito, esso prende nelle sue mani l’insieme della vita sociale del paese. Ovunque le tesi di Lenin sono state un potente fattore di burocratizzazione, infatti, secondo Lenin, la funzione di direzione del movimento operaio era una funzione specifica assicurata da alcuni "capi" organizzati separatamente dal movimento ed il cui ruolo era esclusivamente quello.Nella misura in cui preconizzava un corpo separato di rivoluzionari di professione capaci di guidare le masse, il leninismo è servito come giustificazione ideologica alla formazione di direzioni separate dai lavoratori. A questo livello il leninismo, fuori dal suo contesto originale, non è altro che una tecnica di inquadramento delle masse ed una ideologia che giustifica la burocrazia e sostiene il capitalismo: il suo recupero era storicamente necessario per lo sviluppo di nuove strutture sociali che rappresentano, esse stesse, una necessità storica per lo sviluppo del capitale. Man mano che il capitalismo si estende e domina l’intero pianeta, maturano le condizioni affinché vi sia la possibilità di una rivoluzione, l’ideologia leninista comincia a fare il suo tempo, nel vero senso della parola.

È impossibile prendere in esame la questione del partito senza riportarla alle condizioni storiche nelle quali è nato questo dibattito, in ogni caso, benché sotto forme differenti, lo sviluppo dell’ideologia leninista è determinato dall’impossibilità della rivoluzione proletaria. Se la storia ha dato ragione al kautskysmo-leninismo, se i suoi avversari non hanno mai potuto né organizzarsi durevolmente e nemmeno presentarne una critica coerente, ciò non è dovuto al caso: il successo del kautskysmo-leninismo è un prodotto della nostra epoca ed i primi attacchi seri – e pratici – contro di esso, segnano la fine di tutto un periodo storico. Per fare questo occorreva che il capitalismo si sviluppasse largamente su scala mondiale. La rivoluzione ungherese del 1956 ha suonato il rintocco di tutto un periodo di controrivoluzione, ma anche di maturazione rivoluzionaria. Nessuno sa quando questo periodo sarà definitivamente superato ma è certo che la critica delle tesi di Kautsky e di Lenin, prodotti di questa epoca, diventerà allora possibile e necessaria. Ecco perché abbiamo ritenuto importante ripubblicare "Le tre fonti del marxismo", l’Opera storica di Marx", per far conoscere meglio e comprendere maggiormente quella che fu e quella che è ancora l’ideologia dominante di tutto un periodo. Lungi dal voler dissimulare le idee che condanniamo e combattiamo, vogliamo, al contrario, diffonderle largamente, al fine di mostrare nello stesso tempo quanto siano state necessarie ed il loro limite storico.

Le condizioni che hanno permesso la nascita e lo sviluppo delle organizzazioni di tipo socialdemocratico e bolscevico oggi sono superate. Per quanto riguarda l’ideologia leninista, oltre all’utilizzo che ne viene fatto dai burocrati al potere, lungi dall’avere un’utilità per i gruppi rivoluzionari che sostengono l’unione del socialismo e del movimento operaio, non può servire, sin da ora, ad altro che a cementare provvisoriamente l’unione di intellettuali mediocri e di lavoratori mediocremente rivoluzionari.

 

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Il "rinnegato" Kautsky e il suo discepolo Lenin

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29 agosto 2014 5 29 /08 /agosto /2014 05:00

Economia e politica nella Spagna rivoluzionaria*

 

I

 

Per un approccio realistico al lavoro costruttivo del proletariato in Catalogna e in altre parti della Spagna, non dobbiamo metter a confronto i suoi risultati con un qualche astratto ideale né con risultati raggiunti in condizioni storiche completamente diverse. Non c'è dubbio che i risultati effettivi della "collettivizzazione", anche in quelle industrie di Barcellona e delle città più piccole e dei villaggi della Catalogna ove può essere studiata nella sua forma migliore, è molto indietro rispetto alle costruzioni ideali delle teorie socialiste e comuniste ortodosse, e ancora più indietro rispetto ai sogni grandiosi di generazioni di sindacalisti rivoluzionari e operai anarchici in Spagna sin dai tempi di Bakunin.

Quanto alle analogie storiche, quello che ha compiuto la rivoluzione spagnola nel periodo iniziato con il rapido contrattacco degli operai rivoluzionari contro l'invasione di Franco e dei suoi sostenitori fascisti, nazionalsocialisti e democratici borghesi, e che ora sta rapidamente avvicinandosi alla fine, non dovrebbe essere paragonato a nulla di ciò che avvenne in Russia dopo l'ottobre 1917 e neppure con il periodo del cosiddetto "comunismo di guerra" (1918-1920), né con la fase seguente della NEP. In tutto il processo rivoluzionario iniziato con il rovesciamento della monarchia nel 1931 non c'è stato un solo momento in cui i lavoratori o un qualsiasi partito od organizzazione, che parlasse in nome dell'avanguardia rivoluzionaria dei lavoratori, abbia detenuto il potere politico. Ciò è vero non solo a livello nazionale ma anche regionale; vale persino per le condizioni prevalenti nella roccaforte sindacalista della Catalogna nei mesi successivi al luglio 1936, quando il potere del governo era diventato temporaneamente invisibile e la nuova e ancora indefinita autorità esercitata dai sindacati non assunse un preciso carattere politico. Tuttavia la situazione creata da queste condizioni non viene adeguatamente descritta come "dualismo di poteri". Segnò piuttosto una eclissi temporanea di ogni potere statale a causa della scissione tra la sua sostanza (economica) che era passata ai lavoratori e il suo involucro (politico), a causa dei vari conflitti interni tra le forze di Franco e quelle dei "lealisti", Madrid e Barcellona, e infine a causa del fatto decisivo che la funzione principale dell'apparato burocratico e militare di qualsiasi Stato capitalista è la repressione dei lavoratori e non poteva espletarsi in nessun modo contro i lavoratori in armi.

Non serve argomentare (come molti hanno fatto) che nelle molte fasi dello sviluppo rivoluzionario degli ultimi sette anni più di una volta ñ nellíottobre 1934, nel luglio 1936 e nel maggio 1937 ñ si è creata una "situazione oggettiva" in cui i lavoratori rivoluzionari uniti avrebbero potuto prendere il potere dello Stato, ma non lo fecero per scrupoli teorici o a cagione di una debolezza interna del loro atteggiamento rivoluzionario. Ciò può essere vero per le giornate del luglio 1936, quando gli operai anarchici e sindacalisti e le milizie di Barcellona invasero i depositi di armi del governo e oltre a ciò si rifornirono delle armi prese alla rivolta fascista sconfitta ñ così come può essere vero per le giornate di luglio del 1917, quando i lavoratori e soldati rivoluzionari di Pietrogrado scesero in piazza con le parole díordine bolsceviche "tutto il potere ai soviet" e "abbasso i ministri capitalisti" e nella notte tra il 17 e il 18 un riluttante Comitato centrale del Partito bolscevico fu costretto a ribaltare il suo precedente rifiuto di partecipare a un tentativo rivoluzionario "prematuro" e a fare appello unanimemente ai soldati e al popolo perché prendessero le armi e si unissero a quella che veniva ancora presentata come una "dimostrazione pacifica".

Contro coloro che oggi a ventíanni di distanza da quei fatti esaltano la saldezza rivoluzionaria della leadership bolscevica del 1917 a discredito della "caotica irresolutezza" manifestata nei dissensi e ondeggiamenti dei sindacalisti e anarchici spagnoli del 1936-í38, è assai opportuno ricordare che in quei giorni neri del luglio 1917, tre mesi prima della vittoria dellíOttobre rosso nella Russia sovietica, anche Lenin e il suo Partito bolscevico non furono capaci di trasformare in vittoria una situazione che S.B. Krassin (allora dirigente di uno stabilimento industriale, ma che in seguito sarebbe diventato bolscevico e avrebbe ricoperto uníalta carica nel governo sovietico) caratterizzò nel modo seguente: "Le cosiddette "masse", principalmente soldati e un certo numero di teppisti, si spostavano senza mèta per le strade per due giorni, sparandosi vicendevolmente, spesso per semplice paura, fuggendo al minimo allarme o voci, senza la più pallida idea di che cosa fosse in gioco" [1].

Ancora parecchio tempo dopo, quando il processo di glorificazione del bolscevismo vittorioso si era già affermato, ma era ancora possibile una moderata "autocritica" nei ranghi più alti del partito al governo, il commissario del popolo bolscevico Lunanarskij ricordò la situazione del luglio 1917 con le seguenti parole: "Siamo costretti ad ammettere che il partito non conosceva vie d'uscita dalla situazione difficile. Fu costretto a chiedere con una dimostrazione ai menscevichi e socialisti rivoluzionari qualcosa su cui essi non erano organicamente in grado di decidere e una volta messo a confronto con un rifiuto, che si aspettava, il partito non seppe come andare avanti; lasciò i dimostranti attorno al palazzo di Tauride senza un piano e diede tempo allíopposizione di organizzare le sue forze, mentre le nostre si stavano sfaldando, e di conseguenza andò incontro a una sconfitta temporanea con gli occhi ben aperti".

Le conseguenze immediate di quello che, analogamente all'accusa di mancanza di leadership rivoluzionaria rivolta ai sindacalisti spagnoli, può essere ritenuto "un fallimento" da parte del Partito rivoluzionario bolscevico dinanzi alla presa del potere in una situazione obiettivamente rivoluzionaria, furono negative per i bolscevichi russi del 1917, quanto lo furono per gli anarchici e sindacalisti spagnoli nel 1934 e 1936 e 1937. Il 18 luglio 1917 fu sollevata contro Lenin la malevola accusa che tutte le sue azioni dal suo arrivo in Russia, e particolarmente le dimostrazioni armate dei due giorni precedenti, fossero state segretamente guidate dal Quartier generale tedesco. Le sedi bolsceviche furono invase, furono chiusi i loro giornali. Kamenev e Trockij e numerosi altri bolscevichi furono arrestati. Lenin e Zinovíev si nascosero, e Lenin si trovava ancora nella clandestinità quando due mesi dopo mise in guardia i suoi compagni dal pregiudicare la loro indipendenza rivoluzionaria con un appoggio senza condizioni al governo di fronte popolare di Kerenskij contro la ribellione controrivoluzionaria del comandante in capo delle armate russe, generale Kornilov.

Così non si può onestamente affermare che gli operai spagnoli e la loro leadership rivoluzionaria sindacalista e anarchica abbiano mancato di prendere il potere politico a livello nazionale o anche regionale in Catalogna in condizioni in cui líavrebbe fatto un partito veramente rivoluzionario come quello bolscevico russo. Non ha senso accettare la tattica dei bolscevichi russi nel luglio del 1917 come "una politica cauta e realista" e denunciare la medesima politica come "una mancanza di preveggenza e decisione rivoluzionaria" quando viene ripetuta in condizioni esattamente analoghe dai sindacalisti in Spagna. Tanto varrebbe sottoscrivere la paradossale affermazione di Pascal di duecento anni fa: "Ciò che è vero da questa parte dei Pirenei è una menzogna dallíaltra parte".

Questo non vuol dire che le azioni rivoluzionarie degli operai catalani non siano state inceppate dal loro tradizionale atteggiamento di disinteresse per tutte le questioni politiche e non strettamente economiche e sociali. Anche le loro azioni più radicali nel settore della ricostruzione economica, intraprese in un periodo in cui essi apparivano e si ritenevano padroni assoluti della situazione, soffrivano della mancanza di quella coerenza e univocità di propositi con cui le misure economiche e politiche della dittatura bolscevica in Russia generarono furore e spavento a un tempo nei loro nemici in casa e in ogni nazione borghese del mondo. Nei resoconti borghesi delle condizioni della Spagna rivoluzionaria cíè molto poco di quel disagio con cui gli osservatori stranieri guardavano le presunte "atrocità" della rivoluzione bolscevica in Russia al tempo del "cordone sanitario" (persino il marxista rivoluzionario di un tempo, Karl Kautsky, ripeteva in quei giorni con convinzione, credo, le notizie che la dittatura bolscevica in Russia aveva coronato le misure di esproprio con "una socializzazione delle donne borghesi"). A confronto con quelle esagerazioni, nella storia della "collettivizzazione" spagnola fatta da un corrispondente speciale del "Times" di Londra allíarrivo del governo Negrín a Barcellona cíè persino un tocco di humour e una certa gioviale confidenza verso quello che il cronista chiama il persistente "individualismo" della gente spagnola. Líarrivo del nuovo governo centrale, egli scrive, "ha portato nuova vita a Barcellona. La grande città stava incominciando a declinare sotto il peso della collettivizzazione. La felicità non può essere collettivizzata in Spagna, dove líindividuo continua a rimanere padrone di se stesso. Un proprietario di hôtel che non poteva sopportare di essere cameriere nel proprio albergo, fa il cameriere altrove. Di un noto attore catalano si dice che, stanco di avere la parte principale sulla scena e una più umile nella busta-paga, abbia proposto di fare il cambio con un macchinista di scena dicendo: "Guadagnamo lo stesso: lasciami stare qui a tirare su il sipario mentre tu vai a tirare su il pubblico". È diventato un divertimento, anche se piuttosto meschino, tra il pubblico alle rappresentazioni nei cinema indicare professori del Conservatorio che suonano nella seconda fila della banda".

Persino il resoconto più complesso e molto più ostile fornito un mese più tardi dal corrispondente di Barcellona del "New York Times" era integrato da alcune fotografie piuttosto belle, illustranti la vita e il lavoro nelle "officine collettivizzate di Spagna", rese ancora più attraenti per i lettori adoratori dello Stato e speculatori di obbligazioni con líallegra annotazione: "Poiché i lealisti preferiscono il controllo dello Stato al controllo dei lavoratori e desiderano proteggere gli interessi stranieri in Spagna, la collettivizzazione come nella fabbrica di vestiti qui fotografata viene limitata". Con lo stesso spirito "l'uomo forte di Spagna" (il ministro della Difesa del governo lealista Indalecio Prieto, ora silurato) era fotografato e presentato ai lettori piccolo-borghesi dell"Evening Standard" del 7 marzo 1938 come un "proprietario di giornali, confortevolmente pingue, con un mento o due di riserva" e con una "passione per le anguille come unico lusso gastronomico", tra l'altro un uomo il cui "valore" è "riconosciuto persino dal generale Franco" e che è personalmente in ottimi rapporti personali con il "finanziatore del movimento di Franco", l'illustre Juan March.

Il fatto stesso che la CNT e la FAI siano state alla fine costrette a rovesciare la loro tradizionale prassi di non-intervento in politica sotto la pressione di crescenti amare esperienze, ha dimostrato a tutti, salvo che a qualche gruppo di anarchici stranieri (che anche ora rifiutano di sporcare la loro purezza antipolitica con un sostegno pieno e cordiale della lotta disperata dei loro compagni spagnoli!) la connessione vitale tra líazione economica e quella politica in ogni fase e soprattutto nella fase immediatamente rivoluzionaria della lotta di classe proletaria.

Questa è pertanto la prima e più importante lezione di quella fase conclusiva di tutta la storia rivoluzionaria del dopoguerra europeo che è la rivoluzione spagnola. Essa diventa ancor più importante e particolarmente impressionante se consideriamo la grande differenza tra il carattere del movimento della classe operaia spagnola e tutti gli altri tipi di lotte di classe proletaria in Europa e negli usa, così come si sono costituiti da ormai quasi tre quarti di secolo.

La validità di questa lezione non è sminuita dai contenuti relativamente moderati delle richieste politiche avanzate dalla cnt nella congiuntura attuale. Non cíè dubbio che la proposta di un "nuovo periodo costituzionale che sia sensibile alle aspirazioni popolari nella repubblica socialista e che sia democratico e federale" non chiede nulla che il governo di Fronte Popolare non possa, in linea di principio, decidere senza aver bisogno di rivoluzionare la politica borghese fin qui professata. Né la proposta di creare un "Consiglio economico nazionale su base politica e sindacale, con una rappresentanza eguale per la ugt socialdemocratica e la cnt sindacalista" sarebbe in grado di trasformare líattuale orientamento riformistico borghese del governo in uno rivoluzionario proletario. Ma qui di nuovo appare una stretta analogia tra la tattica seguita dai sindacalisti nella Spagna díoggi e la prassi osservata dal Partito bolscevico russo fino al fallimento della ribellione di Kornilov e anche dopo. Se questa analogia è vera, se possiamo mostrare che un partito rivoluzionario tanto politicizzato e ricco di esperienza politica, qual era il partito che realizzò líOttobre russo, non raggiunge la perfezione prima dellíavvento di una situazione storica completamente diversa, come possiamo aspettarci una tale capacità sovrumana e sovrastorica da un gruppo di rivoluzionari proletari con una mentalità non-politica e quasi del tutto privi di esperienza politica nelle condizioni arretrate della Spagna díoggi, dove la ribellione controrivoluzionaria del Kornilov iberico non è fallita ma si è diffusa vittoriosa in tutto il Paese e ora sta attaccando il cuore stesso della Spagna industriale, ultima roccaforte delle forze antifasciste e anticapitaliste, la provincia proletaria di Barcellona?

Dal punto di vista di una ricerca storica imparziale si può dimostrare ampiamente che la leadership bolscevica del 1917 non era affatto esente da quelle incertezze e imprevidenze che sono umanamente presenti in qualsiasi azione rivoluzionaria. Anche dopo la conclusione vittoriosa di quel capolavoro di strategia politica che i bolscevichi, condotti e guidati da Lenin, realizzarono nei giorni dellíaffare Kornilov nei mesi di agosto e settembre 1917, quando seguendo la più sagace delle istruzioni di Lenin essi si sforzarono "di combattere contro Kornilov, proprio come fanno le truppe di Kerenskij", senza appoggiare questíultimo, ma mettendo invece in luce "la sua debolezza", Lenin agiva ancora in base allíipotesi che il governo provvisorio fosse divenuto manifestamente così debole, dopo la sconfitta di Kornilov, da offrire líopportunità di uno sviluppo pacifico della rivoluzione con la sostituzione di Kerenskij da parte di un governo di socialisti rivoluzionari e menscevichi, responsabili di fronte ai soviet. I bolscevichi non avrebbero partecipato a un tale governo, ma si sarebbero "astenuti dallíavanzare immediatamente la richiesta del passaggio del potere al proletariato e ai contadini poveri, come anche dallíusare metodi rivoluzionari di lotta per la realizzazione di questa richiesta". Naturalmente suggerendo questa linea di azione nel suo famoso articolo del settembre 1917 Sui compromessi, Lenin non esibiva una integrità rivoluzionaria senza macchia, come fa ad esempio Stalin nella Russia díoggi o quegli anarchici negatori dello Stato nellíOlanda ultracapitalista d'oggi. Questo brano di storia reale mostra quanto poco gli epigoni di Lenin siano autorizzati a criticare le manchevolezze delle azioni sindacaliste nella Catalogna rivoluzionaria, per non parlare della ben nota ambiguità dellí"aiuto" dato ai lavoratori spagnoli nella prima e nelle altre fasi della loro lotta da parte dei comunisti e dallo Stato russo, sia in Spagna sia nel Comitato di non-intervento [2].

Cíè dunque uníombra pesante sul lavoro costruttivo operato dagli sforzi eroici e dai sacrifici degli operai rivoluzionari in tutte le regioni di Spagna dove la parola díordine sindacalista e anarchica della "collettivizzazione" è prevalsa su quelle socialdemocratiche e comuniste della "nazionalizzazione" e dellí"intervento statale". Tutto questo lavoro costruttivo è stato fatto solo in via preliminare. Il suo ulteriore progresso e la sua stessa esistenza dipendevano dal progresso del movimento rivoluzionario e, prima di tutto, da una sconfitta decisiva dellíattacco controrivoluzionario di Franco e dei suoi potenti alleati fascisti e parafascisti. Anche in questi ultimi tempi, quando la sconfitta del molto pubblicizzato nuovo esercito lealista ha già esposto líintrinseca debolezza del governo Negrín con tale evidenza che il principale rappresentante delle forze fasciste e capitaliste nel governo di Fronte Popolare, Indalecio Prieto, ha dovuto essere sbattuto fuori ingloriosamente e si è resa inevitabile una "ricostruzione" del governo orientata verso "sinistra", una vittoria allíultima ora delle forze proletarie rivoluzionarie raccolte in Barcellona ñ con o senza una ripetizione della insurrezione dei comunardi nella Parigi assediata del 1871 in questo stesso momento aumenterebbe immensamente l'importanza storica e pratica immediata del grande esperimento di una collettivizzazione proletaria autentica dellíindustria, iniziata e portata avanti dai lavoratori e dai loro sindacati negli ultimi due anni.

In mancanza di una tale favorevole svolta, la storia della collettivizzazione catalana qual è raccontata nel modo più imparziale ed efficace in un libretto pubblicato dalla cnt-fai non può pretendere a un merito maggiore di quanto ci hanno descritto Marx, Engels, Lissagaray e altri scrittori sugli esperimenti economici della Comune rivoluzionaria degli operai parigini del 1871. Questi sono parte del passato storico, così come lo sono i tentativi degli operai rivoluzionari italiani del 1920, annullati più tardi dalle orde di Mussolini sovvenzionate dai proprietari fondiari e dai capitalisti italiani in preda al panico, e i tentativi egualmente frustrati compiuti diverse volte tra il 1918 e il 1923 dalle avanguardie degli operai tedeschi e ungheresi. Analogamente i risultati temporanei più vasti e certo molto più famosi ottenuti dagli operai rivoluzionari russi nella fase di una reale sperimentazione comunista nel 1918-20 non ebbero alcuna importanza pratica per il successivo sviluppo della cosiddetta "costruzione socialista" nella Russia sovietica. Essi furono ben presto denunciati dai bolscevichi stessi come una mera "forma negativa" di comunismo, imposta a una riluttante leadership bolscevica dalle necessità della guerra e della guerra civile. Così il grande esperimento storico del cosiddetto "comunismo di guerra", che di fatto rappresentò un passo in avanti verso una società comunista molto più positivo delle misure di qualsiasi NEP o neo-NEP o altre varianti delle politiche non più socialiste e proletarie, che furono più tardi inaugurate dalle varie combinazioni della burocrazia post-leninista e stalinista, divenne un episodio negletto e dimenticato della storia passata proprio in quel Paese che anche oggi pretende di marciare alla testa del proletariato internazionale in virtù della cosiddetta "costruzione del socialismo in un solo Paese".

Anche prima di questa nuova svolta nella politica economica bolscevica, Lenin il 4 dicembre 1919, due anni dopo la completa conquista del potere statale, in un discorso pronunciato al i Congresso delle comuni agricole fece la seguente descrizione dei risultati ottenuti fino a quel momento dalla lotta dei bolscevichi per il comunismo: "Il comunismo è lo stadio più alto dello sviluppo del socialismo, quando la gente lavora perché si rende conto della necessità di lavorare per il bene comune. Sappiamo di non poter ora creare un sistema socialista ñ Dio voglia che possa essere in vigore nel tempo dei nostri figli o forse dei nostri nipoti".

"Servire la storia della rivoluzione" è il programma scritto in modo invisibile sulla prima pagina del rapporto fedele e completo sopra menzionato circa i risultati positivi ottenuti in campo economico dagli operai rivoluzionari di Barcellona e dai lavoratori industriali e rurali in molte cittadine catalane o nei remoti e dimenticati villaggi. "Servire la storia" significa per chi ha scritto tale rapporto, come per noi, lavoratori rivoluzionari di un brutto mondo travagliato dalla crisi e dal decadimento di tutte le forme dei "vecchi" movimenti operai socialisti, comunisti e anarchici, imparare dalle azioni e dagli errori della storia passata la lezione per il futuro, le vie e i modi per la realizzazione dei fini della classe operaia rivoluzionaria.

 

II


In un numero precedente di questa rivista [3] abbiamo cercato di confutare uno degli errori principali che celano alla classe operaia internazionale líimportanza particolare di quella nuova fase della rivoluzione spagnola iniziata con gli avvenimenti del 19 luglio 1936. Malgrado líaumento costante della letteratura sulla Spagna contemporanea, non abbiamo a tuttíoggi un resoconto completo di ciò che dal nostro punto di vista chiameremmo il contenuto reale delle attuali lotte nella Spagna rivoluzionaria. Naturalmente non ci si deve aspettare un siffatto lavoro di informazione da quei progressisti che continuano ancor oggi a interpretare líintensificarsi delle lotte di classe, delle guerre e guerre civili della storia contemporanea come espressioni di una battaglia ideologica tra un principio "fascista" e uno "democratico". Il contenuto effettivo della battaglia cosiddetta spirituale non è però meglio spiegato da quegli storici apparentemente obiettivi e realistici che trascurano gli aspetti di guerra civile degli attuali avvenimenti spagnoli (per tacere dei conflitti meno noti tra i vari gruppi del Fronte Popolare lealista) come di una fase assolutamente subordinata alla lotta tra i vari gruppi imperialisti che secondo loro costituisce líessenza di tutti gli sviluppi politici contemporanei su scala mondiale. Contro la superficialità sia "idealistica" che "realistica" degli storici borghesi, ancora una volta il lettore proletario è rimandato allíesauriente resoconto dei primi sette mesi di cosiddetta collettivizzazione nella Spagna rivoluzionaria pubblicato dai lavoratori spagnoli stessi con líesplicito proposito di rompere una congiura di silenzio e di distorsione per cui di tutti gli aspetti dei recenti avvenimenti spagnoli proprio questíultimo veramente rivoluzionario è stato quasi completamente eliminato2.

Per la prima volta da che il periodo rivoluzionario postbellico ha dato vita a vari esperimenti di socializzazione nella Russia sovietica, in Ungheria e in Germania, la lotta degli operai spagnoli contro il capitalismo ci mostra un nuovo tipo di transizione dai metodi capitalistici a quelli comunali di produzione raggiunta, anche se in modo incompleto, in una notevole quantità di forme. Il significato di questa esperienza rivoluzionaria non è attenuato neppure dal fatto che questi tentativi di economia libera, nuova, comunale sono stati nel frattempo annullati e distrutti. Gli obiettivi rivoluzionari dei lavoratori sono stati frustrati dallíesterno, dalla controrivoluzione avanzante, o dallíinterno dai pretesi alleati del fronte antifascista. I lavoratori sono stati costretti ad abbandonare i frutti della loro lotta sia mediante la repressione esplicita sia, più spesso, con il pretesto della "superiore necessità" di una disciplinata conduzione della guerra. In larga misura le conquiste rivoluzionarie furono sacrificate volontariamente dai loro stessi iniziatori nel vano tentativo di favorire in questo modo il fine principale della lotta comune contro il fascismo.

Ma anche così gli sforzi dei lavoratori sul fronte sociale ed economico non sono stati del tutto vani. La liquidazione violenta della Comune parigina del 1871 e più tardi delle rivoluzioni consiliari ungheresi e bavaresi, così come la più lenta e meno esplicita autoliquidazione del primo contenuto rivoluzionario del socialismo sovietico russo, non hanno annullato il significato di nessuno di quei grandi tentativi del passato di instaurare e provare un nuovo tipo di Stato per la transizione al socialismo. Analogamente la distruzione finale delle iniziative di socializzazione, descritte sopra, da parte di amici e nemici della Spagna odierna non toglie nulla allíimportanza storica del nuovo, libero tipo di produzione comunale tentata qui per la prima volta su larga scala. Lo studio di questo movimento, delle sue concezioni e dei suoi metodi, dei suoi successi e fallimenti e il conseguente riconoscimento della sua forza e della sua debolezza è quindi díimportanza costante per quella parte del proletariato internazionale rivoluzionario e con coscienza di classe, cui questo libro si rivolge espressamente e al quale offre una esposizione dettagliata di questo sforzo di emancipazione iniziato dalla classe operaia spagnola. Inoltre, questo rapporto fedele dei metodi e dei risultati della collettivizzazione nella provincia spagnola industrialmente più avanzata e autorizzato dalle principali organizzazioni operaie (la CNT sindacalista e la FAI anarchica) è díimportanza teorica generale quale fonte storica di primíordine. I curatori cercano per quanto è possibile di lasciare che "i rivoluzionari spagnoli parlino da sé". Oltre a un certo numero di commenti necessari a completare il quadro, la raccolta contiene documenti originali, decreti di espropriazione, rapporti di sindacati, statuti, risoluzioni ecc. e ancora resoconti, interviste, rapporti dei funzionari del movimento rivoluzionario sulle varie industrie e località. Questo carattere di fonte storica si accompagna coerentemente sia allo stile espositivo sia alla materia così da farne risultare un lavoro intensamente umano e nello stesso tempo rispondente ai criteri più rigorosi della obiettività scientifica. Queste semplici testimonianze e storie della gente comune di città e campagna, mai noiose o aride, nel loro pathos non attenuato da pretenziosi ritocchi, riproducono la voce della rivoluzione spagnola, líazione del proletariato così comíè, e unitamente al materiale documentario dànno autenticità e veridicità al lavoro. È quasi superfluo che alla fine del libro gli autori dichiarino: "Non si troverà né lode né calunnia, né esagerazioni né proteste [Ö] Abbiamo semplicemente dato modo al lavoratore spagnolo di dire al mondo intero ciò che ha fatto per mantenere e difendere la libertà e il benessere proprî".

Delle quattro parti del libro, la prima tratta del carattere generale della "nuova economia collettiva" e attraverso un breve excursus sulla "economia catalana" illustra la posizione dominante di Barcellona nel complesso dellíeconomia spagnola e il relativo ruolo decisivo degli operai industriali della Catalogna nelle lotte sociali della classe operaia spagnola. Nella seconda parte sono presentati i metodi e i risultati del lavoro collettivo nelle diverse branche dellíindustria. La terza e quarta parte offrono una descrizione per distretti geografici, città e villaggi, della crescita e del funzionamento di uníeconomia comunale più o meno completa.

A differenza dei vari "decreti di socializzazione" della storia europea recente, il decreto di socializzazione del Consiglio economico catalano del 10 ottobre 1936 non è che la legalizzazione di cambiamenti nellíindustria e nei trasporti quali erano già avvenuti di fatto. "Non contiene alcuna indicazione speciale che vada al di là dei limiti già posti dal movimento spontaneo dei lavoratori." Non ci furono lunghi studi sui "compiti e i limiti della collettivizzazione", non ci fu alcun gruppo di esperti studiosi, arbitrariamente scelti, privi di ogni autorità reale come la famosa Commissione speciale permanente della Rivoluzione di Febbraio del 1848 o la sua copia fedele della Commissione per la socializzazione in Germania nel 1918-19. Il movimento operaio spagnolo sindacalista e anarchico, ben preparato a questo compito da molti anni di continue discussioni tenute negli angoli più remoti del Paese, possedeva maggiori nozioni e una concezione realistica dei passi necessari per raggiungere il fine economico di quanto non avesse mostrato di possedere il movimento operaio sedicente "marxista" in situazioni analoghe in altre parti d'Europa.

