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9 dicembre 2023 6 09 /12 /dicembre /2023 09:00

La plebe. Degli infami e degli anonimi. Foucault libertario

Alain Brossat

   Al primo posto tra i numerosi incitamenti che ci sono venuti da Foucault, c'è quest'ultima: imparare a slegare la questione politica da quella dello Stato. Esercitarsi a vedere la politica prendere forma là dove si apre la breccia di un avvenimento, dove si compone una resistenza all'intollerabile, dove le macchine del potere si inceppano, dove si producono degli spostamenti, coinvolgendo delle soggettività e delle azioni, svelando il vuoto della situazione precedente. Foucault ci ha, tra l'altro, aiutato a capire sino a qual punto la doxa marxista aveva incatenato il nostro approccio alla politica a quello dello Stato - che si tratti della sua conquista, della sua colonizzazione o della sua distruzione. Ci ha incoraggiato nell'impresa di ricondizionamento della nostra comprensione politica, là dove importava di liberarsi dalla presa della politica alle condizioni della dialettica storica, del progressismo e dello storicismo, della feticizzazione del significante maggiore di tutta la politica marxista: il proletariato.

   Foucault non ci ha proposto una «teoria alternativa» dell'azione politica, ci ha semplicemente aperto la sua «cassetta degli attrezzi». Vi abbiamo trovato alcune parole chiave: plebe, intollerabile, resistenza, potere, evento. Ciò che ci interessa, con queste parole, è di due ordini: da una parte, la possibilità di affrontare una narrazione della storia delle società moderne in Occidente che sfugge alle costrizioni della falsa alternativa - storia dello Stato o storia dei buoni fini rivoluzionari; dall'altra, quella di un approccio dell'azione politica che si liberi quanto più radicalmente possibile dalle condizioni stabilite dalla sottomissione di ogni politica alle regole della rappresentanza, del parlamentarismo, del gioco dei partiti. Foucault è uno dei «luoghi» rari a partire dai quali si può intraprendere un rinnovamento o un salvataggio della politica al tempo del declino della democrazia parlamentare. Questo ricollocamento della politica non assume la forma, in questa prospettiva, della mitica «alternativa» vantata dai neomarxisti e dalle nebulose ad essa annesse («altermondialismo» , Attac, ecc.), ma piuttosto una resistenza infinita a tutti questi fatti compiuti che tessono il tessuto dell'insopportabile. Una resistenza che non indietreggia davanti a scoppi violenti, ma sa distinguere le biforcazioni maggiori o i momenti decisivi di queste presunte «lotte finali» che ci alleggerirebbero una volta per tutte dal peso della divisione. Non si tratta quindi qui di farsi fautori di una irreperibile politica foucaultiana, ma piuttosto di tentare di mostrare come una critica generale della politica contemporanea può derivare dalla prospettiva foucaultiana - quella che prende corpo soprattutto a partire dalla «terza topica» dell'opera, in cui si manifesta distintamente un interesse esplicito e intensificato per le questioni politiche (Sorvegliare e punire; La volontà di sapere, ecc.).

 

 

   Il primo degli «incitamenti» foucaultiani a ripensare la politica si fonde intorno alla nozione di plebe. Quest'ultima si presenterà come il primo degli operatori del reimpiego della comprensione politica in un contesto in cui la critica radicale dell'antipolitica statale (la gestione pastorale del gregge umano) non può più effettuarsi alle condizioni di una teoria della rivoluzione di tipo marxista. Ricordiamo brevemente le premesse di un'approccio foucaultiano della plebe: si tratta, da un punto dei vista risolutamente anti-sociologico, di accerchiare questo «qualcosa» che «nel corpo sociale, nelle classi, nei gruppi, negli individui stessi, sfugge in un certo modo alle relazioni del potere; qualcosa che non è affatto la materia prima più o meno docile o riluttante, ma che è il movimento centrifugo, l'energia inversa, la fuga. “La” plebe non esiste indubbiamente, ma vi è “della plebe”» [1].

