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28 ottobre 2010 4 28 /10 /ottobre /2010 06:00



AUTOGESTIONE E GERARCHIA

 

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Schlichter, Il potere cieco

 

 

di Cornelius Castoriadis 

 

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Creta, Le tre Dame

Viviamo in una società la cui l'organizzazione è gerarchica, si tratti di lavoro, produzione, o impresa, amministrazione, politica, o Stato oppure ancora dell'educazione e della ricerca scientifica. La gerarchia non è un'invenzione della società moderna. Le sue origini sono remote, benché non sia sempre esistita, e vi fossero delle società non gerarchiche che hanno funzionato molto bene. Ma nella società moderna il sistema gerarchico (o, il che è lo stesso, burocratico) è diventato praticamente universale. Non appena si verifica una qualunque attività collettiva, essa è organizzata sul principio gerarchico, e la gerarchia del comando e del potere coincide sempre più con la gerarchia dei salari e dei redditi. Di modo che le persone non arrivano quasi più ad immaginarsi che potrebbe essere diversamente, e che potrebbero essere esse stesse qualcosa di diversamente definito che dal loro posto nella piramide gerarchica.

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Malta, La Dea dormiente

I difensori del sistema attuale cercano di giustificarlo come il solo "logico", "razionale", "economico". Abbiamo già cercato di mostrare che questi "argomenti" non valgono nulla e non giustificano nulla, che essi sono falsi presi ognuno separatamente e contraddittori quando li si considera nel loro insieme. Avremo l'occasione di ritornare sul questo tema. Ma si presenta anche il sistema attuale come il solo possibile, lo si pretende imposto dalle necessità della moderna produzione, dalla complessità della vita sociale, la grande scala di tutte le attività, ecc. Cercheremo di mostrare che non è vero, e che l'esistenza di una gerachia è radicalmente incompatibile con l'autogestione. 

 

AUTOGESTIONE E GERARCHIA DEL COMANDO

 

Decisione collettiva e problema della rappresentazione

 


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Kupka, Resistenza o l'Idolo Nero, 1903


44.gifCosa significa, socialmente, il sistema gerarchico? Che uno strato della popolazione dirige la società e che gli altri non fanno che eseguire le sue decisioni; di modo che, questo strato, ricevendo i redditi più grandi, approfitta della produzione e del lavoro della società molto più di altri. In breve, che la società è divisa tra uno strato che dispone del potere e dei privilegi, ed il resto, che ne è privo. La gerarchizzazione -o la burocratizzazione - di tutte le attività sociali non è oggi che la forma, sempre più preponderante, della divisione della società. Come tale, è allo stesso tempo risultato e causa del conflitto che lacera la società.

 la greve 12Se le cose stanno così, diventa ridicolo domandarsi: l'autogestione, il funzionamento e l'esistenza di un sistema sociale autogestito è compatibile con il mantenimento della gerarchia? Tanto vale chiedersi se la soppressione dell'attuale sistema penitenziario attuale sia compatibile con il mantenimento delle guardie carcerarie, degli ufficiali e dei direttori carcerari, ciò che è ovvio è bene venga detto esplicitamente. Tanto più che, da millenni, si è fatto entrare negli spiriti delle persone sin dalla loro pìù tenera infanzia l'idea che è "naturale" che gli uni comandino e gli altri obbediscano, che gli uni abbiano il superfluo e gli altri appena il necessario.

Noi vogliamo una società autogestita. Cosa significa ciò? Una società che si gestisce, cioè che si dirige da se stessa. Ma ciò deve essere ancor maggiormente precisato. Una società autogestita è una società in cui tutte le decisioni sono prese dalla collettività che è, ogni volta, considerata come oggetto delle sue decisioni. Vale a dire un sistema in cui coloro che compiono un'attività decidono collettivamente ciò che devono fare e come farlo, nei soli limiti che danno loro la loro coesistenza con altre unità collettive. Così, delle decisioni che riguardano i lavoratori di un laboratorio devono essere prese dai lavoratori di quest'officina; quelle che riguardano diversi laboratori alla volta, dall'insieme dei lavoratori coinvolti o dai loro delegati eletti e revocabili; quelle che riguardano l'intera impresa, da tutto il personale dell'impresa; quelle riguardanti un quartiere, dagli abitanti del quartiere; e quelle che riguardano l'intera società, dalla totalità delle donne e degli uomini che ci vivono.

 

Ma cosa significa decidere? 

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Steinlen, Lo sbirro (La Vache)  

 

Decidere, è decidere da sé. Non è lasciare la decisione a delle "persone competenti", sottoposti ad un vago "controllo". Non è nemmeno designare le persone che andranno, loro, a decidere. Non è perché la popolazione designa, una volta dopo un certo numero di anni, coloro che faranno le leggi, che essa fa le leggi. Non è perché designa dopo un certo numero di anni, colui che deciderà della politica del paese, che essa stessa decide di questa politica. Essa non decide, essa aliena il suo potere di decisione a dei "rappresentanti" o dei delegati che, per questo stesso fatto, non sono e non possono essere i suoi rappresentanti o dei delegati, attarverso le differenti collettività, come anche l'esistenza di organi- comitati o consigli- formati da tali delegati sarà, in un certo numero di casi, indispensabile. Ma non sarà compatibile con l'autogestione soltanto se questi delegati rappresentano veramente la collettività di cui essi stessi sono emanazione, e questo implica che rimangono sottoposti al suo potere. Il che significa, a sua volta, che quest'ultima non soltanto li elegge, ma può anche revocarli ogni volta che essa lo giudica necessario.

Dunque, dire che vi è gerarchia del comando formato da "persone competenti" ed in principio inamovibili; o dire che vi sono dei rappresentanti" inamovibili per un dato periodo di tempo (e che, come l'esperienza dimostra, diventano praticamente inamovibili per sempre), è dire che non vi è autogestione, nemmeno "gestione democratica". Ciò equivale infatti a dire che la collettività è diretta da persone la cui direzione degli affari comuni è oramai diventata l'affare specializzato ed esclusivo, e che, di diritto o di fatto, sfuggono al potere della collettività.

 

Decisione collettiva, formazione ed informazione

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Gustave Doré, Il Leviatano, da La Bibbia, 1874

 

D'altra parte, decidere, è decidere per conoscenza di causa. Non è più la collettività che decide, anche se formalmente essa "vota", se qualcuno o qualcuna dispongono da soli delle conoscenze e delle informazioni pertinenti. Ma anche, che possano definire se stessi dei criteri a partire dai quali essi decidono. È per fare ciò, che essi dispongono di una formazione sempre più ampia. Ora, una gerarchia del comando implica che coloro che decidono possiedono - o piuttosto pretendono di possedere- il monopolio delle informazioni e della formazione, ed in ogni caso, che essi vi hanno un accesso privilegiato. La gerarchia è basata su questo fatto, ed essa tende costantemente a riprodurlo. Perché in un'organizzazione gerarchica, tutte le informazioni salgono dalla base al vertice e non ridiscendono più, né circolano (di fatto, esse circolano, ma controle regole dell'organizzazione gerarchica). Allo stesso modo, tutte le decisioni scendono dal vertice verso la base, che non ha che da eseguirle. Ciò equivale pressappoco a dire che vi è gerarchia del comando e dire che queste due circolazioni si fanno ognuna a senso unico: il vertice raduna ed assorbe tutte le informazioni che salgono verso esso e non ridifonde agli esecutori che lo stretto necessario all'esecuzione degli ordini che rivolge loro e che emanano soltanto da esso. In una tale situazione, è assurdo pensare che potrebbe esserci autogestione o anche "gestione democratica".

 

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Frontespizio di ll Leviatano di Hobbes, 1651. 

 

Come possiamo decidere, se non disponiamo di informazioni necessarie per decidere bene? E come possiamo impararea decidere, se si è sempre ridotti ad eseguire ciò che altri hanno deciso? Non appena una gerarchia del commando si instaura, la collettività diventa opaca per se stessa, e si verifica un enorme spreco. Diventa opaca, perché le informazioni sono trattenute al vertice. Uno spreco si verifica, perché i lavoratori non informati o mal informati non sanno ciò che dovrebbero sapere per condurre bene il loro compito, e soprattutto perché le capacità collettive di dirigersi, così come l'inventività e l'iniziativa, formalmente riservate al comando, sono ostacolate ed inibite a tutti i livelli. 


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Steinlen, da: "L'Assiette au Beurre", 1902

 

Dunque, volere l'autogestione- o anche la "gestione democratica", se la parola democrazia non è utilizzata per gli scopi semplicemente decorativi- e voler mantenere una gerarchia del comando è una contraddizione in termini. Sarebbe molto più coerente, sul piano formale, dire, come fanno i difensori del sistema attuale: la gerarchia del comando è indispensabile, dunque, non ci può essere società autogestita.

Soltanto, ciò è falso. Quando esaminiamo le funzioni della gerarchia, cioè a cosa essa serve, constatiamo che, per una gran parte, esse non hanno senso e non esistono che in funzione del sistema sociale attuale, e che le altre, quelle che conserverebbero un senso ed una utilità nel sistema sociale autogestito, potrebbero facilmente essere collettivizzate. Non possiamo discutere, nei limiti di questo testo, la questione in tutta la sua ampiezza. Tenteremo di chiarirne alcuni aspetti importanti, riferendci soprattutto all'organizzazione dell'impresa e della produzione.

   

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Steinlen, da: "L'Assiette au Beurre", 1902

 

 

Una delle funzioni più importanti della gerarchia attuale è di organizzare la costrizione. Nel lavoro, ad esempio, che si tratti di officine o di uffici, una parte essenziale dell'"attività" dell'apparato gerarchico, dei capi squadra sino alla direzione, consiste nel sorvegliare, controllare, sanzionare, imporre direttamente o indirettamente la "disciplina" e l'esecuzione conforme degli ordini ricevuti da coloro che devono eseguirli. E perché bisogna organizzare la costrizione, perché occorre che vi sia la costrizione? Perché i lavoratori non manifestano spontaneamente un entusiasmo straripante per fare quanto la direzione vuole che essi facciano. E questo perché? Perché né il loro lavoro, né il suo prodotto appartengono loro, perché si sentono alienati e sfruttati, perché non hanno deciso essi stessi ciò che devono fare e come farlo, né ciò che avverrà di quanto essi hanno fatto; in breve, perché c'è un conflitto sociale perpetuo tra coloro che lavorano e coloro che dirigono il lavoro degli altri e ne approfittano. In somma dunque: bisogna che ci sia gerarchia, per organizzare la costrizione- e bisogna che ci sia costrizione perché ci sia divisione e conflitto, cioè affinché ci sia anche la gerarchia. In genere, si presenta la gerarchia come se esistesse per regolare i conflitti, mascherando il fatto che l'esistenza della gerarchia è essa stessa fonte di un conflitto perpetuo. Perché finché vi sarà un sistema gerarchico, vi sarà, per questo fatto stesso, rinascita continua di un conflitto radicale tra uno strato dirigente e privilegiato, e le altre categorie, ridotte a dei ruoli di esecuzione.

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Fotogramma da Tempi modernidi Charlie Chaplin, 1936.

 

Si dice che se non ci fosse costrizione, non vi sarebbe nessuna disciplina, che ognuno farebbe ciò che vorrebbe e sarebbe il caos. Ma ciò non è nient'altro che un sofisma. La questione non è di sapere se occorre della disciplina, o anche a volte la costrizione, ma quale disciplina, decisa da chi, controllata da chi, sotto quali forme e per quali scopi. Più gli scopi che servono una disciplina sono estranei ai bisogni ed ai desideri di coloro che devono realizzarli, più le decisioni concernenti questi scopi e le forme della disciplina sono esteriori e più vi è bisogno di costrizione per farli rispettare. Una collettività autogestita non è una collettività senza disciplina, ma una collettività che decide essa stessa la sua disciplina e, nel caso del fallimento, delle sanzioni contro coloro che la violano deliberatamente. Per quanto riguarda in particolare il lavoro, non si può discutere seriamente la questione presentando l'impresa autogestita come rigorosamente identica all'impresa contemporanea tranne il fatto che si sarebbe tolto il guscio gerarchico.

 

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Fotogramma dal film Metropolis di Fritz Lang, 1927.

 

Nell'impresa contemporanea, si impone alle persone un lavoro che è loro estraneo e sul quale essi non hanno nulla da dire. La cosa straordinaria non è che essi vi si oppongono, ma che non vi si oppongono  affatto nella maggior parte dei casi. Non si può credere un solo istante che il loro atteggiamento nei confronti del lavoro rimarrebbe lo stesso quando la relazione al loro lavoro sarà trasformata e che essi cominceranno a diventarne i padroni. D'altra parte, anche nell'impresa contemporanea, non c'è una disciplina, ma due. Vi è la disciplina che a colpi di costrizioni e di sanzioni finanziarie o altre l'apparato gerarchico tenta costantemente di imporre. E c'è la disciplina, molto meno apparente ma non meno forte, che sorge all'interno dei gruppi di lavoratori di una squadra o di un'officina e che fa ad esempio sì che né coloro che ne fanno troppo né coloro che non fanno abbastanza siano tollerati. I gruppi umani non sono mai stati e non sono mai dei agglomerati caotici di individui mossi unicamente dall'egoismo ed in lotta gli uni contro gli altri, come vogliono farlo credere gli ideologi del capitalismo e della burocrazia che non esprimono così che la loro propria mentalità. Nei gruppi, ed in particolare coloro che sono chiamati ad un compito comune permanente sorgono sempre delle norme di comportamento ed una pressione collettiva che le fa rispettare.

  

Autogestione, competenza e decisione

 

Veniamo ora all'altra funzione essenziale della gerarchia, che appare come indipendente dalla struttura sociale contemporanea: le funzioni decisionali e direzionali. La domanda che si pone è la seguente: perché le collettività considerate non potrebbero compiere esse stesse questa funzione, dirigersi da se stesse e decidere da sé, perché occorrerebbe uno strato particolare di persone, organizzate a parte, che decidono e che dirigono? A questa domanda, i difensori dell'attuale sistema forniscono due genere di risposte: una si appoggia sull'invocazione del "sapere" e della "competenza": bisogna che coloro che sanno, o coloro che sono competenti, decidano. L'altra afferma, con parole più o meno velate, che bisogna in ogni modo che qualcuno decida, perché altrimenti sarebbe il caos, detto altrimenti perché la collettività sarebbe incapace di dirigersi da sé.

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Nessuno contesta l'importanza del sapere e della competenza, né, soprattutto che oggi un certo sapereed una certa competenza sono riservati ad una minoranza. Ma, anche in questo caso, questi fatti non sono invocati che per coprire dei sofismi. Non sono coloro che possiedono più sapere e competenza in generale che dirigono il sistema attuale. Chi dirige, sono coloro che si sono mostrati capaci di ascendere nell'apparato gerarchico o coloro che, in funzione della loro ordine familiare e sociale, sono stati sin dall'inizio posti sulla buona strada dopo aver ottenuto qualche diploma. In entrambi i casi, la "competenza" che si esige per mantenersi o arrampicarsi nell'apparato gerarchico riguarda molto più la capacità di difendersi e di vincere nella concorrenza che si sferrano gli individui, cosche e clan in seno all'apparato gerarchico-burocratico, che l'attitudine a dirigere un lavoro collettivo.