È vero che in questa prima fase eroica il movimento spagnolo in certa misura trascurò di salvaguardare le nuove condizioni economiche e sociali che aveva conquistato. Anche questo errore iniziale, che poté essere rimediato solo parzialmente più tardi, era difficilmente evitabile in quelle situazioni. A eccezione dei Comitati delle milizie antifasciste, formati da rappresentanti stessi del movimento operaio libertario, non cíera allora né un'autorità esecutiva né un parlamento. Neppure vi erano grandi proprietari capitalisti da espropriare. Una parte considerevole delle maggiori imprese erano di proprietà del capitale straniero. I rappresentanti di questíultimo, come i grandi capitalisti locali, erano stati sostenitori più o meno espliciti dei generali ribelli. I due gruppi erano fuggiti non appena la ribellione di Franco a Barcellona fallì, quando addirittura non avessero già previsto in anticipo questa eventualità e avessero abbandonato il Paese ormai avviato alla guerra civile, come Juan March e François Cambo. Líoffensiva contro il capitale, iniziata dai lavoratori catalani immediatamente dopo la repressione della rivolta di Franco, era molto simile ad una guerra contro un nemico invisibile. I dirigenti delle grandi ferrovie, delle Compagnie dei trasporti urbani, delle Compagnie di navigazione del porto di Barcellona, i proprietari delle industrie tessili di Tarrasa e Sabadell erano spariti e, un fatto eccezionale, nell'impossessarsi dellíazienda tranviaria di Barcellona i lavoratori trovarono negli uffici della grande compagnia monopolistica un solo individuo tremante al quale in un impulso di magnanimità vennero risparmiate la vita e la libertà.

Così il proletariato catalano si installò come volle nelle fabbriche e negli uffici capitalistici che erano stati abbandonati dai loro padroni. Dopo la presa di possesso dei lavoratori le imprese collettivizzate funzionavano come "Società per azioni dellíeconomia capitalista". Le assemblee generali dei lavoratori procedevano alla elezione dei Consigli in cui erano rappresentate tutte le varie fasi della produzione ñ produzione in senso stretto, amministrazione, servizi tecnici ecc. Il collegamento permanente con il resto dellíindustria era mantenuto dai rappresentanti dei corpi centrali dei sindacati, che partecipavano anche alle sedute dei consigli. La direzione stessa degli affari era lasciata a un direttore scelto dai lavoratori di ciascuna fabbrica; nelle imprese più importanti tale scelta era subordinata al consenso del consiglio generale della rispettiva industria; non cíera motivo per cui non dovesse essere eletto chi in precedenza era stato proprietario, manager o direttore dellíimpresa socializzata.

Questa analogia esteriore non significa affatto che la collettivizzazione non avesse cambiato il sistema di produzione delle imprese industriali e commerciali. Essa dimostra semplicemente la relativa facilità con cui in circostanze fortunate, quali qui si presentarono, si possono ottenere profondi mutamenti nella direzione della produzione e nel pagamento dei salari senza grandi trasformazioni strutturali e organizzative. Una volta completamente eliminata la resistenza dei vecchi padroni dellíeconomia e della politica, i lavoratori in armi poterono procedere direttamente dai loro compiti militari a quelli costruttivi della trasformazione della produzione in ciò per cui si erano preparati è cosa che a molti osservatori era sembrata solo una smisurata illusione e una "utopia".

Anche per il problema, complicatissimo per il socialismo, della collettivizzazione dellíagricoltura, quei lavoratori avevano preparato un programma assolutamente realistico, senza esagerazioni, fretta o errori psicologici. La risoluzione sulla collettivizzazione della terra che era stata approvata dal congresso della CNT a Madrid nel giugno 1931 e che da allora, attraverso tutte le vicissitudini di un movimento rivoluzionario ora all'attacco ora in ritirata, era stata diffusa e accuratamente illustrata in tutto il paese da propagandisti anarchici e sindacalisti, fornì una guida pratica allíazione del luglio e dellíagosto 1936 dei lavoratori agricoli e piccoli affittuari lasciati completamente alla propria iniziativa senza impedimenti provenienti da nessuna autorità o tutela esterne. La forma concreta con cui questo compito venne risolto dai produttori agricoli stessi è illustrata da una risoluzione dellíassemblea plenaria dei lavoratori agricoli della Catalogna e dalle regolamentazioni e dai piani organizzativi adottati in seguito da essa in vari distretti e comuni nellíannata agricola 1936-37.

In questa sede possono essere discussi solo i punti principali dellíaccurata e dettagliata presentazione della collettivizzazione nelle industrie più importanti ñ trasporti, tessili, alimentari ecc. ñ che costituisce la seconda parte del libro. Questi capitoli mostrano non solo la nuova organizzazione sociale delle industrie ma mettono in rilievo con chiarezza i grandi successi iniziali della iniziativa economica e sociale del movimento operaio libertario per i lavoratori stessi e ancor più per il mantenimento e líespansione della produzione. Leggiamo dellíabolizione di condizioni di lavoro disumane, di aumenti salariali e riduzioni dellíorario di lavoro, di varie nuove forme di egualitarismo dei salari tra vari tipi di lavoratori, qualificati e non qualificati, maschi e femmine, adulti e ragazzi, di "salario unico" e "salario familiare". Vediamo come il problema dellíincremento del miglioramento della produzione in ogni industria assuma importanza crescente di settimana in settimana. Leggiamo di industrie completamente nuove ñ come quella ottica ñ create dalla rivoluzione stessa; di procedimenti usati in alcune branche industriali prive di materie prime impossibili da ottenere o non necessarie ai bisogni immediati, per convertirle rapidamente alla produzione dei materiali bellici più urgenti. Ci viene raccontata la commovente storia di quegli strati più poveri della classe lavoratrice che sacrificarono volontariamente le loro condizioni finalmente migliorate per sostenere la produzione bellica e aiutare le vittime della guerra e i profughi dalle zone occupate da Franco.

Ma non sono queste virtù negative di sacrificio e rinuncia dietro le quali in questi ultimi due anni osservatori stranieri più o meno partecipi hanno troppo spesso obliterato le grandi conquiste dei lavoratori rivoluzionari, ad attrarre il nostro interesse principale. In questo periodo iniziale della collettivizzazione spagnola il nostro interesse principale va al ruolo importante assunto dal tipo particolare di sindacato, rappresentato nel modo più caratteristico dai lavoratori della Catalogna e di Valencia, che fino allíepoca presente era disprezzato e criticato dai ricchi sindacati inglesi e dalle potenti organizzazioni marxiste dellíEuropa centrale e meridionale come una forma utopica destinata al fallimento in qualsiasi situazione critica. Queste formazioni sindacaliste, anticentralistiche e antipartitiche erano interamente basate sulla libera azione delle masse lavoratrici. Le loro attività di routine come di emergenza erano guidate sin dallíinizio non da una burocrazia professionale ma dallíélite dei lavoratori nelle rispettive industrie. Quella stessa élite cosciente, rappresentata dai comitati d'azione rivoluzionari creati dai lavoratori in lotta allíinterno e fuori dei sindacati per affrontare i vari problemi a mano a mano che sorgevano, fornì líiniziativa, la consistenza, líesempio e líazione per le conquiste fondamentali del nuovo periodo rivoluzionario. Questa lezione storica della collettivizzazione è d'importanza permanente per lo sviluppo organizzativo e tattico del movimento rivoluzionario.

Il vigore dell'atteggiamento anti-Stato del proletariato rivoluzionario spagnolo, libero da impedimenti organizzativi o ideologici autoimposti, spiega tutti i suoi sorprendenti successi di fronte a difficoltà schiaccianti. Spiega il fatto senza precedenti nellíesperienza europea che la collettivizzazione rivoluzionaria fu estesa sin dal principio e come cosa naturale allo Stato e alle imprese municipali così come alle aziende capitalistiche. A questo proposito interessantissimo è il resoconto della collettivizzazione del monopolio statale del petrolio e dei servizi pubblici (luce, acqua, energia). Anche la descrizione, per altri versi alquanto eccessiva, della rapida "collettivizzazione al cento per cento dei negozi di barbiere" e della egualmente riuscita "regolazione sociale del commercio ambulante" a Barcellona testimonia eloquentemente la capacità creativa peculiare di quella rivoluzione anche in un settore la cui stessa esistenza è in contraddizione con essa, sebbene contribuisca molto poco alla soluzione reale di problemi marginali per la rivoluzione proletaria, come sono quelli dell'artigianato e del commercio. I contributi reali della rivoluzione spagnola a questi problemi sono toccati solo indirettamente in rapporto al problema già menzionato della produzione agricola e nella discussione delle varie forme in cui è stata ottenuta la collettivizzazione su scala locale con misure che toccavano in grado maggiore o minore líintera produzione e modo di vita delle città più piccole e delle regioni rurali.

Il carattere non più teorico, ma meramente descrittivo di queste ultime parti non permette che in questa breve recensione si riporti anche una piccola parte del suo ricco contenuto. Ognuna di queste quattordici brevi narrazioni, in apparenza simili a bozzetti, ma che in realtà toccano tutti i problemi essenziali della società, riproduce le caratteristiche più o meno tipiche eppure peculiari della nuova vita nelle mutevoli condizioni locali basate sullo sviluppo generale del Paese. La descrizione ha inizio con la situazione industrialmente avanzata del centro tessile di Tarrasa, vicino alla capitale, con i suoi 40.000 abitanti di cui 14.000 operai, 11.000 dei quali organizzati nella sindacalista CNT, mentre il resto faceva parte della socialdemocratica UGT. Da qui attraverso vari stadi intermedi scende verso i villaggi più poveri, primitivi, piccoli e piccolissimi di Catalogna, Aragona, della Mancha, lontani da ogni cultura urbana e industriale e purtuttavia profondamente toccati dalla nuova vita. A questo punto i curatori osservano: "Notiamo continuamente che è stato compiuto un grande progresso veramente rivoluzionario nelle città e nei villaggi piccoli e con pochi abitanti, un progresso indubbiamente più importante che nelle città con maggiore popolazione". Questo elogio della semplicità e della povertà è in singolare contrasto con le idee materialistiche del movimento marxista, ma è stata a lungo una caratteristica di questa forma del movimento operaio che nelle trincee della guerra civile spagnola e nella pazienza egualmente eroica delle popolazioni sofferenti di Madrid, Barcellona e Valencia ha portato avanti la lotta della classe lavoratrice temporaneamente sconfitta nel resto d'Europa. Questo stesso sentimento tocca il suo apice nella descrizione conclusiva di una piccola città di campagna situata in una provincia scarsamente popolata della Mancha. Qui i lavoratori erano sempre stati privati di attrezzature moderne e di opportunità culturali. Tuttavia erano organizzati nei loro sindacati sin dal 1920 e furono tra i primi ad adottare in modo integrale la nuova vita del comunismo libertario. Rifacendosi a questa esperienza il libro termina con una commovente affermazione: "Membrilla è forse la città più povera della Spagna, ma è la più giusta".

 

NOTE

1 Questa e le citazioni seguenti sono tratte dalla storia documentaria di J. Bunyan e H.H. Fisher, The Bolshevik Revolution 1917-18, Stanford University Press, 1934.

2 A beneficio di quei comunisti veneratori di Stalin, che recentemente hanno incominciato ad apprendere la lezione delle grandi "purghe" in Russia, citiamo qui una frase della "Pravda" che attesta ciò che gli "amici" stalinisti facevano e intendevano fare in una Spagna completamente "bolscevizzata": "La purga della Catalogna da tutti gli elementi trozkisti e anarco-sindacalisti è già iniziata; questo compito è portato avanti con la stessa energia con la quale è stato compiuto in URSS" ("Pravda", 17 dicembre 1936).1 Si tratta del saggio precedente.   

3 Cfr. Collectivisations. L'oeuvre constructive de la révolution espagnole. Recueil de documents, Éditions cnt-fai, 1937, p. 244.

 

[Cura di Ario Libert]

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14 luglio 2014 1 14 /07 /luglio /2014 05:00

 

La Rivoluzione degiacobinizzata

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Daniel Guérin

La fine dello stalinismo ha aperto nel movimento socialista internazionale un grande dibattito sui problemi della democrazia. È in questa prospettiva che pubblichiamo il presente articolo di Daniel Guérin, benché non ne condividiamo tutte le tesi.

Les Temps  Modernes
 

sanculotti03.jpgIntorno a noi, oggi, tutto è rovine. Le ideologie che ci hanno ficcato in testa, i regimi politici che ci hanno fatto subire o fatto balenare davanti agli occhi vanno gli uni e gli altri in frantumi. Per riprendere l'espressione di Edgar Quinet [1], abbiamo smarrito i nostri bagagli.

Il fascismo, questa forma suprema e barbara del dominio dell'uomo sull'uomo, è affondato, poco più di dieci anni fa, in un bagno di sangue. E coloro che si erano aggrappati ad esso come ad un salvagente, che l'avevano chiamato alla riscossa contro i lavoratori, magari attraverso la punta delle baionette straniere, hanno perso molte penne nell'avventura e sono costretti, malgrado che gli conservino una segreta preferenza, di riporlo nel ripostiglio degli attrezzi.

sanculotto02.jpgIl meno che si possa dire, è che la democrazia borghese non è stata rinvigorita dal crollo del fascismo. Essa aveva d'altronde spianato la strada a quest'ultimo e si era mostrata incapace poi di sbarrargliela. Non ha più nessuna dottrina, nessuna fiducia in se stessa. Non è riuscita a ridare lustro al suo blasone utilizzando a suo profitto lo slancio delle masse popolari francesi contro l'hitlerismo. La "Resistenza" ha perso ogni ragione di essere dal giorno in cui è sparito ciò contro cui essa si batteva. La sua falsa unità si è presto disgregata. Il suo mito si è sgonfiato. I politici del dopoguerra sono stati i più penosi che abbiamo mai avuto. Hanno essi stessi volatilizzato la fiducia troppo credula di coloro che, contro Vichy, si erano, in mancanza di meglio, volti verso Londra. La democrazia borghese si è rivelata totalmente incapace di risolvere i problemi, le contraddizioni dell'anteguerra, contraddizioni ancor molto più insolubili di quanto non lo erano prima, una sedicente crociata intrapresa per trovar loro una soluzione. Non può più sopravviversi, all'interno, che come una caricatura vergognosa ed ipocrita dei metodi fascisti, all'esterno, con delle guerre coloniali ed anche con delle guerre di aggressione. Essa è, già dimissionaria. La sua successione è aperta.

Ed ecco che lo stalinismo, che si pretendeva e che molti credevano fatto di un metallo duro e durevole, che si pretendeva e che molti credevano fondato storicamente a sostituirsi alle forme moribonde (fasciste o "democratiche") del dominio borghese, affondare a sua volta nello scandalo delle ignominie rivelate dal rapporto Kruschiov, nell'orrore della repressione ungherese.

Ma un mondo che crolla è anche un mondo che rinasce. Lungi da noi lasciarci andare al dubbio, all'inazione, alla confusione, alla disperazione, è giunta l'ora per la sinistra francese di ricominciare da zero, di ripensare sin dalle loro fondamenta i suoi problemi, di rifare, come diceva Quinet, il proprio bagaglio di idee.

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Era già una preoccupazione di quest'ordine che, all'indomani della "liberazione", mi aveva incitato a risalire sino alla Rivoluzione francese [2]. se avevo insufficientemente rivelato il mio disegno, e se esso è dunque sfuggito, senza dubbio per colpa mia, a molti dei miei lettori e contraddittori, un critico britannico lo ha tuttavia intravisto: "Ogni generazione" egli scriveva "deve riscrivere la storia per se stessa. Se il XIX secolo in Europa occidentale fu il secolo della libertà, il presente secolo è quello dell'eguaglianza. Gli ideali gemelli della Rivoluzione francese, così a lungo separati dall'ascesa politica del liberalismo del XIX secolo, stanno per ricongiungersi. Questo accostamento, dettato dal corso degli avvenimenti e la direzione del processo storico stesso, pone delle nuove esigenze a tutti coloro che aspirano a descrivere e ad interpretare questo processo. Se gli ideali gemelli che la civiltà occidentale deve così ampiamente alla Rivoluzione francese sono destinati ad essere riconciliati nell'azione, essi devono certamente esserlo anche - e per prima cosa - nella descrizione degli storici della loro evoluzione". E questo critico anonimo trovava naturale che al momento in cui la Francia passa attraverso una fase di ricostruzione politica e sociale... "essa cerca di essere guidata da un'interpretazione sociale più sfaccettata della sua storia" [3].


Ma la necessaria sintesi delle idee di eguaglianza e di libertà che questo critico raccomandava in termini troppo vaghi e confusi non può e non deve essere tentata, a mio avviso, nel quadro ed a profitto di una democrazia borghese bancarottiera. Può esserlo e deve esserlo nel quadro del pensiero socialista, che rimane, malgrado tutto, il solo valore solido della nostra epoca. Il doppio fallimento del riformismo e dello stalinismo ci pone un dovere urgente di riconciliare la democrazia (proletaria) ed il socialismo, la libertà e la Rivoluzione.

Ora, precisamente, la grande Rivoluzione francese ci ha fornito i primi materiali di questa sintesi. Per la prima volta nella storia, le nozioni antagonistiche di libertà e costrizione, di potere statale e di potere delle masse si sono affrontate, chiaramente se non pienamente, nel suo immenso crogiolo. Da questa feconda esperienza sono scaturite, come ha ben visto Kropotkin [4], le grandi correnti del pensiero socialista moderno a partire dalle quali non potremo rifare il nostro bagaglio ideologico se non giungeremo- infine- a trovarne la corretta sintesi.

Il ritorno alla Rivoluzione francese è stato sino ad ora molto infruttuoso perché i rivoluzionari moderni, che l'hanno tutti studiata nei dettagli e con passione, non si sono preoccupati che di analogie superficiali, di punti di somiglianza formale con quella situazione, quel gruppo politico, quei personaggi del loro tempo. Sarebbe divertente ricapitolare tutte queste fantasie, a volte brillanti, a volte semplicemente assurde, sulle quali degli storici della Rivoluzione russa come Boris Suvarin, Erich Wollenberg e Isaac Deutscher, hanno avuto ragione di fare delle riserve [5]. Ma occorrerebbero pagine e pagine, e noi abbiamo meglio da fare. Per contro, se abbandonando il piccolo gioco delle analogie, cerchiamo di andare in fondo ai problemi e di analizzare il meccanismo interno della Rivoluzione francese, possiamo trarne degli insegnamenti molto utili alla comprensione del presente.

La democrazia diretta del 1793

Innanzitutto, la Rivoluzione francese è stata la prima manifestazione storica, coerente e su vasta scala, di un nuovo tipo di democrazia. Anche quelli tra i miei critici che, pur richiamandosi al marxismo, esitano ancora a seguirmi in tutte le mie conclusioni, hanno finito con l'ammettere, con Albert Soboul, che il “sistema politico di democrazia diretta” scoperto spontaneamente dai sanculotti era “del tutto differente dalla democrazia liberale così come la concepiva la borghesia” [6]. Aggiungerei: non soltanto “differente” ma, spesso, anche antitetica. La grande Rivoluzione non fu soltanto, come troppi storici repubblicani hanno creduto, la culla della democrazia parlamentare: per il fatto che essa era, allo stesso tempo di una rivoluzione borghese, un embrione di rivoluzione proletaria, essa recava in sé il germe di una nuova forma di potere rivoluzionario i cui tratti emergeranno nel corso delle rivoluzioni della fine del XIX e del XX secolo. Dalla Comune del 1793 a quella del 1871 e da quest'ultima ai soviet del 1905 e del 1917, la derivazione è evidente.

Non volendo ripetermi in modo eccessivo, preferisco rinviare il lettore alle pagine dell'“Introduzione” nelle quali, a proposito della Rivoluzione francese, ho analizzato le principali componenti del potere "dal basso", evidenziato le differenze essenziali tra democrazia borghese e democrazia proletaria, fatto la critica del parlamentarismo e tentato di approfondire il fenomeno della dualità dei poteri: potere borghese e potere delle masse.

Vorrei qui limitarmi a precisare sommariamente alcuni dei tratti generali della “democrazia diretta” del 1793. Se scendiamo nelle sezioni, nelle società popolari dell'anno II, si ha l'impressione di prendere un bagno vivificante di democrazia. L'epurazione periodica della società da se stessa, con ognuno che sale alla tribuna per offrirsi al controllo di tutti, la preoccupazione di assicurare l'espressione la più perfetta possibile della volontà popolare, di impedire il suo soffocamento da parte dei bravi parlatori e degli oziosi, di permettere alle persone che lavorano di abbandonare i loro strumenti senza sacrificio pecuniario e di partecipare così pienamente alla vita pubblica, di assicurare il controllo permanente dei mandatari da parte dei mandanti, di piazzare, nelle deliberazioni, i due sessi su un piede di eguaglianza assoluta [7], questi sono alcuni dei tratti di una democrazia realmente spinta dal basso in alto.

Il Consiglio generale della Comune del 1793- almeno sino alla decapitazione dei suoi magistrati da parte del potere centrale borghese- ci offre anche un notevole campionario di democrazia diretta. I membri del Consiglio sono i delegati delle loro rispettive sezioni, costantemente in collegamento con esse e sotto il controllo di coloro dei quali detengono i loro mandati, costantemente tenuti al corrente della volontà della “base” attraverso l'ammissione di delegazioni popolari alle sedute del Consiglio. Alla Comune, non si conosce l'artificio borghese della “separazione dei poteri” tra l'esecutivo ed il legislativo. I membri del Consiglio sono al contempo degli amministratori e dei legislatori. Questi modesti sanculotti non sono diventati dei politici professionali, sono rimasti gli uomini del loro mestiere, esercitandolo ancora, nella misura in cui glielo permettono le loro funzioni alla Casa Comune [Maison Commune], o pronti ad esercitarlo di nuovo non appena il loro mandato avrà fine [8].

Ma, di tutti questi tratti, il più ammirevole, è senz'altro la maturità di una democrazia diretta sperimentata per la prima volta in un paese relativamente arretrato, appena uscito dalla notte della feudalità e dell'assolutismo, ancora immerso nell'analfabetismo e l'abitudine secolare della sottomissione. Niente "anarchia", niente “casino” in questa gestione da parte del popolo, inedita ed improvvisata. Basta per convincersene sfogliare i verbali delle società popolari, i resoconti delle sedute del Consiglio generale della Comune. Vediamo la massa, come se fosse cosciente delle sue tendenze naturali all'indisciplina, animata dalla preoccupazione costante di disciplinarsi da sé. Essa ordina le proprie deliberazioni, richiama all'ordine coloro che sarebbero tentati di provocare il disordine. Benché nel 1793 la sua esperienza della vita pubblica sia del tutto recente, benché la maggior parte dei sanculotti (guidati, è vero, da piccolo borghesi istruiti) non sappiano ancora né leggere né scrivere, essa dà prova già di una propensione al self-government che ancora oggi i borghesi, ansiosi di conservare il monopolio della cosa pubblica, si ostinano, contro ogni evidenza, a negarle e che alcuni teorici rivoluzionari, imbevuti della loro “superiorità” intellettuale, hanno a volte tendenza a sottovalutare [9].


Democrazia diretta e avanguardia

Ma, allo stesso tempo, le difficoltà, le contraddizioni del self government fanno la loro apparizione. La mancanza d'istruzione ed il relativo ritardo della loro coscienza politica sono altrettanti ostacoli alla piena partecipazione delle masse alla vita pubblica. Tutto il popolo non ha la nozione dei suoi veri interessi. Mentre alcuni danno prova di una straordinaria lucidità per l'epoca, altri si lasciano facilmente sviare. La borghesia rivoluzionaria mette a profitto il prestigio che la sua lotta senza compromessi le vale contro le conseguenze dell'antico regime per inculcare ai sanculotti un'ideologia seducente ma fallace e che, di fatto, va incontro alle loro aspirazioni di piena eguaglianza. Se si sfogliano le voluminose raccolte dei rapporti degli agenti segreti del ministero dell'Interno [10], si vedono gli indicatori riferire dei discorsi uditi per strada, effettuati da uomini del popolo, e di cui il contenuto è a volte rivoluzionario, a volte controrivoluzionario. E questi discorsi sono consegnati alla rinfusa, come se fossero tutti, allo stesso titolo, le espressioni della vox populi, senza stabilire tra di loro una discriminazione né analizzare le loro contraddizioni evidenti.

La relativa confusione del popolo e soprattutto dei lavoratori manuali ancora privi di istruzione, lascia il campo libero a delle minoranze, più educate o più coscienti. È così che alla sezione della Casa Comune un piccolo nucleo “faceva fare tutto quel che voleva” alla società sella sezione “composta da un gran numero di massoni” [11]. In molte società popolari, malgrado tutta la fatica e tutte le precauzioni prese per assicurare il funzionamento più perfetto possibile della democrazia, delle “frazioni” guidano il gioco, in un senso o nell'altro e a volte si oppongono l'una all'altra. Ho esposto nel mio libro [12] come i Giacobini, non si fidassero delle assemblee generali delle sezioni che essi consideravano come poco sicure, lo infiltrano dall'interno, per mezzo di un pugno di uomini scelti con cura e retribuiti, con funzionari politici in qualche modo: i membri del comitato rivoluzionario locale. Questa “infiltrazione”, essi la esercitavano al contempo contro i loro avversari di destra e contro i loro avversari di sinistra. Ma, quando l'avanguardia estremista entrò in conflitto aperto con i Giacobini robespierristi, essa dovette creare, contro la frazione giacobina, una nuova frazione, più radicale: la società delle sezioni, ed una lotta molto viva si svolse tra le due frazioni per il controllo della sezione.

 In provincia, i funzionari locale erano, in teoria, elusi democraticamente dalle società popolari. Ma, in pratica, troppo spesso la piccola frazione che costituiva la cerchia immediata del rappresentante in missione faceva approvare dall'assemblea delle liste preparate in precedenza [13].

 Uno scrittore di destra, Augustin Cochin, ha scritto, ai nostri giorni, un intero libro [14] per tentare di provare che la democrazia diretta del 1793 non era che una caricatura di democrazia, perché, nelle società popolari, un “circolo interno” di alcuni agitatori faceva legge su una maggioranza passiva e conformista. Ma l’intenzione dell’autore è troppo evidente: egli cerca di calunniare la democrazia. L'accento è posto, non sulle sue imprese esplosive, ma sulle deficienze del suo noviziato. Inoltre, la questione non può essere affrontata in astratto. Manca alla dimostrazione troppo ingegnosa e troppo interessata di Augustin Cochin il criterio di classe. La democrazia non deve essere considerata soltanto nella sua forma, esse deve essere apprezzata in funzione di coloro al beneficio dei quali funziona: ogni volta che “frazione” è costituita da un'avanguardia audace, che guida e stimola una maggioranza timorata o che non ha ancora una coscienza chiara dei suoi interessi, l'intervento di questa minoranza è, in una certa misura, benefattrice.

 La grande lezione del '93, non è soltanto che la democrazia diretta sia fattibile, è anche che l'avanguardia di una società, quando essa è ancora una minoranza in rapporto alla massa del paese che essa trascina, non può evitare, in questa battaglia di vita o di morte qual è una Rivoluzione, di imporre la sua volontà alla maggioranza, innanzitutto, e di preferenza, con la persuasione, e, se la persuasione fallisce, con la costrizione. Qui, non volendo ripetermi, devo rinviare il lettore alla sezione dell'Introduzione dedicata alla "dittatura del proletariato" [15]. Ho tentato di dimostrare che è nell'esperienza stessa della Rivoluzione francese che Marx ed Engels hanno attinto questa famosa nozione, aggiungendovi io stesso il correttivo che abbiamo a che fare, in realtà, nel 1793, con due tipi di "dittatura" antitetiche: la "dittatura" borghese dall'alto, quella del governo rivoluzionario, dittatura popolare dal basso, quella dei sanculotti in armi, organizzati democraticamente nei loro club e nella Comune.

Su questo punto, tuttavia, il mio libro comportava una lacuna. Avrei dovuto precisare che la nozione di "dittatura del proletariato" non è veramente mai stata elaborata dai suoi autori. Senza pretendere, certo, come Kautsky, all'epoca in cui era diventato riformista, che non è nella loro opera che un Wörtchen, un parolina senza importanza, pronunciata occasionalmente (gelegentlich) [16], siamo obbligati di constatare che essi non l'hanno menzionata che raramente, ed ogni volta troppo brevemente, nei loro scritti. E quando, in particolare, essi la scoprono nella Rivoluzione francese, i termini che essi impiegano sono lungi dall'essere chiari [17], e sono discutibili. Infatti, i rivoluzionari dell'anno II, convinti com'erano della necessità di misure d'eccezione, del ricorso alla costrizione, aborrivano ad impiegare la parola dittatura. La Comune del 1793, come la sua continuatrice del 1871, voleva guidare e non “imporre la sua supremazia” [18]. Marat stesso, il solo rivoluzionario del suo tempo che si augurò la dittatura, era obbligato a ricorrere a delle precauzioni di linguaggio: egli chiedeva una "guida" e non un "maestro". Ma, anche sotto questa forma velata, scandalizzò i suoi fratelli d'arme e si attirò le loro vive proteste.

Che si capisca: la democrazia aveva appena emesso il suo primo vagito. Il tiranno era stato rovesciato da poco, la Bastiglia era stata rasa al suolo. La parola dittatura suonava male. Risvegliava l'idea di una specie di ricaduta nella tirannia, nel potere personale. Infatti, per degli uomini del XVIII secolo, nutriti di ricordi antichi, la dittatura aveva un suono preciso e temibile. Essi si ricordavano - e l'Encyclopédie era lì a ricordarglielo - che i Romani, "avendo cacciato i loro re, si videro obbligati, in tempi difficili, a creare, a titolo temporaneo, un dittatore che godeva di un potere più grande di quanto avessero mai avuto gli antichi re". Essi si ricordavano che, più tardi, l'istituzione degenerando, Silla e Cesare si erano fatti proclamare dittatori perpetui ed avevano esercitato una sovranità assoluta che andava, nel caso del secondo, sino a farsi sospettare di mire monarchiche. Essi non volevano né un nuovo monarca né un nuovo Cesare.

Della rivoluzione inglese, gli uomini del 1793 avevano un ricordo ancora più vivo. Come avrebbero potuto dimenticare che nel secolo precedente Oliver Cromwell, dopo aver rovesciato un sovrano assoluto, aveva usurpato il potere popolare, instaurato una dittatura ed anche tentato di farsi incoronare re? Essi si fidavano come della peste di un nuovo Cromwell e  fu alla vigilia del Termidoro, una delle loro lamentele contro Robespierre [19].

Infine, i sanculotti della base, gli uomini delle società popolari avevano una diffidenza istintiva verso la parola dittatura, perché quest'ultima non avrebbe tradotto che una parte della realtà rivoluzionaria: essi volevano innanzitutto convincere, aprire a tutti le porte della nascente democrazia, e non fecero ricorso alla costrizione che quando coloro che avrebbero voluto convincere ed ammettere nella democrazia risposero loro con il piombo.

Forse essi avevano l'intuizione che è sempre un errore prendere in prestito delle parole dal vocabolario del nemico. “Sovranità del popolo” è, come lo sottolineava già Henri de Saint-Simon [20], uno di questi prestiti spiacevoli. Il popolo, il giorno in cui si amministra da sé, non è il sovrano di nessuno. “Dispotismo della libertà” (formula che gli uomini del 93 arrischiarono a volte ad impiegare preferendolo a “dittatura”, perché aveva una risonanza più collettiva), “dittatura del proletariato”, non sono meno antinomici. Il genere di costrizione che l'avanguardia proletaria si trova obbligata ad esercitare sui controrivoluzionari è di una natura così fondamentalmente differente dalle forme di oppressione del passato ed è compensata da un grado così avanzato di democrazia per gli oppressi della vigilia che la parola dittatura giura con quella di proletariato.