   Queste osservazioni hanno senso soltanto se riferite al lavoro di Foucault sulla nozione di potere; al suo sforzo per ridefinire il potere affrontandolo innanzitutto in termini di diffusione, di strutture reticolari, di scambi, di circolazioni, di macchine e di dispositivi piuttosto che in termini di appropriazione, di forme separate e concentrate (la questione del potere ridotta a quella dello Stato). C'è «della plebe», degli effetti di plebe, potremmo anche dire, quando si producono dei movimenti di distacco, di resistenza, di fuga o di scontro, in reazione a «ogni avanzata del potere». Quando si profilano quelle crepe o quelle fratture di fuga che sospendono le logiche del potere, perturbano o sospendono l'efficacia delle «reti del potere». Vi è quell'elemento di irriducibilità ai giochi del potere e di cui la plebe è, se si vuole, il deittico, quanjdo dei detenuti di una prigione si ribellano, quando - per riprendere l'esempio di Foucault - migliaia di Algerini scendono nelle strade a Parigi per protestare contro il coprifuoco che è loro stato imposto, il 17 ottobre 1961, e diventano oggetto di una feroce repressione da parte della polizia parigina. Così definita, questa plebe sprovvista di tutta sostanza propria, storica o sociale, si presenta come il «rovescio» o «il limite» in rapporto al potere.

   Si può dunque assegnargli il posto di un soggetto storico la cui azione continua imprimerebbe il suo marchio sul corso delle cose. Essa sorge attraverso flussi irregolari e variabili, producendo, secondo le circostanze, degli effetti diversi di interruzione, di spostamento, di siderazione. I suoi volti così come le sue manifestazioni sono infinitamente variabili. Ciò che sarà sempre importante in primo luogo, infine, è la circostanza con la quale essa sarà designata come il residuo, l'inclassificabile, l'ininscrittibile o l'infame secondo le logiche dell'ordine. E' quanto poneva in risalto Foucault, nel 1972, a proposito della manifestazione degli Algerini su menzionata: «Nessuno o quasi parla più della manifestazione degli Algerini del 17 ottobre 1961. Quel giorno e i giorni seguenti, dei poliziotti hanno ucciso per le starde e gettato nella Senna per annegarli circa 200 Algerini. In compenso, si parla ogni giorno dei nove morti di Charonne dove terminò, l'8 febbraio, una manifestazione contro l'OAS» [2].

   Foucault attira qui la nostra attenzione sull'opposizione radicale che si è stabilita nelle società moderne tra una nozione politica del popolo e la condizione, ugualmente politica, della plebe. Il popolo è una sostanza politica e storica, perché ha accesso allla narrazione e alla memoria, esso è l'inscrittibile stesso. Delle commemorazioni, delle manifestazioni, dei libri, degli articoli, delle lastre di marmo costellano la narrazione, ininterrotta dal febbraio 1962, del crimine poliziesco di Charonne, essi perpetuano la memoria delle vittime, in quanto quest'ultime incarnano un popolo - comunista, anticolonialista, all'occorrenza. Dietro questi nove morti si profila tutto un popolo visibile e dicibile, strutturato dalle sue organizzazioni, rappresentato dai suoi dirigenti sindacali o politici, ma anche dai suoi martiri ed eroi di ieri e di oggi [3].

   Al contrario, la «massa» indistinta e anonima sulla quale si accanisce la polizia in quella notte d'ottobre del 1961, non lascia tracce. E' una «plebe» precisamente in tal senso, non essenzialmente perché è un gruppo-vittima, ma per quel che fa così come per quel che subisce, in quest'occasione, è votata a scomparire. Ancora oggi, i nomi delle vittime non compaiono su nessun monumento, il numero delle vittime resta oggetto di contestazioni, gli archivi della polizia riguardanti l'avvenimento poco accessibili, i testimoni rari; i corpi delle vittime sono stati spesso fatti sparire, così come sono spariti interi ripiani degli archivi della bridata fluviale della polizia che li aveva ripescati... [4].