In secondo luogo, non è perché qualcuno o qualcuna possiedono un sapere o una competenza tecnica o scientifica, che il miglior modo di utilizzarli è di affidar loro la direzione di un insieme di attività. Si può essere un eccellente ingegnere nella propria specialità senza per questo  essere capaci di "dirigere" l'insieme di un dipartimento di una fabbrica. Non c'è del resto che da constatare quanto accade attualmente a questo proposito. Tecnici e specialisti sono generalmente confinati nei loro campi particolari. i "dirigenti" si circondano di alcuni consiglieri tecnici, raccolgono i loro pareri sulle decisioni da prendere (pareri che spesso divergono tra loro) ed infine "decidono". Si vede chiaramente l'assurdità dell'argomento. Se il "dirigente" decidesse in funzione del suo "sapere" e della sua "competenza", dovrebbe essere erudito e competente a proposito di tutto, sia direttamente sia per decidere quale, tra i pareri divergenti degli specialisti, sia il migliore. Ciò è evidentemente impossibile ed i dirigenti optano di fatto arbitrariamente, in funzione del loro "giudizio". Ora questo "giudizio" di uno solo non ha alcuna ragione di essere maggiormente valida del giudizio che si formerebbe in una collettività autogestita, a partire da un'esperienza reale infinitamente più ampia di quella di un solo individuo.

 

Autogestione, specializzazione e razionalità

  

Sapere e competenza sono per definizione specializzati e lo diventano sempre più ogni giorno. Uscito dal suo campo speciale, il tecnico o lo specialista non è più capace di chiunque altro di prendere una buona decisione. Anche all'interno del suo campo particolare, del resto, il suo punto di vista è fatalmente limitato. Da una parte, egli ignora gli altri campi, che sono necessariamente in interazione con il suo e tende naturalmente a trascurarli. Così, nelle imprese così come nelle attuali amministrazioni, la questione del coordinamento "orizzontale" dei servizi di direzione è un incubo perpetuo. Si è giunti, da tanto tempo , a creare degli specialisti del coordinamento per coordinare le attività degli specialisti della direzione- che si rivelano così incapaci di dirigere se stessi. Da una parte  e soprattutto, gli specialisti posti nell'apparato direttivo sono per questo motivo separati dal reale processo produttivo, da quanto accade, delle condizioni nelle quali i lavoratori devono effettuare il loro lavoro. La maggior parte del tempo, le decisioni prese dagli uffici dopo elaborarti calcoli, perfetti sulla carta, si rivelano inapplicabili così come sono, perché non hanno tenuto sufficientemente conto delle condizioni reali nelle quali avrebbero dovuto essere applicate. Ora queste condizioni reali, per definizione, soltanto la collettività dei lavoratori le conosce. Tutti sanno che questo fatto è, nelle imprese contemporanee, una fonte di conflitti perpetue e di uno spreco immenso.

 

Kafka, il Processo, fotogramma
Fotogramma da Il processo di Orson Welles tratto da Kafka

 

Per contro, sapere e competenza possono essere razionalmente utilizzate se coloro che li possiedono sono reimersi nella collettività dei produttori, se diventano una delle componenti delle decisioni che questa collettività avrà da prendere. L'autogestione esige la cooperazione tra coloro che possiedono un sapere o una competenza particolare e coloro che assumono il lavoro produttivo nel senso stretto. È totalmente incompatibile con una separazione di queste due categorie. È soltanto se una tale cooperazione si instaura che questo sapere e questa competenza potranno essere pienamente utilizzate; mentre, oggi, non sono utilizzate che per una piccola parte, poiché coloro che le possiedono sono confinati  a dei compiti limitati, strettamente circoscritti dalla divisione del lavoro all'interno dell'apparato di direzione. Soprattutto, soltanto questa cooperazione può assicurare che sapere e competenza saranno messe effettivamente al servizio della collettività e non per fini particolari.

Una tale cooperazione potrà svolgersi senza che dei conflitti sorgano tra gli "specialisti" e gli altri lavoratori? Se uno specialista afferma, a partire del suo sapere specializzato, che un certo metallo, perché possiede tali proprietà, è il più indicato per quell'utensile o quel pezzo, non si vede perché ed a partire da cosa ciò potrebbe sollevare delle obiezioni gratuite da parte degli operai. Anche in questo caso, del resto, una decisione razionale esige che gli operai non siano estranei- ad esempio, perché i proprietari del materiale scelto svolgono un ruolo durante la lavorazione dei pezzi e degli utensili. Ma le decisioni veramente importanti riguardanti la produzione comportano sempre una dimensione essenziale relativa al ruolo ed al posto degli uomini nella produzione. A proposito di ciò, non esiste- per definizione- nessun sapere e nessuna competenza che possa dominare il punto di vista di coloro che avranno da effettuare realmente il lavoro. Nessuna organizzazione di una catena di montaggio o di assemblaggio può essere né razionale né accettabile se è stata decisa senza tener conto del punto di vista di coloro che vi lavoreranno. Perché non ne tengono conto, queste decisioni sono attualmente quasi sempre traballanti, e se la produzione funziona comunque, è perché gli operai si organizzano tra di loro per farla andare, trasgredendo le regole e le istruzioni "ufficiali" sull'organizzazione del lavoro. Ma, anche le si suppongono "razionali" dal pubto di vista stretto dell'efficacia produttiva, queste decisioni sono inacettabili precisamente perché esse sono, e non possono che essere, esclusivamente basate sul principio dell'"efficacità produttiva". Ciò significa che esse tendono a subordinare integralmente i lavoratori al processo di produzione, ed a trattarli come dei pezzi del meccanismo produttivo. Ora questo non è dovuto alla cattiva direzione, alla sua stupidità e nemmeno semplicemente alla ricerca del profitto. (A riprova che l'"Organizzazione del lavoro" è rogorosamente la stessanei paesi dell'Est e nei paesi occidentali). Ciò è la conseguenza diretta ed inevitabile di un sistema in cui le decisioni sono prese da altri rispetto a coloro che le dovranno realizzare; un tale sistema non può avere un'altra "logica".

Ma una società autogestita non può seguire questa "logica". La sua logica è ben altra, è la logica della liberazione degli uomini e del loro sviluppo. La collettività dei lavoratori può ben decidere - e a nostro avviso, avrebbe ragione di farlo- che per essa, delle giornate di lavoro meno faticose, meno assurde, più libere e più felici sono infinitamente preferibili di qualche pezzo in più di cianfrusaglia. E, per tali scelte, assolutamente fondamentali, non c'è alcun criterio "scientifico" o "oggettivo" che valga: il solo criterio è il giudizio della collettività stessa su ciò che essa preferisce, a partire dalla sua esperienza, dai suoi bisogni e dai suoi desideri.

Ciò è vero su scala della società intera. Nessun criterio "scientifico" permette a chicchessia di decidere che è preferibile per la società di avere l'anno prossimo più tempo libero piuttosto che più consumi o l'inverso, una crescita più rapida o meno rapida, ecc. Colui che dice che tali criteri esistono è un ignorante o un impostore. Il solo criterio che in questi campi ha un senso, è che gli uomini e l edonne che formano la società vogliono, e ciò, soltanto essi possono deciderlo e nessuno al loro posto.

 

 

Testo scritto in collaborazione con Daniel Mothé e pubblicato in CFDT Aujourd’hui, n° 8, luglio-agosto 1974.
Ripreso in Le contenu du socialisme
, UGE 10/18, 1979.

 

LINK al post originale:
Autogestion et gérarchie
 

LINK interno ad un altro saggio di Castoriadis:

Sul regime e contro la difesa dell'URSS, 1946 

 

LINK ad un intervista a Catoriadis in 6 puntate:

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31 maggio 2010 1 31 /05 /maggio /2010 22:08

Per prima cosa, tengo a scusarmi con i miei pochi lettori per la brutalità delle immagini scelte per illustrare questo post, ma ritengo sia bene ricordare come gli stalinisti di ogni risma sino a poco tempo fa (e persino i nostalgici di oggi), illustravano ideologicamente il paese di Bengodi da essi edificato a prezzo di carneficine inimmaginabili e carcerazione sociale a vita nel loro cosiddetto paradiso socialista.

Detto ciò, non è senza orgoglio che presento un altro scritto inedito di quella mente fervida e ipercritica che fu Maximilien Rubel, datato 1946, (un vero pezzo da archeologia intellettuale) e quindi addirittura precedente l'inizio della grande stagione di Socialisme ou Barbarie, (su cui avremo modo di tornare prestissimo), con traduzioni di scritti da quella stessa rivista e saggi storico critici che illustrino quell'importante serbatoio di critica ed analisi storico-sociologica ed elaborazione ideologica, nonché la figura ed i contributi teorici di Rubel stesso.

 

 


 

 

 

Sul regime e contro la difesa dell’U.R.S.S.



di Cornelius Castoriadis



La politica rivoluzionaria che, un tempo, consisteva essenzialmente nella lotta contro gli strumenti diretti del dominio borghese (Stato e partiti borghesi), si è da molto tempo complicata con l'apparizione di un nuovo compito non meno fondamentale: la lotta contro i propri partiti che la classe operaia si era creati per la sua liberazione e che, in un modo o nell'altro, lo avevano tradito.
 
Questo processo di putrefazione permanente dei vertici ha assunto una tale importanza che è impossibile elaborare oggi una politica rivoluzionaria coerente ed efficace senza possedere una concezione netta della sua natura e della sua dinamica. L'esperienza fondamentale su questo punto si formula così: la socialdemocrazia, creata in un periodo in cui il proletariato e la borghesia erano le sole forze di polarizzazione, le sole fonti di potenza autonome sulla scena politica, non poteva tradire il primo per passare nel campo dell'altra, che seguendo una politica sempre più apertamente borghese.
 
Lo stalinismo per contro, per quanto abbia mostruosamente tradito la rivoluzione proletaria, non seguì non di meno una linea politica indipendente ed una strategia autonoma ed opposta a quella della borghesia, non meno che a quella del proletariato. Dove si trova la causa di questo fenomeno e come potremmo venire a capo degli ostacoli che crea alla rivoluzione? Dalla giusta soluzione di questo problema dipende tutto nel momento attuale. Ma questa soluzione è possibile solo se si parte dall'analisi realista e priva di ogni pregiudizio dottrinario della società in cui lo stalinismo si è pienamente realizzato e da cui trae la maggior parte della sua virulenza politica- della società sovietica.
 
 
 
I. La società sovietica

 

a: L'economia 

urss-20-218-.jpgSe è incontestabile che non si può comprendere la società sovietica se non analizzandone le basi economiche, non è meno vero che per lo studio delle sue basi è indispensabile sbarazzarsi di ogni formalismo giuridico. Sino ad oggi, infatti, si credeva aver detto l'essenziale su questa economia quando si menzionavano la nazionalizzazione e la pianificazione che ne costituiscono i tratti dominanti; poi, senza chiedersi quale significato reale hanno acquisito questi tratti nell'insieme dialettico della via sociale sovietica, si indicavano le parti corrispondenti al programma socialista e si gridava trionfalmente: per lo meno, le basi socialiste sussistono nell'economia sovietica.

urss.jpgUn abbozzo di ragionamento simile, che dimentica che le realtà sociali ed economiche si trovano molto spesso al di là della formula giuridica che le copre, avrebbe portato a riconoscere la realizzazione perfetta dell'eguaglianza civica nella democrazia borghese, la cui impostura è stata molte volte denunciata da Lenin; avrebbe portato ad ignorare anche lo sfruttamento che ha luogo nella società capitalista, poiché il diritto borghese ignora a parole il capitale, il plusvalore, ecc; ci avrebbe condotto dall'analisi economica materialista di Marx al giuridicismo dei classici e del XVIII secolo.  

urss-20-205-.jpgSi tratta dunque, nello studio dell'economia sovietica, come in quella di ogni altra economia, di sapere come si effettuano, attraverso ed al di là del camuffamento giuridico, la produzione e la distribuzione, altrimenti detto: chi dirige la produzione e, di conseguenza, chi possiede l'apparato della produzione e, chi ne trae vantaggio?

Le categorie sociali fondamentali tra le quali si svolgono i processi economici sono:

 -il proletariato, formato dall'insieme dei lavoratori che sono incaricati di un semplice lavoro di esecuzione;

  -l'aristocrazia operaia, che comprende l'insieme dei lavoratori qualificati;

 -la burocrazia, che raggruppa le persone che non partecipano al lavoro di esecuzione ed assumono la direzione del lavoro degli altri.

 

urss-20-219-.jpgEvidentemente, come sempre, i limiti tra queste tre categorie non sono rigide. Questa distinzione è essenzialmente basata su un criterio tecnico; ma questa base tecnica è necessariamente legata a delle conseguenze economiche, sociali e politiche. Perché su questa distinzione è fondata in URSS la soluzione dei due problemi capitali di ogni organizzazione economica: il problema della direzione della produzione e quello della sua ripartizione. 

urss-20-222-.jpgLa direzione della produzione è unicamente affidata alla burocrazia. Né l'aristocrazia operaia né il proletariato prendono alcuna parte a questa direzione. Questa direzione avviene, anche all'interno della burocrazia, in maniera dittatoriale, che non concede al burocrate medio che dei margini di iniziativa estremamente limitati in quanto alla concretizzazione della parte del piano che riguarda il suo settore. Questo in quanto alla forma. In quanto all'essenza, e cioè in quanto a sapere quali sono le direzioni che imprime il vertice burocratico al processo economico e quali sono le considerazioni coscienti, inconsce o imposte dalle cose che dettano, lo esamineremo dopo. 

urss-20-449-.jpgLe condizioni di validità della legge del valore (principalmente: proprietà ed appropriazione privata, contabilità separata di ogni impresa, libertà del mercato, ecc.) difettano nell'economia sovietica. D'altra parte, la pianificazione, combinata dalla statizzazione ed abbracciante l'insieme dell'economia, fa sì che l'automatismo economico è sostituito, all'interno di certi quadri molto generali, dalla direzione umana cosciente dell'economia. È per questo che possiamo dire che, nell'economia sovietica, della legge del valore non resta che questa formula molto generale, che il valore dell'insieme dei prodotti è eguale alla somma del lavoro astratto socialmente necessario alla loro produzione.

urss-20-691-.jpgA parte ciò, è l'arbitrio burocratico che regola la distribuzione, cioè che determina i salari; quest'arbitrio non conosce che due limiti economici obiettivi: per quel che riguarda il lavoro semplice, il salario non può essere inferiore al minimo vitale (limite inoltre estremamente elastico, come l'esperienza dei due primi piani quinquennali hanno dimostrato);- per quel che riguarda il lavoro qualificato, il salario si determina secondo la rarità relativa di questa specie di lavoro, tenendo conto dei bisogni del consumo o di quelli considerati come tali dal piano. A parte ciò, l'arbitrio burocratico regola tutto, legato evidentemente dalle leggi psicologiche di godimento ottimale da considerazioni di politica generale. All'interno della burocrazia, la distribuzione si fa seguendo i rapporti di forza, similmente al modo in cui si effettua la distribuzione del plusvalore totale tra i gruppi ed i trust imperialisti.

urss-20-414-.jpgLa dinamica di questa economia è caratterizzata dall'assenza di crisi organiche, effetto della pianificazione quasi completa. Il suo equilibrio, di conseguenza, non può essere messo in causa che dall'effetto dei fattori esterni, il che sembra dovere, se un giorno essa dovesse giungere a dominare il pianeta, conferirle una stabilità interna mai prima conosciuta nella storia.