Bakunin NadarQuesta è stata l'opinione dei collettivisti libertari tipo Bakunin, ben decisi a non trattare con i borghesi se quest'ultimi si pongono contro la Rivoluzione sociale, ma respingendo allo stesso tempo, in modo categorico, ogni parola d'ordine di “dittature sedicenti rivoluzionarie” [21]. In quanto ai riformisti, essi non respingono, soltanto le parole “dittatura del proletariato” ma anche ciò che è stato definito come valido nel loro contenuto. Anche per troppo tempo, i rivoluzionari che si richiamavano al marxismo non hanno osato porre delle riserve in quanto alle parole, per paura di vedersi sospettati di “opportunismo”.

babeuf.jpgL'imprecisione dei termini compare ancora più chiaramente se si risale alle fonti i babuvisti furono i primi a parlare di "dittatura" rivoluzionaria. Se ebbero il merito di trarre la netta lezione dalla sottrazione della rivoluzione da parte della borghesia, si sa che essi apparvero troppo tardi, in un'epoca in cui il movimento delle masse aveva reso l'anima. Minoranza minuscola e isolata, essi dubitarono della capacità del popolo a dirigersi, per lo meno nell'immediato. E si augurarono una dittatura, sia la dittatura di uno solo, sia quella di "mani saggiamente e fortemente rivoluzionarie" [22].

WilhelmWeitling.jpgIl comunista tedesco Weitling e il rivoluzionario francese Blanqui presero in prestito dai babuvisti questa concezione della dittatura. Incapaci di legarsi a un movimento di massa ancora embrionale, a un proletariato ancora troppo ignorante e demoralizzato per governarsi da sé, essi credettero che piccole minoranze audaci avrebbero potuto impadronirsi del potere per sorpresa e instaurare il socialismo dall'alto, per mezzo della centralizzazione dottrinaria più rigorosa, aspettando che il popolo sia maturo per dividere il potere con i suoi capi. Mentre l'idealista Weitling prendeva in considerazione una dittatura personale, quella di un "nuovo Messia", Blanqui, più realista, più vicino al movimento operaio nascente, parlava di "dittatura parigina", e cioè del proletariato parigino, ma, nel suo pensiero, il proletariato non era ancora capace di esercitare questa "dittatura" se non attraverso persona interposta, attraverso la mediazione della sua elite istruita, di Blanqui e della sua società segreta [23].

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Marx e Engels, benché opposti alla concezione minoritaria e volontaristica dei blanquisti, credettero dovere, nel 1850, fare a quest'ultimi la concessione di riprendere la loro celebre formula [24], giungendo, questo stesso anno, sino a identificare comunismo e blanquismo [25]. Senz'altro, nello spirito dei fondatori del socialismo scientifico, la costrizione rivoluzionaria sembra essere esercitata dalla classe operaia e non, come presso i blanquisti, da un'avanguardia distaccata della classe [26]. Ma essi non hanno mai differenziato in modo sufficientemente netto una tale interpretazione della "dittatura del proletariato" da quella dei blanquisti. Più tardi, Lenin, richiamandosi alo stesso tempo al "giacobinismo" e al "marxismo", inventerà la concezione della dittatura di un partito che si sostituisce alla classe operaia, agendo per procura e in suo nome e i suoi discepoli dell'Ural, andando sino in fondo alla sua logica, proclameranno chiaramente, senza essere sconfessati, che la dittatura del proletariato sarebbe una dittatura sul proletariato! [27].

Ricostituzione dello Stato

La doppia esperienza della Rivoluzione francese e della Rivoluzione russa ci insegna che tocchiamo qui un punto centrale di un meccanismo al termine del quale la democrazia diretta, il self-government del popolo, muta gradualmente, attraverso l'instaurazione della "dittatura" rivoluzionaria, nella ricostituzione di un apparato di oppressione del popolo. Beninteso, il processo non è assolutamente identico nelle due rivoluzioni. La prima è una rivoluzione essenzialmente borghese (benché contenente, già, un embrione di rivoluzione proletaria). La seconda è una rivoluzione essenzialmente proletaria (benché avente da compiere allo stesso tempo i compiti della Rivoluzione borghese). Nella prima, non è la "dittatura" dall'alto (che, tuttavia, aveva già fatto la sua apparizione), è la "dittatura" dall'alto, quella del "governo rivoluzionario" borghese che fornisce il punto di partenza di un nuovo apparato di oppressione. Nel secondo, è a partire dalla "dittatura" dal basso, quella del proletariato in armi, al quale, ben presto, si sostituisce il "Partito", che l'apparato di oppressione si è infine ricostituito. Ma nei due casi, malgrado questa differenza importante, un'analogia salta agli occhi: la concentrazione del potere, la "dittatura" sono presentate come il prodotto della necessità [28]. All'interno come all'esterno, la Rivoluzione è in pericolo. La ricostituzione dell'apparato di oppressione è invocato come indispensabile allo schiacciamento della contro-rivoluzione.

Non volendo ripetermi, mi limiterò qui a rinviare il lettore al capitolo [29] nel quale ho tentato di descrivere, dettagliatamente, il "rafforzamento del potere centrale" e mostrato come, alla fine del 1793, la borghesia si applicò nel distruggere con le proprie mani il regime essenzialmente democratico e decentralizzatore che, nella sua fretta nel sopprimere il centralismo rigoroso dell'antico regime, si era dato due anni prima.

La "necessità", il pericolo contro-rivoluzionario furono veramente il solo motivo di questo brusco voltafaccia? È quanto pretendono la maggior parte degli storici di sinistra. Georges Lefebvre afferma, nella sua critica del mio libro, che la Rivoluzione poteva essere salvata soltanto se il popolo era "inquadrato e commandato da borghesi". "Si dovevano radunare tutti gli sforzi della nazione a profitto dell'esercito; ciò non si poteva fare che per mezzo di un governo forte e centralizzato. La dittatura dall'alto... poteva riuscirvi; oltre alle capacità che gli sarebbero mancate, essa non avrebbe potuto far a meno di un piano d'insieme e di un centro esecutivo [30]. Albert Soboul valuta che la democrazia diretta dei sanculotti era, per via della sua "debolezza", impraticabile nella crisi che la Repubblica stava attraversando [31]. Prima di loro, Georges Guy-Grand, minimizzando la capacità politica dell'avanguardia popolare, aveva sostenuto: "Il popolo di Parigi non sapeva cosa fare delle sommosse. Le sommosse servono per distruggere, ed a volte si deve distruggere; ma demolire delle Bastiglie, massacrare dei prigionieri, puntare dei cannoni sulla Convenzione non bastava a far vivere un paese. Quando si dovette ricostruire i quadri, far funzionare le industrie e le amministrazioni, si dovette necessariamente ricorrere ai soli elementi disponibili che erano borghesi" [32].

Per la mia modesta parte, non credo di aver mai sottovalutato il contributo delle tecniche borghesi nella vittoria finale degli eserciti della Repubblica. Quando Georges Lefebvre mi rimprovera di non aver detto nulla sugli "ostacoli materiali", sulle "difficoltà nemiche" contro le quali urtavano gli approvvigionamenti, le produzioni di guerra, le forniture militari, ecc. [33], sono tentato di opporgli le pagine che ho dedicato a Robert Lindet [34], organizzatore di un "sistema metodico e quasi scientifico di requisizioni estendentisi a tutto il territorio nazionale", "tecnica" brillante che "assicurò l'approvvigionamento degli eserciti", e quelle in cui ammetto che la creazione di un potere forte, la centralizzazione amministrativa, l'organizzazione razionale e metodica delle requisizioni, delle produzioni di guerra, della condotta delle operazioni militari", "questa abbozzo di Stato totalitario, come si dice oggi" conferirono al governo rivoluzionario "una forza di cui nessun altra potenza d'Europa disponeva all'epoca [35]".

Ma non è certo soltanto attraverso queste tecniche e dall'alto che la Rivoluzione poteva essere salvata. Ho dimostrato, nel mio libro, che prima che questa centralizzazione rigorosa fosse instaurata, una collaborazione relativamente efficace si era istituita, alla base, tra l'amministrazione degli approvvigionamenti e le società popolari, tra il governo e i comitati rivoluzionari. Il rafforzamento del potere centrale soffocò e uccise l'iniziative dall'alto che era stato il nerbo della Rivoluzione. La tecnica borghese fu sostituita dalla foga popolare. La Rivoluzione perse la sua forza essenziale, il suo dinamismo interno [36].

D'altronde, confesso di non fidarmi molto di coloro che invocano il pretesto della "competenza" per legittimare, in periodo rivoluzionario, l'uso esclusivo e abusivo delle "tecniche" borghesi. Innanzitutto, perché gli uomini del popolo sono meno ignoranti, meno incompetenti di quanto, per i bisogni della causa, si voglia credere; poi, perché i plebei del 1793, quando erano sprovvisti di capacità tecniche, supplivano a questa mancanza attraverso il loro ammirevole senso della democrazia e l'alta coscienza che essi avevano del loro dovere verso la Rivoluzione; infine, perché le tecniche borghesi, ritenute indispensabili e insostituibili, misero troppo spesso a vantaggio della loro situazione per intrigare contro il popolo e anche stringere dei legami sospetti con dei controrivoluzionari. I Carnet, i Cambon, i Lindet, i Barère furono dei grandi commessi della borghesia, ma, credo di averlo dimostrato, nemici giurati dei sanculotti. In Rivoluzione, un uomo mancante di competenza ma devoto anima e corpo alla causa del popolo, assumesse delle responsabilità civili o militari, vale meglio di una competenza pronta a tradire [37].

Durante i circa sei mesi in cui sbocciò la democrazia diretta, il popolo diede prova del suo genio creativo; rivelò, anche se in modo ancora embrionale, che esistevano altre tecniche rivoluzionarie oltre a quelle della borghesia, di quelle dall'alto in basso. Furono senza dubbio infine quest'ultime che prevalsero perché, all'epoca, la borghesia aveva una maturità e un'esperienza che gli conferivano un'enorme preminenza sul popolo. Ma l'anno II della Repubblica, se si sa decifrare il suo messaggio, annuncia che le feconde potenzialità delle tecniche rivoluzionarie dal basso un giorno prevarranno, nella rivoluzione proletaria, sulle tecniche ereditate dalla borghesia giacobina.

Per terminare con questo punto, conservo la convinzione che il rafforzamento del potere centrale, operato alla fine del 1793, non aveva come unico obiettivo la necessità di comprimere la contro-rivoluzione. Se alcune delle disposizioni adottate trovano facilmente la loro giustificazione nella suddetta necessità, altre non possono spiegarsi che attraverso la volontà cosciente di reprimere la democrazia diretta dei sanculotti. Non è forse significativo, ad esempio, che il decreto del 4 dicembre 1793 sul rafforzamento del potere centrale sia coinciso con un affievolimento e non un aggravamento della severità nei confronti dei contro-rivoluzionari? Jaurès ha capito molto bene che questo decreto era, per una buona parte, una macchina da guerra contro gli "Hebertisti", e cioè, di fatto, contro l'avanguardia popolare [38]. Non è un caso che Albert Mathiez, abituato a "considerare la Rivoluzione dall'alto" [39], abbia tracciato un parallelo tra la "dura" dittatura del Comitato di salute pubblica del 1793 e quella del 1920 in Russia.

 

L'embrione di una burocrazia plebea

Per il fatto che la Grande Rivoluzione non fu che borghese e che essa si accompagnò ad un embrione di Rivoluzione proletaria, vi si vede apparire il germe di un fenomeno che assumerà tutta la sua ampiezza nella degenerazione della Rivoluzione russa: già nel 1793, la democrazia dal basso ha fatto nascere una casta di plebei che si sarebbe progressivamente differenziata dalla massa e la cui aspirazione era quella della confisca a loro profitto della Rivoluzione popolare. Ho cercato di analizzare la mentalità ambivalente di questi "plebei" presso cui la fede rivoluzionaria e gli appetiti materiali erano strettamente intrecciati. La Rivoluzione appariva loro, secondo l'espressione di Jaurès, "come un ideale e allo stesso tempo come una carriera". Essi servirono la rivoluzione borghese nello stesso tempo in cui se ne servirono. Robespierre e Saint-Just, come più tardi doveva farlo Lenin, denunciarono le ambizioni di questa burocrazia nascente e già invadente [40].

Albert Soboul, da parte sua, mostra (in uno studio ancora inedito) come i più attivi e i più coscienti dei sanculotti delle sezioni ottennero degli incarichi retribuiti. La preoccupazione di salvaguardare i loro interessi personali, oramai legati a quelli del potere, fece loro acquisire una mentalità conformista. Essi diventarono molto presto degli strumenti docili nelle mani del potere centrale. Da militanti si trasformarono in impiegati. Il loro assorbimento da parte dell'apparato dello Stato, nello stesso tempo in cui indebolì la democrazia all'interno delle sezioni, ebbe come risultato una sclerosi burocratica che privò l'avanguardia popolare di una buona parte dei suoi quadri.

Ma Soboul, la cui attenzione è soprattutto attratta dalla coesione delle forze montagnarde così come dai loro conflitti interni, non ha occhi che per i militanti la cui promozione li rese docili servitori del governo rivoluzionario borghese. Ho dimostrato che un certo numero di essi, coloro che ho chiamato i plebei hebertisti, entrarono in aperto conflitto con il Comitato di salute pubblica. Se il loro attaccamento al diritto borghese, alla proprietà borghese derivava dalle loro stesse brame, essi avevano tuttavia degli interessi particolari da difendere contro la borghesia rivoluzionaria. Quest'ultima, infatti, non voleva abbandonare loro che una parte quanto più ristretta della torta: innanzitutto perché questa enorme plebe budgettivora costava molto cara, e poi perché la borghesia diffidava della sua origine e del suo attaccamento popolare e, soprattutto, del sostegno ottenuto demagogicamente dai sobborghi allo scopo di occupare tutte le cariche, infine perché la borghesia intendeva conservare tra le mani dei suoi "tecnici" fidati il controllo del governo rivoluzionario. La lotta per il potere che oppose i plebei ai tecnici fu delle più vive e fu, in fin dei conti, risolta con la ghigliottina. Alcuni settori importanti, come il ministero della Guerra, i fondi segreti, le produzioni di guerra, ecc. furono la posta di questa rivalità. La battaglia per le produzioni di guerra è particolarmente rivelatrice perché qui, già due modi antagonistici di gestione economica si affrontarono: la libera impresa e ciò che oggi chiamiamo il "capitalismo di Stato". Se i plebei erano giunti ai loro scopi e se le produzioni di guerra erano state nazionalizzate, come essi lo richiedevano, una parte dei benefici della produzione, ambite e infine accaparrate dalla borghesia rivoluzionaria, finirono nelle loro tasche [41].

Non credo che Trotsky, non completamente informato, abbia del tutto ragione quando afferma che lo stalinismo "non aveva nessuna preistoria", che la rivoluzione francese non ha conosciuto nulla che somigliasse alla burocrazia sovietica, scaturita da un partito rivoluzionario unico e che affondava le sue radici nella proprietà collettiva dei mezzi di produzione [42]. Penso, al contrario, che i plebei hebertisti annunciavano con più di un tratto i burocrati russi dell'era staliniana [43]. Ma, nel 1793, malgrado i loro tratti specifici fossero già relativamente manifesti, e che la parte di potere che essi si attribuivano non fosse trascurabile, essi non poterono prevalere sulla borghesia, che era la classe più dinamica, meglio organizzata, più "competente" e quella che meglio corrispondeva alle condizioni oggettive dell'epoca; ed è infine la borghesia, non i plebei, che operò, a suo esclusivo profitto, il "rafforzamento del potere centrale".

 

L'"anarchia" dedotta dalla Rivoluzione francese

Non appena terminata la Rivoluzione francese i "teorici" d'avanguardia, come si direbbe oggi, si immersero con passione ardente e una lucidità spesso notevole all'analisi dei suoi meccanismi e alla ricerca dei suoi insegnamenti. La loro attenzione si concentrò essenzialmente su due grandi problemi: quello della "Rivoluzione permanente" e quello dello Stato. Essi scoprirono, innanzitutto, che la grande Rivoluzione, per il fatto di essere stata borghese, aveva tradito le aspirazioni popolari e che doveva essere continuata sino alla liberazione totale dell'uomo. Essi ne dedussero, tutti quanti [44], il socialismo. Quest'aspetto del problema è stato esposto in dettaglio nel mio libro e non vi tornerò sopra. Ma alcuni di loro scoprirono anche che, nella Rivoluzione, un potere popolare di un nuovo genere, orientato dal basso verso l'alto, aveva fatto la sua comparsa storica e che era stato infine sostituito da un apparato di oppressione dall'alto verso il basso, potentemente ricostituito. E si chiesero con angoscia come il popolo avrebbe potuto in futuro evitare di vedersi sequestrare la sua Rivoluzione. Essi ne dedussero l'anarchia.

Il primo che, sin dal 1794, intravide questo problema fu l'Arrabbiato (Enragé) Varlet. Nel suo libricino edito molto prima di Termidoro, scrisse questa frase profetica: "Per ogni essere che ragiona, governo e rivoluzione sono incompatibili". E accusò il "governo Rivoluzionario" di avere, in nome della salute pubblica, "instaurato una dittatura" [45]. Questa è la conclusione, scrivono gli storici dell'anarchismo, che il primo degli Arrabbiati trasse dal 93, e questa conclusione è anarchica"[46]. Vi era tuttavia in questa illuminazione di genio, un errore, che questi storici omettono di rivelare. Benché il suo compagno di lotta, Jacques Roux, due anni prima, avesse ammesso che nelle circostanze rivoluzionarie si era "costretti a ricorrere a delle misure violente"[47], Varlet non seppe distinguere tra la necessità della costrizione rivoluzionaria, esercitata dal popolo in armi sui contro-rivoluzionari, e la dittatura esercitata da un'ampia parte contro l'avanguardia popolare da parte della borghesia rivoluzionaria. Ma vi era tuttavia nel suo libretto un pensiero profondo: una rivoluzione guidata dalle masse e un potere forte (contro le masse) sono due cose incompatibili [48].

Questa conclusione i babuvisti la trassero a loro volta: "I governanti," scriveva Babeuf, "non fanno delle rivoluzioni se non per continuare a governare. Noi ne vogliamo fare una per assicurare per sempre la felicità del popolo attraverso la vera democrazia".

buonarroti.jpgE Buonarroti, suo discepolo, prevedendo con una straordinaria prescienza, il sequestro delle future rivoluzioni da parte di nuove "elite", aggiungeva: "Se si formasse... nello Stato una classe esclusivamente dedita ai principi dell'arte sociale, delle leggi e dell'amministrazione, essa troverebbe presto il segreto di crearsi delle distinzioni e dei privilegi".

Buonarroti ne deduceva che soltanto la soppressione radicale delle ineguaglianze sociali, che soltanto il comunismo  avrebbe permesso di liberare la società dal flagello dello Stato: "Un popolo senza proprietà e senza i vizi e i crimini che essa genera... non necessiterebbe del bisogno del grande numero di leggi sotto le quali gemono le società civilizzate d'Europa" [49].

Ma i babuvisti non seppero trarre tutte le conseguenze di questa scoperta. Isolati dalle masse, essi si contraddirono, come abbiamo visto, reclamando, oltrettutto la dittatura di un solo uomo o di una "saggia" elite, il che farà scrivere, più tardi a Proudhon che "la negazione governativa che gettò un bagliore, presto soffocato, attraverso le manifestazioni... degli Arrabbiati e degli Hebertisti sarebbe scarturita dalle dottrine di Babeuf, se Babeuf avesse saputo ragionare e dedurre il suo proprio principio" [50].

È a Proudhon che spetta il merito storico di aver tratto dalla Rivoluzione francese un'analisi veramente approfondita del problema dello Stato. L'autore di Idée générale de la Révolution au XIX siècle [Idea generale della Rivoluzione nel XIX secolo] (1851) [51] si dedica, dapprima, ad una critica della democrazia borghese e parlamentare, della democrazia dall'alto, della democrazia attraverso decreti. Ne denuncia l'"inganno". Se la prende con Robespierre, avversario dichiarato della democrazia diretta. Sottolinea le insufficienze della costituzione democratica del 1793, punto di partenza senz'altro, ma compromesso bastardo tra democrazia borghese e democrazia diretta, che prometteva tutto al popolo e non gli dava nulla e che inoltre, presto promulgata, fu rinviata alle calende greche. E, penetrando al cuore del problema, dichiara, seguendo Varlet, che "proclamando la libertà delle opinioni, l'eguaglianza davanti alla legge, la sovranità del popolo, la subordinazione del potere al paese, la Rivoluzione ha fatto della società e del governo due cose incompatibili".

Afferma la "incompatibilità assoluta del potere con la libertà". E pronuncia una folgorante requisitoria contro lo Stato: "Nessuna autorità, nessun governo, anche popolare: la Rivoluzione è là... Il governo del popolo sarà sempre l'espediente del popolo... Se la Rivoluzione lascia sussistere il Governo da qualche parte, esso tornerà ovunque". E se la prende contro "i più arditi tra i pensatori", i socialisti "autoritari" che, pur ammettendo i misfatti dello Stato, "sono giunti a sostenere che il Governo era senz'altro un flagello... ma un male necessario". "Ecco perché", egli aggiunge, ... "le rivoluzioni più emancipatrici... sono sfociate costantemente in un atto di fede e di sottomissione al potere; perché tutte le rivoluzioni non sono servite che a ricostituire la tirannia". "Il popolo, invece di un protettore,... si dà un tiranno... Ovunque e sempre, il governo, per quanto popolare sia stato alla sua origine,... dopo essersi mostrato per un po' di tempo liberale,... è diventato a poco a poco eccezionale, esclusivo".

La centralizzazione operata a partire dal decreto del 4 dicembre 1793, egli la condanna con un lucido rigore. Questa centralizzazione, poteva essere comprensibile durante l'antica monarchia, ma "con il pretesto della Repubblica una e indivisibile, sottrarre al popolo la disponibilità delle proprie forze;... trattare da federalisti, e in quanto tali designare alla proscrizione coloro che si dicono favorevoli alla libertà e sovranità: equivale a mentire al vero spirito della Rivoluzione francese, alle sue tendenze più autentiche... Il sistema della centralizzazione, che ha prevalso nel '93..., non è altra cosa che quello della feudalità trasformata... Napoleone, che vi pose mano per ultimo, ne ha reso testimonianza". Più tardi Bakunin, suo discepolo, gli farà eco: "Strana cosa, questa grande Rivoluzione che, per la prima volta nella storia, aveva proclamato la libertà, non più soltanto quella del cittadino, ma dell'uomo, - che si faceva l'erede della monarchia che essa uccideva, aveva resuscitato allo stesso tempo questa negazione di ogni libertà: la centralizzazione e l'onnipotenza dello Stato" [52].

Ma il pensiero di Proudhon va oltre e più in fondo ancora. Insegna che l'esercizio della democrazia diretta, che le formule più ingegnose in vista di promuovere un autentico autogoverno del popolo per il popolo (confuzione dei poteri legislativo ed esecutivo, elezione e revocabilità dei funzionari reclutati dal popolo al proprio interno, controllo popolare permanente), che questo sistema "irreprensibile" in teoria "non incontra nella pratica una difficoltà". Infatti, anche in questa ipotesi optima, l'incompatibilità tra la società e il potere rischia di sussistere: "Se il popolo intero, a titolo di sovrano, diventa governo, si cerca invano dove saranno i governati... Se il popolo così organizzato per il potere, non ha effettivamente più nulla sopra di lui, chiedo cosa ha sotto?". Non vi è via di mezzo: si deve "o lavorare o regnare". "Il popolo in massa passando allo Stato, lo Stato non ha più la minima ragione d'essere, poiché non resta più popolo: l'equazione del governo dà come risultato zero".

Come uscire da questa contraddizione, da questo "circolo infernale"? Proudhon risponde che bisogna dissolvere il governo nell'organizzazione economica.

"L'istituzione governativa... ha la sua ragione nell'anarchia economica. La rivoluzione, facendo cessare quest'anarchia e organizzando le forze industriali, la centralizzazione politica, non ha più pretesti".

Tuttavia vi è in Proudhon una grave lacuna. Egli attacca lo Stato in astratto. Il suo utopismo piccolo borghese lo rende incapace di definire come e perché lo Stato si dissolverà nella "organizzazione economica". Si accontenta di alcune formule vaghe come la "solidarietà industriale", il "regno dei contratti". Aggrappandosi alla proprietà privata, nella quale crede di trovare la garanzia della libertà, è opposto, in principio, alla gestione collettiva [53] e francamente ostile al comunismo. È qui che il materialismo storico di Marx illumina e concretizza la critica proudhoniana dello Stato: il potere politico, è il potere organizzato di una classe in vista dell'oppressione di un'altra classe e soltanto il comunismo, sopprimendo le condizioni di produzione borghesi, porrà fine all'antagonismo di classe e, di conseguenza, abolirà lo Stato [54]. Anarchici e marxisti sono d’accordo sul deperimento finale di quest'ultimo [55].

 Tuttavia, i marxisti sostengono che lo stato non potrà essere abolito subito dopo la Rivoluzione proletaria, ma soltanto al termine di un periodo di transizione più o meno lungo. I libertari rispondono che resuscitare lo Stato all'indomani della presa del potere da parte dei lavoratori, equivale a instaurare una nuova forma di oppressione. Tra questi due antipodi, sottoposti, nella Prima Internazionale, alla pressione opposta dei bakuninisti e dei blanchisti, oscilla il pensiero di Marx ed Engels....

 

 

[Traduzione di Ario Liberti]

 



NOTE

[1] Edgar Quinet, La Révolution [La Rivoluzione], 1865, edizione del 1869, I, p. 8.

[2] La lutte de classes sous la Première République [La lotta di classe durante la Prima Repubblica], 2 vol., Gallimard, 1946.

[3] Times, Literary Supplement, 15 novembre 1946.

[4] Kropotkin, La Grande Révolution, 1909, p. 745; tr. it: La Grande Rivoluzione, Edizioni Anarchismo, Catania, 1975. La maggior parte degli storici del pensiero socialista hanno avuto il torto di non sottolineare abbastanza che queste correnti di pensiero sono nate non soltanto nel cervello degli ideologi del XIX secolo (essi stessi eredi dei filosofi del XVIII secolo), ma anche nell'esperienza vivente della lotta di classe, in particolare quella del 1793. Questa lacuna è particolarmente visibile nel capitolo sulla Rivoluzione francese con il quale G. D. H. Cole apre la sua monumentale Storia del pensiero socialista [A History of Socialist Thought, 1953, I); tr. it: Storia del pensiero socialista. I precursori (1789-1850), Laterza, Bari, 1967.

[5] Boris Souvarine, Stalin, 1935, p. 265; tr. it: Stalin, Adelphi, Milano, 1983. Erich Wollenberg, The Red Army, 2ed., Londra 1940, p. 78-80; Isaac Deutscher, Stalin, 1953, p. 7; tr. it. Stalin, Longanesi, Milano, 1969.

[6] Albert Soboul, Classes et Lutte de classes sous la Révolution française, Pensée, janvier-février, 1954; tr. it: Classi e lotta di classe durante la Rivoluzione francese.

[7] Cfr. tra gli altri Marc-Antoine Jullien alla Societé populaire de La Rochelle, 5 mars 1793 in: Edouard Lockroy, Une mission en Vendée, 1793, p. 245, 248 (Daniel Guérin, l, p. 177-178).

[8] Cfr. Paul Sainte-Claire Deville, La Commune de l'an II, 1946.

[9] Per non dovermi ripetere, mi astengo dall'esporre qui un altro aspetto della democrazia diretta e comunale del 1793: la federazione, non avendo altro da aggiungere a quanto già sostenevo nel mio libro (I, 34-37). Vorrei tuttavia precisare che è a questa fonte che Proudhon, poi Bakunin hanno attinto il loro federalismo libertario.

[10] Pierre Caron, Paris sous la Terreur, 6 volumi, di cui 4 già usciti.

[11] Ibid., VI (di imminente uscita) (obs. Boucheseiche, 29-3-94). 12.

[12] Daniel Guérin II, p. 74.

[13] Lockroy, op. cit., p. 45, 57.

[14] Augustin Cochin, La Révolution et la libre pensée [La Rivoluzione e il Libero pensiero], 1924.

[15] Daniel Guérin, I, p. 37-41. Questa sezione non ha trovato il gradimento di alcuni anarchici (Cfr. Le Libertaire, del 3 gennaio 1947).

[16] Karl Kautsky, La Dictature du Prolétariat, [La dittatura del proletariato, SugarCo, Milano, 1977], Vienna, 1918; - dello stesso autore Materialistische Geschichtsaufassung, 1927, II, p. 409 ; - Cfr. Lenin, La Révolution prolétarienne et le renégat Kautsky, 1918, ed. 1920; [tr. it. La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, Opere scelte, Editori Riuniti - Edizioni Progress, Roma - Mosca, 1974.

[17] Così, nella sua Critica al Programma di Erfurt, 1891, Engels scrive che la Repubblica democratica è "la forma specifica della dittatura del proletariato, come l'ha già dimostrato la grande Rivoluzione francese".

[18] Daniel Guérin, I, p. 35-36, 20. Ibid., p. 39.

[19] Saint-Just avendo proposto che il potere fosse concentrato tra le mani di Robespierre, la prospettiva di una dittatura personale suscitò una protesta tra i suoi colleghi, e Robert Lindet avrebbe esclamato: "Non abbiamo fatto la Rivoluzione a profitto di uno solo". (Daniel Guérin, II; p. 273-274).

[20] Cit. da Daniel Guérin, I, p. 23.

[21] Bakunin, articolo apparso sull'Egalité del 26 giugno 1869 in Mémoire de la Fédération jurassienne..., Sonvillier, 1873, annesso; - (Oeuvres, edizione Stock) IV, p. 344; - "Programma dell'Organizzazione rivoluzionaria dei Fratelli internazionali" in L'Alliance Internationale de la Démocratie socialiste et l'Association Internationale des Travailleurs, Londres-Hambourg, 1873. Tuttavia Bakunin ammette che per "dirigere" la Rivoluzione, una "dittatura collettiva" dei rivoluzionari è necessaria, ma una "dittatura senza emblema, senza titolo, senza diritto ufficiale, e tanto più potente in quanto non avrà le forme del potere" (lettera a Albert Richard, 1870, in Richard, Bakounine et l'Internationale, éd. Lione, 1896).

[22] Philippe Buonarroti, Conspiration pour l'Egalité dite de Babeuf, 1828, p. 93, 134, 139, 140 (D. G., I, p. 40); [tr. it.: La Congiura per l'Eguaglianza detta di Babeuf, Einaudi, Torino, 1971].

[23] Kautsky, La dictature di prolétariat, [tr. it.: La dittatura del proletariato, SugarCo, Milano, 1977], cit. - Prefazione di V. P. Volguine ai Textes Choisis di Blanqui, 1955, p. 20, 41.

[24] Cfr. “Cahiers du bolchevisme”, 14 marzo 1933, p. 451.