   Il contrasto è dunque totale tra la capacità immediata di un raggruppamento plebeo di formarsi, di manifestare un'energia che resiste alla violenza di un potere (il coprifuoco discriminatorio imposto agli Algerini), di produrre un potente effetto d'interruzione delle logiche dell'ordine (gli Algerini delle bidonville della periferia convergono verso Parigi, sfidano le ingiunzioni poliziesche, non cedono all'intimidazione) e questa specie di caduta dell'avvenimento fuori dagli annali, il cui effetto non è sempre compensato quattro decenni dopo.

   La plebe ha, in questo senso, una parte legata all'avvenimento, per il fatto che, soprattutto, che essa manifesta la capacità di fermare e disfare le logiche poliziesche, sia che essa si presenti calma e disarmata, come il 17 ottobre 1961 o, al contrario, sediziosa, armata, furiosa, incendiaria o barricadiera, come accade spesso con le emozioni popolari del XVIII secolo o le sommosse del XIX. Non è che alle condizioni di una teleologia retrologica che il 14 luglio 1789 si trasfigura in primo passo di un popolo rivoluzionario che si mette in movimento; nella sua effettività immediata, non si tratta di nient'altro che di un violento disordine plebeo, con le sue figure familiari di domestiche e di artigiani «arrabbiati»; solo nella misura in cui questo avvenimento plebeo si collega a una successione interrotta d'altre (la notte del 4 agosto, ecc.) che subisce quella gloriosa metamorfosi che le permette di acquisire lo statuto storico sublime di momento inaugurale di una Rivoluzione e, congiuntamente, di festa nazionale di un popolo-nazione (di uno Stato). Per quanto un avvenimento si presenti come pura interruzione del corso del tempo, che è senza precedenti né antecedenti, sollevamento puro, è con la plebe molto più che con il popolo che esso presenta delle affinità.

   Il popolo è incatenato alla sua memoria, alle sue tradizioni, alle sue «acquisizioni» (acquis) e ai suoi statuti, alle sue organizzazioni, alle sue reti d'interdipendenza con lo Stato, ecc. La plebe, poiché è senza sostanza propria, è figlia dell'occasione, essa si aggrega in vista di farla finita con una situazione, un abuso, uno scandalo che suscita il suo furore, di abbattere un nemico esecrato, essa si disfa e si ricompone, sembre variabile, flusso di lotte e di resistenze, concrezione di affetti e di movimenti di soggettivazione intricati con delle azioni. L'energia popolare è captata da delle organizzazioni - partiti e sindacati, associazioni - la cui funzione è di dissociare popolo e avvenimenti. La plebe è una forza che si compone contro delle logiche di potere oppressive, poliziesche, e che produce dei movimenti di dissociazione così vivi da rivelare all'istamte l'inconsistenza, il desueto o l'infamia della situazione stabilita.

   Vi è in Foucauld quel che si potrebbe chiamare un circolo della plebe. In un certo senso, la plebe può essere designata come una produzione dell'ordine, un'invenzione della polizia dei poteri moderni. L'istituzione penitenziaria, ad esempio, è la creatrice di una «specie» specifica, gli irrecuperabili, oggi i «detenuti a rischio», e la presenza di questo «rifiuto» dell'ordine sociale servirà da giustificazione ai meccanismi di controllo e di repressione. Se non vi fosse questa costanza del crimine, l'illegalità, l'insicurezza, delle inciviltà, che rappresentano la natura stessa della plebe, non vi sarebbe bisogno di polizia: «Se accettiamo la presenza in mezzo a noi di questi uomini in uniforme che hanno il diritto esclusivo di portare delle armi, di esigere i nostri documenti [...] - come ciò sarebbe possibile se non vi fossero dei criminali? E se ogni giorno non vi fossero sui giornali degli articoliche ci raccontano quanto essi siano numerosi e pericolosi» [5].

   D'altra parte, sottolinea Foucault, la plebe occupa, nella società capitalista, un posto strategico perché permette ai dominanti di riattivare incessantemente una divisione all'interno del popolo o del proletariato, di dividere il popolo contro se stesso. Questa divisione mira all'indebolimento dell'energia popolare, in quanto quest'ultima è potenzialmente rivolta contro l'ordine, il dominio, la polizia.