Quando vogliamo definire questa forma economica diventa evidente che essa non presenta nessuna analogia con l'economia capitalista, perché, malgrado la persistenza dello sfruttamento e la monopolizzazione della direzione della produzione da parte di uno strato sociale, le leggi economiche vi sono forzatamente differenti; d'altra parte, dei quattro elementi fondamentali ed indivisibili dell'economia socialista e cioè:

 abolizione della proprietà privata;

 pianificazione;

 Abolizione dello sfruttamento;

direzione della produzione da parte dei produttori;

essa non presenta (e sotto forti riserve) che i primi due, i meno importanti; invece di avvicinarsi sempre più alla realizzazione di questi scopi fondamentali, l'economia sovietica li ha completamente abbandonati- senza avvicinarsi per ciò al modo di produzione capitalista. Né capitalista né socialista e nemmeno in marcia verso una di queste due forme, l'economia sovietica presenta un nuovo tipo storico, il cui nome poco importa in realtà quando se ne conosce la sostanza.

 

b: La politica

urss-20-477-.jpgIn quanto al regime politico, il suo carattere totalitario è stato molte volte descritto che è superfluo insistervi sopra. Bisogna semplicemente menzionare che questo regime, accanto alla dittatura poliziesca, comporta un'ascendente ideologico sulle masse, una "statizzazione delle idee", tale che essa autorizza a parlare di "alterazione della coscienza delle masse" nella società sovietica nel momento attuale.

 

c: "Stato operaio degenerato"

È chiaro che la denominazione di uno Stato di fatto è una semplice convenzione e che tutti i termini sono validi, a condizione che ci si intenda sul loro contenuto e che essi non comportino dei pericolosi malintesi attraverso i loro effetti politici. È da questo punto di vista che deve essere affrontato e condannato il termine "Stato operaio degenerato" impiegato a proposito dell'URSS. La struttura di quest'espressione implica che il fatto fondamentale dell'attuale realtà sovietica si trovi nel suo carattere di Stato operaio e che, per spiegare alcune sfumatura, si debba ricorrere alla nozione di degenerazione. Ora, non c'è nulla del genere. La degenerazione è da molto tempo superata poiché è giunta alla maturità completa; l'evoluzione è giunta a tal punto che, attraverso la creazione di nuove forme con dei nuovi contenuti, permette di afferrare il fenomeno nel suo attuale funzionamento per così dire "indipendentemente" dalla sua provenienza.

 

urss-20-279-.jpgLa statizzazione e la pianificazione svolgono oggi un ruolo fondamentale nell'economia sovietica; ma dire che, nel loro attuale contenuto, esse bastano a dare un carattere anche un po' "operaio" allo Stato sovietico; vuol dire attribuire un significato al diritto indipendentemente dal reale processo economico, è sostituire l'analisi economica marxista ad un giuridicismo astratto; è ancora separare l'economico dal politico in un modo schematico ed inaccettabile per lo studio dell'epoca attuale. Se la statizzazione in URSS basta per conferire a questo Stato il nome (preso con un significato attivo) di "Stato operaio in degenerazione", perché le statizzazioni di un paese borghese non basterebbero a conferirgli il nome di Stato operaio in gestazione?

 

urss_staline.jpgLa questione non è di sapere se ci sia statizzazione, ma per chi ed a profitto di chi è instaurata o mantenuta questa statizzazione. Se nella società capitalista classica la potenza economica rimane distinta dal potere politico e se lo appropria in quanto oggetto esterno ad essa, il processo storico ha rovesciato poco a poco questo schema: già durante l'epoca imperialista la distinzione, tanto reale quanto personale, del potere politico e del potere economico, appariva come caduco; nella società sovietica è impossibile persino concepirla. Una situazione tecnica ed economica determina una struttura politica, che, da questo momento, regge l'economia, mentre l'importanza dell'automatismo delle leggi economiche diminuisce sempre più. È per questo che il solo criterio permettente di dare una definizione sociologica dell'URSS è il seguente: chi detiene il potere politico ed a profitto di chi lo esercita? La risposta a questa domanda non può essere che la seguente: il potere politico (e di conseguenza, anche la potenza economica) è detenuta da uno strato sociale i cui interessi sono assolutamente contraddittori nella sostanza con quelli del proletariato sovietico e che esercita questo potere per i suoi propri interessi contro-rivoluzionari. Questo strato non ha nulla in comune con la classe operaia, né con la classe capitalista. Essa costituisce, così come lo Stato che essa dirige e che essa esprime, una nuova formazione storica.

 

 II : La politica rivoluzionaria in U.R.S.S.

 

a: Rivoluzione politica o rivoluzione sociale 

urss-20-478-.jpgLa strategia e la tattica della IV Internazionale e della sua sezione russa verso questo stato di cose deve essere nettamente ed interamente rivoluzionaria. La questione di sapere se possiamo definire in modo scolastico la rivoluzione da compiere in URSS come una rivoluzione politica o sociale presenta poco interesse, se ci rendiamo conto dei compiti da realizzare. Bisogna per di più comprendere che il fondo pratico di questa distinzione non si trova nella necessità di effettuare oppure non una trasformazione dei rapporti di proprietà, ma in questo: possiamo conservare l'apparato statale con dei semplici cambiamenti nel personale dirigente ed i posti di responsabilità (rivoluzione politica) oppure quest'apparato dev'essere spezzato e ricostruito di nuovo in forme nuove (rivoluzione sociale)? Ora, è evidente che è questo secondo caso che si presenterà in URSS quando la classe operaia rovescerà Stalin.

urss-3.jpgPoiché la struttura reale dello Stato sovietico non conserva essenzialmente nulla che possa differenziarlo in generale da non importa quale altro apparato storico di dominio da una classe sull'altra. Quando la rivoluzione sarà compiuta in URSS, bisognerà non soltanto sostituire il partito al potere con il nostro, non soltanto far rivivere o piuttosto rinascere gli strumenti del potere operaio, i soviet (perché i soviet di oggi non ne hanno che il nome), ma bisognerà creare anche dei nuovi strumenti di controllo, perché uno dei fattori favorevoli allo sviluppo della burocrazia consiste nel fatto che durante il periodo 1917-1923 la direzione bolscevica non ha potuto esprimere praticamente tutta la diffidenza che doveva ispirargli questa burocrazia. Quel che Trotsky chiama il secondo aspetto della rivoluzione permanente e che concerne la rivoluzione socialista stessa, il cambiamento continuo di pelle, deve trovare la sua applicazione anche nella regolamentazione dei rapporti politici e statali dopo la vittoria della rivoluzione.

b: Difesa dell'URSS e rivoluzione

urss-mascherine.jpgI grandi punti della strategia e della tattica rivoluzionarie rimangono dunque validi anche per la rivoluzione anti-burocratica, con riserva di adattamento adeguato. È quel che detta oggi imperiosamente l'abbandono della parola d'ordine della "difesa dell'URSS". Anche per coloro che ammettono l'esistenza di basi socialiste nell'economia sovietica, è chiaro che la salvezza finale di queste vestigia dipende dalla vittoria della rivoluzione su scala mondiale e che l'ostacolo n° 1 per questa vittoria si trova nella burocrazia staliniana. La lotta contro questa burocrazia costituisce dunque il compito fondamentale per il proletariato sovietico. Questa lotta in tempo di guerra è compatibile con la "difesa dell'URSS"? Evidentemente no. Sviluppare questa lotta significa ad esempio gli scioperi, le manifestazioni, minare l'apparato di repressione e inceppare il funzionamento in generale dell'apparato statale, provocare l'insurrezione nell'esercito, ritirare i reggimenti in rivolta dal fronte e farli marciare sulla capitale, ecc. La guerra, come la rivoluzione, è un blocco. Non si può condurre l'una che abbandonando l'altra. La "lotta sui due fronti" rileva della strategia da cattedra e non è mai esistita in pratica, perché inevitabilmente arriva il momento in cui l'una delle due lotte dovrà prevalere sull'altra.

urss-20-300-.jpgCi si chiede molto spesso: possiamo augurare la vittoria di un imperialismo sullo stalinismo, si può rimanere indifferenti al risultato della lotta che avrebbe come conseguenza di abolire le "basi socialiste" dell'economia sovietica? Si può rispondere molto facilmente domandando in cosa l'esistenza di queste basi costituisce oggi un fattore favorevole per lo sviluppo della rivoluzione mondiale. Si potrebbe anche evidenziare che queste obiezioni dimostrano una mentalità arretrata, che crede all'importanza distaccata di vittorie o di non-sconfitte locali ed isolate per venti o trenta anni, indipendentemente dal processo internazionale.

Ma il fatto essenziale si trova altrove. Si trova nell'ignoranza completa dell'ABC del marxismo di cui danno prova le persone  che credono che all'epoca attuale una rivoluzione in tempo di guerra sia possibile all'interno di un paese senza che ciò implichi un'alta temperatura rivoluzionaria mondiale e senza che la vittoria di questa rivoluzione trascini anche per gli altri paesi una crisi capace per lo meno di legare le mani ad un intervento contro-rivoluzionario. È nei fatti questa considerazione che ha dettato o che doveva dettare la nostra politica disfattista all'interno dei paesi in guerra contro l'Asse. È anche questa fiducia nelle nostre idee e nella solidarietà internazionale del proletariato che deve guidare la nostra politica in URSS.

Beninteso, non si tratta di sostituire ora e su scala internazionale la propaganda difensista con la propaganda disfattista. La parola d'ordine della "rivoluzione indipendentemente da ogni rischio di sconfitta" è una parola d'ordine che ha un significato principalmente per la sezione russa. Per l'Internazionale in generale sarebbe inopportuno e pericoloso sottolineare in un modo speciale e di farne un punto centrale di propaganda. Senza mai perdere di vista la solidarietà internazionale del movimento, il proletariato di ogni paese deve lottare contro i suoi propri carnefici. Quel che importa oggi per L'Internazionale, è di avere una concezione chiara della natura dello stalinismo e di sbarazzarsi della deprecabile confusione creata dalla coesistenza mostruosa delle parole d'ordine "rivoluzione contro la burocrazia" e "difesa dell'URSS".

 

Nota sulla tesi Lucien, Guérin, Darbout

 

urss-20-731-.jpgQuesta tesi, con delle conclusioni pratiche con le quali siamo d'accordo (abbandono del "difensismo", disfattismo rivoluzionario in URSS), presenta accanto a delle lacune (mancanza di giustificazione del disfattismo, mancanza di un saggio di legame organico tra il fenomeno  della degenerazione russa e la società capitalista), alcuni errori a nostro avviso molto essenziali perché se ne dicano poche parole.

Dopo aver, a giusto titolo, criticato il giuridicismo dovuto alla formula delle leggi invece di osservare la realtà economica, e dopo aver detto in sostanza che la collettivizzazione dell'economia sovietica non significa nulla a causa dell'espropriazione politica del proletariato, i compagni L., G., e D. scrivono a proposito delle nazionalizzazioni in Europa orientale "che esse non differiscono assolutamente da quelle che possiamo vedere in Europa occidentale". Ora, precisamente in questo caso è l'espropriazione politica della borghesia che rende queste nazionalizzazioni significative: la monopolizzazione, effettuata o in corso, del potere politico da parte dei partiti comunisti in questi paesi, rende la burocrazia staliniana padrona dei mezzi di produzione nazionalizzati, allo stesso modo, in generale, come lo è la burocrazia russa, benché in modalità diverse. Il che mostra ancora una volta che lo stalinismo persegue in questi paesi, sotto una prospettiva di breve i medio periodo, la politica che conduce su scala mondiale con una prospettiva di lungo termine, e cioè, una politica di assimilazione.

urss-20-211-.jpgIl che ci porta ad un altro errore fondamentale dei compagni L., G., e D., consistente nell'identificare l'antitesi stalinismo-imperialismo con non importa quale antitesi imperialista; il che implica un'indifferenza in quanto al regime interno dei paesi occupati dall'Armata rossa e alle differenze fondamentali, della proposizione  propria dei compagni, che presenta con quella dei paesi occupati dall'imperialismo; il che ci lascia completamente al buio quando si tratta di sapere perché lo stalinismo si appoggia, nella sua lotta contro gli imperialisti, sul movimento operaio degli altri paesi. I compagni comprendono perfettamente che il regime sovietico non è socialista e che non è obbligato per questo ad essere capitalista; perché non possono comprendere che la sua politica estera, per non essere rivoluzionaria, può ben essere non capitalista, e cioè anticapitalista? È per questo il termine "espansionismo burocratico" è di molto preferibile a quello di "imperialismo", sfumato in non importa quale modo.

 

Maximilien Rubel

 

 

[Traduzione di Ario Libert]

 

 

  

LINK al post originale:
Sur le régime et contre la défense del l'U.R.S.S.

 

LINK interni:

Maximilien Rubel, Karl Marx e il socialismo populista russo, (1947)

 

 

LINK al progetto di scannerizzazione totale della rivista Socialisme ou Barbarie:

Socialisme ou Barbarie

    

 

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23 maggio 2010 7 23 /05 /maggio /2010 05:00

Repin.-Arresto-e-perquisizione-di-un-populista.jpg

 

Karl Marx e il socialismo populista russo

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 Maximilien Rubel  

I. Storia di una dimenticanza storica

Plekhanov.jpg
All'inizio degli anni 80 del XIX secolo, la colonia dei rivoluzionari russi rifugiata a Ginevra accolse nei suoi ranghi molte nuove reclute che avevano svolta la loro militanza iniziale nel primo movimento socialista  che conobbe la Russia degli zar: il populismo (narodnicestvo) [1]. (Quattro di questi nuovi arrivati saranno, alcuni anni più tardi, i pionieri della socialdemocrazia russa di orientamento marxista: Georgij Valentinovič Plechanov, Pavel Axelrod, L. Deutsch e Vera Zasulich [2].
 