[25] Marx, La lutte des classes en France, 1850, éd. Schleicher, 1900, p.147; [tr. it.: Rivoluzione e reazione in Francia (1848-1850), Einaudi, Torino, 1976].

[26] Maximilien Rubel, Pages choisies de Marx, 1948, p. L. note et 224-225.

[27] Cfr. Léon Trotsky, Nos Taches politiques, Genève, 1904 (in russo), [I nostri compiti politici, Samonà e Savelli, Roma, 1972], alcuni brani in: Deutscher, The Prophet Armed, Trotsky: 1879-1921, New York e Londra, 1954, p. 88-97; [tr. it.: Il profeta armato, Longanesi, Milano, 1956, 1983; Pgreco, Milano, 2011]. Conviene precisare che il pensiero di Lenin, in seguito, oscillerà tra una concezione blanquista e una concezione più democratica della "dittatura del proletariato".

[28] Cfr. Proudhon, Idée générale de la Révolution au XIXe siècle, 1851 (Oeuvres Complètes, Rivière) p. 126-127 [tr. it. parziale: L'idea della Rivoluzione nel XIX secolo, Centro Editoriale Toscano, Firenze, 2001]; - Deutscher, op. cit., p. 8-9 (secondo Albert Sorel).

[29] Daniel Guérin, II, p. 1-16.

[30] Georges Lefebvre, Annales Historiques..., aprile-Giugno 1947, p. 175.

[31] Albert Soboul, Robespierre and the Popular Movement of 1793-1794, in: Past and Present, maggio 1954; p. 6.

[32] Georges Guy-Grand, La démocratie et l'après-guerre, 1922 p. 230.

[33] Lefebvre, ibid., p. 177.

[34] Daniel  Guérin, I, p. 347, II, p. 22-23.

[35] Oggi, allo stesso modo, le critiche più severe della dittatura staliniana non contestano che delle tecniche analoghe hanno fatto dell'URSS, soprattutto sul piano atomico, una delle due più grandi potenze del mondo.

[36] Daniel Guérin, II, p. 22-23.

[37] Daniel Guérin I, p. 185, 188, 223.

[38] Daniel Guérin II, p. 3-7.

[39] Georges Lefebvre, Etudes sur la Révolution française, 1954, p. 21.

[40] Daniel Guérin, I, p. 251-256.

[41] Daniel Guérin, I, p. 255, 326 ; II, p. 125-128.

[42] Trotsky, Staline, 1948, p. 485, 556, 559-560; [tr. it.: Longanesi, Milano, 1947].

[43] Allo stesso modo, sul piano militare, una volta eliminate i generali dell'antico regime, traditori della Rivoluzione, quest'ultima fecero sorgere, accanto ai generali sanculotti, devoti ma spesso incompetenti, un nuovo tipo di giovani capi usciti dalle fila, capaci ma divorati dall'ambizione, e che più tardi, si faranno gli strumenti della reazione e della ditattura militare. In una certa misura, questi futuri marescialli dell'Impero sono la prefigurazione dei marescialli sovietici (D. G., I, p. 229-230).

[44] Ritroviamo l'espressione "rivoluzione permanente" sotto la penna di Bakunin come sotto quella di Blanqui e di Marx.

[45] Varlet, L'Explosion, 15 vendémiaire an III (D. G., II, p. 59).

[46] Alain Sergent e Claude Harmel, Histoire de l'Anarchie, 1949, p. 82.

[47] Jacques Roux, Publiciste de la République Française, n° 265 (D. G., I, p. 85).

[48] Daniel  Guérin, II, p. 59.

[49] Babeuf, Tribun du Peuple, II, 294, 13 aprile 1796; - Buonarroti, op. cit., p. 264-266 (D. G., II, p. 347-348). 53.

[50] Proudhon, Idée générale..., p. 195.

[51] Du principe d'autorité, p. 177-236.

[52] Bakunin, Oeuvres, I, ll.

[53] Tuttavia Proudhon ammette la gestione collettiva dei "grandi mezzi di produzione" come "ad esempio, le ferrovie" (Idée générale..., cit., p. 175). Bakunin, benché discepolo di Proudhon, si alleerà, contro i proudhoniani, al collettivismo della Prima Internazionale (congresso di Bruxelles, 1868). Tuttavia, ripudierà sempre il "comunismo di Stato".

[54] Manifesto comunista, 1847, Ed, Costes, 1953, p. 96-97; - Marx, “Neue Rheinische Zeitung”, 1850, in: Pages choisies, a cura di Rubel, 1948, p. 170.

[55] Bakunin, Oeuvres, IV, p. 250; Les prétendues scissions de l'Internationale, Londres, 5 mars 1872, p. 49; James Guillaume, L'Internationale: II, 1907, p. 298.

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30 giugno 2014 1 30 /06 /giugno /2014 05:00

Un marxismo libertario?

guerin-pour-un
Miguel Chueca


Guerin.jpgParlare di marxismo libertario, è essenzialmente ricordare lo sforzo condotto da Daniel Guérin per tentare una sintesi tra le due correnti che si affrontarono all'interno della I Internazionale, dove non voleva vedere che dei "fratelli gemelli", separati da semplici "litigi di famiglia". La formula ha potuto essere utilizzata qua e là, lo è ancora oggi occasionalmente, ma nessuno ha fatto più dell'autore di Fascisme et grand capital [Fascismo e gran capitale] e La Lutte des classes sous la Première République [La lotta di classe durante la Prima Repubblica] per popolarizzarle e tentare di farne il punto di partenza di un rinnovamento del socialismo. È in una raccolta di testi apparsa poco dopo il 1968, con il titolo Pour un marxisme libertaire [Per un marxismo libertario] che Daniel Guérin si dedicò ad un tentativo che sembrava accordarsi abbastanza bene con il clima dei tempi che aveva visto le bandiere rosse e le bandiere nere fraternizzare sulle barricate del mese di maggio.

Guerin--fascismo-e-gran-capitale.jpgNella sua introduzione, Daniel Guérin poneva l'invenzione e l'uso di questa formula sul conto di alcuni studenti italiani, che gli avrebbero permesso di attaccare infine un'"etichetta" soddisfacente sul progetto al quale egli si identificava da molti anni, senza che avesse trovato ancora il nome più adatto per caratterizzarlo, il termine "socialismo libertario" al quale si era riferito sino ad allora non lo soddisfaceva a causa di un sostantivo che apparteneva, egli scriveva, "alla categoria delle parole disonorate".

guerin-Luttes.JPGCosa ricopriva la suddetta "etichetta"? In un testo del 1966, precisa che si tratta per lui di ristabilire i ponti tra queste "due varianti di uno stesso socialismo", riducendo - addirittura sopprimendo - il fossato che li separa da molti decenni, e che l'instaurazione del "formidabile apparato statale, dittatoriale e poliziesco" scaturito dalla rivoluzione d'Ottobre non ha fatto che scavare ancora di più. A leggerlo bene, si vede tuttavia che si è assegnato molto come compito di arricchire l'anarchismo con l'apporto del materialismo marxista che di rigenerare il socialismo e i marxismi  attraverso "l'iniezione di una buona dose di linfa anarchica", che permetterebbe loro di riannodarsi con lo spirito rivoluzionario delle origini. Il senso di questa procedura non ha d'altronde nulla di stupefacente poiché, come Daniel Guérin ricorda egli stesso, la sua formazione è marxista e che ha fatto i suoi primi passi all'interno della "famiglia" socialista, concretamente nella corrente della della SFIO diretta da Marceau Pivert.

Tra gli elementi che, nell'anarchismo, gli sembravano i più "utilizzabili" per una rinascita rivoluzionaria del socialismo, ritenne l'idea di associazione operaia, il federalismo e le pratiche del sindacalismo rivoluzionario. Così come, non insiste affatto troppo su ciò che il marxismo, da parte sua, potrebbe apportare al suo "fratello gemello", si capisce come molti abbiano visto nella sua proposta un allineamento sulle posizioni classiche dell'anarchismo e/o dell'anarcosindacalismo piuttosto che una vera "sintesi" tra l'uno e l'altro.

Si leggano le notazioni dedicate all'organizzazione della società post-rivoluzionaria: vi si vedrà quanto la visione di una sostituzione immediata degli ingranaggi dello Stato con una "confederazione di confederazioni" che raggruperebbe allo stesso tempo la "confederazione dei comuni" e quella dei "sindacati operai rivoluzionari" è debitrice agli schemi classici dell'anarcosindacalismo. Se non ci si interessa che ai soggetti reali di discordia tra le due tradizioni rivali, e cioè secondo lo stesso Daniel Guérin, "il ritmo di deperimento dello Stato all'indomani di una rivoluzione, [...] il ruolo delle minoranze (coscienti o dirigenti?) e [...] l'uso dei mezzi della democrazia borghese", appare abbastanza chiaramente che la "sintesi" si risolve, in tutti i casi, attraverso una scelta senza equivoco della posizione anarchica.

Non si farà torto a Daniel Guérin sostenendo che il suo tentativo di "superare" le due correnti all'interno di un "marxismo libertario" si è risolto in uno scacco. Gli anarchici, nella loro maggioranza, videro in esoo qualcosa come un matrimonio tra una e un coniglio. In quanto ai "marxisti", essi non si preoccuparono affatto di questa "linfa anarchica" che si proponeva loro perché la maggior parte di essi erano, molto evidentemente, refrattari  a rimedi di questo genere. Non poteva andare diversamente: riconciliare l'anarchismo con il Marx "anarchico" di La Guerra civile in Francia – o quello che, nel 1844, scriveva che "l'esistenza dello Stato e l'esistenza dell aservitù sono inseparabili" - è una petizione di principio, e se si tratta di farlo con il Marx "giacobino" che desidera centralizzare tutti i mezzi di produzione tra le mani dello Stato, è un'assurdità. Daniel Guérin, per primo, avrebbe riconosciuto questo scacco di buon grado quando, a una domanda che gli si pose molti anni dopo sul senso che egli dava alla formula, ammise che gli preferiva ora quella di "comunismo libertario", senza che avesse rinunciato tuttavia alla riconciliazione postuma di Marx e Bakunin. È tuttavia impossibile che non abbia visto a qual punto questa scelta non poteva che allontanare dalla "sintesi", perché la formula incaricata di sostituire questo "marxismo libertario" in cui aveva creduto di vedere tante poromesse vent'anni prima appartiene indubbiamente al solo tesoro della tradizione anarchica.

È tuttavia impossibile che non abbia visto sino a qual punto questa scelta non poteva che allontanarsi dalla "sintesi", poiché la formula incaricata di sostituire questo "marxismo libertariao" in cui aveva creduto di percepire tante promesse venti anni prima appartiene incontestabilmente al solo tesoro della tradizione anarchica.

 

Miguel Chueca

[traduzione di Ario Libert]


Un marxisme libertaire?

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1 maggio 2014 4 01 /05 /maggio /2014 05:00

Utopia come alternativaotto-ruhle

Otto Rühle e la sua utopia antiautoritaria 

 

di Henry Jacoby

 

I precursori

Otto RUHLE, libro
Lungo l'arco della storia del mondo occidentale si muove una corrente d'opposizione diretta contro l'autorità come tale. Il lungo processo in cui l'autorità si organizza come stato e fa dell'uomo libero un suddito soggetto al pagamento di imposte, viene continuamente interrotto dalla sollevazione contro l'autorità. Alle idee di ordine e di stato si contrappongono ripetutamente le speranze d'un ritorno ad un mondo senza autorità. Queste speranze giocarono un ruolo attivo nei movimenti millenaristici del tardo Medioevo e all'inizio dell'evo moderno in Germania, nelle Fiandre e in Boemia, nella Jacquerie francese e nelle rivolte contadine in Inghilterra. Le troviamo presso i Taboriti e gli Adamiti della rivoluzione ussita, negli anabbatisti, nei lollardi e in altri movimenti. Queste speranze si esprimono in idee che fanno la loro comparsa insieme con i movimenti dei contadini e degli artigiani nei grandi rivolgimenti del XV e XVI secolo e che vengono contrapposte dagli intellettuali dell'epoca al mondo maligno e alla sua corrotta autorità. "Tutti questi pensieri, nostalgie, intenzioni e decisioni di stampo agrario e adamitico a sfondo mistico sono 'romanticismo'. Esso sono sorti in spiriti ricercatori, estranei ai campi e ai contadini, sono le uscite di sicurezza dei 'dotti' atterriti di quegli anni" [1].

Dal tempo della rivoluzione degli Ussiti in Boemia, che depose il re ma distrusse anche la "sinistra" millenaristica, Tabor e gli Adamiti, sono continuamente riaffiorati nei periodi di transizione movimenti che non soltanto volevano soppiantare l'autorità esistente, ma aspiravano ad un ordine senza autorità costituita o almeno al superamento della scissione tra autorità e società.

"Dal tempo degli Ussiti la caduta dei signori ereditari e l'eliminazione dei millenaristi costituiscono i due tratti caratteristici essenziali di tutte le grandi rivoluzioni europee sino al XX secolo. Tutte queste rivoluzioni, in fondo, non hanno portato la sollevazione radicale bramata dai millenaristi, l'equiparazione degli umili coi potenti, ma alla fin fine sempre e soltanto la sostituzione del ceto superiore dominante con quello immediatamente seguente, e niente di più" [2].

Accanto alle grandi rivoluzioni europee che hanno condotto ad un reale mutamento della struttura sociale, si è dato il caso, specialmente nelle zone agrarie arretrate e più povere, di numerose e spontanee "rivolte senza domani" di cui parla Eric J. Hobsbawm nella sua storia dei ribelli primitivi; rivolte avvenute sotto l'influsso di profetiche figure di capi che proclamavano la fede in un improvviso mutamento dell'esistenza divenuta ormai intollerabile e nell'avvento imminente del giorno della completa libertà [3].

Successivamente, in quelle terre povere e a stento toccate dall'industrializzazione  capitalistica, in cui le rivolte primitive erano scoppiate e scomparse a somiglianza d'un uragano, l'anarchismo poté riallacciarsi a quei sentimenti che costituivano l'anima delle rivolte e che divennero il fondamento di idee e d'organizzazioni politiche.

 

otto-Ruhle-ritratto-di-Diego-Rivera1940

Otto Rühle, ritratto da Diego Rivera, 1940.


woodcockCome constatò George Woodcock nella sua Storia dell'anarchismo, "l'anarchismo ha sempre esercitato maggiormente la sua forza d'attrazione proprio su quelle classi che rimasero fuori della grande corrente del mondo industrializzato" [4].  

tolstoi coloriI principali teorici dell'anarchismo provenivano dall'alta nobiltà russa - Bakunin, Kropotkin, Cerkezov, Tolstoi - che, resa politicamente impotente dallo stato autocratico e dalla sua burocrazia, nutriva sentimenti antistatali. In Russia le teorie dell'anarchismo si riallacciavano alla tradizione di rivolte contro lo strapotente apparato statale, di fronte al quale non c'era altra alternativa che la sottomissione o la rivolta [5].

In Russia, dove non poteva formarsi alcuna borghesia liberale, all'opposizione intellettuale contro l'autocrazia che uccideva ogni parvenza di vita spirituale non rimaneva altro che la fede nella "gente semplice" e, poiché questa gente rimaneva sottomessa, la speranza si trasferì agli esclusi, ai bandoti, ai reietti. Masaryk trovava che "per la Russia Bakunin crede nei masnadieri alla Pugacev e alla Rasin, per l'Europa ha fiducia nel Lumpenproletariat. Il suo anarchismo è la libertà dei cosacchi russi" [6].
 
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Nell'Europa occidentale "l'anarchismo organizzato del XIX e XX secolo era un movimento di ribellione piuttosto che di rivoluzione. Esso era l'espressione di una protesta e s'era votato all'opposizione contro quella tendenza alla centralizzazione politica ed economica che predominava sin dalla metà del XVIII secolo, e contro tutto quello che questa tendenza comportava d'oppressione dei valori personali e di subordinazione dell'individuo allo Stato" [7]. Come movimento di protesta così configurato, l'anarchismo non ha sviluppato alcuna vera e propria teoria del superamento dell'ordine sociale esistente, proprio perché si situava al di fuori delle tendenze realmente operanti in esso. Agli inizi dell'industrializzazione in Francia Proudhon, che esercitò una certa influenza sugli anarchici come Bakunin, col suo monito a guardarsi dall'autorità centralizzata gerarchicamente con i suoi piani d'un ordine sociale basato in larga misura sulla piccola proprietà e costruito su un sistema di credito organizzato, rimase prigioniero nelle sfere d'una fantasticheria lontana dal reale. Quando più tardi le sue idee cominciarono ad orientarsi maggiormente verso la realtà e l'esistenza della classe operaia, si professò a favore d'uno stato- anche se non burocratico e a carattere federativo- e di un equilibrio fra libertà e autorità.

Agli anarchiBakunin Nadarci mancava però la risposta alla domanda su che cosa sarebbe successo all'"indomani della rivoluzione". Bakunin non poté sottrarsi del tutto a questa domanda. Nella sua Confessione scrisse: "Io credo che in Russia più che altrove sarà indispensabile un forte potere dittatoriale, un potere che si occupi esclusivamente dell'educazione e dell'istruzione delle masse, un potere libero nelle sue aspirazioni e nel suo spirito, ma senza forme parlamentari; che pubblichi libri di contenuto libertario, ma senza libertà di stampa; un potere circondato da compagni di lotta, da essi consigliato e rafforzato dalla loro libera opera di collaborazione, ma non limitato da niente e da nessuno. Mi son detto che tutta la differenza tra questa dittatura e il potere monarchico dovrebbe consistere nel fatto che essa, conseguentemente allo spirito dei suoi principi, deve tendere a rendersi superflua, dal momento che non dovrebbe avere alcuna altra mèta che la libertà, l'indipendenza e la maturità del popolo" [8].

E nello stesso scritto
  dice anche, connettlau1 riferimento alla rivoluzione di Praga, cui Bakunin aveva avuto un'attiva parte direttiva: "A Praga doveva esserci la sede del governo rivoluzionario, d'un governo provvisto d'illimitati poteri dittatoriali... Si sarebbe fatta finita con tutti i circoli, tutti i giornali, tutte le manifestazioni di un'anarchia chiacchierona. Tutto avrebbe dovuto essere sottoposto ad un potere dittatoriale" [9].

Max Nettlau, seguace e biografo di BakDzerzhinsky1919unin, osservò a questo proposito che era una leggenda che Bakunin volesse la dittatura. Persone senza preconcetti dovrebbero riconoscere che qui si tratta più di una misura puramente tecnica, della dittatura tecnica del lustrascarpe, del sapone e dello scopo... [10]. Il problema però è proprio costituito dal fatto che nelle dittature rivoluzionarie, si tratta sempre di misure "tecniche" di pulizia. Quando Lenin affidò la GPU a Dzierzinski come al più puro di tutti gli uomini, seguiva proprio una tale idea di pulizia.

Lenin KarpovNettlau aveva completamente ragione di ritenere che Bakunin non avesse voluto la dittatura [11], ma quando a questi capitò di pensare all'indomani della rivoluzione, si fece strada in lui l'idea della "dittatura tecnica", e quando più tardi parlò d'uno stato maggiore rivoluzionario, era anche questo un organo dittatoriale al pari del comitato centrale leninista.

Ha corrisposto pienamente al carattere d'un movimento di protesta il fatto che l'anarchismo si sia frantumato sempre in molte direzioni (che si combattevano l'un l'altra): alcune che vedevano nella violenza un mezzo essenziale dell'azione politica, altre che proclamavano la non violenza come la sola a corrispondere al fine dell'anarchia; alcune che ponevano l'accento sull'individualismo, altre sul collettivismo. In un mondo in cui tutto spingeva alla centralizzazione, essi volevano tenere in piedi i principi del federalismo, in un mondo in cui tutti gli interessi erano rappresentati in potenti organizzazioni burocratiche, essi cercavano di permanere in un contesto libero da ogni legame [12]. In un mondo in cui si pretendeva  tutto dallo stato, essi propagandavano la sua soppressione. Ma la classe operaia cui essi si rivolgevano era nella sua grande maggioranza meno interessata ad una lotta eroica contro lo Stato che non alle richieste sociali che essi stessi gli ponevano [13].

Nella seconda metà del XX secolo quindi anche la Storia dell'anarchismo di Woodcock poteva riferire nella conclusione soltanto che "ci sono ancora migliaia di anarchici sparsi minutamente in molti paesi del mondo. Ci sono ancora gruppi anarchici, riviste, scuole e comuni. Essi sono il fantasma del defunto movimento anarchico storico, un fantasma che non è in grado di risvegliare né la paura nei governi né la speranza nel popolo".

Anche sulla Germania il movimento anarchico aveva gettato solo una debole ombra. L'anarchismo tuttavia non era soltanto un movimento, ma anche una critica assoluta delle forme e dei contenuti sociali. Se il movimento anarchico nuotò contro la corrente della storia cui non seppe imprimere un nuovo corso, il suo occhio critico vide però molte cose più acutamente di quanto non fecero le forze che lottavano per la società esistente. La critica anarchica della crescente centralizzazione, della direzione burocratica e della perdita della spontaneità toccò l'autentica problematica della società moderna. Il movimento operaio tedesco, che si sentiva movimento d'opposizione contro l'ordine sociale esistente e che come tale veniva considerato, si dimostrò esso stesso compenetrato dalle tendenze di quest'ordine sociale. Certo, Marx ed Engels, nei loro lavori teorici, avevano sottoposto anche queste tendenze ad un'analisi critica; ma la socialdemocrazia tedesca si creò un marxismo che, come constatò Otto Rühle, corrispondeva più al proprio spirito che a quello dell'opera di Marx [14]. Inoltre Marx ed Engels al tempo in cui, nell'Internazionale, furono coinvolti in una lotta per il potere coi bakuniniani, rividero alcune loro concezioni teoriche e le abbandonarono. Per certuni che avevano creduto profondamente alle speranze e alle promesse contenute nel socialismo e nel movimento socialista, e si erano impegnati attivamente in loro favore, la critica antiautoritaria, in seguito alla politica di guerra del partito e del sindacato tedesco (e non soltanto tedesco) nel 1914, si rivestì d'una nuova e particolare attualità.

 

Una nuova concezione

La Rivoluzione Russa sembrò dimostrare ai socialisti tedeschi più decisi che l'apparato autoritario dello stato poteva esser sostituito da un apparato di autogestione, il sistema dei consigli, che poggiava sulla classe operaia. La nascita dei consigli degli operai e dei soldati in Germania sembrò aver messo anche qui all'ordine del giorno la realizzazione di questa possibilità [15]. Da questo angolo visuale, le istituzioni del movimento operaio tedesco che si erano opposte a tale realizzazione o perlomeno non servivano a questo scopo, avevano fatto il loro tempo. Quando il 30 dicembre 1918 si riunì il congresso di fondazione del Partito Comunista Tedesco (KPD), i delegati si sentirono i creatori di qualcosa di completamente nuovo. La maggioranza di essi voleva una rottura completa col passato. Un delegato di Berlino annunciò: "Bisogna rallegrarci del fatto che noi oggi possiamo proclamare di esserci liberati dal torpore autoritario dei nostri capi" [16]. Predominava la volontà che il nuovo partito divenisse qualcosa di totalmente diverso dalla socialdemocrazia tedesca. La maggioranza dei delegati rifiutava l'adesione ai sindacati e la partecipazione alle elezioni per il parlamento. Quale oratore di questa maggioranza, Otto Rühle indicò la necessità che la classe operaia si creasse un organo proprio, contrapposto all'assemblea nazionale [17]. Ma certamente tutti i delegati erano d'accordo nella convinzione che fosse appena cominciato un processo rivoluzionario nel corso del quale sarebbero crollate tutte le vecchie istituzioni.

In questa esaltazione originaria della sensazione di vivere l'avvento di una nuova epoca, l'ammonimento di Rosa Luxemburg, che il congresso rappresentava solo una piccola minoranza della classe operaia, passò inosservato. Riguardo all'apparato dello Stato ancora minacciato proprio dai consigli degli operai e dei soldati, Karl Liebknecht già in quel momento a dire il vero poté constatare che "il vecchio apparato burocratico era stato di nuovo ripristinato nelle sue funzioni" [18]. Sconfitto da questo apparato, il nuovo partito ritornò alle tradizionali forme del movimento operaio, e nel suo secondo congresso nell'ottobre del 1919 la maggioranza che persisteva nella sua concezione antiparlamentare e antisindacale fu espulsa dal partito. La sua concezione rimase che l'idea del sistema dei consigli dovesse esprimersi anche nelle forme organizzate del movimento operaio ed esigesse una totale separazione di quest'ultimo dallo Stato borghese e dai suoi organi. Come portavoce di questa concezione, Otto Rühle scrisse: "Il proletariato, organizzato nei luoghi di produzione, costituisce a partire dalle fabbriche una organizzazione unitaria. Dall'organizzazione di fabbrica, mediante delegati destituibili, vengono costituiti delegati locali e del Land. Questa organizzazione serve tanto alla preparazione della rivoluzione quanto all'assunzione del potere nell'economia e nello Stato" [19].

La tensione rivoluzionaria nella repubblica di Weimar continuò a sussistere fino all'estate del 1923, punto finale della grande inflazione. Ma la minoranza della classe operaia, che credeva ancora ad uno sviluppo rivoluzionario, stava sotto l'influenza di Mosca quale Mecca della rivoluzione. Il movimento anti-autoritario si disperse a poco a poco, si frantumò in numerosi gruppi, che si combattevano l'un l'altro e si assottigliavano in piccole sette [20].

Il punto di vista comune delle organizzazioni comuniste dei consigli era stato formulato dopo il 1918 da una serie d'intellettuali che provenivano dal movimento operaio, soprattutto dagli olandesi Pannekoek e Gorter. Rühle però, dopo che il movimento era fallito nella prassi concreta, intraprese l'elaborazione d'una teoria che comprendesse la visione di un movimento di massa antiautoritario e l'utopia d'un nuovo ordine sociale scaturente da esso.

Rühle partiva dalla rappresentazione marxiana del ruolo storico del proletariato, concezione che era stata messa da parte dalla socialdemocrazie e che contrastava con la teoria e la prassi dei bolscevichi. Rühle poteva raffigurarsi il sorgere d'una società socialista solo come il risultato dell'azione collettiva e autocosciente del proletariato. Questa autocoscienza di dui aveva bisogno per la sua autoliberazionje, il proletariato doveva però prima conquistarsela. Marx ed Engels avevano espresso questo pensiero nelle Tesi su Feuerbach: "La dottrina materialistica che gli uomini sono prodotti dell'ambiente e dell'educazione, e che pertanto uomini mutati sono prodotti d'un altro ambiente e di una mutata educazione, dimentica che sono proprio gli uomini che modificano l'ambiente, e che l'educatore stesso dev'essere educato. Essa perciò giunge necessariamente a scindere la società in due parti, una delle quali sta al di sopra della società..." [21].

Ma era proprio questa scissione a costituire il principio fondamentale della teoria dell'organizzazione e della prassi leninista; Rühle volle contrapporle un'alternativa.

Se il proletariato in quanto classe aveva il compito storico di rovesciare la realtà, la sua azione doveva partire da dove esso esisteva realmente in quanto classe, dalla fabbrica. Qui il proletariato era organizzato dalla forza delle cose stesse e non aveva bisogno d'un apparato burocratico. I dirigenti potevano uscire solo dalle sue proprie file e non sarebbero diventati con questo dirigenti di professione.

Se si trattava di creare una società socialista in cui  

 



 

 

 

 

 




Henry Jacoby



[A cura di Ario Libert]

LINK all'opera integrale "Il coraggio dell'utopia" edizione italiana del 1972:


LINK allo scritto in lingua francese:

LINK all'opera originale in lingua italiana:

NOTE
 
[1] Will-Eric, Peukert, Die grosse Wende, Hamburg 1948, p. 252.
[2] Hans Conrad Peyer, "Soziale Unruhen im Spatmittelalter", Neue Zürcher Zeitung, 22 gennaio 1967.
[3] E. J. Hobsbawm, Primitiva Rebels, Manchester 1959 (trad. it.: I ribelli, Torino 1966).
[4] George Woodcock, Anarchism. A History of libertarian Idea and Movements, Cleveland-New York 1962 (trad. it.: L'Anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari, Milano 1969). Lo stesso si può dire anche in riferimento alla IWW (Lavoratori dell'industria del mondo), questa organizzazione autinoma e dotata di propria volontà, che comprendeva un ceto operaio non ancora inquadrato nella società industriale americana.
[5] Nicolas Berdiaev, The Russian Idea, New York, 1948, pp. 142 sgg.
[6] Th. G. Masaryk, Zur russischen Geschichts und Religionsphilosophie, Vol. II, Jena 1913, p.34.
[7] Georeg Woodcock, op. cit., p. 469.
[8] Michail Bakunin, Confession, Annotations de Max Nettlau (Confessione, La Fiaccola, Ragusa, 1977), Parigi 1932, pp. 169 sg, 210 e appendice.
[9] Ibidem, p. 200.
[10] Ibidem, Appendice. 
[11] Con spirito di veggente Bakunin scrisse nel 1868 al suo seguace Chatssin: "...la combinazione più infelice che si potrebbe avere sarebbe che il socialismo si collegasse con l'assolutismo; le aspirazioni del popolo alla liberazione economica e al benessere materiale con la dittatura e la concentrazione di tutti i poteri politici e sociali nello stato. Ciò che è vivo e umano non può crescere al di fuori della libertà, e un socialismo che la scacciasse dal suo centro o non l'accogliesse come base e come unico prioncipio creativo, ci condurrebbe dritti alla schiavitù e alla bestialità...".
 [12] Gli anarchici non cercavano affatto nella realtà dei punti d'aggancio per le loro mete, bensì ritenevano che la realtà dovesse un giorno adeguarsi alle loro belle idee, e se no, così si espressero con Max Nettlau, "tanto peggio per la povera umanità, se si sa figurare con tanta lentezza la possibilità di felicità e libertà".
[13] Gli anarchici fecero sentire ben presto le loro lamentele sull'"aristocrazia operaia" e l'"integrazione della classe operaia". Già nel 1873 Bakunin scriveva che l'Italia possedeva un potenziale rivoluzionario, poiché "là non ci sono- come in molti altri paesi europei - strati operai particolari, che siano già in parte privilegiati grazie ad alti salari, che facciano un qualche conto della loro formazione letteraria e che siano fino a tal punto compenetrati delle idee, delle aspirazioni e delle vanità borghesi, che gli operai che ne fanno parte si distinguono dai borghesi solo per le loro condizioni d'esistenza, ma non per le loro tendenze" (Étatisme et Anarchie, Archives Bakouinine, Leiden 1967, p. 206).
[14] Anche Karl Korsch aveva constatato che "... decisiva per l'orientamento del pensiero di milioni di proletari in tutti o paesi europei (fu) essenzialmente... la più tarda forma ideologica di essa (cioè della dottrina di Marx), riaccomodata da Kautsky e da altri" (Archiv für die Geschichte des Sozialismus der Arbeiterbewegung, XIV, 2, 1929, p. 278).
[15]
[16]
[17]
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30 aprile 2014 3 30 /04 /aprile /2014 05:00

La lotta contro il fascismo comincia con la lotta contro il bolscevismo

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Otto Rühle

 

I

 

Dobbiamo porre la Russia al primo rango tra gli Stati totalitari. E' stata la prima ad adottare il nuovo principio di Stato. E' essa ad aver spinto più a fondo la sua applicazione. E' stata la prima a stabilire una dittatura costituzionale, con il sistema del terrore politico ed amministrativo che l'accompagna. Adottando tutti le caratteristiche dello Stato totalitario, diventò per ciò stesso il modello per tutti i paesi costretti a rinunciare al sistema democratico per volgersi verso la dittatura. La Russia è servita da esempio per il fascismo.