   «In fondo», osserva Foucault, «ciò di cui il capitalismo ha paura, a torto o a ragione, dal 1789, dal 1848, dal 1870, è la sedizione, la sommossa: i ragazzi che scendono per le strade con i loro coltelli e i loro fucili, che sono pronti all'azione diretta e violenta» [6].

   L'incessante divisione rinnovata da un certo numero di operazioni poliziesche (quella, ad esempio, che consiste nell'opporre il «lavoratore onesto» al ladro o al delinquente oppure, oggi, il lavoratore in regola e il «clandestino» che lavora in nero) tra popolo (o proletariato) e plebe o malavita ha per fine di produrre delle associazioni peggiorative tra plebe e violenza e di condurre il popolo «sano» a adottare il puntop di vista dell'ordine su tutti i fenomeni di violenza, soprattutto di violenza politica, si sommossa o sediziosa.

   Non è il lungo discorso e la lunga pazienza della strategia rivoluzionaria e dei dei domani trionfanti - sempre rinviati al dopodomani - a spaventare la borghesia, è la capacità attuale della plebe di entrare in effervescenza oggi, domani, e di produrre così quella «fuga» fuori dai rapporti di potere che funge da apertura su quegli «altrovi», quegli «altrimenti» della politica e della vita in comune che le persone di Stato assimilano all'«anarchia» (che essi considerano stupidamente, come equivalente al caos). Ciò di cui ha paura la borghesia, è l'imprevedibilità delle sollevazioni e dei flussi insurrezionali plebei, di tutte quelle irragolarità ed eccessi che mettono a rischio le discipline, la produzione, le circolazioni regolamentate, ecc. E dunque, la classe dominante si sforzerà di suscitare, tra il proletariato rivoluzionario, una costante avversione nei confronti dei movimenti plebei, tenendogli questo linguaggio: «Queste persone che sono pronte a servire da punta di diamante alle vostre sedizioni, non è possibile, nel vostro interesse, che facciate alleanza con loro» [7].

   Legalizzazione della classe operaia, istituzionalizzazione del movimento operaio contro messa al bando e stigmatizzazione costante della plebe detta intrinsecamente violenta: «Tutta questa popolazione mobile, [...] sempre pronta a scendere nelle strade, a compiere sommosse, queste persone sono state in qualche modo esaltate a titolo di esempi negativi dal sistema penale. E tutta la svalutazione giuridica e morale fatta della violenza, del furto, ecc., tutta quell'educazione morale che l'istitutore compiva in termini positivi presso il proletariato, la giustizia lo fa in termini negativi. E' così che la scissura è stata incessantemente riprodotta e reintrodotta tra il proletariato e il mondo non proletarizzato perché si pensava che il contatto tra l'uno e l'altro era un pericoloso fermento di sommosse» [8].

   La prospettiva foucauldiana non è qui, soltanto analitica o constatativa; il punto di vista che essa addotta su questa divisione è quello di una defezione dei rapporti di potere, di una resistenza alle logiche e «astuzie» del dominio o dell'ordine. E' chiaro che, sotto quest'angolo, il proletariato è l'ingannato di quest'operazione che lo separa dalla plebe. Il riformismo e il contratto implicito che lo fonda (la «rispettabilità» del proletariato basata sul prezzo del deposito della sua riserva di violenza) è la tomba delle sue speranze (qui, Foucault si riallaccia all'ispirazione sorelliana). La questione strategica consisterebbe dunque nel sapere come la potenza (potentia) proletaria può reincantenarsi sull'energia e l'iniziativa plebea, piuttosto che deviarne: «Quando dicevo che il problema era precisamente mostrare al proletariato che il sistema di giustizia che gli si propone, che gli si impone è in realtà uno strumento di potere, era precisamente affinché l'alleanza con la plebe non sia semplicemente un'alleanza tattica di una giornata o di una sera, ma che effettivamente possa esserci, tra un proletariato che non ha assolutamente l'ideologia della plebe e una plebe che non ha assolutamente le pratiche sociali del proletariato, altra cosa che l'incontro di congiuntura» [9].