Axelrod.gifPrima della loro conversione al Marxismo, essi erano appartenuti ad una delle organizzazioni illegali del movimento populista che, nel 1879, dopo il mancato attentato dell'istitutore A. Soloviev contro Alessandro II, si era scisso in due frazioni: il gruppo detto Frazione Nera (Tchnorny Perediel) e quello di Volontà del popolo (Narodnaia Volia). Unanimi sullo scopo da raggiungere- il loro programma era insomma la realizzazione del socialismo agrario sognato da tutti gli ideologi populisti, da Herzen a Cernyševkij ed a Lavrov - essi erano in disaccordo sui metodi di lotta da impiegarsi nella prospettiva di rovesciare il regime zarista.

Lev-Grigoriyevich-Deich--alias--Leo-Deutsch.gifMentre il primo gruppo voleva rimanere fedele alle tradizioni populiste intensificando la propaganda nei villaggi e rifiutando di dare alla loro andata verso il popolo un significato politico, il secondo proclamava la necessità di entrare nella lotta diretta sistematicamente condotta  contro l'autorità, per accelerarne l'affondamento e raggiungere così un obiettivo politico importante: la convocazione di un'assemblea costituente.

Vera-Zasulich.jpgI quattro emigrati si erano uniti alla frazione dello Tchony Perediel. Espatriando, non pensavano di mettersi al riparo delle persecuzioni poliziesche e rinunciare alla lotta rivoluzionaria e non era un caso se essi avevano scelto la città di Ginevra come luogo di incontro. Tranne Pavel Axelrod, nessuno di essi aveva ancora raggiunto la trentina. Essi provavano il bisogno di istruirsi e di conoscere il movimento socialista occidentale il cui teorico di genio aveva acquisito nei mezzi universitari russi una reputazione prodigiosa. È a Ginevra che si era formata la sezione russa dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori, sezione che, sin dal 1870, aveva incaricato Karl Marx di rappresentarla in seno al Consiglio generale di Londra. Certo, l'Internazionale aveva allora cessato di esistere, ma era noto che Marx continuava a intrattenere con gli ambienti rivoluzionari russi di Ginevra dei rapporti stretti e ad intervenire nelle polemiche tra i discepoli del defunto Bakunin ed i "marxisti".

Chernychevsky.jpgI giovani populisti parteciparono attivamente alle discussioni tra i diversi gruppi in un'atmosfera di libertà che essi non avevano conosciuto prima di aver abbandonato la loro patria. Un solo problema turbava i loro spiriti nutriti delle idee e dell'idealismo di Chernychevski (il cui messaggio era loro giunto dalle più remote profondità della Siberia), di Lavrov, di Mikailovski e di Tkatchev: i destini della Russia. La lettura del Capitale-tradotto in russo sin dal 1872- la censura zarista avendone autorizzata la pubblicazione, "benché l'autore fosse un socialista convinto, il rigore scientifico dell'opera lo rende difficilmente accessibile al lettore comune"- doveva far vacillare le nazioni dell'Occidente sulla via verso il socialismo. Non era logico che essi attribuissero a se stessi questa frase della prefazione del Capitale destinata al lettore tedesco, scettico in quanto allla sorte riservata al suo paese dall'"ineluttabile necessità" dello sviluppo capitalista, frase che terminava con l'adagio latino: De te fabula narratur, è la tua storia che racconto? E, qualche riga oltre, Marx non intendeva la Russia quando affermava che "il paese più sviluppato industrialmente non fa che mostrare al paese meno sviluppato l'immagine dell'avvenire che lo aspettava?".  E più in là ancora, non è della Russia che si parlava quando, tra l'altro, si leggeva: "Ogni nazione può e deve andare alla scuola dagli altri. Anche quando una società ha scoperto la legge naturale, che presiede al suo movimento... non può  né superare con un salto né abolire con dei decreti le fasi del suo sviluppo; ma può abbreviare e alleviare le doglie del proprio parto"?
 
Lavrov.jpgI populisti si sentivano schiacciati sotto il peso del pesante apparato di ragionamenti scientifici con il quale Marx esponeva la legge bronzea dell'evoluzione sociale. Eppure,- la traduzione russa del Capitale non aveva come autori due populisti di chiara fama, Nikolai-on, (pseudonimo di Nikolai Danielson); e Lopatin, noti per la loro incrollabile fede nel genio eccezionale del contadino russo? Non era noto, inoltre, che Piotr Lavrov, militante intrepido nel corso degli anni 1860-70 dell'organizzazione populista rivoluzionaria Zemlia i Volia (Terra e Libertà), autore anonimo delle Lettres historiques écrites en Sibérie, la cui influenza era stata profonda sull'intellighentia, viveva,  dopo aver preso la strada dell'esilio e collaborato ai progetti dell'insegnamento popolare elaborarti dalla Comune del 1871, in intimità di Marx e  di Engels, a Londra, dove dirigeva la rivista socialista Vperiod! (Avanti!) nel migliore spirito del populismo [3]? E nella postfazione della seconda edizione del Capitale, così opprimente per ogni populista bruciante dal desiderio di vedere trionfare la sua causa, Marx non parlava di N. Chernychevski, apostolo e martire del populismo, come del "grande erudito e critico russo"?
Nikolai-Konstantinovich-Mikhailovsky.jpgNon è affatto improbabile che i nostri quattro populisti siano espatriati con il solo pensiero di trovare, a Ginevra, una risposta definitiva a tutti questi interrogativi sconcertanti e che, una volta in questa città, essi abbiano preferito sollecitare Marx, per ricevere la soluzione del problema che era la loro ragione di vivere e di lottare: la Russia può seguire la propria via rivoluzionaria  differente da quella del mondo occidentale e del suo mostruoso sistema economico?
Marx.jpgIl 16 febbraio 1881, Vera Zasulic inoltrò, a nome del suo gruppo, una lettera a Karl Marx in cui ricordò, innanzitutto, la grande popolarità  di cui godeva il suo Capitale in Russia, i cui rari esemplari sfuggiti al sequestro erano "letti e riletti dalla maggior parte delle persone più o meno istruite [4]" di questo paese. "Ma, scriveva, quel che ignorate probabilmente è il ruolo che il vostro Capitale svolge nelle nostre discussioni sulla questione agraria in Russia e sulla nostra comune rurale". Le idee di Chernychevski, lungi dall'essere state dimenticate dopo la sua partenza per l'esilio, conobbero al contrario un successo crescente. In quanto al problema della comune rurale: la vita e la morte del "partito socialista" russo dipende dalla soluzione che gli si dà. Da questo modo di vedere o da un altro [5], su questa questione dipende anche il destino personale dei nostri socialisti rivoluzionari". È vera Zasulic a porre l'alternativa seguente in cui enuncia con una perfetta chiarezza e con il massimo di concisione le prospettive teoriche dello sviluppo economico e sociale della Russia: "Delle due una: o questa comune rurale, affrancata dalle esigenze smisurate del fisco, dai pagamenti ai signori e dall'amministrazione arbitraria, è capace di svilupparsi sulla strada socialista, cioè ad organizzare a poco a poco la sua produzione e la sua distribuzione dei prodotti su basi collettivistiche. In questo caso il socialista rivoluzionario deve sacrificare tutte le sue forze all'affrancamento della comune ed al suo sviluppo.
Danielson.jpg"Se al contrario la comune è destinata a perire, non resta al socialista, in quanto tale, che dedicarsi ai calcoli più o meno malfondati per scoprire in quante decine d'anni la terra del contadino russo passerà dalle sue mani in quelle della borghesia, in quante centinaia di anni, forse, il capitalismo raggiungerà in Russia uno sviluppo simile a quello dell'Europa Occidentale. Dovranno allora fare la loro propaganda unicamente tra i lavoratori delle città che saranno continuamente diluiti nella massa dei contadini, la quale a seguito della dissoluzione della comune, sarà gettata sul lastrico delle grandi città alla ricerca del salario".
Das-Kapital.jpgLa lettera mette in seguito in gioco i Marxisti (sic!) che basando le proprie affermazioni sull'autorità del loro maestro, dichiarano che "la comune rurale è una forma arcaica che la storia, il socialismo scientifico, in una parola tutto quanto c'è di più indiscutibile, condannano a perire". Quando si obietta a questi sedicenti discepoli di Marx che quest'ultimo, in Il Capitale (tomo I), non tratta della questione agraria e non parla della Russia e che, di conseguenza, la condanna della comune contadina non potrebbe essere dedotta dalle teorie marxiane, la replica è la seguente: Marx l'avrebbe detto, se parlava del nostro paese. Terminando, Vera Zasulich chiede a Marx, con manifesta insistenza, di esporre, magari se non in modo dettagliato, almeno sotto  forma di lettera - che verrebbe pubblicata in Russia - le sue idee sul "possibile destino" della comune rurale e sulla "teoria della necessità storica per tutti i paesi del mondo di passare attraverso tutte le fasi della produzione capitalista".
Marx, ha risposto a questa lettera?
Marx-e-Lopatin.jpgTrenta anni trascorsero prima che questa domanda fosse posta per la prima volta: nel 1911, David Riazanov, ordinando le carte di Marx conservate da Paul Lafargue, scoprì diversi fogli in-ottavo pieni di una scrittura minuta, familiare al ricercatore sperimentato. Vi erano numerose cancellature, numerosi passaggi intercalati ed aggiunti, poi di nuovo cancellati. Riazanov comprese presto che si trattava di diverse brutte copie di una risposta scritta da Marx alla lettera di Vera Zasulic del 16 febbraio 1881. Una di queste brutte copie reca la data 8 marzo 1881 e sembrava essere la risposta definitiva di Marx.
Spinto da una legittima curiosità, Riazanov scrisse innanzitutto a Plechanov per chiedergli se avesse conoscenza di una risposta di Marx alla lettera di Vera Zasulich. Plechanov gli rispose di non saperne nulla. Il risultato fu identico, quando Riazanov pose la stessa domanda a Vera Zasulich e, probabilmente anche a Pavel Axelrod. Nessuno degli antichi membri del Tchony Perediel si ricordava più se Marx aveva risposto alla loro domanda che, come diceva Vera Zasulic nella lettera che aveva indirizzato in nome dei suoi amici, era per essi "una questione di vita o di morte".
Ora, non è che dodici anni più tardi che l'enigma fu risolto, la lettera di Marx essendo stata ritrovata negli archivi di Pavel Axelrod, a Berlino [6].
Engels.jpgChe gli antichi populisti e tra di essi la destinataria della lettera di Marx abbiano dimenticato in modo così definitivo il fatto che l'autore di Il Capitale aveva preso posizione nei confronti del narodnicestvo non può mancare di meravigliare. Così Riazanov si vede obbligato a riconoscere "che questa dimenticanza, proprio a causa del particolare interesse che una simile lettera doveva suscitare, possiede uno strano carattere ed offre probabilmente allo psicologo specialista uno degli esempi più notevoli dell'insufficienza straordinaria del meccanismo della nostra memoria [7].
Senza invadere il campo dello psicologo professionista, possiamo tuttavia formulare alcune ipotesi suscettibili di darci la chiave di un oblio che saremmo tentati di assimilare ad una cospirazione del silenzio.  
Tkacev.jpgMa prima  di azzardare una di queste ipotesi, potremmo, in tutta logica, supporre che la risposta che Marx aveva inviato alla sua interrogatrice non aveva fatto che confermare le argomentazioni per mezzo delle quali i "marxisti" russi di Ginevra, forti dell'autorità del loro maestro, avevano demolito le tesi o piuttosto le illusioni dei populisti. Questi ultimi non avrebbero, di conseguenza, appreso nulla di nuovo nella lettera di Marx che, diamo alla nostra supposizione il massimo di verosimiglianza- si sarebbero attenuti alle teorie scientifiche generali sviluppate nella sua opera principale. Questa supposizione sembra tanto più legittima in quanto sapiamo che, due anni appena dopo l'invio della Lettera di Vera Zasulich, quest'ultima ed i suoi amici del Tchorny Perediel erano diventati marxisti.
Così, nella prefazione che egli scrisse per la traduzione russa di Socialismo utopistico e Socialismo scientificodi Frederich Engels (Ginevra, 1884), Vera Zasulich segnala, con un tono di assoluta convinzione, l'irresistibile processo di disgregazione della comune rurale russa la cui autonomia ancestrale era visibilmente in fase di sbriciolarsi a profitto del contadino ricco, il kulak, facendo apparire la tendenza crescente verso un'accumulazione capitalista dovuta all'estensione della grande industria. Il destino della Russia essendo indissolubilmente legato a quello dello sviluppo dell'Europa occidentale, nulla poteva più arrestare questa decomposizione del mir [8], a meno che una rivoluzione socialista in Occidente, ponendo anche termine al capitalismo in Oriente, trovi ancora alcuni residui dell'antica proprietà comunale e li salvino dalla sparizione totale. Quest'ultima restrizione era, sotto la penna di Vera Zasulich, come unica concessione che era disposta a fare al populismo che aveva da poco abbandonato.  

Herzen-con-Ogarev.jpg

Da parte sua, Plechanov, nel suo libro Le nostre differenze del 1883, polemizzando con il populista Tkacev, ruppe deliberatamente con il suo passato di populista: era diventato, con Vera Zasulich e Pavel Axelrod, il fondatore della prima organizzazione marxista russa, il gruppo detto dell'Emancipazione del Lavoro da cui nascerà più tardi il partito socialdemocratico russo. Oramai, non è più il contadino che sarà considerato come il motore umano della futura rivoluzione russa, ma l'operaio delle città.

II. Abbozzo di una teoria dello sviluppo storico della Russia

Volgiamo ora la nostra attenzione verso le copie di prova della lettera-risposta di Karl Marx così come esse furono rese pubbliche nel 1925, ed esaminiamo se queste note contengono gli elementi di una teoria sullo sviluppo economico e sociale della Russia, e se questi elementi erano di natura a fornire una giustificazione teorica al rigetto delle concezioni populiste così come fu fatto dagli ex-populisti, diventati marxisti.  

Su quattro, tre sono molto più lunghe della lettera definitiva stessa, una, quella che reca la stessa data della lettera, è più corta di quest'ultima. Sulle tre copie di prova di grandi dimensioni, una è circa undici volte più lunga, e le due altre sono circa cinque volte più lunghe della lettera propriamente detta, contando le numerose ripetizioni [9]. 

Cerchiamo di evidenziare dall'insieme di questi abbozzi di una teoria sociologica dello sviluppo della Russia le principali tesi esposte da Marx in risposta alle domande formulate nella lettera di Vera Zasulich.  

1.- La genesi del capitalismo ed il problema dello sviluppo economico della Russia.  

Alexander_Herzen_by_Vallotton.jpgAlla base della genesi del modo di produzione capitalista, c'è, ricorda Marx citando il Capitale, "la separazione del produttore dai mezzi di produzione" e, più particolarmente, "l'espropriazione dei coltivatori". Questo processo si è compiuto sino ad ora, nel modo più radicale in Inghilterra, ma "tutti gli altri paesi dell'Europa occidentale percorreranno lo stesso movimento".

Marx sottolinea con particolare insistenza il fatto di aver "espressamente" ristretto la "fatalità storica" di questo movimento ai paesi dell'Europa occidentale [10].  