Non si tratta affatto di un incidente, né di un brutto scherzo della storia. La similitudine dei sistemi lungi dall'essere apparente, è reale. Ogni cosa dimostra che abbiamo a che fare con delle espressioni e delle conseguenze di identici principi applicati a differenti livelli di sviluppo storico e politico. Che ciò piaccia o meno ai partiti "comunisti", rimane il fatto che lo Stato così come il modo di governare in Russia non differiscono in nulla da quelli dell'Italia e della Germania.

Essi sono essenzialmente simili. Si può parlare di uno "Stato sovietico" rosso, nero o bruno, così come di un fascismo rosso, nero o bruno. Anche se esistono tra questi paesi, alcune differenze ideologiche, l'ideologia non svolge mai un ruolo determinante. Per di più le ideologie sono mutevoli e questi cambiamenti non rivestono forzatamente il carattere e le funzioni dell'apparato di Stato. Inoltre, la conservazione della proprietà privata in Germania e in Italia non è che una modificazione secondaria. L'abolizione della proprietà privata soltanto non garantisce il socialismo. La proprietà privata può essere abolita anche nel quadro del capitalismo. Ciò che nei fatti determina una società socialista è, oltre all'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, la gestione da parte dei lavoratori dei prodotti del loro lavoro e la fine del sistema salariale.

Sia in Russia, quanto in Italia o in Germania, queste due condizioni non sono esistenti. Benché, secondo alcuni, la Russia sia più vicina al socialismo degli altri paesi, non ne consegue che il suo "stato sovietico" abbia aiutato il proletariato internazionale ad avvicinarsi ai suoi obiettivi di classe. Al contrario, poiché la Russia si fa chiamare uno stato socialista, inganna i lavoratori del mondo intero.

Il lavoratore cosciente sa cos'è il fascismo, e lo combatte; ma per quel che riguarda la Russia, è troppo spesso incline ad accettare il mito della sua natura socialistica. Questa illusione ritarda la rottura completa e definitiva, perché ostacola la lotta principale contro le cause, le condizioni e le circostanze che - in Russia, così come in Germania ed Italia, hanno portato allo stesso sistema di Stato e di governo. Così il mito russo si trasforma in arma ideologica della controrivoluzione.

Nessuno può servire due padroni. Uno Stato totalitario nemmeno. Se il fascismo serve gli interessi del capitalismo e dell'imperialismo, non può soddisfare i bisogni dei lavoratori. Se, malgrado ciò, due classi apparentemente opposte sostengono lo stesso sistema statale, è evidente che qualcosa non va e che una delle due si sbaglia. Nessuno può pretendere, riducendo il problema a una semplice questione di forma, che esso non sia di nessuna importanza e che, benché le forme politiche siano identiche, i loro contenuti possano variare considerevolmente.

Tutto ciò equivarrebbe ad una auto-mistificazione. Per un marxista, le cose non sono così, la forma e il contenuto sono indissociabili. Dunque, se lo Stato sovietico serve da modello al fascismo, deve avere con esso delle caratteristiche strutturali e funzionali comuni. Per determinare quali esse siano dobbiamo tornare all'analisi del "sistema sovietico", così come fu instaurato dal leninismo, che è l'applicazione dei principi bolscevichi alle condizioni russe.

E se si può stabilire un'identità tra il bolscevismo e il fascismo, allora il proletariato non può al contempo combattere il fascismo e sostenere "sistema sovietico" russo. Al contrario, la lotta contro il fascismo deve cominciare con la lotta contro il bolscevismo.

 

II

 

Sin dall'inizio Lenin concepì il bolscevismo come un fenomeno puramente Russo. Nel corso dei suoi numerosi anni di attività politica, non tentò mai di erigere il sistema bolscevico al livello delle forme di lotta utilizzati negli altri paesi. Era un socialdemocratico, secondo cui Bebel e Kautsky restavano i leader geniali della classe lavoratrice, ed ignorava l'ala sinistra del movimento socialista tedesco che si opponeva proprio ai suoi eroi e contro tutti gli opportunisti. Ignorando questa sinistra, rimase dunque isolato, circondato da un piccolo gruppo di emigrati russi, e rimarrà sotto l'influenza di kautsky, persino quando la "sinistra" tedesca, diretta da Rosa Luxemburg, era già impegnata apertamente nella lotta contro il kautskysmo.

La Russia era la sola preoccupazione di Lenin. Il suo obiettivo era di porre fine al sistema feudale zarista e di conquistare il massimo di influenza politica per il suo partito socialdemocratico nel quadro della società borghese. Tuttavia, la forza della Rivoluzione del 1917 condusse Lenin ben oltre i suoi presunti obiettivi e il partito bolscevico assunse il potere su tutta la Russia. Tuttavia, questo partito sapeva che non poteva rimanere al potere e far progredire il processo di socializzazione se non alla condizione di poter scatenare la rivoluzione proletaria mondiale. Ma la sua attività in questo campo ebbe dei risultati piuttosto infelici. Contribuendo a far tornare i lavoratori tedeschi nei partiti, nei sindacati, nel parlamento, e a distruggere il movimento dei consigli tedesco, i bolscevichi diedero man forte allo schiacciamento della nascente rivoluzione europea.

Il partito bolscevico, formato da rivoluzionari professionisti e da ampie masse arretrate, rimase isolato. Non poteva sviluppare un vero sistema sovietico durante gli anni della guerra civile, degli interventi stranieri, di declino economico, di sconfitta nei tentativi di socializzazione, e di creazione di un'armata rossa improvvisata.

Benché i soviet, sviluppati dai menscevichi, siano estranei allo schema bolscevico, è tuttavia grazie ad essi che i bolscevichi giunsero al potere. Una volta assicurata la stabilità del potere e avviato il processo di ricostruzione economica, il partito bolscevico non sapeva più come coordinare il sistema dei soviet, che non era roba sua, con le sue attività e decisioni. Tuttavia, realizzare il socialismo era anche il desiderio dei bolscevichi, e per la realizzazione di questo obiettivo era necessario l'intervento del proletariato mondiale.

Per Lenin, era essenziale guadagnare i proletari del mondo ai metodi bolscevichi. Era dunque molto fastidioso costatare che gli operai degli altri paesi, malgrado il grande trionfo ottenuto dal bolscevismo, mostrassero poca inclinazione per la sua teoria e pratica bolscevica, ma erano piuttosto attratti dal movimento dei consigli, che apparvero allora in molti paesi, e soprattutto in Germania.

Questo movimento dei consigli non poteva più essere di alcuna utilità a Lenin in Russia. Negli altri paesi europei, esso mostrava una tendenza accentuata ad opporsi ai sollevamenti di tipo bolscevico. Malgrado l'enorme propaganda intrapresa da Mosca in tutti i paesi, l'agitazione condotta da quel che è stata chiamata "ultrasinistra", per una rivoluzione fondata sul movimento dei consigli svegliò, così come lo stesso Lenin ha evidenziato, un'eco ben più ampia di quanto non facessero tutti i propagandisti inviati dal partito bolscevico. Il partito comunista tedesco, seguendo l'esempio del bolscevismo, rimaneva un piccolo gruppo isterico e chiasso, formato soprattutto da elementi proletarizzati della borghesia, mentre il movimento dei consigli attirava a sé gli elementi più determinati della classe operaia. Per far fronte a questa situazione, si doveva rafforzare la propaganda bolscevica, si doveva attaccare l'"ultrasinistra" e rovesciare la sua influenza a favore del bolscevismo.

Poiché il sistema dei soviet aveva fallito in Russia, come poteva sperare la "concorrenza" radicale di provare al mondo che là dove il bolscevismo stesso aveva fallito in Russia, si poteva farcela altrove facendo facendo a meno di esso? Per difendersi, Lenin scrisse il suo libello "L' Estremismo, Malattia Infantile del Comunismo", dettato dalla paura di perdere il potere e dall'indignazione di fronte al successo degli eretici.

Il libello apparve dapprima con il sottotitolo "Saggio di esposizione popolare della strategia e della tattica marxiste", ma successivamente questa frase ambiziosa e stupida fu soppressa. Era davvero troppo. 

Questa bolla papale aggressiva, rozza e odiosa era un vero colpo di fortuna  per ogni controrivoluzionario. Di tutte le dichiarazioni programmatiche del bolscevismo,era quella che meglio rivelava il suo reale carattere. Era il bolscevismo messo a nudo. Quando nel 1935 Hitler in Germania soppresse tutta la letteratura socialista e comunista, la pubblicazione e la diffusione del libello di Lenin rimasero autorizzate.

Per quanto concerne il contenuto del libello, non ci occupiamo di ciò che esso sostiene in relazione alla Rivoluzione russa, alla storia del bolscevismo, alla polemica tra il bolscevismo e le altre correnti del movimento operaio, o alle circostanze che hanno permesso la vittoria bolscevica. Il nostro unico scopo sarà di analizzare i principali argomenti che, all'epoca della controversia tra Lenin e l' "ultrasinistra" illustravano le differenze decisive tra i due avversari.

 

III

 

Il partito bolscevico, originariamente sezione socialdemocratica russa della II Internazionale, non si costituì in Russia, ma nell'emigrazione. Dopo la scissione di Londra nel 1903, l'ala bolscevica della socialdemocrazia russa si ridusse ad una piccola setta personale. Le "masse" che lo appoggiavano non esistevano che nel cervello dei suo capi. Tuttavia, questa piccola avanguardia era un'organizzazione strettamente disciplinata, sempre pronta per le lotte militanti e sottoposta continuamente a delle purghe per mantenere la sua integrità. Il partito era considerato come l'accademia militare dei rivoluzionari professionisti.

I suoi principi pedagogici salienti erano l'autorità indiscutibile del capo, un rigido centralismo, una disciplina di ferro, il conformismo, il militarismo e il sacrificio della personalità agli interessi del partito. Ciò che Lenin sviluppò in realtà, era un'élite di intellettuali, un nucleo che, gettato nella rivoluzione, si impadronisse della direzione e si impadronisse del potere. E' inutile tentare di determinare logicamente e astrattamente se una tale preparazione alla rivoluzione sia giusta o sbagliata. Il problema deve risolversi dialetticamente. Si devono innanzitutto sollevare altre domande: quale genere di rivoluzione era in gestazione? Quale ne era lo scopo?

Il partito di Lenin lavorava, nel quadro della tardiva rivoluzione borghese in Russia, al rovesciamento del regime feudale zarista. In questo genere di rivoluzione, più la volontà del partito dirigente è centralizzata e orientata verso uno solo scopo, più il processo di formazione dello stato borghese a delle possibilità di successo, più la posizione del proletariato nel quadro del nuovo Stato sarà promettente. Tuttavia, ciò che possiamo considerare come una felice soluzione dei problemi rivoluzionari in una rivoluzione borghese, non può passare al contempo per la soluzione dei problemi della rivoluzione proletaria. La differenza strutturale fondamentale tra la società borghese e la nuova società socialista esclude una tale ambivalenza.

Secondo il metodo rivoluzionario di Lenin, i capi sono il cervello delle masse. Possedendo l'educazione rivoluzionaria appropriata, essi sono in grado di valutare le situazioni e dirigere le forze combattenti. Sono dei rivoluzionari professionisti, i generali del grande esercito civile. Questa distinzione tra il cervello e il corpo, gli intellettuali e le masse, gli ufficiali e i soldati semplici corrisponde alla dualità della società di classe, all'ordine sociale borghese. Una classe è educata a comandare; l'altra a ubbidire. E' da questa vecchia formula di classe che sorse la concezione leninista del partito. La sua organizzazione non è che una semplice replica della realtà borghese. La sua rivoluzione è oggettivamente determinata dalle stesse forze che creano l'ordine sociale borghese, fatta astrazione dagli scopi soggettivi che accompagnano questo processo.

Chiunque cerchi di fondare un regime borghese, troverà nel principio della separazione tra il capo e le masse, tra l'avanguardia e la classe lavoratrice, la preparazione strategica a una tale rivoluzione. Più la direzione è intelligente, istruita, e superiore, più le masse sono disciplinate e obbedienti, più una tale rivoluzione ha delle opportunità di riuscire. Cercando di portare a termine la rivoluzione borghese in Russia, il partito di Lenin era dunque il più adatto al suo obiettivo.

Quando, tuttavia, la rivoluzione russa cambiò di natura, quando le sue caratteristiche proletarie divennero evidenti, i metodi tattici e strategici di Lenin persero il loro valore. Se egli vinse in fin dei conti, non fu per via della sua avanguardia, ma per via del movimento dei soviet, che egli non aveva affatto incluso nei suoi piani rivoluzionari. E quando Lenin, una volta che la rivoluzione fu assicurata dai soviet, decise di farne a meno ancora una volta, con essi ogni carattere proletario scomparve dalla rivoluzione russa. Il carattere borghese della rivoluzione occupò di nuovo la scena, trovando il suo esito naturale nello stalinismo.

Malgrado la sua preoccupazione per la dialettica marxista, Lenin era incapace di concepire dialetticamente l'evoluzione storica dei processi sociali. Il suo pensiero rimaneva meccanicistico, seguendo degli schemi rigidi. Per lui, non esisteva che un solo partito rivoluzionario - il suo; una sola rivoluzione - quella russa; un solo metodo - il bolscevismo. E ciò che era riuscito in Russia doveva riuscire anche in Germania, Francia, America, Cina e Australia. 

Ciò che era giusto per la rivoluzione borghese russa, lo era anche per la rivoluzione proletaria mondiale. L'applicazione monotona di una formula scoperta una volta per tutte che si evolve in un circolo egocentrico in cui non vengono prese in considerazione né l'epoca né le circostanze, né i livelli di sviluppo, né le realtà culturali, né le idee né gli uomini. Con Lenin, si aveva l'avvento del macchinismo in politica: egli era il "tecnico", l'"inventore" della rivoluzione, il rappresentante dell'onnipotente volontà del capo.

Tutte le caratteristiche fondamentali del fascismo esistevano nella sua dottrina, nella sua strategia, nella sua "pianificazione sociale" e nella sua arte di manipolare gli uomini. Non poteva afferrare il profondo significato rivoluzionario del rifiuto da parte della sinistra della tradizionale politica del partito. Non poteva comprendere la vera importanza del movimento dei soviet per l'orientamento socialista della società.

Ignorava le condizioni richieste per la liberazione dei lavoratori. Autorità, direzione, forza esercitate da una parte, organizzazione, inquadramento, subordinazione dall'altra, - questo era il suo modo di ragionare. Disciplina e dittatura sono le parole che ricorrono più frequentemente nei suoi scritti. Si capisce dunque facilmente perché non poteva né accettare né apprezzare le idee e le azioni dell'"ultrasinistra", che rifiutava la sua strategia e richiedeva ciò che, in tutta evidenza, era indispensabile alla lotta rivoluzionaria per il socialismo,  cioè che i lavoratori prendessero una volta per tutte il loro destino nelle proprie mani.

 

IV

 

Il prendere nelle proprie mani da parte dei lavoratori della loro liberazione - problema centrale del socialismo - questo era l'oggetto fondamentale di tutte le polemiche tra l'ultrasinistra e i bolscevichi. Il disaccordo sulla questione del partito trovava il suo parallelo nel disaccordo sui sindacati. l'ultrasinistra riteneva che non vi era più posto per i rivoluzionari all'interno dei sindacati; che era al contrario necessario per essi costruire i propri quadri organizzativi all'interno delle fabbriche, dei luoghi di lavoro comuni. Tuttavia, grazie alla loro autorità usurpata, i bolscevichi erano riusciti sin dalle prime settimane della rivoluzione tedesca a convincere i lavoratori a ritornare nei sindacati capitalisti reazionari. Per combattere le ultrasinistre, per denunciarle come controrivoluzionarie, Lenin utilizzò ancora una volta nel suo libello le sue formule meccanicistiche.

La sua argomentazione contro la posizione della sinistra non si riferisce ai sindacati tedeschi, ma alle esperienze sindacali dei bolscevichi in Russia. E' generalmente ammesso che ai loro inizi i sindacati svolsero un ruolo importante nella lotta di classe proletaria. I sindacati in Russia erano recentissimi ed essi giustificavano l'entusiasmo di Lenin. Tuttavia, la situazione era differente negli altri paesi. Da utili e Utili e progressisti che essi erano ai loro inizi, i sindacati si erano trasformati nei vecchi paesi capitalistici in ostacoli per la liberazione dei lavoratori. Essi erano diventati degli strumenti della controrivoluzione, e la sinistra tedesca aveva tratto le conclusioni di questa evoluzione.

Lenin stesso si vide obbligato di constatare che con il tempo si era costituito uno strato di "aristocrazia operaia esclusivamente corporativa, arrogante, sostegno dell'imperialismo, piccolo borghese, corrotta e degenerata". E' questa gilda di corruzione, questa direzione di criminali che è oggi alla testa del movimento sindacale nel mondo e vive sulle spalle dei lavoratori. Era a questo movimento sindacale che si riferiva l'ultrasinistra quando essa chiedeva ai lavoratori di abbandonarlo.

Lenin, tuttavia, avanzava demagogicamente l'esempio del giovane movimento sindacale russo che, non aveva condivideva le caratteristiche dei vecchi sindacati degli altri paesi. A partire da un'esperienza specifica, corrispondente a un dato periodo e a delle particolari circostanza, stimava possibile trarre delle conclusioni applicabili su scala mondiale. Secondo la sua argomentazione, il rivoluzionario, deve sempre essere là dove si trovano le masse. Ma dove sono esse realmente? Negli uffici del sindacato? Alle riunioni degli aderenti? Agli incontri segreti tra dirigenti sindacali e rappresentanti del Capitale?

No, le masse sono nelle fabbriche, nei loro posti di lavoro; ed è là che è necessario rendere efficace la loro cooperazione e rafforzare la loro solidarietà. L'organizzazione di fabbrica, il sistema consiliare, è l'organizzazione autentica della rivoluzione, che deve sostituire tutti i partiti e tutti sindacati.

Nelle organizzazioni di fabbrica non c'è posto per i professionisti della direzione, non vi è nemmeno separazione tra capi e subordinati, di distinzione tra intellettuali e semplici militanti. E' un quadro che scoraggia le manifestazioni di egoismo, lo spirito di rivalità, e il filisteismo. Qui i lavoratori devono prendere nelle proprie mani il loro destino.

Ma per Lenin le cose stavano diversamente. Voleva preservare i sindacati; trasformarli dall'interno; sostituire i membri permanenti socialdemocratici con dei membri permanenti bolscevichi; sostituire una burocrazia buona a una cattiva. Quella cattiva si manifesta nella socialdemocrazia, quella buona nel bolscevismo.

Nel frattempo vent'anni di esperienza hanno dimostrato l'inanità di una tale concezione. Seguendo i consigli di Lenin, i comunisti hanno tentato in tutti i modi possibili di riformare i sindacati. Il risultato è stato nullo. Nulla anche il loro tentativo di costituire propri sindacati. La concorrenza sindacale tra socialdemocratici e bolscevichi era una concorrenza nella corruzione. In questo stesso processo, le energie rivoluzionarie dei lavoratori si sono esaurite. Invece di concentrare le loro forze per lottare contro il fascismo, i lavoratori hanno pagato le spese di un'esperienza assurda e inutile a vantaggio delle diverse burocrazie.

Le masse hanno perso fiducia in se stesse e nelle "loro" organizzazioni. Si sono sentite ingannate. I metodi propri del fascismo: dettare ogni passo ai lavoratori, impedire il risveglio dell'iniziativa, sabotare ogni embrione di coscienza di classe, demoralizzare le masse con delle sconfitte ripetute, e renderle impotenti, tutti questi metodi erano stati già provati nel corso di vent'anni di lavoro svolti nei sindacati secondo i principi bolscevichi. La vittoria del fascismo fu tanto più facile in quanto i dirigenti operai nei sindacati e nei partiti avevano già modellato per esso il materiale umano adatto ad essere fuso nello stampo.

 

V

 

Anche sulla questione del parlamentarismo, Lenin appariva come il difensore di un'illusione politica superata, diventata un ostacolo per all'evoluzione politica e un pericolo per l'emancipazione proletaria. Le ultrasinistre combattevano il parlamentarismo in tutte le sue forme. Rifiutavano di partecipare alle elezioni e non rispettavano le decisioni parlamentari. Lenin, tuttavia, dedicava molte energie alle attività parlamentari e vi accordava una grande importanza. L'ultrasinistra dichiarava il parlamentarismo storicamente superato, anche come semplice tribuna d'agitazione, e non ci vedeva che una perpetua fonte di corruzione sia per i parlamentari sia per i lavoratori.

Il parlamentarismo addormentava la coscienza rivoluzionaria e la determinazione delle masse, mantenendo l'illusione di riforme legali. Nei momenti critici, il parlamento si trasformava in arma della controrivoluzione. Si doveva combattere la tradizione parlamentare, nella misura in cui essa svolgeva ancora un ruolo nella presa di coscienza proletaria.

Per provare il contrario, Lenin operò un'astuta distinzione tra istituzioni storicamente superate e istituzioni politicamente superate. Certamente, egli argomentava, il parlamentarismo è storicamente superato, ma non lo era politicamente, ed era un fatto con il quale si doveva fare i conti. Si doveva partecipare al parlamento perché svolgeva ancora un ruolo politico.

Che argomento! Il capitalismo stesso non è storicamente superato. Secondo la logica di Lenin, non è dunque possibile combatterlo in modo rivoluzionario. Converrebbe piuttosto trovare un compromesso. L'opportunismo, il mercanteggiamento, l'intrigo politico, questi sarebbero le conseguenze della tattica di Lenin.

La monarchia stessa svolge anch'essa un ruolo politico. Secondo Lenin, i lavoratori non avrebbero il diritto di sopprimerla ma dovrebbero elaborare a una soluzione di compromesso.

La stessa cosa varrebbe per la Chiesa, alla quale per di più appartengono ampi strati del popolo. Un rivoluzionario, insisteva Lenin, deve essere là dove sono le masse. La coerenza lo obbligava dunque a dire: "Entrate nella Chiesa, è il vostro dovere rivoluzionario!". E infine, c'è il fascismo. Giorno verrà, in cui il fascismo stesso, sarà un anacronismo storico ma non politico. Cosa fare allora? Accettare l'evidenza e realizzare un compromesso con  il fascismo. 

Seguendo il ragionamento di Lenin, un patto tra Stalin ed Hitler, proverrebbe soltanto che Stalin è in realtà il miglior discepolo di Lenin. E non sarebbe affatto sorprendente che in un futuro prossimo, gli agenti bolscevichi glorifichino il patto tra Mosca e Berlino come la sola vera tattica rivoluzionaria. La posizione di Lenin sulla questione del parlamentarismo non è che un'ulteriore prova della sua incapacità di comprendere le necessità e le caratteristiche fondamentali della rivoluzione proletaria.

La sua rivoluzione è interamente borghese; è una lotta per conquistare la maggioranza, per assicurarsi le posizioni governative e mettere le mani sull'apparato legislativo. Egli riteneva realmente importante guadagnare quanti più voti possibili durante le campagne elettorali, avere una potente frazione bolscevica nei parlamenti, contribuire a determinare la forma e il contenuto della legislazione, di partecipare alla direzione politica. Non si accorgeva affatto che il parlamentarismo dei nostri giorni non è che un semplice inganno, un illusione, e che il reale potere della società borghese si trova in sfere del tutto diverse; che, malgrado tutte le sconfitte parlamentari possibili, la borghesia deterrebbe ancora dei mezzi sufficienti per imporre la sua volontà e i suoi interessi nei settori non parlamentari.

Lenin non vedeva gli effetti demoralizzanti del parlamentarismo sulle masse, non notava l'effetto debilitante della corruzione parlamentare sulla morale pubblica. I politici parlamentari corrotti temevano per i loro redditi. Vi fu un periodo nella Germania prefascista, in cui i reazionari potevano far passare al parlamento non importa quale legge minacciando semplicemente di provocare la sua dissoluzione.

Cosa poteva esservi di più terribile per i parlamentari di tale minaccia che implicava la fine delle loro facili entrate.! Per evitare una tale eventualità essi erano pronti a tutto. E le cose vanno diversamente oggi in Germania, in Russia, in Italia? I burattini parlamentari non hanno alcuna opinione, nessuna volontà, non sono altro che i servi dei loro padroni fascisti.

Non vi è alcun dubbio che il parlamentarismo è del tutto degenerato e corrotto. Ma perché il proletariato non ha posto termine al deterioramento di uno strumento politico che aveva un tempo utilizzato ai suoi scopi. Sopprimere il parlamentarismo attraverso un atto di eroismo rivoluzionario sarebbe stato molto più utile e istruttivo per la presa di coscienza proletaria di quanto non sia la miserabile commedia alla quale è approdato il parlamentarismo nella società fascista.

Ma un tale atteggiamento era del tutto estraneo a Lenin, come lo è oggi a Stalin. Lenin non era interessato a liberare i lavoratori dalla loro schiavitù mentale e fisica; non era preoccupato dalla falsa coscienza delle né dalla loro auto-alienazione in quanto esseri umani. Il problema, per lui, si riconduceva a un problema di potere. Come un borghese, ragionava in termini di guadagni e perdite, del più e del meno, di credito e di debito; e tutte le sue valutazioni di uomo d'affari non riguardavano che dei fenomeni esterni, numeri di membri, numero di voti, seggi in parlamento, posti di direzione.

Il suo materialismo è un materialismo borghese, che ragiona di dei meccanismi, e non su esseri umani. Lenin non è capace di pensare realmente in termini socio-storici. Per lui il parlamento è il parlamento; un concetto astratto nel vuoto che riveste lo stesso significato in tutti i paesi, in tutte le epoche.

Certo, riconosce che il parlamentarismo attraversa diverse fasi evolutive, e lo segnale nella sua argomentazione, ma non applica questa constatazione né nella sua teoria né nella sua pratica. Nelle sue polemiche a favore del parlamento, brandisce l'esempio dei primi parlamenti del periodo ascendente del capitalismo, per non restare a corto di argomenti. E se attacca i parlamenti degenerati, è dal punto di vista dei parlamenti di recente creazione, tuttavia superati da lungo tempo. In breve, decide che la politica è l'arte del possibile, quando per i lavoratori la politica è l'arte della rivoluzione.

 

VI

 

Rimane da analizzare la posizione di Lenin sulla questione dei compromessi. Durante la guerra mondiale la socialdemocrazia tedesca si vendette alla borghesia. Tuttavia, malgrado essa, ereditò dalla rivoluzione tedesca. Ciò fu possibile in ampia misura grazie alla Russia, che ebbe la sua parte di responsabilità nell'eliminazione del movimento tedesco dei consigli. Il potere che era caduto nelle mani della socialdemocrazia fu del tutto sprecato in pura perdita.

La socialdemocrazia si accontentò di riallacciarsi alla sua vecchia politica di collaborazione di classe, soddisfatta di condividere il potere con la borghesia spalle sulle dei lavoratori durante il periodo di ricostruzione del capitalismo. I lavoratori radicali tedeschi opposero a questo tradimento lo slogan: "Nessun compromesso con la controrivoluzione".

Si trattava di un caso concreto, di una situazione specifica, che richiedeva una decisione netta. Lenin, incapace di riconoscere la vera posta in gioco, fece di questa questione concreta un problema astratto. Con l'atteggiamento di un generale e l'infallibilità di un cardinale, tentò di convincere le ultrasinistre che i compromessi con gli avversari politici sono, in ogni circostanza, un dovere rivoluzionario. Leggendo oggi i passaggi sul libello di Lenin che trattano dei compromessi, non ci si può impedire di avvicinare le osservazioni fatte da Lenin nel 1920 e l'attuale politica di compromessi condotta da Stalin. Non vi è uno solo dei difetto mortali della teoria bolscevica che non sia diventato una sotto Stalin.

Secondo Lenin, le ultrasinistre avrebbero dovuto essere pronte a firmare il Trattato di Versailles. Tuttavia, il partito comunista, sempre in accordo con Lenin, conclude un compromesso con gli hitleriani e protestò contro questo stesso trattato. Il "nazionalbolscevismo" propugnato in Germania nel 1919 dall'oppositore di sinistra Lauffenberg, fu criticato da Lenin come "un'assurdità manifesta". Ma Radek ed il partito comunista - seguendo sempre i principi di Lenin - conclusero un compromesso con il nazionalismo tedesco, protestarono contro l'occupazione del bacino della Rühr e celebrarono l'eroe nazionale Schlageter.

La Società delle Nazioni era, per riprendere i termini di Lenin, "una banda di ladri e banditi capitalisti", che i lavoratori dovevano combattere fino allo stremo delle forzeEppure, Stalin, seguendo la tattica di Lenin, elaborò un compromesso con questi stessi banditi e l' U.R.S.S. entrò nel 1934 nella Lega delle Nazioni. Il concetto di "popoli" è per Lenin una concessione criminale fatta all'ideologia contro-rivoluzionaria della piccola borghesia.

Questo non impedì ai leninisti Stalin e Dimitrov di realizzare di realizzare un compromesso con la piccola borghesia per l'assurdo movimento dei "Fronti popolari". Agli occhi di Lenin, l'imperialismo era il più grande nemico del proletariato mondiale, e contro di esso si dovevano mobilitare tutte le forze. Ma Stalin, da perfetto leninista, ancora una volta, è molto occupato a raffazzonare un'alleanza con l'imperialismo hitleriano.

È necessario offrire altri esempi? L'esperienza storica ci insegna che tutti i compromessi conclusi tra la rivoluzione e la controrivoluzione non possono favorire servire che quest'ultima. Ogni politica di compromesso è una politica di bancarotta per il movimento rivoluzionario. Ciò che era iniziato come un semplice compromesso con la socialdemocrazia tedesca, è approdato a Hitler. Ciò che Lenin giustificava come un compromesso necessario è approdato a Stalin. Diagnosticando come "malattia infantile del comunismo", il rifiuto rivoluzionario del compromesso Lenin soffriva endo della malattia senile dell'opportunismo, di pseudocomunismo.

 

VII

 

Analizzata dal punto di vista, la descrizione del bolscevismo delineata nel libello di Lenin, presente le seguenti principali caratteristiche:

 1. Il bolscevismo è una dottrina nazionalista. Concepita in origine essenzialmente per risolvere un problema nazionale, si vide elevata al rango di una teoria e di una pratica di portata, internazionale, e di una dottrina generale. Il suo carattere nazionalista è messo in evidenza anche dal suo sostegno alle lotte per l'indipendenza nazionale condotte dai popoli oppressi.

 2. Il bolscevismo è un sistema autoritario. Il vertice della piramide sociale è il centro di decisione determinante. L'autorità è incarnata nella persona onnipotente. Nel mito del leader, l'ideale borghese della personalità trova la sua più perfetta espressione.

3. Organizzativamente, il bolscevismo è altamente centralizzato. Il comitato centrale detiene la responsabilità di ogni iniziativa, istruzione o ordine. I dirigenti dell'organizzazione svolgono il ruolo della borghesia; l'unico ruolo dei lavoratori è di obbedire agli ordini.