Già nella sua replica a Nikolai Michajovskij, che egli redasse in francese nel 1877, e che si astenne a rendere pubblica - essa fu scoperta dopo la sua morte e pubblicata nel 1884- Marx si era opposto contro il tentativo dei suoi interpreti di presentare il suo abbozzo sulla genesi del capitalismo nell'Europa occidentale come una "teoria storico-filosofica del cammino generale, fatalmente imposto a tutti i popoli, qualunque siano le circostanze storiche in cui essi si trovino posti". Per confondere questi esegeti troppo zelanti, Marx aveva richiamato alcuni passaggi del Capitale che trattavano le sorti dei plebei dell'antica Roma. "Erano originariamente dei contadini liberi, che coltivavano, ognuno per proprio conto, le loro piccole particelle. Nel corso della storia romana, essi furono espropriati. Lo stesso movimento che li separò dai loro mezzi di produzione e di sussistenza implicò non soltanto la formazione di grandi proprietà fondiarie, ma anche quella di grandi capitali monetari. Così un bel mattino c'erano da una parte, degli uomini liberi denudati di tutto tranne che della loro forza lavoro, e dall'altra, per sfruttare questo lavoro, i detentori di tutte le riccezze acquisite. Cosa accadde? I proletari romani divennero, non dei lavoratori salariati, ma un mob fannullone più abietto degli odierni poor white dei paesi meridionali degli Stati Uniti; ed accando ad essi si dispiegò un modo di produzione non capitalista, ma schiavistico. Dunque, degli avvenimenti di un'analogia notevole, ma che avvengono in ambienti storici differenti, portarono a dei risultati del tutto disparati. Studiando ognuna di queste evoluzioni a parte, e comparandole in seguito, troveremo facilmente la chiave di questi fenomeni, ma non vi riusciremmo mai con il passe-partout di una teoria storico-filosofica la cui suprema virtù consiste nell'essere sovrastorica" [11].

È dunque nei paesi industrializzati, ed in nessuna altra parte, che la trasformazione dei mezzi di produzione individuali in mezzi di produzione "socialmente concentrati" e la sostituzione della proprietà privata capitalista alla proprietà privata fondata sul lavoro personale assumendo l'aspetto di un'implacabile legge storica.

In quanto alla Russia, non si pone la questione di una simile sostituzione, per la semplice ragione che l aterra posseduta dai contadini russi "non è e non è mai stata la proprietà privata del coltivatore" [12]. Di conseguenza, se esiste una necessità storica della dissoluzione del Mir, essa è indipende dalle leggi dello sviluppo economico in Europa occidentale. Affinché il capitalismo divenga anche il destino della Russia, bisognerà che la proprietà comune si trasformi in proprietà privata.

Repin.-Studente-nichilista.jpg

2. - I tipi arcaici della proprietà comune.  

In quasi tutte le copie di prova, Marx fa allusione ai diversi tipi arcaici della comune rurale ai quali aveva sempre dedicato una particolare attenzione, le sue vedite a questo proposito evolvevano a mano a mano che studiava le opere degli specialisti in questa materia, come Haxthausen, Maurer, Henry Maine, Morgan, ecc. E così, egli ancor prima di aver letto questi autori, parla con poca simpatia del sistema di villaggio dell'India, vedendovi il fondamento del dispotismo orientale [13], mentre, in seguito, rimase ammirato davanti alla tenace vitalità di queste comunità di villaggio che offrivano, al contrario del caos della divisione sociale del lavoro ed al dispotismo della divisione manifatturiera del lavoro sotto il regime capitalita, "l'immagine di un'organizzazione del lavoro sociale conformemente ad un paino e ad un'autorità" [14].

È soprattutto dopo aver letto l'opera di Georg Ludwig von Maurer sulla comune tedesca che Marx concepì l'idea estremamente favorevole di questa istituzione arcaica, giungendo a vedervi la prefigurazione della futura forma dell'organizzazione economica e sociale. Questa svolta del suo pensiero si verifica nella sua corrispondenza con Engels, che egli mette a corrente sull'impressione lasciatagli dalla lettura di Maurer. Marx vi trovava una conferma delle sue proprie tesi, soprattutto che la proprietà privata è posteriore al comunismo primitivo; le forme di proprietà asiatiche ed indiane sono le prime in Europa. "In quanto ai Russi, l'ultima traccia di una pretesa of originality sparisce egualmente, anche in this line. Ciò che resta loro, è di conservare ancor oggi delle forme che i loro vicini hanno da lungo abbandonato" [15] (14 marzo 1868).

Poi, sempre a proposito dell'opera di Maurer: "Avviene per la storia umana quanto accade per la paleontologia. A causa di un certo judicial blindness, le migliori teste non si accorgono, per principio, delle cose che si trovano davanti al loro naso. Più tardi, giunto il momento, ci si accorge che i fatti non percepiti rivelano ovunque ancora le loro tracce. La prima reazione contro la rivoluzione francese ed i lumi che essa apportava fu naturalmente di giudicare tutto da un punto di vista medievale, romantico... La seconda reazione - quella che corrisponde all'orientamento socialista, benché i suoi rappresentanti eruditi non ne abbiano affatto coscienza- consiste nel guardare, oltre il medioevo, verso i tempi primitivi di ogni popolo. Questi ricercatori sono allora sorpresi di scoprire nei fenomeni più antichi i fatti più nuovi..." (25 marzo 1868).  

Morgan.jpgNegli abbozzi delle sue lettere a Vera Zasulich, Marx insiste sulle idee di Maurer, e cita Lewis Henry Morgan in appoggio della tesi secondo la quale la comune russa sia fattibile. Infatti, una delle circostanze favorevoli alla sua conversione è, secondo Marx, che il sistema capitalista occidentale- a cui essa ha avuto la fortuna di sopravvivere, quando era intatto- si trova- si trova oramai in stato di crisi permanente, crisi che non potrà finire che con la sparizione del sistema capitalista e con un ritorno delle società moderne al tipo "arcaico" della proprietà comune, forma in cui- come dice un autore americano [16], tutt'altro che sospetto in quanto a tendenze rivoluzionarie... - "il nuovo sistema" a cui la società moderna tende "sarà una rinascita (a revival) in una forma superiore (in a superior form), di un tipo sociale arcaico". E Marx aggiunge: "Dunque, non bisogna lasciarsi troppo spaventare dalla parola arcaico".

Così la posizione teorica di Marx nei confronti delle forme primitive del comunismo agrario, contrassegnata innanzitutto dall'apprezzamento negativo della loro importanza e delle loro virtualità, è evoluto, grazie ad una migliore conoscenza della letteratura concernente specialmente questa materia, verso una concezione nettamente positiva del loro ruolo nello sviluppo storico delle società umane. Questa evoluzione del pensiero di Marx si esprime chiaramente in una frase di uno dei suoi abbozzi in cui egli sostiene che "i popoli presso i quali (la produzione capitalista) ha avuto il suo maggiore esordio in Europa e negli Stati Uniti d'America non aspirano che a spezzare le loro catene sostituendo la produzione capitalista con la produzione cooperativa e la proprietà capitalista con una forma superiore di tipo arcaico della proprietà, e cioè la proprietà comunista" [17].

Repin--Unexpected.jpg

3. - Le prospettive della comune rurale russa.

Mentre si apprestava a rispondere a Vera Zasulich, Marx possedeva delle conoscenze estese sulla situazione economica e sociale della Russia. N. F. Danielson, uno dei principali teorici populisti- pubblicava i suoi articoli ed opere con lo pseudonimo di Nicoali-in- Traduttore di Il Capitale, era in Russia, il suo corrispondente più fedele e gli inviava regolarmente dei documenti- articoli di stampa, materiali, statistiche, opere, ecc. - che Marx aveva intenzione di utilizzare ampiamente per lo studio che pensava di dedicare alla teoria della rendita fondiaria, nei successivi volumi del suo Il Capitale [18] Tutti questi materiali erano in russo, e Marx si era messo a studiare questa lingua sin dal 1869, con un accanimento molto pregiudizievole per la sua salute, già molto compromessa [19]. A partire dal 1873, seguì attentamente le discussioni tra liberali e populisti a proposito dell'obscina e, a proposito di una polemica che aveva portato allo scontro, nel 1856, il filosofo liberale Georgij Vasil'jevič Čičerin ed il giurista slavofilo Bielïayev, Marx scrisse a Danielson: "Il modo in cui questa forma di proprietà si è creata (storicamente) in Russia è, naturalmente, una questione di second'ordine e non inficia in nulla l'importanza di questa istituzione... Inoltre, ogni analogia parla contro Čičerin. Come è possibile che in Russia quest'istituzione sia stata introdotta come una misura puramente fiscale, come un fenomeno accessorio della servitù, mentre ovunque è nata naturalmente ed ha formato una fase necessaria dello sviluppo dei popoli liberi?" [20].

Preparando la sua risposta ai rivoluzionari russi rifugiati a Ginevra, Marx notava con una singolare applicazione tutti gli argomenti favorevoli alle speranze ed attese dei populisti, non senza segnalare i pericoli che minacciavano la sopravvivenza della comune contadina russa. Quest'ultima, grazie ad un concorso unico di circostanze, è stabilita su scala nazionale e potrebbe svilupparsi direttamente come elemento della produzione collettiva nazionale, mettendo a profitto le conquiste economiche, tecniche e sociali dell'Europa occidentale. "Essa si trova così posta in un ambiente storico in cui la contemporaneità della produzione capitalista le presta tutte le condizioni del lavoro collettivo. È in grado anche di incorporare le acquisizioni positive elaborate dal sistema capitalista senza passare attraverso le sue forche caudine", e ciò tanto più facilmente in quanto in quanto possiede l'esperienza secolare del contratto dell'artel [21] suscettibile di affrettare la transizione dal lavoro parcellare al lavoro cooperativo. Molti caratteri specifici distinguono inoltre la comune russa dai tipi di comunità anteriori: non poggia come quest'ultime, sulla parentela naturale dei suoi membri; è dunque più capace di adattarsi e di estendersi al contatto con degli estranei. Poi, ogni coltivatore possiede la sua casa ed il suo cortile individuali. Infine, la terra arabile, pur restando proprietà comunale, si divide periodicamente tra i membri della comune contadina. Questi ultimi "ammettono uno sviluppo dell'individualità, incompatibile con le condizioni delle comunità più primitive".  

Tuttavia, questo dualismo inerente alla natura della comune contadina russa - da una parte: la proprietà comune del suolo, dall'altra: la proprietà (casa e cortile) esclusivo della famiglia individuale e l'appropriazione dei frutti - racchiude dei germi della sua decomposizione. Infatti, l'accumulazione progressiva della ricchezza mobiliare dovuta al lavoro parcellare "introduce degli elementi eterogenei provocanti all'interno della comune dei conflitti di interesse e delle passioni adatte innanzitutto a erodere la proprietà comune delle terre arabili, in seguito quella delle foreste, dei pascoli, terre marginali, ecc., le quali, una volta convertite in annessioni della proprietà privata, alla lunga le soccomberanno".

A tutto ciò viene ad aggiungersi l'influenza nefasta di un ambiente storico sempre più ostile allo sviluppo spontaneo della comune rurale, influenza in grado di poter precipitare la disgregazione di questa istituzione plurisecolare. Lo Stato russo opprime, dopo la cosiddetta emancipazione dei servi, questa comune da ogni specie di esazioni, cercando di acclimatare in Russia "come in una serra" le forme più sviluppate del sistema capitalista, a spese dei contadini.

Repin--rifiuto-della-confessione.jpg

4. - Un'alternativa fatale

Abbiamo visto che, nella sua replica a Mikhailovsky, rimasta inedita mentre era vivo, Marx si era opposto ad un'interpretazione abusiva della sua analisi del capitalismo occidentale e contro la tendenza a trasformare le sue teorie in una dottrina storico-filosofica universalmente valida. Da allora, aveva riassunto il risultato delle sue ricerche effettuate "durante molti anni" nella seguente formula lapidaria: "Se la Russia continua a proseguire lungo il sentiero seguito dal 1861, essa perderà la più bella occasione che la storia abbia mai offerto ad un popolo, per subire tutte le peripezie del regime capitalista". E poco dopo, aveva espresso questo ragionamento ipotetico nei seguenti termini: "Se la Russia tende a diventare una nazione capitalista sul modello delle nazioni dell'Europa occidentale- e durante gli ultimi anni si è data da fare molto in questo senso - non riuscirà senza aver preventivamente trasformato una buona parte dei suoi contadini in proletari; e dopo di ciò, condotta nel girone del regime capitalista, ne subirà le spietate leggi come altre nazioni profane" [22].

Nei suoi appunti per la risposta ai populisti, Marx presenta questa ipotesi sotto forma di un'alternativa, derivante dal carattere dal carattere dualistico "innato" della comune rurale: o "il suo elemento di proprietà prevarrà sul suo elemento collettivo, o questo si impone su quello. Tutto "dipende dall'ambiente storico nel quale essa si trova". Esiste dunque non una "fatalità storica" né in un senso né in quello opposto: né la dissoluzione della comune rurale né la sua sopravvivenza sono fatali, considerate isolatamente. Soltanto quest'alternativa lo è.

Ora, per decidere del probabile futuro della comune, Marx, fedele ai principi etici così come li aveva enunciati nelle sue Tesi su Feuerbach, sposta il problema dal campo della teoria in quello della pratica,- della pratica rivoluzionaria: "Qui non si tratta più, egli sottolinea, di un problema da risolvere; si tratta del tutto semplicemente di un nemico da battere. Non è più dunque un problema teorico... Per salvare la comune russa, occorre una Rivoluzione russa... Se la rivoluzione si fa al momento opportuno, se essa concentra tutte le sue forze, per assicurare il libero sviluppo della comune rurale, quest'ultima si svilupperà presto come elemento rigeneratore della società russa e come elemento di superiorità sui paesi asserviti dal regime capitalista". Una volta assicurate le sue nuove assise, la comune rurale russa "può diventare il punto di partenza diretto del sistema economico al quale tende la società moderna e cambiare pelle senza cominciare dal suo suicidio".

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25 febbraio 2010 4 25 /02 /febbraio /2010 18:25

Materialismo dialettico e psicanalisi secondo Wilhelm Reich



di Thierry Simonelli

Apparso in: Actuel Marx N° 30, Les rapports sociaux de sexe, [I rapporti sociali di sesso]
Parigi, secondo semestre 2001, pp. 217-234.

freud.jpgSecondo Bernard Görlich [1], il freudo-marxismo non sarebbe che la realizzazione del progetto freudiano di una "psicologia del profondo" applicata alle scienze sociali [2]. Il freudo-marxismo in generale e quello di Reich in particolare, si concepirebbero come dei tentativi che "per mezzo dell'integrazione della psicanalisi alla teoria sociale marxista volevano soprattutto forgiare uno strumento per la spiegazione del fascismo nascente". Questa interpretazione ci sembra troppo formale e troppo generale per caratterizzare il freudo-marxismo. È evidentemente impossibile sviluppare la storia del freudo-marxismo nel quadro di questo testo. Ci atteremo al solo pensiero di Wilhelm Reich e mostreremo, contro Görlich, che il freudo-marxismo non si riduce ad una psicanalisi applicata, esclusivamente determinata dalla spiegazione sociologica del fascismo.