4. Il bolscevismo è una concezione attivistica del potere militante. Interessato esclusivamente dalla conquista del potere politico, esso non si differenzia dalle forme di dominio borghese tradizionale. All'interno stesso dell'organizzazione, i membri non usufruiscono dell'autodeterminazione. L'esercito serve al Partito come modello organizzativo.

5. Il bolscevismo è una dittatura. Utilizzando la forza bruta e metodi terroristici, orienta tutte le sue funzioni verso l'eliminazione delle istituzioni e delle correnti non bolsceviche. La sua "dittatura del proletariato" è la dittatura di una burocrazia o di una sola persona.

6. Il bolscevismo è un metodo meccanicistico. l'ordine sociale che sostiene è fondato sulla coordinazione automatica, la conformità ottenuta attraverso la tecnica e il totalitarismo più efficiente. L'economia "pianificata" centralmente riduce scientemente le questioni socio-economiche a problemi tecnico-organizzativi.

7. La struttura sociale del bolscevismo è di natura borghese. Non abolisce affatto il sistema salariale e rifiuta l'appropriazione da parte del proletariato del prodotto del suo lavoro. Così facendo, esso resta fondamentalmente nel quadro delle relazioni di classe borghese, e perpetua il capitalismo.

8. Il bolscevismo non è un elemento rivoluzionario che nel quadro della rivoluzione borghese. Incapace di realizzare il sistema dei soviet, è per ciò stesso incapace di trasformare radicalmente la struttura della società borghese e della sua economia. Non instaura il socialismo, ma il capitalismo di stato.

9. Il bolscevismo non è una tappa di transizione che approderebbe alla società socialista. Nel sistema dei soviet, senza la rivoluzione totale e radicale degli uomini e delle cose, non può esaudire l'esigenza socialista primordiale, che è di porre fine all'alienazione umana generata dal capitalismo. Rappresenta l'ultima tappa della società borghese, e non il primo passo verso una nuova società. 

 

Questi nove punti fondano una irriiconciliabile tra il bolscevismo e il socialismo. Illustrano con tutta la chiarezza necessaria il carattere borghese del movimento bolscevico e la sua stretta relazione al fascismo.

 

Nazionalismo, autoritarismo, centralismo, dittatura del leader, politiche di potere, regno del terrore, dinamiche meccanicistiche, incapacità a socializzare - tutte questi tratti fondamentali del fascismo esistevano ed esistono nel bolscevismo. Il fascismo non è che una semplice copia del bolscevismo. Per questa ragione, la lotta contro il fascismo deve cominciare con la lotta contro il bolscevismo.

 

Otto Rühle

 

[Traduzione di Ario Libert]

 

LINK ad una grande opera in italiano di Otto Ruhle:

Il coraggio dell'utopia (1935) 

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15 marzo 2014 6 15 /03 /marzo /2014 06:00

L’anarchismo e la rivoluzione spagnola

Sim, 02

Helmut Wagner

 

I

Barcellona 1936, 04L'eroica lotta degli operai spagnoli contro i fascisti è una pietra miliare nello sviluppo del movimento internazionale di classe del proletariato: ha arrestato il corso finora ininterrotto del fascismo vittorioso e, nello stesso tempo, ha iniziato un nuovo periodo di espansione della lotta di classe. Ma questa non è la sola ragione della grande importanza che riveste per il proletariato la guerra civile spagnola. Il suo significato risiede anche nell'avere messo alla prova le teorie e le tattiche dell’anarchismo e dell’anarco-sindacalismo. La Spagna è sempre stata classicamente la terra dell’anarchismo. L'enorme influenza che le dottrine anarchiche vi hanno acquisito può essere compresa soltanto in relazione alla particolare struttura di classe del Paese. La teoria proudhoniana degli artigiani individuali e indipendenti, come l’applicazione fatta da Bakunin di questa teoria alle fabbriche, hanno trovato un appassionato sostegno tra i piccoli contadini, gli operai agricoli e quelli industriali. Le dottrine anarchiche sono state abbracciate da ampie frazioni del proletariato spagnolo e a questa adesione si deve la sollevazione spontanea degli operai contro l’insurrezione fascista.

collettivizzazione, cooperativa di distribuzioneNon vogliamo dire, comunque, che lo sviluppo della lotta sia stato determinato dall’ideologia anarchica, o che rifletta l’aspirazione degli anarchici. Al contrario, mostreremo subito che costoro sono stati costretti a rinunciare a molte delle loro vecchie e consuete idee e ad accettare in cambio dei compromessi della peggior specie. Analizzando questo processo, dimostreremo che l’anarchismo è incapace di risolvere i problemi della lotta di classe rivoluzionaria. Le tattiche da esso impiegate in Spagna erano inadatte a fronteggiare la situazione, non perché il movimento fosse troppo debole per ammetterne un’applicazione pratica, ma perché i metodi anarchici di organizzazione delle differenti fasi della lotta erano in contraddizione con la realtà oggettiva.

collett, 04Questo livello di sviluppo mostra delle somiglianze sorprendenti con i bolscevichi russi del 1917. Come questi ultimi vennero costretti ad abbandonare una dopo l’altra le loro vecchie teorie finché, in conclusione, dovettero sfruttare gli operai e i contadini secondo i metodi capitalistico-borghesi, così gli anarchici in Spagna sono ora obbligati ad accettare misure da loro stessi denunciate in passato come centralistiche e oppressive. Lo sviluppo della Rivoluzione russa ha dimostrato che le teorie bolsceviche non erano valide per risolvere i problemi posti dalla lotta di classe proletaria; egualmente, la guerra civile spagnola rivela l’inadeguatezza delle dottrine anarchiche.

Giornate di maggioCi sembra abbastanza importante rilevare gli errori commessi dagli anarchici, soprattutto perché la loro valorosa lotta ha indotto molti operai – che vedevano chiaramente il ruolo di traditori svolto dai rappresentanti della Seconda e della Terza Internazionale – a credere che, dopo tutto, essi avessero ragione. Dal nostro punto di vista, ciò è un grosso pericolo, poiché tende ad accrescere la confusione già dilagante nella classe operaia. Consideriamo sia nostro dovere dimostrare, a partire dall’esempio spagnolo, che la posizione antimarxista degli anarchici è sbagliata; al contrario, è la dottrina anarchica ad avere fallito. Quando si tratta di comprendere una certa situazione, o di indicare vie e metodi in una data lotta rivoluzionaria, il marxismo serve ancora da guida ed è in netto contrasto allo pseudo-marxismo dei partiti della Seconda e della Terza Internazionale.

collettivizzazioni, 03La debolezza delle teorie degli anarchici è stata messa in evidenza dalle loro organizzazioni, anzitutto, sulla questione del potere politico. Secondo la loro teoria, la vittoria rivoluzionaria sarebbe assicurata e garantita ponendo il funzionamento delle fabbriche in mano ai sindacati (unioni). Gli anarchici non hanno mai tentato di togliere il potere al governo di Fronte Popolare, e nemmeno hanno lavorato in vista dell’organizzazione di un potere politico dei soviet. Invece di propagandare la lotta di classe contro la borghesia, hanno predicato l’armonia tra le classi a tutti i gruppi aderenti al fronte antifascista. Quando la borghesia ha cominciato a limitare il potere delle organizzazioni operaie, si sono uniti al nuovo governo, il che costituisce una notevole deviazione dai loro principì di base. Gli anarchici hanno tentato di spiegare questo gesto con la scusa che, grazie alla collettivizzazione, il nuovo governo di Fronte Popolare non avrebbe rappresentato più, come prima, un potere politico, ma un mero potere economico giacché i suoi membri sarebbero stati rappresentativi dei sindacati, al quale, tuttavia, appartengono anche membri dell’Esquerra piccolo-borghese.

Ribes, 02Gli anarchici sostengono che, poiché il potere è nelle fabbriche, e le fabbriche sono controllate dai sindacati, allora il potere è nelle mani degli operai. Vedremo poi cosa accade realmente. Mentre gli anarchici partecipavano al governo, è stato emanato il decreto di scioglimento delle milizie. L’incorporazione delle milizie, la costituzione di un esercito regolare, la soppressione del POUM a Madrid, sono stati decretati con la loro approvazione. Gli anarchici hanno contribuito a organizzare un potere politico borghese ma non hanno fatto niente per la formazione di un potere politico proletario.

Ballester, 02Non è nostra intenzione renderli responsabili dello sviluppo seguito dalla lotta antifascista e della sua deviazione in un vicolo cieco borghese. Altri fattori vanno denunciati, in particolare l’atteggiamento passivo degli operai degli altri Paesi. Ciò che critichiamo piu severamente è il fatto che gli anarchici hanno smesso di lavorare a un’autentica rivoluzione proletaria e si sono identificati con l’attuale sviluppo della lotta. Così hanno offuscato l’antagonismo tra gli operai e la borghesia, e hanno dato corso a illusioni ch’essi stessi, temiamo, pagheranno assai duramente. Le tattiche degli anarchici spagnoli hanno trovato un certo numero di critici nei gruppi libertari stranieri; alcuni li accusano persino di tradimento degli ideali anarchici. Ma siccome questi critici non comprendono la reale situazione che affrontano i loro compagni spagnoli, le loro critiche restano negative. Ma non poteva andare altrimenti. Semplicemente, le dottrine anarchiche non possono rispondere alle questioni sollevate dalla pratica rivoluzionaria.

Poum-04.jpgNessuna partecipazione al governo, nessuna organizzazione del potere politico, sindacalizzazione della produzione: questi sono gli slogan anarchici basilari. Con tali parole d’ordine è impossibile essere effettivamente in sintonia con gli interessi della rivoluzione proletaria. Gli anarchici spagnoli sono ricaduti nelle pratiche borghesi perché sono stati incapaci di sostituire i propri irrealizzabili slogan con quelli del proletariato rivoluzionario. Proprio per questa ragione, i critici e i consiglieri libertari di altri Paesi non possono offrire alcuna soluzione per tali problemi, risolvibili soltanto sulla base della teoria marxiana. La posizione più estrema tra gli anarchici stranieri è quella degli olandesi (a eccezione degli anarco-sindacalisti olandesi del NSV – (Netherlands Syndikalist Vuband). Gli "intransigenti" anarchici d’Olanda rifiutano ogni scontro che impieghi armi militari, poiché una tale lotta sarebbe in contraddizione con l’ideale e il fine anarchici; negano l’esistenza delle classi e nello stesso tempo non possono impedirsi di esprimere la loro simpatia per le masse in lotta contro il fascismo. In realtà, la loro posizione equivale a un sabotaggio della lotta. Essi denunciano ogni azione avente lo scopo di aiutare gli operai spagnoli, come ad esempio l’invio di armi. Il fondo della loro propaganda è questo: fare qualsiasi cosa pur di evitare l’estensione del conflitto ad altri Paesi europei. Essi raccomandano la "resistenza passiva" alla Ghandi, la cui filosofia, tradotta nella realtà oggettiva, significa la resa dei lavoratori indifesi ai carnefici fascisti.

spagna--08.jpgGli anarchici di opposizione ritengono che il potere centralizzato nelle mani della dittatura del proletariato o di uno Stato Maggiore militare, condurrebbe a un’altra forma di repressione delle masse. In risposta, gli anarchici spagnoli sottolineano di stare lavorando non per un potere politico, ma al contrario, per favorire la sindacalizzazione, che escluderebbe lo sfruttamento dei lavoratori; credono sul serio che le fabbriche siano nelle mani degli operai e che non sia necessario organizzarle tutte su di una base centralistica e politica. L’attuale sviluppo, tuttavia, ha già dimostrato che la centralizzazione della produzione sta prendendo piede e gli anarchici sono costretti ad adattarsi alle nuove condizioni, anche contro la propria volontà. Ovunque gli operai anarchici non si curano di organizzare il proprio potere politicamente e in maniera centralizzata, nelle fabbriche e nelle comuni, se ne fanno carico i rappresentanti dei partiti capitalistico-borghesi (inclusi il Partito socialista e quello comunista). Ciò significa che i sindacati, invece di essere controllati direttamente dagli operai nelle fabbriche, saranno diretti in base a leggi e decreti emanati dal governo capitalistico-borghese.

II

Spagna--Blum.jpgDa questo punto di vista si pone la questione seguente: è vero che in Catalogna gli operai detenevano il potere nelle fabbriche dopo la sindacalizzazione della produzione operata dagli anarchici? Per rispondere, ci basta citare qualche paragrafo dell’opuscolo Cosa sono la CNT e la FAI? (pubblicazione ufficiale della CNT-FAI). "La direzione delle imprese collettivizzate è nelle mani dei Consigli di fabbrica che vengono eletti nell’assemblea generale di fabbrica. Questi Consigli contano da cinque a quindici membri. La partecipazione al Consiglio può durare fino a due anni…. I Consigli di fabbrica sono responsabili di fronte all’assemblea generale di fabbrica e al Consiglio della categoria d'industria. La produzione è regolata dal Consiglio di fabbrica insieme al Consiglio di categoria. Inoltre, essi regolano le questioni della retribuzione, delle condizioni sanitarie ecc.".

"Ogni Consiglio di fabbrica designa un direttore. Nelle imprese che occupano piu di 500 operai, questa nomina dev’essere approvata dal Consiglio di categoria. In accordo con gli operai della fabbrica, ogni impresa delega uno dei membri del Consiglio di fabbrica al Consiglio economico della Generalitat. I Consigli di fabbrica riferiscono con regolarità circa i loro lavori e i loro piani tanto all’assemblea generale che al Consiglio di categoria. In caso d’incompatibilità o di rifiuto nell’applicazione delle decisioni prese, i membri del Consiglio di fabbrica possono essere destituiti sia dall’assemblea generale sia dal Consiglio di categoria. Se un membro del Consiglio di fabbrica viene dimissionato dal Consiglio di categoria contro il parere degli operai, questi hanno diritto di fare ricorso davanti al Consiglio economico della Generalitat, che decide sentito la relazione del Consiglio economico generale antifascista…

"Il Consiglio economico generale delle varie categorie d’industria è composto da 4 rappresentanti dei Consigli di fabbrica, 8 rappresentanti dei diversi sindacati (secondo le proporzioni delle differenti tendenze politiche) e 4 tecnici, nominati dal Consiglio economico generale antifascista. Questo comitato è presieduto da un membro del Consiglio della Generalitat. Il Consiglio economico generale svolge i seguenti compiti: organizzazione della produzione, calcolo dei costi, eliminazione della concorrenza tra le imprese, studio della domanda di prodotti industriali, così come dei mercati interni ed esteri…, aumento della redditività e consolidamento delle fabbriche, riorganizzazione dei metodi di produzione, fissazione delle tariffe doganali, edificazione di mercati centrali, acquisizione degli strumenti di lavoro, delle materie prime e dei crediti, installazione di laboratori tecnici, elaborazione di statistiche per la produzione e il consumo, programmazione della sostituzione di materiali stranieri con prodotti spagnoli ecc".

Non c’è bisogno di scervellarsi per rendersi conto che queste proposte pongono tutte le funzioni economiche nelle mani del Consiglio economico generale [CEG]. Come abbiamo visto, il ceg è costituito da 8 rappresentanti dei sindacati: 4 tecnici nominati dal Consiglio economico generale antifascista e 4 rappresentanti dei Consigli di fabbrica. Il Consiglio economico generale antifascista venne organizzato all’inizio della rivoluzione e si compone di rappresentanti dei sindacati e della piccola borghesia (Esquerra catalana ecc.). Soltanto i quattro delegati del Consiglio di fabbrica possono essere considerati come rappresentanti diretti degli operai. Notiamo, inoltre, che in caso di sospensione dei rappresentanti del Consiglio di fabbrica, il Consiglio d’industria della Generalitat e il Consiglio economico generale antifascista hanno un’influenza decisiva. Il ceg può destituire gli oppositori nel Consiglio di fabbrica; contro questa misura gli operai possono fare appello al Consiglio della Generalitat ma la decisione spetta, in ultima istanza, al Consiglio economico generale antifascista. I Consigli di fabbrica organizzano le condizioni di lavoro; sono responsabili non soltanto di fronte ai lavoratori dell’impresa ma anche al Consiglio di categoria. Il Consiglio di fabbrica può designare un direttore, ma per le imprese più grandi, il consenso del Consiglio di categoria è necessario. In breve si può dire che attualmente gli operai hanno ben poca voce in capitolo sull’organizzazione e sul controllo delle fabbriche. In realtà, governano i sindacati. Vedremo in seguito cosa ciò significhi.

Considerando i vari fatti citati, non riusciamo a condividere l’entusiasmo della CNT a proposito dello "sviluppo sociale". "Negli uffici pubblici, pulsa la vita di una rivoluzione veramente costruttiva", scrive Rosselli in Che cosa sono la CNT e la FAI (pp. 38-39, ed. tedesca). Secondo noi, il polso di una rivoluzione autentica, non si sente negli uffici amministrativi, ma nelle fabbriche. Negli uffici batte il cuore di una vita differente, quella della burocrazia. Non critichiamo i fatti. I fatti, la realtà, sono determinati da circostanze e condizioni che sfuggono al controllo dei singoli gruppi; il fatto che gli operai di Catalogna non abbiamo instaurato la dittatura del proletariato non è una loro mancanza. La vera ragione risiede nella confusa situazione internazionale che contrappone gli operai spagnoli al resto del mondo. In tali condizioni, è impossibile per il proletariato spagnolo liberarsi dai suoi alleati piccolo-borghesi. La rivoluzione era condannata ancora prima di essere realmente cominciata. No, non critichiamo i fatti.

Critichiamo, tuttavia, gli anarchici per aver considerato socialiste le condizioni esistenti in Catalogna. Tutti quelli che parlano agli operai di socialismo in Catalogna, in parte perché attualmente ci credono, in parte perché non vogliono perdere il contatto e l’influenza sullo sviluppo del movimento – impediscono ai lavoratori di vedere quanto sta accadendo in Spagna. Non capiscono niente dei principi rivoluzionari, rendendo così più difficile lo sviluppo di lotte radicali. I lavoratori spagnoli non possono permettersi di lottare effettivamente contro il ruolo dei sindacati, giacché ciò porterebbe a un collasso completo del fronte militare. Essi non hanno altra alternativa: devono lottare contro i fascisti per salvarsi la vita, devono accettare qualsiasi aiuto senza guardare da dove proviene. Non si chiedono se il risultato di questa lotta sarà il socialismo o il capitalismo; sanno soltanto che devono lottare fino alla fine. Solo una piccola frazione del proletariato è coscientemente rivoluzionaria. Finché i sindacati organizzeranno la lotta militare, i lavoratori li sosterranno; non si può negare che ciò comporti dei compromessi con la borghesia, ma è considerato un male necessario. La parola d’ordine della CNT: "Innanzitutto la vittoria sui fascisti, poi la rivoluzione sociale", esprime il sentimento prevalente tra i militanti operai. Ma questo sentimento può anche essere spiegato con la generale arretratezza del Paese, la quale non solo rende possibile, ma addirittura costringe il proletariato a compromessi con la borghesia. Risulta, così, che il carattere della lotta rivoluzionaria subisce enormi cambiamenti e che al posto di tendere al rovesciamento della borghesia essa conduce al consolidamento di un nuovo ordine capitalista. 

 

L'aiuto straniero strangola la rivoluzione

La classe operaia in Spagna non lotta soltanto contro la borghesia fascista, ma contro la borghesia del mondo intero. I Paesi fascisti – Italia, Germania, Portogallo e Argentina – sostengono i fascisti spagnoli in questa lotta con tutti i mezzi a loro disposizione. Questo basta a rendere impossibile la vittoria della rivoluzione in Spagna. L’enorme potere degli Stati nemici è troppo forte per il proletariato spagnolo. Se i fascisti spagnoli, nonostante il loro tremendo potere, non hanno sinora vinto, venendo anzi sconfitti su vari fronti, ciò dipende dalle forniture di armi dall’estero di cui ha goduto il governo antifascista. Mentre il Messico ha dato fin dall’inizio il suo appoggio, seppur limitato, con armi e munizioni, la Russia ha cominciato solo dopo cinque mesi di guerra. L’aiuto è giunto dopo che le truppe fasciste, equipaggiate con moderne armi italiane e tedesche, e inoltre aiutate in ogni modo dai Paesi fascisti, hanno fatto indietreggiare le milizie antifasciste. L’aiuto sovietico ha permesso di proseguire la lotta. Un’altra conseguenza è stata che la Germania e l’Italia sono state spinte a inviare ancora piu armi e anche truppe. In tal modo, questi Paesi sono divenuti sempre piu influenti sulla situazione politica.

Con un tale sviluppo degli eventi, la Francia e l’Inghilterra, preoccupate per le relazioni con le proprie colonie, non potevano rimanere indifferenti. È così che la lotta in Spagna ha assunto il carattere di un conflitto internazionale tra le grandi potenze imperialiste che, apertamente o segretamente, partecipano alla guerra per difendere antiche posizioni di dominio o per conquistarne di nuove. Da entrambe le parti, i fronti antagonisti in Spagna sono ora sostenuti con armi e con altri aiuti materiali. Non si può ancora sapere quando e dove questa lotta finirà. Nello stesso istante in cui i lavoratori spagnoli vengono salvati da questo aiuto straniero la rivoluzione riceve il colpo di grazia. Le moderne armi straniere hanno reso possibile la lotta sul piano militare e, di conseguenza, il proletariato spagnolo è stato soggiogato agli interessi imperialisti e, prima di tutto, agli interessi russi.

L’Unione Sovietica non aiuta il governo spagnolo per portare avanti la rivoluzione, ma per impedire la crescita dell’influenza italiana e tedesca nella zona mediterranea. Il blocco delle navi russe e il loro sequestro, mostra chiaramente all'URSS ciò che l’aspetta qualora lasciasse la vittoria alla Germania e all’Italia. La Russia tenta d’insediarsi in Spagna. Indicheremo come, in seguito alla pressione ch’essa esercita, gli operai spagnoli stiano perdendo gradualmente la loro influenza sullo sviluppo degli eventi; come i comitati della milizia siano dissolti, il POUM escluso dal governo, e vengano legate le mani alla CNT. Da mesi, si rifiutano armi e munizioni al POUM e alla CNT sul fronte di Aragona. Tutto ciò prova che il potere, da cui dipendono materialmente gli antifascisti spagnoli, dirige anche la lotta degli operai di Spagna. Questi ultimi, se possono provare a liberarsi dall’influenza della Russia, non possono fare a meno del suo aiuto e, in ultima istanza, devono accondiscendere a ogni sua richiesta.

Finché gli operai all’estero non si rivolteranno contro le loro proprie borghesie, dando così un sostegno attivo alla lotta rivoluzionaria in Spagna, gli operai spagnoli dovranno sacrificare il proprio fine socialista. La causa reale del fallimento interno della rivoluzione spagnola sta nel fatto che gli operai spagnoli hanno dipeso dall’appoggio materiale dei Paesi capitalisti (in questo caso, il capitalismo di Stato russo). Se la rivoluzione si estendesse su un’area sufficientemente ampia, se, per esempio, si effettuasse in Inghilterra, Francia, Italia, Germania, Belgio, allora le cose assumerebbero un altro aspetto. Soltanto se la controrivoluzione nelle regioni industriali più importanti dell’Europa fosse schiacciata, così come lo è ora a Madrid, in Catalogna, nelle Asturie, il potere della borghesia fascista verrebbe spezzato. Le guardie bianche nelle zone reazionarie potrebbero certamente mettere in pericolo la rivoluzione; ma alla lunga non batterla. Truppe che non siano sostenute da una struttura industriale adeguata perdono presto ogni potere. Se nelle principali regioni industriali europee si realizzasse la rivoluzione proletaria, i lavoratori spagnoli non dipenderebbero oltre dal capitale straniero. Potrebbero impadronirsi di tutto il potere. Così, ancora una volta, sosteniamo che la rivoluzione proletaria può essere vittoriosa soltanto se è internazionale. Se resta confinata a una piccola regione, sarà o schiacciata dalle armi, o snaturata dagli interessi imperialisti. Se la rivoluzione proletaria è sufficientemente forte su scala internazionale, allora non ha più motivo di temere di degenerare in direzione di un capitalismo di Stato o privato. Nella parte seguente, tratteremo delle questioni che si porrebbero in tali circostanze.

 

La lotta di classe nella Spagna "rossa"

Benché nella parte precedente abbiamo mostrato come la situazione internazionale costringa gli operai spagnoli a dei compromessi con la borghesia, non ne abbiamo concluso che la lotta di classe nella Spagna «rossa» sia terminata. Al contrario, essa continua dietro la facciata del Fronte Popolare antifascista, come è dimostrato dagli assalti della borghesia contro ogni roccaforte dei comitati operai, e dal continuo rafforzamento della posizione del governo. Gli operai della Spagna «rossa» non possono rimanere indifferenti a questi sviluppi, devono tentare di conservare le posizioni conquistate per evitare ulteriori sconfinamenti da parte della borghesia e per dare una nuova direzione rivoluzionaria agli eventi. Se gli operai in Catalogna non si battono contro le nuove avanzate della borghesia, la loro totale sconfitta è certa. Se il governo frontista eventualmente battesse i fascisti, utilizzerebbe tutto il proprio potere per ricacciare indietro il proletariato. La lotta tra la classe operaia e la borghesia continuerebbe ma in condizioni ben peggiori per il proletariato; perchÈ la borghesia democratica», dopo la vittoria contro i fascisti riportata dai lavoratori, userebbe in seguito tutte le loro forze in una battaglia antiproletaria. La disintegrazione sistematica del potere degli operai va avanti da mesi; e nei comizi di Caballero si può già intravedere cosa devono aspettarsi i lavoratori dall’attuale governo, una volta assicuratagli la vittoria. Abbiamo detto che la rivoluzione spagnola non può essere vittoriosa se non diventa internazionale. Ma gli operai spagnoli non possono aspettare che la rivoluzione cominci in altre parti d’Europa; non possono attendere quell’aiuto rimasto finora soltanto un pio desiderio. Devono ora, subito, difendere la loro causa, non soltanto contro i fascisti, ma contro i propri alleati borghesi. L’organizzazione del loro potere è dunque, nella presente situazione, una necessità urgente. Ma come risponde a tale domanda il movimento degli operai spagnoli?

 La sola organizzazione a dare una risposta concreta è il POUM, che propugna l’elezione di un congresso generale dei Consigli, da cui dovrebbe uscire un governo realmente proletario. A ciò rispondiamo che il fondamento di una tale proposta non esiste ancora. I cosiddetti "Consigli operai", nella misura in cui non sono ancora stati liquidati, sono per la maggior parte sotto l’influenza della Generalitatche esercita un controllo serrato sulla loro composizione. Peraltro, l’elezione del congresso non garantirebbe il potere degli operai sulla produzione. Potere sociale significa più che mero controllo del governo. Soltanto se il potere proletario permea l’intera vita sociale, può mantenersi. Il potere politico centrale, per quanto grande possa esserne l’importanza, è semplicemente un anello del potere che ha le proprie radici in ogni ambito della vita sociale. Se gli operai vogliono organizzare il proprio potere contro la borghesia, devono cominciare dal basso. Innanzitutto, devono liberare le proprie organizzazioni di fabbrica dall’influenza dei partiti e dei sindacati ufficiali, giacchÈ questi legano gli operai al governo attuale e, con ciò, alla società capitalista. Attraverso le proprie organizzazioni di fabbrica, i lavoratori devono provare a influenzare ogni aspetto della vita sociale. Soltanto su questa base è possibile costituire il potere proletario; soltanto su questa base, le forze della classe operaia possono lavorare in armonia.

 

L’organizzazione economica della rivoluzione

Le questioni dell’organizzazione politica ed economica sono indissociabili. Gli anarchici che negano la necessità di un’organizzazione politica, non possono dunque risolvere i problemi dell’organizzazione economica. C’è interrelazione tra il problema del collegamento del lavoro nelle differenti fabbriche e quello della circolazione dei beni, nella misura in cui è in causa la formazione del potere politico operaio. Il potere operaio nelle fabbriche non può essere mantenuto senza l’instaurazione di un potere politico dei lavoratori, e quest’ultimo non può mantenersi come potere dei lavoratori se non è radicato in un’organizzazione di Consigli di fabbrica. Così, una volta dimostrata la necessità di un potere politico, ci si può interrogare sulla forma del potere proletario, su come integri la società e si radichi nelle fabbriche. Supponiamo che gli operai delle principali zone industriali, per esempio in Europa, abbiano preso il potere e perciò spezzato il potere militare della borghesia in una vasta area. La piu grave minaccia esterna alla rivoluzione sarebbe dunque superata. Ma gli operai, in quanto proprietari collettivi delle officine, come devono rimettere in moto la produzione per soddisfare i bisogni della società? Occorrono le materie prime; ma da dove provengono? Una volta fabbricato il prodotto, dove mandarlo? E chi ne ha bisogno? Non si può risolvere nessuno di questi problemi se ogni fabbrica funziona isolatamente. Le materie prime destinate alle fabbriche vengono da ogni parte del mondo, e i prodotti ottenuti da tali materie sono consumati ovunque. Come faranno a sapere, gli operai, dove procurarsi queste materie prime? Come faranno a trovare consumatori per i loro prodotti, che non possono essere fabbricati a caso? Gli operai non possono fornire prodotti e materie prime senza sapere se verranno utilizzati in maniera appropriata. Affinché la vita economica non si fermi immediatamente, occorre mettere a punto modalità per l’organizzazione della circolazione dei beni. La difficoltà sta qui. Nel capitalismo, questo compito è svolto dal libero mercato ed è mediato dal denaro. Sul mercato, i capitalisti, in quanto proprietari dei prodotti, si affrontano reciprocamente; è qui che si accertano i bisogni sociali. Il denaro ne è la misura. I prezzi esprimono il valore approssimativo dei prodotti. Nel comunismo, queste forme economiche, che derivano dalla proprietà privata e vi sono legate, scompariranno. La questione che si pone è quindi: come si devono accertare, determinare, i bisogni sociali nel comunismo? Sappiamo che il libero mercato può svolgere il suo ruolo in maniera molto limitata; ciò che misura non è determinato dai bisogni reali degli individui ma dal potere d’acquisto dei possidenti e dall’ammontare dei salari operai. Nel comunismo, per contro, conteranno i bisogni reali delle masse e non il contenuto dei portafogli. È chiaro ora che i bisogni reali delle masse non possono essere accertati da alcun tipo di apparato burocratico, ma solo dagli stessi operai. La prima questione sollevata da tale constatazione è quindi non tanto di sapere se gli operai siano capaci di realizzare questo compito, ma chi debba disporre dei prodotti della società. Permettendo a un apparato burocratico di determinare i bisogni delle masse, si crea un nuovo strumento di potere sulla classe operaia. Per questo è essenziale che gli operai si uniscano in cooperative di consumatori e creino così l’organismo che esprimerà i loro bisogni. Lo stesso principio vale per le fabbriche; gli operai, uniti nelle organizzazioni di fabbrica, fissano la quantità di materie prime necessaria alla produzione. Non c’è che un mezzo nel comunismo per accertare i bisogni reali delle masse: l’organizzazione dei produttori e dei consumatori; l’organizzazione degli operai in Consigli di fabbrica e in cooperative di consumo. Tuttavia, non basta che gli operai sappiano di cosa hanno bisogno per la propria sussistenza, né è sufficiente che le officine conoscano la quantità di materie prime necessarie. Le fabbriche si scambiano i prodotti; c’è una trasformazione materiale, i prodotti passano per fasi e fabbriche diverse, prima di entrare nella sfera del consumo. Per rendere possibile questo processo, è necessario, non soltanto accertare delle quantità, ma anche gestirle. Così, arriviamo alla seconda parte del meccanismo che deve sostituirsi al libero mercato; cioè alla «contabilità» sociale generale, che deve includere rendiconti provenienti dalle varie fabbriche e cooperative di consumatori, per dare un quadro chiaro che consenta una conoscenza completa dei bisogni e delle possibilità della società. Se non s’istituisce una contabilità centrale, allora tutta la produzione sarà sommersa dal caos dopo l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e, con essa, del libero mercato. Questo non può essere abolito prima che la produzione e la distribuzione dei beni siano state organizzate dalle cooperative dei produttori e dei consumatori, e prima della creazione di una contabilità centrale. La Russia ha mostrato come si sia mantenuto il «libero mercato» malgrado tutte le misure soppressive dei bolscevichi, giacché gli organi che avrebbero dovuto sostituirlo non funzionarono. In Spagna, l’impotenza delle organizzazioni nel dar vita a una produzione comunista è chiaramente dimostrata dall’esistenza del libero mercato. La vecchia forma di proprietà ha ora un altro aspetto. Al posto della proprietà personale dei mezzi di produzione, i sindacati giocano in parte il ruolo degli antichi proprietari, in una forma leggermente modificata. La forma è cambiata, ma il sistema rimane. La proprietà, in quanto tale, non è abolita. Lo scambio delle merci non scompare. Ecco il grande pericolo che la rivoluzione spagnola affronta al suo interno. Il compito degli operai è trovare una nuova forma di distribuzione dei beni. Se mantengono le forme attuali, gli operai non faranno che spalancare le porte a una restaurazione completa del capitalismo. Nel caso realizzassero una distribuzione centrale dei beni, certamente avrebbero da mantenere sotto il proprio controllo tale apparato centrale. Creato ai soli fini di registrazione e di statistica, questo apparato ha in sÈ la possibilità di impadronirsi del potere e di dotarsi di uno strumento di coercizione utilizzabile contro gli operai. Un tale sviluppo sarebbe il primo passo nella direzione del capitalismo di Stato.