Marx.jpgIl nostro intento sarà quello di mostrare che il freudo-marxismo di Reich nasce da una vera articolazione teorica dei pensieri di Freud e di Marx; articolazione il cui senso e portata superano il quadro storico della critica del fascismo. In quanto alla questione di una psicanalisi applicata ai fenomeni sociali, la posizione di Reich è chiara e del tutto contraria alle affermazioni di Görlich. Il freudo-marxismo di Reich non è d'altronde toccato dalle critiche che Marcuse e Adorno formulano nei confronti del neo-freudismo di Karen Horney e di Fromm. Il Freudo-marxismo di Reich non è né un neo-freudismo né una concezione culturalista della psicanalisi. Al contrario, egli anticipa, in una certa misura, la "teoria critica" della Scuola di Francoforte e degli psicanalisti vicini alla Scuola di Francoforte come Alexander Mitscherlich e Alfred Lorenzer.


Alexander-Mitscherlich.jpgPer meglio comprendere il legame che Reich stabilisce tra Freud e Marx, limiteremo la nostra analisi a quel che consideriamo essere il testo originario del freudo-marxismo: Materialismo dialettico e psicanalisi   [3]. Lungi dal voler dare qui un giudizio definitivo sul "caso Reich", ci limiteremo ad abbozzare un'immagine più giusta della sua concezione di freudo-marxismo della psicanalisi.

Nell'epilogo di Eros e civiltà [4], Herbert Marcuse sviluppa una critica virulenta del neo-freudismo di Horney, Fromm, Thompson e Sullivan. La sua analisi parte da una constatazione epistemologica. La psicanalisi è nata da una prassi, condizionata da una relazione tra due individui. La teoria psicanalitica non ha altro materiale che questo singolare materiale. Sembra dunque di colpo inconcepibile allargare il campo della psicanalisi in modo da farne una psicologia sociale. Oltre a questo limite epistemologico, Marcuse ricorda anche il pessimismo politico di Freud. Secondo Freud, la base repressiva della società si rivela inalterabile e la pratica psicanalitica deve risolversi in una dimissione efficace [5].

Alfred-Lorenzer.jpgIl paziente è guarito quando riesce a "funzionare" in una società malata, senza tuttavia abbandonarvisi. Secondo Marcuse, l'interesse sociologico della psicanalisi non risiede né nelle sue applicazioni né nella sua prassi. Esso si situa a livello della sua teoria, della sua metapsicologia ed anche della sua "metafisica". È nelle sue analisi individuali così come nella riflessione teorica su queste analisi che si situa il vero potenziale critico della psicanalisi. Infatti, essa rivela, senza volerlo, le antinomie sociali in seno allo stesso individuo. Tentare di socializzare i concetti della psicanalisi equivarrebbe a tagliare la psicoanalisi dalle sue possibilità critiche. Inserendo delle nozioni sociologiche nella teoria psicanalitica, la scuola neofreudiana (Fromm, Horney, Sullivan, Thompson)  si rende colpevole di una confusione dei generi e livella la psicanalisi al suo contesto sociale.

La scuola neofreudiana parte dalla constatazione che l'individuo e la sua nevrosi sono, in un'ampia misura, determinati dalle caratteristiche dell'ambiente. Ma strappando l'individuo alla sua storia naturale e eliminando la teoria della libido a beneficio di una psico-sociologia irriflessa, i neofreudiani finiscono con il mascherare questi stessi problemi che vedevano all'origine della sofferenza e della malattia. La teoria delle pulsioni e la teoria della libido sono sostituite con una concezione sociologica dell'individuo che impronta in fin dei conti i suoi concetti alla società criticata. Vi ritroviamo, tra l'altro, i concetti di salute, di efficacia sociale, di riuscita professionale, di gioia del consumo [6]; nozioni che reintroducono i tratti della morale sociale che la psicanalisi era autorizzata a combattere. In questo senso, la snaturalizzazione ed il sociologismo del neofreudismo trasformano, senza volerlo e soprattutto senza saperlo, la cura analitica in una pratica di adattamento sociale cieco. Dopo Marcuse, la sociologizzazione della psicanalisi conduce, paradossalmente, ad un annullamento dell'interesse sociologico della psicanalisi.

Reich.jpgLa lettura di Materialismo dialettico e psicanalisi, evidenzia che nel 1927, quasi trenta anni prima di Eros e civiltà, Reich intravedeva già il problema dell'articolazione della psicanalisi e della sociologia marxista allo stesso modo. In questo testo, Reich evidenzia immediatamente che la psicologia individuale, poggiante su una teoria della libido, cioè su una teoria della natura pulsionale dell'individuo, non deve essere confusa né con una sociologia né con una psicologia sociale. Non bisogna tentare di superare la divisione del lavoro tra sociologia e psicologia da una parte, tra analisi dei fenomeni di massa e dei fenomeni individuali dall'altra. Rifiutando la sociolizzazione della psicanalisi, il freudo-marxismo di Reich evita lo scoglio del neofreudismo. Reich riconosce il pericolo di una confusione dei generi. La sua domanda è la seguente: come avvicinare una psicologia individuale alla sociologia, tenuto conto della differenza fondamentale delle loro categorie? Con questa domanda, Reich entra in urto con le critiche degli psicoanalisti, a quelle dei marxisti ufficiali ed a quelle dei comunisti.

Marcuse-tra-gli-studenti.-Berlino-1968-jLa psicanalisi è nata da una prassi particolare, da un rapporto tra due individui. Da quel momento essa tenta di superare questo quadro, si vede costretta, in quanto psicanalisi, ad estrapolare i suoi concetti, le sue categorie ed il suo metodo. Una riflessione psicoanalitica vertente su dei fatti sociali, culturali o storici si allontana da questa prassi che la legittima. Diventa una semplice teorica applicata e si mette a riprodurre gli errori dell'idealismo. Al di fuori del campo della sua pratica, la psicanalisi rischia di diventare una concezione del mondo psicologista. I fatti sociali, politici e storici sono ridotti a semplici fenomeni psichici e la psicologia, o la psicanalisi, si vedono elevate al rango di scienze universali.

alexander-libro-2.jpgUn problema simile si pone quando, in seno alla stessa analisi psicologica, la psicanalisi tende a render conto dei fenomeni della psicologia delle masse. Perché anche a questo livello, la psicanalisi si allontana dalla sua esperienza specifica e di condanna all'estrapolazione. Così, dei fatti come la coscienza di classe, i movimenti di massa, lo sciopero o la politica restano del tutto inaccessibili all'indagine psicanalitica. Diversamente accade per i fenomeni della psicologia sociale che includono degli aspetti individuali- Reich menziona la questione del Führer- o che poggiano sull'esperienza affettiva individuale.

Alexander-libro.jpgAccanto al problema epistemologico dell'articolazione della psicanalisi al marxismo, dobbiamo tener conto di una seconda difficoltà. Al contrario del marxismo, la psicanalisi non è e non vuole essere una pratica politica. Non si tratta di affermare con ciò che non abbia delle ripercussioni politiche o che non possa adattarsi ad alcuno orientamenti politici. Ma dal punto di vista della pratica politica, nessuna collaborazione tra marxismo e psicanalisi sembra affrontabile a priori. Reich precisa tuttavia a giusto titolo che anche il marxismo non potrebbe essere ridotto ad una pratica politica. All'interno dello stesso marxismo, occorre distinguere tra la prassi politica e la dottrina sociale. Da una parte, marxismo significa prassi militante, dall'altra, scienza e sociologia. Ed è esclusivamente in questo contesto che la psicanalisi potrebbe manifestare la sua affinità con il marxismo [7].

fromm-1.jpgSe il marxismo, in quanto metodo di indagine, si interessa dei fenomeni sociali, la psicanalisi, in quanto metodo di indagine, si interessa dei fenomeni psichici che si verificano in una società. La psicanalisi non è in grado di concepire le cause e gli effetti dell'economia capitalista e della sua organizzazione sociale e politica, così come il marxismo, non permette di capire le nevrosi, l'incapacità di lavorare o di avere delle relazioni sessuali [8].

adorno2.jpgMalgrado le profonde differenze che oppongono la psicanalisi ed il materialismo dialettico, Reich sostiene la possibilità, addirittura la necessità di una collaborazione dei due metodi di indagine. Se il marxismo si caratterizza per la sua preoccupazione di abbracciare la totalità dei fenomeni sociali nei loro rapporti ed interazioni reciproche, deve necessariamente riconoscere l'importanza del fatto psicologico accanto all'apprensione storica, economica e politica del sociale. Nel contesto storico della fine degli anni venti, questa idea doveva necessariamente sedurre i militanti comunisti, messi a confronto con l'interesse crescente della classe operaia per il fascismo.

Come adottare infatti un punto di vista puramente storico, economico o politico, spiegare il fatto che il partito che rappresenta gli interessi degli operai venga all'improvviso malvisto da costoro e ciò non tanto in ragione di una protesta quanto per l'avvento di un entusiasmo che non ha potuto essere né anticipato né spiegato dalla dottrina marxista? Reich risponde a questa domanda in qualità di psicanalista "ortodosso": se i proletari si ingannano sul loro vero destino rivoluzionario è per via di una sessualità repressa che trova nelle figure di punta del fascismo una forma di espressione perversa e particolarmente efficace. Reich inaugura qui un orientamento di ricerca che né Adorno né Marcuse rimetteranno in causa.

Reich tenta dunque di mostrare che la psicanalisi può colmare il vuoto epistemologico del marxismo perché attraverso i suoi fondamenti si concepisce come psicologia dialettica perfettamente compatibile con la dottrina sociale del materialismo storico. Se i marxisti non si interessano alla psicanalisi è perché essa appare loro ad un primo approccio non essere altro che una "scienza borghese" e di conseguenza, una scienza idealista. Secondo i marxisti, la psicanalisi sarebbe una manifestazione della decadenza (Untergang) della borghesia. Ora a questo proposito, Reich evidenzia il fatto che la stessa cosa si possa dire per la dottrina marxista che partecipa essa stessa a questa decadenza della borghesia in vista di sparizione. Non è inoltre che grazie a questa sua iscrizione in questa situazione storica particolare che Marx ha potuto vedere ed isolare la contraddizione che nutre la società.

La psicanalisi condivide la situazione storica e sociale della dottrina marxista. Ciò che la distingue dal marxismo da questo punto di vista, è il fatto che essa mette a nudo la contraddizione sociale all'interno dell'individuo stesso. Per quel che è riguarda il supposto idealismo della psicanalisi, esso evidenzia piuttosto l'ignoranza dei suoi detrattori [9] che la verità della teoria freudiana. Si possono senz'altro trovare degli effetti secondari e delle digressioni idealiste in psicanalisi, ma la stessa cosa è vera per il marxismo. Ora, se ci si rifiuta di giudicare il marxismo unicamente per i suoi errori si deve fare la stessa cosa per la psicanalisi.

FreudÈ in questo senso che bisogna capire il compito programmatico di Materialismo dialettico e psicanalisi: "Il compito di questo trattato consiste nell'analizzare se, ed in quale misura, la psicanalisi di Freud possiede dei legami con il materialismo dialettico di Marx e di Engels" [10]. Per Freud, il comunismo si nutre del fantasma del mutuo amore sottoposto a tutte le ambiguità della "folla artificiale" [11]. Inversamente, per i comunisti, la psicanalisi rappresenta la scienza dei ricchi borghesi nevrotizzati, liberi da ogni vero problema. Questa inoccupazione esistenziale spiegherebbe inoltre l'importanza che la psicanalisi accorda ai problemi sessuali, cioè sui problemi di persone che non conoscono né la fame né la precarietà materiale.

Notiamo tuttavia che nella sua argomentazione, Reich si rivolge meno agli psicanalisti quanto ai marxisti. Perché sarebbe del tutto possibile affrontare allo stesso tempo una interpretazione psicanalitica di questi tipo di pregiudizio. Per i pregiudizi della borghesia reazionaria, Reich non ne fa a meno ad ogni modo [12]. È chiaro che è più prudente con i suoi interlocutori marxisti che con gli psicoanalisti che, come regola generale, fanno parte della borghesia o come Reich stesso della piccola borghesia. La prospettiva dell'indagine diventa più chiara: per Reich, il valore e lo statuto epistemologico della psicanalisi si misurano con il metro del marxismo.

Per dimostrare il carattere materialista e dialettico della psicanalisi e per sottolineare la sua utilità per il marxismo, Reich procede attraverso diverse tappe. Si interessa dapprima alla natura epistemologica della teoria psicanalitica stessa, per sviluppare in seguito la natura dialettica dell'oggetto della psicanalisi, e cioè la vita psichica. Infine enumera i ruoli politici che la psicanalisi potrebbe adottare in seno ad una società socialista.

Il fatto che la psicanalisi sia una psicologia non permette di concludere che essa sia idealistica. La psicanalisi si oppone certamente al materialismo "ingenuo", al materialismo meccanicistico che Reich riconosce presso alcuni critici marxisti. Tuttavia, da questo punto di vista, tutto porterebbe a credere che la teoria marxista stessa sarebbe idealista, perché il materialismo marxiano non somiglia in nulla al materialismo meccanicistico del XIX secolo. Reich ricorda che nella prima tesi su Feuerbach, Marx stesso respingeva questo tipo di materialismo e riconosceva parzialmente il contributo critico dell'idealismo. Marx vi fa notare infatti che il materialismo tradizionale si limita a considerare la realtà sotto forma d'oggetto o di intuizione. L'idealismo ha tuttavia permesso di comprendere in quale misura quest'oggetto non rileva soltanto del dato naturale, ma anche della "produzione umana". Per essersi arrestato ad una concezione astratta, intellettuale di questa produttività, l'idealismo ha contribuito ad un superamento del materialismo "ingenuo" e di conseguenza, alla nascita del materialismo dialettico.

marcuse-.jpgMarx non respingeva inoltre affatto la realtà del pensiero. Se ci si attiene alla concezione marxiana del materialismo così com'è presentata nelle prime pagine di L'ideologia tedesca, si potrebbe infatti pensare che per Marx, esiste una relazione di causalità gerarchica che parte dal materiale e dal biologico e che sfocia nei fenomeni intellettuali [13]. Ma Reich ricorda a giusto titolo che nella terza tesi su Feuerbach, Marx considera la pratica intellettuale tra i fattori costitutivi dell'essere umano. In mancanza di un cambiamento naturale evolutivo delle condizioni sociali, sarebbe inconcepibile ignorare la necessità dell'educazione di coloro che si suppone debbano fare la rivoluzione. Ne consegue che se la condanna marxista della psicanalisi riprende la critica meccanicistica della psicologia in generale, non ricorre a dei principi propriamente marxiani. La confutazione marxiana del materialismo "ingenuo" permette così di riabilitare la validità e la necessità dell'oggetto della psicanalisi, cioè la vita psichica. Reich è molto sottile e dà prova di un certo umorismo quando sostiene che la critica "marxista" dei detrattori della psicanalisi si oppone in primo luogo al pensiero marxiano. A ciò, aggiunge l'idea che senza psicologia, il marxismo non potrebbe concepire né la sofferenza umana né la coscienza di classe. Attraverso questo rovesciamento dialettico della situazione, sembra non soltanto difficile squalificare la psicanalisi, ma quest'ultima sembra quasi diventata inevitabile per il marxismo.

freud_sigmund--Levine.gifLa psicanalisi, evidenzia Reich, si fonda su una dottrina delle pulsioni e quest'ultime, in quanto concetti limiti tra lo psichico ed il somatico, dipendono dal concetto di libido. E, resta fedele a Freud quando osserva che la libido dipende dai processi chimici dell'organismo. Sicuramente, in Reich, così come in Freud d'altronde, si tratta meno di un'ipotesi scientifica da corroborare che di una dichiarazione di principio, di un orientamento "filosofico". Per riprendere la formula di Marx, potremmo dire che quel che conta da un punto di vista filosofico, è l'idea che lo spirito sia di colpo colpito dalla maledizione del materiale e del carnale [14]. Lo spirito, l'intelletto, lo psichismo nel loro insieme sono pieni di corporeità. Le prove sperimentali sono altamente apprezzate, ma né Freud né Reich le ricercano particolarmente.