 

L’assunzione della produzione da parte dei sindacati 

 In Spagna, questa tendenza è chiaramente ravvisabile. I funzionari sindacali sono in grado di disporre dell’apparato di produzione e hanno anche un’influenza decisiva sulle formazioni militari. L’influenza degli operai sulla vita economica non va al di là di quella che hanno i loro sindacati. La sua limitatezza è dimostrata dal fatto che le misure sindacali hanno fallito nel condurre un serio attacco alla proprietà privata. Se gli operai s’incaricano della regolazione della vita economica, uno dei loro primi atti dovrà essere diretto contro i parassiti. Il potere magico del denaro, capace di aprire tutte le porte e di comprare tutto, scomparirà. Uno dei primi atti dei lavoratori sarà, senza dubbio, la creazione di una sorta di buoni-lavoro. Questi buoni potranno essere ottenuti solo da chi compie un lavoro utile. (Misure speciali, concernenti gli anziani, i malati, i bambini ecc., saranno certamente necessarie.) In Catalogna, questo non è successo. Il denaro resta il mezzo di scambio dei beni. Anche se è stato introdotto un certo controllo sul movimento delle merci, ciò non ha risparmiato ai lavoratori di dover portare i propri miseri averi al monte di pietà, mentre i proprietari mobiliari, ad esempio, ricevevano rendite garantite del 4% circa («L’Espagne antifasciste», 10 ottobre). È innegabile che i sindacati siano incapaci di prendere altre misure, se non a rischio di mettere in pericolo il fronte unito antifascista. Il carattere libertario della cnt dovrebbe garantire la sicurezza che riavranno ciò che hanno perduto, dopo la vittoria degli antifascisti e la realizzazione di tutte le riforme necessarie. Chi ragiona così commette gli stessi errori delle varie specie di bolscevichi, sia di destra sia di sinistra. Le misure realizzate finora dimostrano chiaramente che agli operai manca ancora il potere. Come si può sostenere che lo stesso apparato sindacale che oggi domina gli operai, dopo la sconfitta del fascismo, metterà volontariamente il proprio potere nelle loro mani? Certamente la cnt è libertaria. Ma anche supponendo che i funzionari di questa organizzazione siano pronti a disfarsi del potere quando la situazione militare lo permetterà, che cosa cambierà realmente con ciò? Il potere non sta nelle mani di questo o quel leader, ma appartiene al grande apparato, composto da innumerevoli Çpezzi grossiÈ che detengono le posizioni chiave così come i posti secondari. Costoro sono in grado, nel momento in cui li si allontana dai loro posti privilegiati, di far crollare l’intera produzione. Ecco sollevato lo stesso problema che ha giocato un ruolo così decisivo nella Rivoluzione russa. L’apparato burocratico sabotò l’intera vita economica, mentre gli operai controllavano le fabbriche. Lo stesso vale per la Spagna. Tutto l’entusiasmo che la cnt mostra per l’idea del diritto all’autodeterminazione delle fabbriche, non toglie che siano le centrali sindacali, in realtà, ad assumersi la funzione dell’imprenditore e che, di conseguenza, siano costrette al ruolo dello sfruttatore del lavoro. In Spagna, il sistema del salariato è mantenuto. Soltanto un aspetto è mutato: prima al servizio del capitalista, il lavoro salariato è ora al servizio dei sindacati. A mo’ di dimostrazione citiamo da un articolo de «L’Espagne antifasciste», n. 24, 28 novembre 1936, intitolato La Révolution s’organise elle-même: «Il plenum provinciale di Granada, riunitosi a Cadice dal 2 ottobre al 4 ottobre, 1936, ha adottato le seguenti risoluzioni: 5. Il comitato delle unità sindacali controllerà l’intera produzione (compresa l’agricoltura). A questo scopo, tutto il materiale necessario alla semina e alla mietitura del raccolto sarà messo a sua disposizione. 6. Come base per lavorare con altre regioni, ogni comitato deve rendere possibile lo scambio dei beni comparando i valori dei prodotti in base ai prezzi correnti. 7. Per facilitare il lavoro, il comitato deve censire tutti gli abili e inabili al lavoro, al fine di sapere su quale potenziale lavorativo può contare, e come dev’essere razionato il cibo in funzione della dimensione delle famiglie. 8. La terra confiscata è dichiarata proprietà comune. Tuttavia, l’appezzamento di chi ha capacità fisiche e professionali sufficienti, non può essere diviso. Questo per ottenere la massima redditività.È (Inoltre, la terra dei piccoli proprietari non può essere confiscata. Alla divisione devono essere presenti organi della cnt e dell’ugt.) Queste risoluzioni vanno considerate come una sorta di piano con cui il comitato delle unità sindacali organizzerà la produzione agricola. Ma, allo stesso tempo, notiamo chiaramente che la direzione delle piccoli aziende, così come di quelle grandi Ð in cui va garantita la massima redditività Ð resterà nelle mani dei vecchi proprietari. Il resto della terra sarà destinato a scopi comunitari. Ciò vuol dire che dev’essere posta sotto il controllo dei comitati sindacali. Inoltre, il comitato delle unità sindacali (UCC) ottiene il controllo sull’intera produzione. Ma non una parola indica il ruolo che debbono svolgere i produttori stessi in questo nuovo ordine produttivo. Tale problema non sembra esistere per l’ugt. I suoi membri vedono come proprio compito unicamente la formazione di un’altra leadership, e cioè quella della UCC, che rimarrà la base del lavoro salariato. Così, la questione del mantenimento del lavoro salariato determina il corso della rivoluzione proletaria. Se gli operai, come prima, rimangono lavoratori salariati, anche posti al servizio di un comitato preposto dal loro sindacato, la loro posizione nel sistema di produzione resta immutata. La rivoluzione sociale sarà allontanata dalla direzione voluta dagli operai a causa dell’inevitabile lotta che sorgerà tra i partiti o i sindacati per l’influenza sull’economia. Ci si può allora domandare: fino a che punto il sindacato può essere considerato come il reale rappresentante dei lavoratori? In altri termini, che influenza hanno gli operai sui comitati centrali dei sindacati che dominano l’intera vita economica? La realtà ci insegna che gli operai perdono ogni influenza o potere su queste organizzazioni; anche nel migliore dei casi, se tutti fossero organizzati nella cnt o nell’ugt e se eleggessero loro stessi i propri comitati. Questi ultimi gradualmente si trasformano se funzionano come autonomi organi di potere. I comitati fissano tutte le norme della produzione e della distribuzione senza esserne responsabili di fronte agli operai che li hanno eletti, ma che non possono revocarli quando vogliono. I comitati hanno il diritto di disporre di tutti i mezzi di produzione necessari al lavoro, così come di tutti i prodotti, mentre l’operaio riceve solo l’ammontare del salario in base al lavoro erogato. Il problema per gli operai spagnoli consiste, dunque, al presente, nel salvaguardare il proprio potere sui comitati sindacali che dirigono la produzione e la distribuzione. Qui si vede chiaramente che la propaganda anarco-sindacalista produce l’effetto opposto: gli anarco-sindacalisti ritengono che tutti gli ostacoli siano superati con la direzione sindacale della produzione. Vedono il pericolo della formazione di una burocrazia solo negli organi statali, ma non nei sindacati; ritengono che il credo libertario renda impossibile un tale sviluppo. Ma al contrario, si è dimostrato – e non soltanto in Spagna – che il credo libertario è stato subito messo da parte dalle necessità materiali. Anche gli anarchici confermano lo svilupparsi di una burocrazia. L’Espagne antifasciste, nel primo numero di gennaio, contiene un articolo tratto da "Tierra y Libertad" (organo della FAI), da cui citiamo: "L'ultimo plenum della Federazione Regionale dei gruppi anarchici della Catalogna ha [...] messo in chiaro il punto di vista dell’anarchismo rispetto alle domande del presente. Ne pubblicheremo le conclusioni con brevi commenti. La citazione seguente è tratta da queste risoluzioni commentate: «4. È necessario abolire la burocrazia parassitaria, ampiamente sviluppatasi a tutti i livelli negli organi dello Stato». Lo Stato è l’eterna culla per una determinata classe: la burocrazia. Oggi, la situazione è divenuta tanto critica da trascinarci in una corrente che minaccia la rivoluzione. La collettivizzazione delle imprese, la costituzione di Consigli e di comitati diventa un suolo fertile per lo sviluppo di una nuova burocrazia di origine operaia. Trascurando i compiti del socialismo e separandosi dallo spirito della rivoluzione, questi elementi, che dirigono i luoghi di produzione o le industrie al di fuori del controllo sindacale, agiscono spesso come burocrati dotati di autorità assoluta, e si comportano come nuovi padroni. Negli uffici dello Stato e nelle amministrazioni locali, si può osservare la crescita di questi «virtuosi della poltrona». Un tale stato di cose deve finire. È il compito dei sindacati e degli operai erigere uno sbarramento contro questa corrente di burocratismo. È l’organizzazione sindacale che deve risolvere questo problema. «I parassiti devono sparire dalla nuova società. Il nostro dovere piu urgente è cominciare la lotta con le nostre armi più affilate e senza più attendere oltre. Ma scacciare la burocrazia coi sindacati è come voler scacciare il demonio con Belzebù, perché sono le condizioni del potere, e non i dogmi idealistici, a determinare lo sviluppo degli eventi. Gli anarcosindacalisti spagnoli, nutriti delle dottrine anarchiche, si dichiarano per il libero comunismo e contro tutte le forme di potere centralizzato; il loro potere è già concentrato nei sindacati, che sarebbero perciò lo strumento con cui realizzare il «libero» comunismo.

 

L’anarco-sindacalismo

Abbiamo visto, così, che la pratica e la teoria degli anarco-sindacalisti spagnoli sono tra loro completamente differenti. Questo era già evidente quando la CNT e la FAI, per consolidare le proprie posizioni, dovettero rinunciare un po’ alla volta al loro precedente atteggiamento anti-politico, e lo stesso si riflette ora nella «struttura economica» della rivoluzione. In teoria, gli anarco-sindacalisti si considerano l’avanguardia del «libero» comunismo. Tuttavia, per far funzionare le «libere» imprese nell’interesse della rivoluzione, sono costretti a privarle della loro libertà e a subordinare la produzione a una gestione centralizzata. La pratica costringe all’abbandono della teoria, e ciò significa che la teoria non è adatta alla pratica. Troveremo una spiegazione per tale discrepanza analizzando il ruolo di queste teorie del «libero» comunismo che, in ultima istanza, sono le concezioni di Proudhon adattate da Bakunin ai moderni metodi di produzione.

  Le concezioni socialiste avanzate da Proudhon un centinaio di anni fa, altro non sono che le concezioni idealiste della piccola borghesia, che vedeva nella libera concorrenza tra le piccole imprese il fine ideale dello sviluppo economico. La libera concorrenza avrebbe dovuto sopprimere automaticamente tutti i privilegi derivanti dal monopolio bancario del denaro e dall’effettivo monopolio fondiario dei grossi proprietari terrieri. In questo modo, il controllo dall’alto diventava superfluo: i profitti sarebbero scomparsi e ciascuno avrebbe ricevuto il «frutto integrale del proprio lavoro», giacché, in accordo con Proudhon, i profitti derivavano solo dal monopolio dei grandi affari. Non ha intenzione di sopprimere la proprietà privata, ma di socializzarla; cioè, di ridurla in piccole imprese e privarla del suo potere».

Proudhon non condanna i diritti di proprietà in quanto tali; egli vede la «libertà reale» nella libera disposizione dei frutti del lavoro e condanna la proprietà privata solamente in quanto privilegio e potere, in quanto diritto del padrone (Gottfried Salomon, Proudhon et le socialisme, p. 31). Ad esempio, per eliminare il monopolio del denaro, Proudhon aveva in mente la costituzione di una banca centrale di sconto per il mutuo credito dei produttori, sopprimendo così il costo del denaro. Questo ci ricorda l’affermazione che segue, tratta da L’Espagne antifasciste del 10 ottobre: «Il sindacato CNT degli impiegati bancari di Madrid propone la trasformazione immediata di tutte le banche di sconto in istituti di credito gratuito per la classe operaia, ossia, con un interesse annuo del 2%…».

 Comunque, l’influenza di Proudhon sulla concezione degli anarco-sindacalisti non si limita a tali questioni relativamente secondarie. Il suo socialismo è fondamentalmente alla base dell’intera dottrina anarco-sindacalista, con lievi modifiche dovute alle condizioni moderne altamente industrializzate. Nella sua prospettiva di un «socialismo della libera concorrenza», la CNT considera le imprese semplicemente come unità indipendenti. È vero che gli anarco-sindacalisti non vogliono il ritorno alla piccola impresa; propongono di liquidarla, o meglio di lasciarla morire di morte naturale quando non funzioni in modo abbastanza razionale. Tuttavia, basta sostituire i termini proudhoniani "piccole imprese" e "artigiani" rispettivamente con "grandi imprese" e "sindacati operai", per avere un’immagine del socialismo della CNT.

 

La necessità della produzione pianificata

In realtà, queste teorie sono utopistiche e particolarmente inapplicabili alle condizioni spagnole. La libera competizione a questo stadio di sviluppo non è più possibile, men che meno in un contesto di guerra e caos come in Catalogna. Dove un certo numero di imprese o di intere comunità si sono liberate e rese indipendenti dal resto del sistema di produzione, in realtà solo per sfruttare i propri consumatori, la CNT e la FAI devono ora subire le conseguenze delle proprie teorie economiche. Sono costrette a questo passo perché una lotta di tutti contro tutti appare altrimenti inevitabile, il che sarebbe molto pericoloso in un momento in cui la guerra civile esige l’unione di tutte le forze. Gli anarco-sindacalisti non conoscono altra via d’uscita che quella già adottata dai bolscevichi e dai socialdemocratici: l’abolizione dell’indipendenza delle imprese e la loro subordinazione a una gestione economica centrale.

Che a realizzare tale gestione siano i loro sindacati, non diminuisce in nulla la portata di un tale atto. Un sistema di produzione centralizzato, in cui gli operai non sono altro che dei salariati è, a dispetto della CNT, nient’altro che un sistema funzionante in base a principi capitalistici. Questa contraddizione tra la teoria e la pratica degli anarco-sindacalisti, è dovuta in parte alla loro incapacità di trovare una soluzione al problema principale della rivoluzione proletaria nell’ambito dell’organizzazione economica: in che quantità, e come, sarà determinata la quota di prodotto totale spettante a ogni membro e partecipante del sistema produttivo? In base alla teoria anarco-sindacalista, questa ripartizione dovrebbe essere determinata dalle imprese indipendenti, o dai liberi individui, mediante l’impiego del "libero capitale": con la produzione per il mercato e il ritorno del valore integrale al produttore attraverso lo scambio. Questo principio venne mantenuto anche quando, anni addietro, la necessità di una produzione pianificata e di conseguenza di una contabilità centrale – era ovvia. Gli anarco-sindacalisti riconoscono la necessità di pianificare la vita economica e ritengono che ciò non sia fattibile senza una contabilità centrale, ossia un’organizzazione statistica dei fattori produttivi e dei bisogni sociali; tuttavia, tralasciano di dare una base effettiva a queste necessità statistiche. È un fatto che la produzione non può essere contabilizzata statisticamente né organizzata su di una base pianificata senza applicare un’unità di misura ai prodotti.

 

Modo di produzione bolscevico contro modo di produzione comunista

Comunismo significa produzione sulla base dei bisogni delle grandi masse. Il problema della determinazione delle quantità destinate al consumo individuale e del volume di materie prime e di prodotti semilavorati da distribuire tra le diverse fabbriche, non può essere risolto per via monetaria come nel capitalismo. Il denaro è l’espressione di determinati rapporti di proprietà privata e assicura una certa parte del prodotto sociale al suo detentore: ciò vale per gli individui singoli come per le imprese. Benché nel comunismo non esista proprietà privata dei mezzi di produzione, nondimeno, ogni individuo godrà di una parte della ricchezza sociale per il proprio consumo, e ogni fabbrica disporrà delle materie prime e dei mezzi di produzione necessari.

Alla domanda su come tutto ciò sarà realizzato, gli anarco-sindacalisti rispondono soltanto vagamente, riferendosi ai metodi statistici. È questo un problema molto difficile per la rivoluzione proletaria. Se gli operai, per determinare la propria quota, si affidassero semplicemente a un "ufficio statistico", creerebbero in tal modo un potere di cui perderebbero il controllo. D’altra parte, una produzione regolata non è possibile se i lavoratori nelle fabbriche hanno diritto a una quantità qualsiasi di beni. Siamo alle prese con il problema: com’è possibile unire, mettere d’accordo, questi due principi che a prima vista sembrano contraddittori, cioè: tutto il potere agli operai, – che implica un federalismo concentrato –, e la regolazione pianificata della produzione – che coincide con una centralizzazione estrema?

Possiamo risolvere questo paradosso solo considerando le basi reali della produzione sociale totale. I lavoratori non danno alla società che una stessa e identica cosa: la propria forza-lavoro. In una società senza sfruttamento, come quella comunista, solo la forza-lavoro erogata da ciascuno potrà fungere da misura per ricevere dalla società i mezzi di esistenza. Nel processo di produzione, le materie prime sono trasformate in beni di consumo con l’applicazione di forza-lavoro. Un ufficio statistico sarebbe oggigiorno totalmente incapace di determinare la quantità di lavoro incorporato in un dato prodotto. Il prodotto è passato attraverso molte mani; inoltre, una quantità gigantesca di macchine, strumenti, materie prime e prodotti semilavorati è stata impiegata nella sua fabbricazione.

Se un ufficio statistico centrale è in grado di raccogliere i dati necessari per comporre un quadro chiaro di tutti i settori dell’intero processo di produzione, allora le singole imprese o le fabbriche sono in una posizione migliore per determinare la quantità di lavoro cristallizzato nei prodotti finiti, mediante il calcolo del tempo di lavoro incorporato nelle materie prime e di quello necessario alla produzione di nuovi beni. Quando tutte le imprese sono interconnesse nel processo produttivo, è facile per ciascuna determinare la quantità totale di tempo di lavoro necessario per realizzare un prodotto finito sulla base dei dati disponibili. Meglio ancora, è facilissimo trovare il tempo di lavoro sociale medio dividendo la quantità del tempo di lavoro erogato per la quantità dei prodotti.

Questo è il fattore finale determinante per il consumatore. Per poter ottenere un prodotto, questi dovrà semplicemente dimostrare di aver dato alla società, benchè in una forma differente, la stessa quantità di tempo di lavoro cristallizzata nel prodotto che desidera. Ciò esclude lo sfruttamento. Ciascuno riceve per ciò che ha dato, ciascuno dà per ciò che riceve: la stessa quantità di tempo di lavoro sociale medio. Nella società comunista non c’è posto per un ufficio statistico centrale libero di determinare la «spettanza» delle differenti categorie dei lavoratori. La quantità destinata al consumo di ogni operaio, non è determinata "dall’alto"; ciascuno stabilisce da sé, tramite il proprio lavoro, quanto può chiedere alla società. Non c’è altra possibilità nel comunismo, almeno non durante il primo stadio.

Gli uffici statistici possono servire solo a fini amministrativi. Ad esempio, possono calcolare i valori sociali medi in base ai dati ottenuti dalle singole fabbriche; ma tali uffici vanno considerati come imprese, allo stesso titolo delle altre; non hanno privilegi. Il comunismo non può esistere dove un ufficio centrale esercita funzioni esecutive; in tali circostanze, possono esistere soltanto lo sfruttamento, l’oppressione, il capitalismo. Vogliamo qui sottolineare due punti: 1) Se s’instaurasse un’altra dittatura, questa non potrebbe essere separata dai fondamentali principi di produzione e di distribuzione prevalenti nella società. 2) Se il tempo di lavoro non è la misura diretta della produzione e della distribuzione, ma l’attività economica è regolata soltanto da un «ufficio di statistica» che determina la "razione" per i lavoratori, allora questa situazione comporta un sistema di sfruttamento combinato.

 Gli anarco-sindacalisti sono incapaci di rispondere adeguatamente alla questione della distribuzione. Questo punto è affrontato solo in un’occasione, nella discussione sulla ricostruzione economica apparsa in "L’Espagne antifasciste" dell’11 dicembre 1936: "In caso s’introduca un mezzo di scambio – che non potrà avere alcuna somiglianza con il denaro attuale e che servirà soltanto a semplificare lo scambio –, sarebbe amministrato da un ‘Consiglio del credito’".

La necessità di un’unità di conto – che permetta la valutazione dei bisogni sociali e che serva in tal modo anche da misura del consumo e della produzione – è completamente ignorata: i mezzi di scambio hanno solo la funzione di semplificare il processo di scambio. Come ciò si realizzi, resta un mistero. Nessun cenno è fatto circa la misura necessaria per esprimere il valore dei prodotti con tali mezzi di scambio; non s’indica alcun criterio per accertare i bisogni delle masse, se attraverso i Consigli di fabbrica o le organizzazioni di consumatori, oppure attraverso i tecnici degli uffici amministrativi. Per contro, l’equipaggiamento tecnico dell’apparato produttivo viene descritto in dettaglio. Così, gli anarco-sindacalisti convertono i problemi economici in problemi tecnici.

 In proposito c’è una stretta relazione tra gli anarco-sindacalisti e i bolscevichi; il loro interesse principale è incentrato sull’organizzazione tecnica della produzione. La sola differenza tra le due concezioni è la maggiore ingenuità dei primi. Gli uni e gli altri tentano di eludere la questione dell’elaborazione di nuove leggi economiche. I bolscevichi sono in grado di rispondere concretamente soltanto alla questione dell’organizzazione tecnica, che significa una centralizzazione assoluta sotto la direzione di un apparato dittatoriale. Gli anarco-sindacalisti, d’altra parte, nel loro desiderio «d’indipendenza della singola impresa», sono pur essi incapaci di risolvere questo problema. In realtà, quando tentano di farlo, sacrificano il diritto all’autodeterminazione degli operai. Il diritto all’autodeterminazione degli operai nelle fabbriche e nelle imprese, da un lato, e dall’altro una gestione centralizzata della produzione sono incompatibili finché i fondamenti del capitalismo – il denaro e la produzione di merci – non saranno stati aboliti e un nuovo modo di produzione, basato sul tempo di lavoro sociale medio, non li avrà sostituiti. Per realizzare questo fine gli operai non devono contare sul’aiuto dei partiti ma soltanto sulla propria azione autonoma.

 

Helmut Wagner

 
[A cura di Ario Libert]

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4 maggio 2013 6 04 /05 /maggio /2013 05:00

La rivoluzione non è affare di partito!

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di Otto Rühle

 

I

 

Il parlamentarismo si afferma insieme al dominio della borghesia ed é con esso che nascono i partiti politici [1]. La borghesia trova nei parlamenti l’arena dei suoi primi conflitti con la corona e con la nobiltà. Essa si organizza politicamente per conferire alla legislazione una forma corrispondente alle esigenze del capitalismo. Il capitalismo, d’altronde, non possiede un carattere omogeneo: i diversi strati sociali e gruppi d’interesse, in cui si suddivide la borghesia, fanno valere ciascuno le proprie differenti rivendicazioni. È per farsi portavoce di tali rivendicazioni che sorgono i partiti politici, e che inviano i propri rappresentanti in parlamento. Quest’ultimo diventa quindi il luogo di tutte le lotte per il potere politico ed economico (in un primo momento solo sul piano legislativo, ma in seguito, sempre nel quadro del sistema parlamentare, anche su quello del controllo del potere esecutivo).

parlamento-inglese.jpg

D’altra parte le lotte parlamentari, così come quelle tra i partiti, non sono che schermaglie verbali: programmi, polemiche giornalistiche, manifesti, relazioni per le riunioni, risoluzioni, discorsi parlamentari, decisioni - nient’altro che parole. L’attività parlamentare, sempre di più col passare del tempo, degenera  in chiacchiera da salotto. Ma fin dall’inizio i partiti non sono che banali macchine preposte alla gestione delle elezioni. Non è un caso se, originariamente, essi venivano chiamati "unioni elettorali" [2].

Borghesia, parlamento e partiti politici si condizionano e si implicano reciprocamente in modo necessario. Nessuno di questi elementi è concepibile senza gli altri. Essi definiscono la fisionomia politica dell’epoca borghese-capitalista.

 

II

 

La rivoluzione del 1848 fu soppressa sul nascere. Ma la repubblica democratica, ideale dell’epoca borghese, venne comunque eretta. La borghesia, impotente e molle per natura, non fornì alcun contributo significativo e non mostrò alcuna volontà di realizzare il suo ideale attraverso la lotta. Essa ammainò la propria bandiera dinnanzi alla corona e alla nobiltà, si accontentò del diritto di sfruttare economicamente le masse e ridusse il parlamentarismo a una parodia. Ne derivò dunque, per la classe operaia, il dovere di inviare i propri rappresentanti in parlamento. Questi ripresero le rivendicazioni democratiche dalle mani perfide della borghesia, le propagandarono con energia e cercarono di inscriverle nella legislazione dello stato.


1848-rivoluzione-Parigi.jpgPhilippoteaux, Lamartine davanti al municipio di Parigi il 25 febbraio 1848 rifiuta la bandiera rossa

La socialdemocrazia si dà, in funzione di questo obiettivo, un programma democratico minimo: un insieme di rivendicazioni pratiche, adeguate alle condizioni dell’epoca borghese. La sua azione parlamentare è interamente dominata da questo programma, cioè dalla preoccupazione di ottenere, anche per la classe operaia e per la sua azione politica, i vantaggi di uno spazio di manovra legale, costruendo e  portando a compimento la democrazia formale borghese-liberale.


Liebknecht KarlAllorché Wilhelm Liebknecht [3] propose una tattica astensionista, egli dimostrava di non comprendere la situazione storica. Se la socialdemocrazia intendeva essere efficace in quanto partito politico, essa non poteva rimanere fuori dal parlamento. Non vi erano altre possibilità di agire e di farsi valere politicamente. Quando i sindacalisti si  svincolarono dal parlamentarismo e iniziarono a predicare l’antiparlamentarismo, facevano onore al proprio giudizio sulla vanità e la corruzione crescente della  pratica parlamentare. Ma, nella pratica, esigevano dalla socialdemocrazia qualche cosa di impossibile, che andava contro la necessità storica e implicava che la socialdemocrazia rinunciasse alla propria stessa essenza. Essa, ovviamente, non poteva fare proprio questo punto di vista. Essendo un partito politico non poteva che scegliere di stare in parlamento.

 

III

1932-kpd.jpg

Il KPD, a sua volta, è diventato un partito politico. Un partito in senso storico, esattamente come i partiti borghesi, l’SPD e l’USPD [4]. Sono soltanto i capi ad avere diritto di parola. Essi parlano, promettono, seducono, comandano.  Le masse, quando ci sono, si trovano davanti al fatto compiuto. Devono serrare i ranghi e marciare al passo. Devono credere, tacere, pagare. Devono obbedire agli ordini. E soprattutto devono votare! I loro capi vogliono entrare in parlamento e quindi devono essere eletti. Dopodiché, mentre le masse si mantengono in uno stato di sottomissione muta e di passività devota, i capi si occupano di “alta politica” in parlamento. La dirigenza del KPD mente, quando afferma di volere entrare in parlamento soltanto per distruggerlo. Mente, quando afferma che non vuole svolgere, all’interno del parlamento, alcun lavoro positivo [5]. Non distruggerà il parlamento, perché non vuole e non può. Svolgerà un “lavoro positivo”, lo vuole e vi è costretta: è di questo che vive! Il KPD è diventato un partito parlamentare come gli altri. Un partito del compromesso, dell'opportunismo, della critica costruttiva e della giusta oratoria. Un partito che non è più rivoluzionario.

 

IV

 

Scheidem-Philipp.jpgGuardateli! Entrano in parlamento, riconoscono i sindacati, si inchinano davanti alla costituzione democratica [6], si riconciliano col potere dominante. Si collocano  sul terreno dei rapporti di forza reali e prendono parte all'opera di restaurazione nazionale e capitalista. Quale sarebbe la differenza rispetto all’USPD? Il KPD critica anziché negare, fa opposizione anziché fare la rivoluzione, contratta invece di agire. Insomma, chiacchiera piuttosto che lottare. Esso cessa di essere un'organizzazione rivoluzionaria e diventa un partito socialdemocratico. Non si distingue dagli Scheidemann e dai Däumig [7] che per una questione di sfumature. Non rappresenta che un'evoluzione dell’USPD. Come quest’ultimo, diventerà ben presto un partito di governo, e questo segnerà la sua fine!

 

V

 

Alle masse resta una consolazione: un’opposizione esiste ancora! Questa opposizione non si candida per un posto nel campo della controrivoluzione. Essa si è raccolta  in una organizzazione politica.

Questo passaggio era necessario?

Gli elementi politicamente più maturi, più determinati e più attivi da un punto di vista rivoluzionario, hanno il dovere di formare la falange della rivoluzione. Essi non potevano compiere questo dovere se non in quanto falange, ovvero in quanto formazione chiusa. Essi sono l'élite del proletariato rivoluzionario. In virtù del loro carattere chiuso, essi acquistano maggiore forza e profondità di giudizio. Essi si manifestano come avanguardia del proletariato, come volontà d’azione di fronte a individui esitanti e confusi. Nel momento decisivo essi costituiscono il centro di gravità di ogni attività.

Essi sono un'organizzazione politica. Ma non un partito politico! Non un partito nel senso tradizionale. La sigla KAPD rappresenta l’ultima vestigia esteriore - che presto diventerà superflua - di una tradizione, che sfortunatamente un colpo di spugna non può cancellare da un'ideologia di massa, ieri ancora vivente ma oggi ormai sorpassata. Ma anche quest'ultima traccia sarà cancellata. L'organizzazione delle prime linee della rivoluzione non può essere un partito tradizionale, pena la morte; pena la sorte in cui si è andato ad arenarsi il KPD.

Non è più tempo di fondare partiti, perché non è più tempo di partiti politici in generale. Il KPD è stato l'ultimo partito. La sua bancarotta è stata la più sprovvista di dignità e di gloria […].


VI

La rivoluzione non è affare di partito. I tre partiti socialdemocratici [8] hanno la presunzione di considerare la rivoluzione come un loro proprio campo esclusivo e di proclamare che la vittoria rivoluzionaria è il loro fine in quanto partiti.

La rivoluzione è questione – politica ed economica - che riguarda la totalità della classe proletaria. Soltanto il proletariato in quanto classe può condurre la rivoluzione alla vittoria. Tutto il resto è superstizione, demagogia, ciarlataneria politica.

Si tratta di concepire il proletariato in quanto classe e di innescare la sua attività in funzione della lotta rivoluzionaria. Sulla base e dentro al quadro più ampi. Perciò tutti i proletari pronti alla lotta rivoluzionaria, senza riguardo alla loro provenienza o alla base sulla quale sono stati reclutati, devono riunirsi nei luoghi di lavoro in organizzazioni rivoluzionarie di impresa, a loro volta riunite nel quadro dell’Unione Generale dei Lavoratori [AAU].

L'AAU non è un miscuglio indistinto, né una formazione fortuita. Essa è il raggruppamento di tutti gli elementi proletari pronti a un'attività rivoluzionaria, che si schierano a favore della lotta di classe, del sistema dei consigli e della dittatura del proletariato. È l'armata rivoluzionaria del proletariato.

L’AAU affonda le proprie radici nelle singole imprese, si articola secondo i diversi rami d’industria, dal basso verso l’alto, in forma federata alla base e organizzata secondo il sistema degli uomini di fiducia rivoluzionari al vertice. La sua  spinta procede dal basso verso l’alto, a partire dalle masse operaie. Si eleva in conformità con esse. Essa è la carne e il sangue del proletariato. La forza che la spinge è l’azione delle masse; la sua anima è il soffio ardente della rivoluzione.

Essa non è una creazione di capi, non è una costruzione sottilmente congegnata. Non è un partito politico fatto di bonzi stipendiati e dedito alla chiacchiera parlamentare. E non è nemmeno un sindacato. Essa è il proletariato rivoluzionario.

 

VII

Cosa intende dunque fare il KAPD? Creare delle organizzazioni rivoluzionarie d’impresa, estendere l’Unione Generale dei Lavoratori. In ogni impresa, in ogni ramo d’industria, esso formerà i quadri delle masse rivoluzionarie: li preparerà per l’assalto, li consoliderà e fornirà loro la forza per lo scontro decisivo, fino a quando ogni resistenza da parte del capitalismo in via di disfacimento non sarà stata vinta. Esso instillerà nelle masse in lotta la fiducia in sé stesse e nelle proprie forze, sola garanzia della vittoria (nella misura in cui questa fiducia le libererà dei capi ambiziosi e traditori.

E a partire dall’Unione Generale dei Lavoratori, prendendo avvio dalle imprese, per estendersi alle regioni economiche ed infine ad ogni paese, si cristallizzerà il movimento comunista: il nuovo “partito” comunista… che non è più un partito; ma che è – per la prima volta – comunista! Cuore e testa della rivoluzione!

 

VIII

Rappresentiamoci questo processo in forma concreta. Poniamo di avere 200 uomini in un’impresa. Parte di questi appartengono all’AAU e fanno propaganda per questa organizzazione, inizialmente senza successo. Ma la prima lotta, in occasione della quale i sindacati naturalmente cederanno, romperà i vecchi legami. Presto 100 lavoratori saranno passati all’Unione. Ci saranno tra essi, poniamo, 20 comunisti, mentre la parte restante sarà composta da militanti dell’USPD, sindacalisti e non-organizzati. Inizialmente l’USPD ispirerà la massima fiducia ai lavoratori. La sua politica dominerà la tattica delle lotte condotte all’interno dell’azienda. Tuttavia, lentamente ma inevitabilmente, la politica dell’USPD si rivelerà falsa, non rivoluzionaria. La fiducia che i lavoratori avevano riposto in questa organizzazione si attenuerà. Si affermerà invece la politica dei comunisti. I 20 comunisti diventeranno 50, poi 100 e più, e ben preso il gruppo comunista dominerà politicamente la totalità dell’impresa, determinerà la tattica dell’Unione, volgerà le lotte al fine rivoluzionario, nel micro come nel macro. La politica comunista si radicherà di impresa in impresa, di regione economica in regione economica. Essa si realizzerà, guadagnerà terreno, diventando il corpo, la testa e l’idea direttrice del movimento.

È quindi a partire da cellule di lavoratori comunisti all'interno delle imprese, a partire da frazioni comuniste della massa nelle regioni economiche, che si costituisce - attraverso l'edificazione del sistema dei Consigli - il nuovo movimento comunista.

Dunque, un “rivoluzionamento” dei sindacati, una loro “ristrutturazione”? E quanto tempo durerà questo processo? Anni? Decine d’anni? Fino al 1926, per caso? [9].

Niente di tutto questo. L’obiettivo non è quello di demolire, di annientare il colosso d’argilla delle centrali sindacali, con i suoi sette milioni di iscritti, per ricostruirlo successivamente sotto altra forma. L’obiettivo è quello di impadronirsi delle leve del comando all'interno delle imprese chiave dell'industria e del processo della produzione sociale, in quanto tali decisive per l'esito della lotta rivoluzionaria. Di impadronirsi della leva che può mandare all'aria il capitalismo in interi rami industriali e in intere regioni economiche. La risolutezza e la disponibilità all'azione di una sola organizzazione può, all'occorrenza, avere più efficacia di uno sciopero generale. È così che il David della fabbrica abbatte il Golia della burocrazia sindacale!

 

IX

Il KPD ha cessato di essere l'incarnazione del movimento comunista in Germania. Ha un bel richiamarsi rumorosamente a Marx, a Lenin, a Radek! Il KPD non forma che l'ultimo anello del fronte della controrivoluzione. Presto si collocherà, in perfetto accordo con la SPD e la USPD, nel quadro di un fronte unico volto alla formazione di un governo operaio “puramente socialista” . Le sue rassicurazioni in merito a una “opposizione leale” verso i partiti assassini che hanno tradito gli operai, non è che una tappa. Rinunciare a combattere in termini rivoluzionari gli Ebert e i Kautsky (cfr. Die Rote Fahne del 21 marzo 1920), significa già allearsi tacitamente con loro. Ebert-Kautsky-Levi rappresentano l'ultimo stadio del capitalismo morente, l'ultima “stampella politica” della borghesia tedesca. La fine. La fine degli stessi partiti, della politica, degli imbrogli, del tradimento dei capi. E un nuovo inizio per il movimento comunista: il Partito Comunista Operaio [KAPD]; le organizzazioni di fabbrica rivoluzionarie, raggruppate nell'Unione Generale dei Lavoratori; i consigli rivoluzionari; il congresso dei consigli rivoluzionari; il governo dei consigli rivoluzionari; la dittatura comunista dei consigli.

 

Otto Rühle

 

[A cura di Ario Libert]

 

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La rivoluzione non è affare di partito

 

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NOTE: 


die_aktion.jpg[1] Quando Otto Rühle scrive, nel 1920, La rivoluzione non è affare di partito, è ancora un militante del KAPD (Kommunistische Arbeiterpartei Deutschlands, Partito Comunista Operaio di Germania), formazione della sinistra comunista tedesca sorta in quello stesso anno da una scissione del KPD, il partito comunista ufficiale filo-bolscevico. Ciò nonostante, egli esprime già pienamente il punto di vista della “organizzazione unitaria”. Le tesi esposte in questo articolo saranno successivamente sviluppate in testi come Questioni di base sull’organizzazione e Dalla rivoluzione borghese alla rivoluzione proletariaLa rivoluzione non è affare di partito fu pubblicato, con il titolo Un nuovo partito comunista?, sulla rivista Die Aktion. Fondata a Berlino poco prima della guerra da Franz Pfemfert, Die Aktion - almeno fino a quando, nel 1926, il suo  fondatore iniziò a collaborare con i trotzkisti - pubblicò testi rappresentativi delle correnti più radicali del movimento operaio. Verso la fine del 1920, quando Rühle viene espulso dal partito, la rivista si stacca dal KAPD e diventa in pratica l’organo di stampa dell’AAU-E. [...]. Si tratta in ogni caso di un’autentica miniera d’oro, per chiunque voglia conoscere l’insieme delle posizioni della sinistra comunista tedesca.

[2] Vereine, in tedesco.

[3] Wilhelm Liebknecht (1826-1900), padre di Karl, fu uno dei fondatori della SPD. Egli aveva sostenuto, prima del 1875, contro il parere di Marx e Engels, la tattica astensionista.

[4] KPD (Kommunistische Partei Deutschlands, Partito Comunista di Germania); SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, Partito Socialdemocratico di Germania); USPD (Partito Socialdemocratico Indipendente di Germania).

[5] Si pensi alla politica di “opposizione leale” dopo il putsch di Kapp e alla politica del KPD in sede parlamentare, volta a spingere il governo alla ripresa delle relazioni diplomatiche e a un’alleanza con la Russia. Si pensi inoltre alla tattica dei “governi operai” (governi di coalizione sostenuti da una maggioranza composta  dai “partiti operai”) in Sassonia e in Turingia nel 1923.

[6] Il riferimento è alla “Costituzione di Weimar”, adottata dalla Germania nel 1919.

[7] Philipp Scheidemann (1865-1939), leader dell'ala destra della socialdemocrazia tedesca e membro del gabinetto Ebert-Scheidemann, spazzato via dalla rivoluzione del novembre 1918. Ernst Däumig (1866-1922), socialdemocratico tedesco, giornalista. Uno dei fondatori del Partito socialdemocratico indipendente di Germania (USPD) e, dall'agosto 1919, suo presidente. Nel dicembre 1920, insieme alla sinistra del suo partito, entra nel Partito comunista di Germania (KPD), per tornare nel 1922 al partito socialdemocratico.

[8] La SPD, l’USPD e il KPD.

[9] Il 1926 era l’anno calcolato da Paul Lévi (1883-1930) - massimo dirigente del KPD tra il 1919 e il 1921, poi passato all’USPD - per la nuova crisi economica mondiale, soltanto in occasione della quale si sarebbe dovuta adottare, a suo dire, una tattica rivoluzionaria.

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18 aprile 2013 4 18 /04 /aprile /2013 05:00

Prefazione a Risposta a Lenin di Hermann Gorter

Herman Gorter

[GOC]


1917petrogradsoviet assemblyNel 1920, Rivoluzione russa e Leninismo erano giunti alla loro apoteosi: il successo della tattica bolscevica nella rivoluzione d'ottobre aveva abbagliato lo spirito delle élite rivoluzionarie nei paesi occidentali, che guardavano ad oriente con una fede quasi cieca. Una grande ondata rivoluzionaria scuoteva l'Europa, l'armata rossa di Tuchačevski minacciava Varsavia, il proletariato tedesco era pronto a lanciarsi nella mischia, il proletariato italiano occupava le fabbriche, ovunque la classe operaia era in ebollizione. La speranza, la quasi certezza della vittoria rivoluzionaria illuminavano l'orizzonte dell'ideologia comunista. Fu in quest'ambiente storico, in cui lo spirito d'analisi era forzatamente indebolito dallo splendore della luce orientale, che Hermann Gorter, teorico e poeta del comunismo, si impadronì dell'arma della critica.

lenin-l'estremismo-moscaLenin diventato statista, di uno Stato che doveva in seguito diventare lo Stato della neo-borghesia russa, aveva scritto un pessimo libro: "L'estremismo, malattia infantile del comunismo". La punta di questo libello, che oggi, possiamo a buon diritto qualificare nettamente come controrivoluzionario, era diretta principalmente contro gli ultra-sinistri tedeschi, e cioè contro il Partito Comunista Operaio.

Spartakus.zerschlagt-das-Parlament.jpgQuesta élite di rivoluzionari marxisti che conservò e conserva ancora al proletariato tedesco e internazionale la tradizione rivoluzionaria dell'Unione Operaia e dello Spartakusbund, raccomandava all'interno della classe operaia di Germania una tattica, un metodo d'azione, ispirate dalle ultime esperienze della lotta di classe in occidente: raccomandava la lotta senza compromessi del proletariato contro la borghesia, il boicottaggio del parlamento e la distruzione dei sindacati così come di tutto l'apparato statale del capitalismo, opponendogli la dittatura del proletariato nella forma dei consigli di fabbrica. Questa manifestazione ideologica originale del proletariato tedesco non si localizzava in Germania. Delle manifestazioni analoghe prendevano forma in Olanda, con i Tribunisti, in Inghilterra, con i fondatori del Partito comunista inglese, in Italia, con la frazione anti-parlamentare di Bordiga e anche con quella dell'Ordine Nuovo di Torino, che era anch'esso anti-parlamentare. Il libro di Lenin e la conseguente azione del Leninismo miravano alla distruzione di questo sviluppo ideologico, legittimato dalle esperienze della lotta di classe in Europa occidentale.

GORTER-Offener-brief-an-den-genossen-Lenin1920Edizione originale del 1920 dell'opera di Gorter Risposta al compagno Lenin.
 

PannekoeckNei fatti l'offensiva contro la sinistra diede dei risultati favorevoli in Italia e in Germania, dove Bordiga e Pankhurst rientrarono nei ranghi del Leninismo. I tribunisti olandesi, Gorter e Pannekoek, gli elementi del Partito Comunista Tedesco (K.A.P.D.) rimasero i soli sulla breccia dell'internazionalismo marxista. Gorter in nome del Partito Comunista Operaio [KAPD] di Germania rispose con la sua "Lettera aperta" che per sfortuna non fu ai suoi tempi posta a conoscenza di tutto il proletariato internazionale. Questa lettera è molto nota in Germania, ma il proletariato francese ne ignora ancora l'esistenza. E poiché dopo dieci anni questo documento non ha perso nulla di interessante, ed ha al contrario acquisito un valore storico e rivoluzionario ancora più grande, compiremo tutti i nostri sforzi necessari affinché sia conosciuto almeno dall'avanguardia del movimento operaio in Francia.

I Gruppi Operai Comunisti

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13 aprile 2013 6 13 /04 /aprile /2013 05:00

Masse & Avanguardia

living-marxism

di Paul Mattick

 


Dopo la fine della guerra mondiale, si sono verificate, con sconcertante 
rapidità, trasformazioni economiche e politiche. Le vecchie concezioni del movimento operaio sono diventate lacunose e inadeguate e le organizzazioni della classe operaia sono in uno stato confusionale. In considerazione della mutevole situazione economica e politica sembra necessaria una rivalutazione approfondita del compito della classe operaia per trovare forme di lotta e di organizzazione più utili ed efficaci.

spartachismo, assemblea operai e soldati a Berlino, novembr

Il rapporto del "partito", "organizzazione" o "avanguardia" con le masse svolge un ruolo importante nel dibattito contemporaneo della classe lavoratrice. Non è sorprendente che l'importanza e la necessità dell'avanguardia o del partito sia sopravalutata negli ambienti della classe lavoratrice, dal momento che tutta la storia e la tradizione del movimento dei lavoratori si muove in quella direzione.

Il movimento dei lavoratori oggi è il frutto di sviluppi economici e politici che trovarono la prima espressione nel cartismo in Inghilterra (1838-1848), nel successivo sviluppo dei sindacati a partire dagli anni cinquanta, e nel movimento lassalliano in Germania negli anni sessanta. I sindacati e i partiti politici si sono sviluppati negli altri paesi d'Europa e d'America parallelamente al livello di sviluppo del capitalismo.

Il rovesciamento del feudalesimo e le stesse esigenze dell'industria capitalistica richiedevano l'organizzazione del proletariato e la concessione di alcuni diritti democratici da parte dei capitalisti. Questi ultimi hanno riorganizzato la società in conformità alle loro esigenze. La struttura politica del feudalesimo è stata sostituita dal parlamentarismo capitalista. Lo stato capitalista, lo strumento per la gestione degli affari collettivi della classe capitalista, è stato istituito e adattato alle esigenze della classe emergente.

Il fastidioso proletariato, il cui appoggio contro le forze feudali era stato necessario, doveva allora essere preso in considerazione. Una volta chiamato in causa non poteva più essere del tutto rimosso come fattore politico. Ma poteva essere disciplinato. E ciò è stato fatto – in parte coscientemente, con astuzia e in parte dalle concrete dinamiche dell'economia capitalistica – in quanto la classe lavoratrice si è autoregolata e sottoposta al nuovo ordine. Ha organizzato i sindacati i cui limitati obiettivi (migliori salari e condizioni di lavoro) possono essere realizzati in una economia capitalista in espansione. Ha giocato la partita della politica capitalista all'interno dello stato capitalista (le cui pratiche e forme, sono state determinate principalmente dalle esigenze capitalistiche), ed entro questi limiti, ha ottenuto successi evidenti.

lavoro-minorileXIX-secolo.JPG

Ma in tal modo il proletariato ha adottato forme capitalistiche di organizzazione e ideologie capitaliste. I partiti dei lavoratori, come quelli dei capitalisti, sono divenuti aziende a responsabilità limitata; i bisogni elementari della classe sono stati subordinati a ragioni di opportunità politica. Gli obiettivi rivoluzionari sono stati soppiantati da mercanteggiamenti e manovre per conquistare posizioni politiche. Il partito è diventato di somma importanza; i suoi obiettivi immediati hanno soppiantato quelli della classe. Laddove le situazioni rivoluzionarie hanno messo in moto la classe, la cui tendenza è quella di lottare per la realizzazione di obiettivi rivoluzionari, i partiti dei lavoratori hanno "rappresentato" la classe operaia e sono stati a loro volta "rappresentati" da parlamentari la cui effettiva posizione in parlamento è stata quella di negoziatori all'interno di un ordine capitalistico, la cui esistenza non era più in discussione.

La subordinazione generale delle organizzazioni dei lavoratori al capitalismo ha provocato la scelta della specializzazione in attività sindacali e di partito che è simile alla gerarchia delle industrie. I manager, sovrintendenti e capireparto hanno visto come controparte i loro omologhi presidenti, organizzatori e segretari delle organizzazioni sindacali; i consigli d'amministrazione i comitati direttivi, ecc. La massa dei lavoratori organizzati, come la massa degli schiavi salariati nell'industria, ha lasciato il lavoro di direzione e di controllo ai suoi superiori.

Questa mutilazione delle iniziative dei lavoratori ha proceduto rapidamente in parallelo all'estensione dell'influenza del capitalismo. Finché la guerra mondiale ha posto fine all'ulteriore espansione pacifica e "ordinata" del capitalismo.

Le insurrezioni in Russia, Ungheria e Germania hanno determinato la rinascita dell'azione e dell'iniziativa di massa. Le necessità sociali hanno imposto l'intervento delle masse. Ma le tradizioni del vecchio movimento operaio in Europa occidentale e l'arretratezza economica dell'Europa dell'est hanno frustrato la realizzazione della missione storica della classe. L'Europa occidentale ha visto le masse sconfitte e l'ascesa del fascismo di Mussolini e Hitler, mentre l'economia arretrata della Russia ha fatto emergere il "comunismo", in cui la differenziazione tra classe e avanguardia, la specializzazione delle funzioni e l'irreggimentazione del lavoro ha raggiunto il suo punto più alto.

Il principio guida, l'idea dell'avanguardia che deve assumersi la responsabilità della rivoluzione proletaria si basa sulla concezione ante guerra del movimento operaio e non è convincente. 

I compiti del rivoluzionario e la riorganizzazione comunista della società non possono essere realizzati senza l'azione più ampia e piena delle masse stesse. Il problema è loro, come la relativa soluzione.

Il declino dell'economia capitalista, la paralisi progressiva, l'instabilità, la disoccupazione di massa, i tagli salariali e la pauperizzazione intensiva dei lavoratori: tutto ciò impone l'azione, malgrado il fascismo di Hitler e il fascismo travestito della AFL [1].

Le vecchie organizzazioni o sono state distrutte o si sono volontariamente ridotte all'impotenza. Un'azione concreta è ora possibile solo al di fuori delle vecchie organizzazioni. In Italia, Germania e Russia, i fascismi bianchi e rossi hanno già distrutto tutte le vecchie organizzazioni e posto i lavoratori direttamente di fronte al problema di trovare nuove forme di lotta. In Inghilterra, in Francia e in America le vecchie organizzazioni mantengono ancora tra i lavoratori un certo grado di illusoria credibilità, ma la loro successiva resa alle forze della reazione le sta compromettendo rapidamente.

Nella lotta di classe reale si stanno imponendo i principi di lotta indipendente, di solidarietà e di comunismo. Con questa forte tendenza verso il rafforzamento e l'azione di massa, la teoria della riaggregazione e del riallineamento delle organizzazioni militanti sembra essere superata. È vero, la riaggregazione è essenziale, ma non può essere una semplice fusione delle organizzazioni esistenti. Nelle nuove condizioni è necessaria una revisione delle forme di lotta. "Prima la chiarezza; poi l'unità".

I piccoli gruppi che riconoscono e incoraggiano i principi del movimento di massa indipendente sono molto più significativi dei gruppi di grandi dimensioni che sminuiscono il potere delle masse. Ci sono gruppi che percepiscono i difetti e le debolezze dei partiti. Spesso forniscono una solida critica dei fronti popolari e dei sindacati. Ma la loro critica è limitata. Mancano di una comprensione globale della nuova società. 

I compiti del proletariato non si esauriscono con l'espropriazione dei mezzi di produzione e l'abolizione della proprietà privata. Occorre affrontare i problemi della riorganizzazione sociale e darvi una risposta. Deve essere respinto il socialismo di stato? Quale sarà il fondamento di una società senza la schiavitù del lavoro salariato? Che cosa determinerà le relazioni economiche tra le aziende? Che cosa determinerà i rapporti tra i produttori e il loro prodotto totale? Queste domande e le loro risposte sono essenziali per la comprensione delle odierne forme di lotta e di organizzazione. Diventa qui evidente il conflitto tra il principio della leadership e il principio dell'azione di massa indipendente. 

Perché una conoscenza profonda di questi problemi porta alla comprensione che per realizzare il comunismo è necessaria la più ampia, generale, attività diretta del proletariato come classe.

Di primaria importanza è l'abolizione del sistema del lavoro salariato. La volontà e gli auspici degli uomini non sono così validi da mantenere questo sistema dopo la rivoluzione, senza alla fine arrendersi alle dinamiche da esso generate (come in Russia). Non è sufficiente espropriare i mezzi di produzione e abolire la proprietà privata. È necessario abolire la condizione alla base dello sfruttamento moderno, la schiavitù salariata; e tale azione porta a successive misure di riorganizzazione che non potrebbero mai essere rivendicate senza il precedente passaggio. I gruppi che non pongono queste domande – non importa quanto altrimenti siano fondate le loro critiche – mancano degli elementi più importanti per la costruzione di una solida politica rivoluzionaria. L'abolizione del sistema del lavoro salariato, nel suo rapporto con la politica e con l'economia, dovrebbe essere attentamente studiata. 

Affronteremo qui alcune implicazioni politiche.

La prima è la questione della presa del potere da parte dei lavoratori. Deve essere evidenziato il principio del potere delle masse (non del partito o dell'avanguardia). Il comunismo non può essere introdotto o realizzato da un partito. Soltanto il proletariato nel suo insieme può farlo. Comunismo significa che i lavoratori hanno preso nelle loro mani il proprio destino; che hanno abolito il lavoro salariato; che, con la soppressione dell'apparato burocratico, hanno unificato i poteri legislativo ed esecutivo. L'unità dei lavoratori non sta nella fusione irrinunciabile di partiti o sindacati, ma nella omogeneità dei loro bisogni e nella traduzione degli stessi in azione di massa. Tutti i problemi dei lavoratori devono quindi essere guardati in relazione alla progressiva azione autonoma delle masse.

È sbagliato dire che lo spirito non battagliero dei partiti politici è dovuto ai cattivi propositi o al riformismo dei capi. I partiti politici sono impotenti. Essi non faranno nulla, perché non possono fare nulla. Il capitalismo, a causa della sua debolezza economica, si è organizzato per la repressione e il terrore ed è al momento politicamente molto forte, perché costretto a esercitare ogni suo sforzo per l'autoconservazione. L'accumulazione di capitale, esorbitante in ogni parte del mondo, ha ridotto i margini di profitto - un fatto che, nelle politiche estere, si manifesta attraverso le contraddizioni tra nazioni, e in quelle interne, attraverso la "svalutazione", la concomitante espropriazione parziale delle classi medie e l'abbassamento del livello di sussistenza dei lavoratori; in generale la centralizzazione del potere di grandi aziende capitalistiche nelle mani dello Stato. Contro questo potere centralizzato i piccoli movimenti sono impotenti.

Solo le masse possono combattere perché solo esse possono distruggere il potere dello stato e diventare una forza politica. Per questo motivo la lotta basata sulle organizzazioni corporative diventa oggettivamente obsoleta e deve essere sostituita da grandi movimenti di massa, svincolati dai freni di tali organizzazioni.

Tale è la nuova situazione che i lavoratori hanno di fronte. Ma da essa scaturisce una debolezza reale. Dal momento che i vecchi metodi di lotta per via elettorale e di circoscritte attività sindacali è diventato abbastanza inutile, si è spontaneamente sviluppato un nuovo metodo, è vero, ma tale metodo non è stato ancora applicato coscientemente, e quindi non efficacemente. Le masse, quando i loro partiti e i sindacati sono impotenti, cominciano immediatamente a manifestare la loro militanza attraverso scioperi selvaggi. 

1936-lavoratori-francesi-in-sciopero.jpgIn America, Inghilterra, Francia, Belgio, Olanda, Spagna, Polonia – si sviluppano scioperi selvaggi, e attraverso di loro le masse danno ampia prova che le loro vecchie organizzazioni non sono più in adatte alla lotta. Gli scioperi selvaggi non sono, tuttavia, disorganizzati, come parrebbe suggerire il nome. Sono denunciati come tali dai burocrati sindacali, perché sono scioperi fatti al di fuori delle organizzazioni ufficiali. Sono gli scioperanti stessi a organizzare lo sciopero, perché è una vecchia verità che i lavoratori possono lottare e vincere solo in quanto massa organizzata. Essi formano picchetti, provvedono a espellere i crumiri, a organizzare il sostegno agli scioperanti, creano relazioni con altre aziende. In una parola, essi si assumono la guida del loro sciopero, e lo organizzano su base di fabbrica.

È in questi stessi movimenti che gli scioperanti conseguono la loro unità di lotta. È in tali casi che prendono il loro destino nelle proprie mani e unificano "il potere legislativo ed esecutivo", eliminando i sindacati e i partiti, come mostrato da diversi scioperi in Belgio e Olanda.

Ma l'azione di classe indipendente è ancora debole. Che gli scioperanti chiedano ai sindacati di unirsi a loro, invece di continuare la loro azione autonoma verso l'allargamento del loro movimento, è un indizio che, nelle attuali condizioni, tale movimento non può crescere ulteriormente, e per questo motivo non può ancora diventare una forza politica in grado di combattere il grande capitale. Ma è un inizio.

Fontseré , 02Di tanto in tanto, però, la lotta indipendente fa un grande balzo in avanti, come con gli scioperi dei minatori asturiani nel 1934, dei minatori belgi nel 1935, gli scioperi in Francia, Belgio e America nel 1936, e la rivoluzione catalana nel 1936. Queste sollevazioni sono la prova che una nuova forza sociale si sta imponendo tra i lavoratori, sta sorgendo la loro leadership, sta assoggettando le istituzioni sociali alle masse ed è già in marcia.Gli scioperi non sono più semplici interruzioni del processo di formazione dei profitti o semplici perturbazioni economiche. Lo sciopero indipendente ha la sua forza e importanza nell'azione dei lavoratori come classe organizzata. Il proletariato crea gli organi che regolano la produzione, la distribuzione, e tutte le altre funzioni della vita sociale attraverso un sistema di comitati di fabbrica e di consigli dei lavoratori che si estende su vaste aree. In altre parole, l'apparato amministrativo civile è privato di ogni potere, e si stabilisce la dittatura del proletariato. Così, l'organizzazione di classe nella vera e propria lotta per il potere è al tempo stesso l'organizzazione, il controllo e la gestione delle forze produttive dell'intera società. È il fondamento dell'associazione dei produttori e dei consumatori liberi ed eguali.

Questo, quindi, è il pericolo che il movimento di classe indipendente arreca alla società capitalistica. Scioperi selvaggi, anche se apparentemente di poca importanza, sia su piccola che grande scala, sono il comunismo embrionale. 

Un piccolo sciopero selvaggio, diretto com'è da lavoratori e nell'interesse dei lavoratori, mostra su piccola scala la natura del potere proletario futuro.

Un raggruppamento di militanti deve essere messo in moto dalla consapevolezza che le condizioni di lotta rendono necessario unire nelle mani degli operai il "potere legislativo ed esecutivo". Essi non si devono compromettere in questa situazione: tutto il potere ai comitati di azione e ai consigli dei lavoratori. Questo è il fronte di classe. Questa è la strada verso il comunismo. Il compito dei militanti è rendere i lavoratori coscienti dell'unità tra forme organizzative di lotta, dittatura di classe, e struttura economica del comunismo, con l'abolizione del lavoro salariato.

I militanti che si fanno chiamare "avanguardia" hanno oggi lo stesso punto debole che caratterizza in questo momento le masse. Essi credono ancora che i sindacati o questo o quel partito devono dirigere la lotta di classe, anche se con metodi rivoluzionari. Ma se è vero che si stanno approssimando lotte decisive, non è sufficiente affermare che i dirigenti sindacali sono dei traditori. 

È necessario, in particolare oggi, formulare un piano per la composizione del fronte di classe e la definizione delle sue forme organizzative. A tal fine deve essere assolutamente combattuto, il controllo da parte dei partiti e dei sindacati. Questo è il punto cruciale nella lotta per il potere.

 

NOTE

 

[1] AFL. American Federation of Labor, era la maggiore organizzazione sindacale americana nella prima metà del secolo scorso, un accomodante raggruppamento di sindacati di mestiere, contrario all'immigrazione di lavoratori stranieri.

 

LINK al testo originario:

Masse & Avanguardie

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