La differenza tra Freud e Reich risiede nel senso filosofico che essi accordano alla base naturale dell'essere umano. Se per Freud il concetto di natura resta preso nella storia della metamorfosi della filosofia trascendentale della natura, così come lo dimostra Odo Marquard [15], il concetto di natura in Reich sembra in modo evidente meno astratto per via del suo significato marxiano. Per riprendere l'espressione di Marquard, la filosofia della natura trascendentale può disporre di una filosofia politica, ma non può costituire una filosofia politica. In questo modo, può liberare la psicanalisi dall'astrazione di una natura non storica ed affrontare la natura (sociale) esterna senza il pessimismo freudiano.

Precisiamo tuttavia, che il concetto freudiano di natura rimane ambiguo quando ci si attiene alla nozione di "destino della pulsione". Reich si serve di questa ambiguità per introdurre la sua concezione dialettica- nel senso marxiano del termine- della teoria della libido. Le pulsioni sono doppiamente dialettiche. Lo sono innanzitutto in ragione della loro divisione in due categorie opposte- le pulsioni libidinali e le pulsioni dell'Io, o le pulsioni libidinali e le pulsioni di morte- e lo sono in seguito in ragione della mediazione sociale che fissa il loro destino.

Lo sviluppo e la vita psichica dell'individuo sono animati dalla lotta di pulsioni antagonistiche e questa lotta si manifesta concretamente a partire dall'essere sociale. Così come Adorno lo formulerà a proposito del concetto di "fatto sociale" (Durkheim, 17), Reich valuta che la società, è ciò che fa male [16]. Attraverso la nozione di "principio di realtà", Freud ha riassunto tutte le restrizioni e necessità sociali che abbassano i bisogni o ne differiscono le soddisfazioni [17].

Marx-Groenig.jpgIl principio di realtà risulta da un "apprendimento biologico" in Freud [18], ma è costruito con il contatto con il mondo esterno da cui riprende la forma. È la ragione per la quale il fatto di fare un passo in più nel senso dell'interpretazione sociale del principio di realtà non si oppone affatto alla definizione freudiana. Così, il significato sociologico e politico del conflitto individuale potrà manifestarsi. Tuttavia, non si tratta ancora in Reich di decifrare le antinomie sociali a partire dalle antinomie dell'individuo socializzato, così come faranno Adorno e Marcuse.

Il carattere sociale del principio di realtà rimane formale. osserva Reich, finché non ci si rifiuta di includere le caratteristiche della società in questione; la società in questione essendo, evidentemente, quella del modo di produzione capitalista.

Concretamente: il principio di realtà del capitalismo richiede da parte del proletario una restrizione massima dei bisogni, richiedendo a questo scopo delle ingiunzioni religiose di sottomissione e di umiltà. Richiede anche un rapporto sessuale monogamo ed altre restrizioni di questo tipo [18].

Ma oltre l'aspetto formale dell'adattamento al mondo ambientale, il principio di realtà si caratterizza per il suo contenuto sociale e storico concreti. È questa dimensione concreta che porta il significato politico del principio di realtà. Se il principio di realtà costituisce la "somma dei pregiudizi" (Lacan) sociali, la posizione che l'analista o che l'educatore adottano in rapporto a questo principio equivale ad una decisione politica: "Se si forma il proletario a questo principio di realtà, se non gli si impone ad esempio in quanto necessità culturale assoluta, si afferma e sottoscrive al suo sfruttamento, si sostiene la società capitalista [...]. Un tempo, il principio di realtà aveva altri contenuti rispetto ad oggi, e cambierà con i cambiamenti dell'ordine sociale [19].

Ciò che vale per il principio di realtà, si conferma anche per il principio di piacere. Il principio di piacere a sua volta deve essere concepito come un dato naturale, formato dalla natura sociale dell'uomo. È il motivo per cui l'interesse della psicanalisi si porta ulteriormente sul destino della pulsione piuttosto che sul suo fondamento biologico, biochimico o fisiologico, di cui si può pensare che sia più o meno identico presso tutti gli esseri umani. Reich estende quest'articolazione dello psichico (ma anche del biologico) e del sociale al fondamentale concetto della metapsicologia freudiana, cioè al concetto dinamico dell'inconscio.

adorno5.jpgCome i rappresentanti della Scuola di Francoforte, Reich insiste sul doppio carattere dell'Es freudiano. Da una parte, l'Es costituisce una specie di memoria generica, biologica della specie e dall'altra, in quanto risultato della rimozione, è sottoposto alla variabilità storica. Ora, la rimozione deriva dalle necessità dell'educazione. È in seno alla famiglia, in seno alla scuola e nei diversi gruppi sociali ai quali partecipa il bambino, che la repressione delle pulsioni trova la sua fonte. Evidentemente, per il fatto della sua origine corporea, la pulsione non può essere soppressa dalla rimozione. Nel migliore dei casi, la rimozione soffoca la sua prima forma di espressione (verschiebung) più o meno sintomatica. Freud sosteneva inoltre che tra le diverse pulsioni, la pulsione sessuale si rivela essere la pulsione più plastica. La fame e la sete non tollerano assolutamente vere rimozioni, e sono anche del tutto recalcitranti all'adattamento. In questa ottica, l'Io non costituisce più che una "zona tampone" tra le rivendicazioni "morali" della società, concentrandosi al livello del Super-Io, le necessità biologiche, ed i desideri che agitano l'Es.

Grazie a questa concezione dialettica dello psichismo, la psicanalisi riesce a risolvere il problema della trasmissione dell'ideologia che la dottrina sociale marxiana non è riuscita ad elaborare in modo soddisfacente. Attribuendo l'influenza ideologica alla famiglia, Reich inaugura un tema che caratterizza il freudo-marxismo nel suo insieme, e ciò, da Studi sull'autorità e la famiglia della Scuola di Francoforte alle teorie della socializzazione di Lorenzer.

Citiamo questo passaggio nel suo complesso: "La famiglia, impregnata di ideologie della società, costituendo il nucleo ideologico della società, è il primo rappresentante della società in generale per il bambino, e questo, prima ancora che egli vada ad integrare il processo produttivo. La relazione edipica non comporta soltanto i dati pulsionali, ma il modo in cui il bambino vive e supera il complesso di Edipo è determinato sia dall'ideologia sociale generale sia dalla posizione dei genitori nel processo produttivo. In fin dei conti, i destini del complesso di Edipo si rivelano, come tutto il resto, dipendenti dalla struttura economica della società" [20].

Eros-e-civilt-.gifQuesta interpretazione suppone implicitamente che ad una certa fase storica del processo di produzione, la cellula familiare non sia più in grado di proteggere il bambino contro la società. L'ideologia sociale informa di colpo i conflitti pulsionali più primitivi. In questa misura, la socializzazione del bambino equivale ad un'ideologizzazione, nel senso marxiano del termine e ad una alienazione [21]. Ora, sembra impossibile in questo caso concepire una posizione esterna all'ideologia. La critica marxista o freudo-marxista non potrà più invocare una natura naturale, una natura pura o una natura vergine come punto di ancoraggio della sua argomentazione. Di fronte alla mediazione ideologica assoluta, il ritorno del rimosso ed il sintomo sembrano costituire l'ultima possibilità di un al di qua dell'ideologia. Se la natura (sociale) equivale all'alienazione, solo il sintomo patologico permette di dare la misura di quel che potrebbe essere un'altra natura, non alienata. La Dialettica della ragione di Horkheimer e Adorno così come Eros e civiltà di Marcuse svilupperanno quest'idea e ne faranno la base della critica del neo-freudismo della Scuola di Francoforte.

reich-Wilhelm--by-Levine.gifPer Reich, la questione della natura epistemologica della psicanalisi sembra fuori questione. Lungi dall'essere una "scienza borghese" o idealista, la psicanalisi equivale ad una concezione materialista, nel senso marxiano del termine, dell'uomo. L'essere umano della psicologia psicoanalitica non è uno spirito o un essere di pura ragione, ma un essere di carne, un essere determinato da pulsioni. Le pulsioni stesse, al di fuori della loro origine biologica, sono determinate dalla mediazione sociale, cioè, più concretamente, dall'alienazione e dall'ideologia. Così, l'idea di una pulsione puramente naturale resta astratta, perché qualunque sia l'età  del bambino, o la cultura alla quale appartiene, il destino della pulsione si rivela sempre legato alle differenti tappe della socializzazione. Lo psichismo della psicanalisi si concepisce come articolazione della natura interna (biologica) e della natura esterna (sociale) dell'uomo. (Non dovremmo pensare, adottando questo punto di vista, che la nozione di "soggetto" appartiene necessariamente ad una teoria idealista della psicanalisi? Lacan ad ogni modo non se ne difende che a prezzo di un concetto di struttura e di discorso che conducono ad una idealizzazione del mondo in generale: Allo stesso modo del mondo hegeliano, l'idealismo si manifesta sotto la maschera di un materialismo "singolare" del significante [22]).

La concezione dinamica dell'inconscio è non soltanto materialista, ma è anche dialettica. Non basta un divieto o l'introiezione di un divieto per dar luogo ad un sintomo nevrotico. Affinché vi sia un sintomo, il rimosso deve risorgere e riprodurre la pulsione vietata sotto forma "spostata". L'Io debole del bambino fornisce il terreno più propizio per questo tipo di fenomeno. Posto a confronto con la proibizione, il bambino si ritrova diviso tra la tentazione a soddisfare la pulsione e soddisfare la domanda esterna venata di amore o timore. In questo conflitto psichico, l'"oblio" o il divenire inconscio opera come una prima tappa della risoluzione del problema.

Molto evidentemente, questo cambiamento di modo della pulsione e della proibizione non permette di risolvere il conflitto, permette tutt'al più di spostarlo. La riapparizione del rimosso tiene conto sia della rivendicazione della pulsione che dell'obbligo del divieto. Reich evidenzia che il sintomo si concepisce come una negazione della negazione. Nel sintomo, la pulsione repressa ed il divieto reprimente sono rilevati (aufgehoben) da una nuova figura. Ma questo cambio (Aufhebung) non equivale ad una soluzione riuscita. In una certa misura, la pulsione ed il divieto sono stati soddisfatti dal sintomo, ma il conflitto non rimane per questo meno attivo. Il sintomo rimane ambiguo e lo spostamento della pulsione implica spesso, con ciò stesso, una decontestualizzazione (Alfred Lorenzer). Il sintomo appare come un "corpo estraneo", come un fenomeno psichico di disturbo, sprovvisto di senso.

freud_sigmund-19650211_2.gifCome abbiamo visto, questo conflitto psichico si concepisce come un conflitto tra l'io pulsionale o "l'io piacere" (Lust-Ich) del bambino e la rivendicazione dei genitori. I genitori, come rappresentanti di una società concreta, cioè di un modo specifico di produzione, conferiscono un senso sociale molto concreto a questo conflitto. La funzione protettrice della famiglia diminuisce e apre le sue porte agli imperativi sociali ed economici del "mondo esterno" (si tratta qui, secondo la formulazione di Marcuse, del "totalitarismo" delle civiltà avanzate [23]). Durante la socializzazione indispensabile del bambino, i genitori agiscono così come primi agenti ideologici. Il destino delle pulsioni non costituisce un dato puramente naturale, ma risulta, inclusione fatta delle sue differenti tappe, dei suoi differenti stadi, di conflitti psichici risvegliati in seguito al rifiuto della soddisfazione pulsionale [24]. Secondo il marxismo, la psicanalisi scopre che la coscienza dell'uomo è determinata dal suo essere; aggiungendovi tuttavia i dati concreti dello sviluppo del bambino.

Questa dialettica permette di precisare la nozione di pulsione. La pulsione costituisce una "forma vuota", una spinta vuota riempita da contenuti sociali. A seconda del tipo di pulsione, il contenuto ed anche lo scopo della pulsione possono allontanarsi dalla determinazione biologica e portare al di là del principio del piacere. E potremo domandarci a giusto titolo con Lacan se, nella misura in cui il principio del piacere rappresenta l'aspetto biologico dell'uomo, una tale pulsione socializzata non si estende al di là del principio del piacere. La differenza tra la posizione lacaniana e quella difesa da Reich, da Horkheimer, Adorno e Marcuse consiste all'interpretazione della necessità di questo sradicamento del principio del piacere, cioè della scissione tra la natura biologica e la natura sociale dell'uomo.

In Lacan questa alienazione diventa necessaria in ragione dell'ipostasi di una struttura linguistica radicalmente autonoma e antistorica. Contrariamente a Lacan, Reich ed i pensatori della Scuola di Francoforte analizzano la mediazione economica e storica di quest'alienazione. Il divario conflittuale tra la natura biologica e la natura sociale risulta meno dalla natura aprioristica del linguaggio che da un rovesciamento storico e dialettico della "ragione". Da questo punto di vista, l'ipostasi lacaniana dell'alienazione costituirebbe, secondo i termini di Reich, una sottoscrizione non critica allo sfruttamento [25].

La dialettica psichica che Reich sviluppa aiuta a comprendere la dialettica sociale del transfert dell'ideologia. Marx sosteneva che l'essere materiale dell'uomo si trasforma in pensieri nella sua testa. La psicanalisi mostra che nella misura la socializzazione psichica costruisce questa traduzione, ma spiega anche come lo psichico, a sua volta si ripercuota sul sociale. In questo contesto, la teoria della sublimazione sembrava particolarmente importante. La sublimazione evidenzia un "destino della pulsione" che include la retroazione della socializzazione psichica sul sociale. Secondo la sua definizione freudiana, la sublimazione costituisce una "modificazione dello scopo e dell'oggetto della pulsione", una modificazione "che prende in conto la nostra valutazione sociale" [26]. Grazie alla sublimazione, le pulsioni sessuali possono essere spostate in modo da contribuire alle "creazioni culturali, artistiche e sociali più elevate dello spirito umano" [27].

Levine--freud_sigmund.gifSecondo Freud, la cultura, la civiltà, si istituiscono a partire dalla "Lebensnot" ed al prezzo della soddisfazione delle pulsioni sessuali. A questo proposito, è infatti possibile constatare una convergenza tra la concezione freudiana della civiltà e la concezione marxiana: per i tedeschi, liberati da ogni presupposizione, dobbiamo cominciare con il constatare la prima condizione di ogni esistenza umana e di ogni storia, cioè il fatto che gli uomini devono essere in misura  di vivere per poter "fare la storia". Per vivere bisogna tuttavia innanzitutto mangiare e bere, bisogna abitare, vestirsi e così di seguito [28]. La Lebensnot ed il lavoro che essa richiede esigono una padronanza razionale delle pulsioni. Di questo fatto, le pulsioni sessuali sono votate sia alla repressione, sia la sublimazione. Esse sono quasi destinate in ragione della loro grande plasticità. Grazie alla sublimazione, le pulsioni sessuali, spostate al livello dell'oggetto e dello scopo, possono essere messe al servizio del lavoro. Ne risulta che la sublimazione contribuisce alla repressione.

Sull'esempio del Super-Io, la repressione sociale delle pulsioni si nutre aìcosì delle pulsioni che essa proibisce. È questo meccanismo di repressione-sublimazione-repressione che spiega, da un punto di vista psicologico, la nascita del divario tra il naturale ed il sociale nell'alienazione. Di conseguenza, la proibizione della soddisfazione delle puslioni si allontana sempre più dalla sua motivazione razionale- della Lebensnot-, per diventare ragione pura, distaccata dall'essere carnale dell'uomo. La "struttura simbolica" di Lacan rivendica il distacco e la purificazione più forte di questa razionalità, senza per questo riscriverla nel contesto economico e sociale che la condiziona. Così facendo, la teoria lacaniana si proibisce ogni vera critica sociale e lavora, sotto la sua maschera rivoluzionaria, alla conservazione dell'ordine "già stabilito" [29].

freud_sigmund-19791108_2.gifReich non sviluppa certamente questa interpretazione del divario alla maniera della Dialettica della ragione, ma non per questo non ne pone già il problema. Le poche osservazioni piuttosto allusive a questo proposito [30] riguardano soprattutto uno dei concetti fondamentali della psicoanalisi freudiana, e cioè il complesso di Edipio. Reich afferma, contro la biologizzazione e l'universalizzazione del complesso di Edipo da parte di Ernest Jones, che la forma concreta così come l'esistenza stessa del complesso poggiano su delle condizioni sociali particolari. Prima di Fromm, Reich sottoscrive la posizione di Malinowki, affermando che il complesso di Edipo caratterizza esclusivamente le società patriarcali. Ne consegue che una società socialista, che non si fonda più sulla famiglia patriarcale esclude con ciò stesso l'esistenza del complesso. La concezione freudiana dell'orda primitiva, ritenuta fondante del concetto del complesso di Edipo, trascura il fatto delle società matrilineari. Se la psicanalisi vuole restare fedele alle sue basi dialettiche, non deve escludere il complesso di Edipo dalla mediazione sociale [31].

Così, Reich risponde alla domanda dell'origine sociale della psicanalisi ed a quella della sua posizione sociale. Al modo del pensiero marxiano, il pensiero freudiano "è un prodotto dell'epoca capitalista" Ed anche se la psicanalisi si disinteressa delle basi economiche della società, essa non costituisce non di meno "una reazione al contesto culturale e morale in seno al quale vive l'uomo sociale". Secondo Reich, la psicanalisi è nata dalla metamorfosi reazionaria della borghesia, uscita dal consolidamento  capitalsita durante il XIX secolo. Assumendo su di sé sia le abitudini ed i bisogni culturali della vita feudale sia la morale sessuale sostenuta dalla chiesa, la borghesia finiva di sotterrare le sue convinzioni rivoluzionarie e progressiste. Da un punto di vista psicanalitico, la classe borghese si caratterizza soprattutto per la ristrettezza della sua sessualità. La duplicità della "scelta dell'oggetto presso lìuomo", descritta da Freud [32], che frustra la borghesia dal rapporto sessuale e rende la proletaria tanto più desiderabile, trova  le sue radici sociali nel ritorno della morale conservatrice. La ricusazione della patologia isterica- patologia sessuale per eccellenza- da parte degli uomini di sceinza è dovuta alle stesse ragioni [33]. Allo stesso modo per cui il marxismo si concepisce come una presa di coscienza delle leggi economiche, la psicanalisi si concepisce come una presa di coscienza della repressione sessuale della sessualità.

La psicanalisi freudiana, così come il marxismo, non suscita veramente l'entusiasmo della classe borghese- dei ricercatori scientifici, dei medici o degli psichiatri- né quello della piccola borghesia "più cattolica del papa" (päpstlicher als der Papst) [34]. Se accade che la psicanalisi vi sia accettata, è sempre al prezzo di un buon numero di "ma", e di cui il primo si rapporta sistematicamente al "mito fluido" della libido. Nella società capitalista, la psicanalisi è mutilata dall'eliminazione della sua teoria della libido e della sessualità infantile, per diventare una psicologia generale o una psicopatologia "scientifica".

Ora, poiché secondo Reich, soltanto il socialismo marxiano permette un libero sviluppo dell'intelligenza e della sessualità, la psicanalisi non ha avvenire che in seno ad una vera società socialista [35]. Non è che in seno ad una tale società che la psicanalisi potrebbe realizzare la sua vera vocazione, cioè quella di contribuire alla ricerca sulle origini dell'umanità, di contribuire all'igiene psichica, alla profilassi delle nevrosi ed al fondamento dell'educazione socialista in generale.

marx_karl-19710701016F_2.gifSe si fa astrazione di questa funzione politica utopica della psicanalisi, sembra difficile negare che il freudo-marxismo di Reich preceda ed anticipi la filosofia della Scuola di Francoforte. Il freudo-marxismo di Reich non è una psicanalisi applicata ai fenomeni sociali, ma un tentativo di concepire le possibilità critiche della psicanalisi per mezzo di una interpretazione marxiana della sua teoria. Reich concepisce la psicanalisi come una teoria ed una pratica critiche suscettibili di fornire un modello operativo per una critica dell'ideologia; idea sempre sostenuta da Habermas e da Karl-Otto Apel [36]. La critica del revisionismo psicanalitico intrapresa da Reich dimostra, ben prima di Adorno e Marcuse, che la soppressione della teoria della libido corrisponde ad un riconoscimento implicito e mascherato della dottrona delle pulsioni, essa permette allo stesso tempo di orientare una luce nuova sull'idea di una psicanalisi scientifica.


Thierry Simonelli

Actuel Marx N° 30, 2001.


[Traduzione di Ario Liberti]


NOTE

[1] Bernard Görlich, Die Kuluralismus- Revisionismus-Debatte, B. Görlich; A. Lorenzer, A. Schmidt, Der Stachel Freud, 1980, Francfort, Suhrkamp, p.27.

[2] Sigmund Freud, Zur Frage der Laienanalyse (1926); S. Freud, Studienausgabe Ergänzungsband, 1984, Francfort, Fischer.

[3] Wilhelm Reich, Dialektischer Materialismus und Psychoanalyse [Materialismo dialettico e Psicanalisi].

[4] Herbert Marcuse, Eros and Civilisation, 1955, 1956, Londra, Routledge & Keagan Paul, [Tr. it.: Eros e civiltà, Einaudi, Torino, 1964].

[5] Marcuse, op.cit.

[6] Vedere a proposito Th. W. Adorno, Minima Moralia, § 38, 1951, 1988, Francfort, Suhrkamp, p.73 [Tr. it.: Minima Moralia, Einaudi, Torino, 1954].

[7] È vero che Reich si augura esplicitamente di voler determinare in quale misura la psicanalisi può contribuire alla "rivoluzione proletaria ed alla lotta di classe". Ma questo contributo non sarà mai diretto, nel senso in cui la psicanalisi lavorerebbe ad specie di presa di coscienza delle verità marxiste. La questione è di sapere in quale misura la psicanalisi, in quanto psicanalisi, può contribuire alla rivoluzione.

[8] Bisogna notare che la posizione di Reich è molto differente in La Rivoluzione sessuale (1927) [Tr. it. La rivoluzione sessuale, Feltrinelli, Milano, 1970; Roberto Massari Editore, Roma, 1992].

[9] Psychoanalyse und dialektischer Materialismus, p. 6. Reich menziona l'interpretazione della psicanalisi con quella di Mans, che  Deborin confonde con la teoria freudiana (Ein neuer Feldzug gegen den Marxismus, in Unter dem Banner des Marxismus, Jhg. 2, quaderno 1/2).

[10] Ibid., p. 3.

[11] Verso la fine del quinto capitolo di Il disagio della civiltà ad esempio, Freud evidenzia che "il comunismo pensa di avere trovato la soluzione al disagio" grazie alla convinzione che l'uomo è fondamentalmente buono e che è stato unicamente pervertito dalla proprietà privata. Ora la pulsione aggressiva non data evidentemente  dall'invenzione della proproetà privata e non sparirà con l'abolizione di questa. [Freud, Il disagio della civiltà (1929), Boringhieri, Torino, 1971].

[12] In Psicologia di massa del fascismo, Reich argomenta in quanto psicanalista. Vi si trova un'interpretazione del tutto tradizionale del rifiuto  della teoria psicanalitica della sessualità. La difesa psichica vi è assimilata alla reazione politica.

[13] Marx-Engels, L'ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1975.

[14] Ibid.

[15] Odo Marquard, Transzendentaler Idealismus, romantische Naturphilosophie, Psychoanalyse, Verlag für Philosophie/Jürgen Dinter, 1986, Köln.

[16] Th. W. Adorno, Einleitung in die Soziologie, Nachgelassene Schriften IV, 15,1993, Francfort, Suhrkamp, corsi del 7 maggio 1968. Wilhelm Reich, op.cit., p.11. Questa concezione del mondo è di fatto del tutto "freudiana". Basta ricordarsi che in Triebe und Triebschicksale [Pulsioni e loro destini, Freud, Opere, vol. VIII, Boringhieri, Torino, 1976], Freud descrive il processo della costituzione del mondo esterno nel bambino a partire dell'opposizione piacere/ dispiacere. Il piacere è situato sul lato di un Lust-Ich, il dispiacere ed il dolore sul lato del mondo esterno, Cfr. Pulsioni e loro destini.

[17] "Con la sua formula di principio di realtà, Freud ha riassunto tutte le restrizioni e necessità sociali che abbassano i bisogni o ne differiscono le soddisfazioni", Psychoanalyse und dialektischer Materialismus, p. 11.

[18] Ibid., p. 11.

[19] Ibid., p.12.

[20] Ibid., p.16.

[21] È tutta la differenza tra la posizione del freudo-marxismo, che attribuisce l'alienazione a delle condizioni sociali e storiche particolari, e Lacan che, partendo dalla stessa constatazione, ipostatizza l'alienazione come effetto del linguaggio. Se si volesse sopprimere l'ambiguità della nozione di alienazione sulla quale giocano le formulazioni lacaniane, i due approcci potrebbero in effetti rivelarsi non contraddittorie. Ma è nel piccolo dettaglio che risiede la profonda differenza delle due posizioni. Lacan non è, come l'afferma Roudinesco (Pourquoi la psychanalyse?, p.165),  un "erede diretto" della Scuola di Francoforte. Al contrario!

[22] Vedere Jacques Lacan, Écrits, 1966, Paris, Seuil, p. 24, [Tr. it.: Einaudi, Torino, 1979, 2 voll.].

[23] Grazie a Pierre Bourdieu, questa tesi è stata empiricamente corroborata. Nelle sue analisi del sistema delle grandi scuole e della "nobiltà di Stato" in Francia, Bourdieu ha dimostrato in modo convincente come una carriera coronata dal successo si prepara sin dalla più tenera infanzia. Vedere ad esempio Homo academicus, 1984, 1992, Paris, Minuit.

[24] Ibid., p. 24.

[25] Il che abbiamo cercato di dimostrare per mezzo di una lettura sistematica dei seminari inediti di Lacan in La psychanalyse théorique ou les coulisses du lacanisme, Éd. du Cerf, Collection « Passages », Paris 2000.

[26] Freud, Neue Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse [Introduzione allo studio della psicoanalisi,  Astrolabio, Roma, 1965].

[27] Ibid.

[28] MEW 3, p.28.

[29] Vedere  Séminaire IV, p. 50, Télévision, pp. 28, 51, etc. [Tr. it.: Il Seminario, Libro 4: La relazione oggettuale, 1956-1957, Torino , Einaudi, 2007]. Detto ciò, resta del tutto possibile interpretare gli aspetti più reazionari del pensiero lacaniano come indici di un sintomo sociale che resta da decifrare. Una tale rilettura si rivela tuttavia ben più difficile presso Lacan che presso Freud, perché così come i neo-freudiani, Lacan sgombera dalla teoria della libido per sostituirvi delle categorie linguistiche e socio-linguistiche.

[30] Reich,  Psychoanalyse und dialektischer Materialismus, p. 29.

[31]  Ibid., p. 30.

[32] Über einen besonderen Typus der Objektwahl beim Manne Gesammelte Werke VIII, 1978, Francfort, Fischer pp. 66-77,  oppure Beiträge zur Psychologie des Liebeslebens, 1988, Francfort, Fischer, pp. 9-18, [Tr. it.: Contributi alla psicologia della vita amorosa: Su un tipo particolare di scelta oggettuale nell’uomo, In S. Freud: Opere. Torino, Boringhieri, 1974)], in cui Freud descrive il divario  dalla rappresentazione della donna presso alcuni uomini. Da una parte, c'è la sposa rispettata, cioè idealizzata, dall'altra la prostituta o la "coquette".

[33] Cfr. Pierre-Henri Castel, La Querelle de l'hystérie, 1998, Paris, Puf.

[34] Ibid., p. 33.

[35] Reich, op.cit., p. 35.

[36] Cfr. per esempio Karl-Otto Apel, Transformation der Philosophie II, 1973, Francfort, Suhrkamp, pp. 123, 126-127, 143, 144, etc.




LINK al post originale:
Matérialisme dialectique et psychanalyse selon Wilhelm Reich

LINK all'edizione originale PDF di La Funzione dell'orgasmo di Reich:

Die Funktion des Orgasmus, 1927

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