   L'«alleanza» che Foucault si sforza di pensare qui non è equivalente a quella di un partito parlamentare con un altro, di una classe con un'altra - tattica o strategica, in vista di un obiettivo comune. Non si tratta tanto di suggellare l'incontro della sommossa e della rivoluzione quanto di prendere in considerazione il movimento globale di una migrazione della massa popolare, proletaria, fuori dalle dense reti del potere che la rendono prigioniera dello Stato e del suo discorso. Si tratta di spostarsi verso questo margine, questo «limite» o questo punto di fuga dei rapporti di potere esistenti, così come essi si producono da imponenti movimenti di defezione, di decentramento e di irriconciliazione in rapporto a ciò che, nelle nostre società, è costitutivo del controllo dei comportamenti (police des conduites) e dei discorsi e, a questo titolo, fattore di quel disastro senza fine che è il presente (Benjamin): «Vorrei porre una domanda: e se è la massa a marginalizzarsi? E cioè se è proprio il proletariato e i giovani proletari a rifiutare l'ideologia del proletariato? Allo stesso tempo che la massa si massifica, potrebbe anche darsi che la massa si marginalizza; contrariamente a ciò che ci aspettiamo, non vi sono così tanti disoccupati tra le persone che compaiono davanti ai tribunali. Sono dei giovani operai che si dicono: perché dovrei farmi sfruttare per tutta la vita per pochi soldi al mese quando invece... In quel momento, è la massa che si sta marginalizzando» [10].

   È chiaro che ciò che Foucault ennuncia qui non ha valore di programma (per una politica o una filosofia politica), ma piuttosto di stimolo in vista di stabilire nuove disposizioni nelle quali potrebbe essere pensata una politica radicale. Ciò che suggerisce Foucault, soprattutto, è che la politica deve essere pensata meno in termini di stoccaggio di forze, di accumulazione, di conquista che di capacità di distacco, di dissociazione, di decomposizione, di demolizione. anche, di spostamento verso questi «bordi» in cui i rapporti di potere trovano il loro limite.

   Naturalmente, Foucault sa meglio di chiunque altro che non esiste una posizione di pura e semplice esteriorità rispetto ai rapporti di potere: là dove si crea una forza che resiste a un'altra si stabiliscono nuove ralazioni e concrezioni di potere - è il paradigma di quelle organizzazioni rivoluzionarie che diventano temibili macchine per riciclare modelli autoritari; ma, ciò che un'organizzazione come il Groupe d'information sur les prisons (GIP) esemplifica a questo proposito è la volontà di spostare l'azione politica verso una prospettiva plebea, evitando le insidie del suo inserimento in formule stabilite in cui si ricompongono i tradizionali rapporti di potere. Il GIP si costituisce come un luogo di incontri, di dibattiti e di iniziative fondato in primo luogo sul rifiuto delle tutele politiche (le organizzazioni di estrema sinistra), culturali (gli intellettuali), ma anche di scelta che ricondurebbero la fatale distanza tra popolo e plebe.

   Nella misura in cui è emerso direttamente dal grande movimento del maggio 1968, il GIP potrebbe essere stato concepito come un mezzo per sostenere i militanti imprigionati a rivendicare per essi uno status politico, separando la loro condizione (onorevole) da quella dei detenuti comuni. Questo approccio dell'istituzione penitenziaria sarebbe stata in linea, ad esempio, con quello adottato dai comunisti durante la seconda guerra mondiale, che rifiutarono degli occupanti e dei collaborazionisti, che bollavano i resistenti come «banditi» o «terroristi» - in altre parole della plebe (sterminabile a questo titolo).

   Al contrario, affermando che il problema che preoccupa il GIP non era quello del «regime politico nelle carceri, ma quello del regime carcerario», Foucault mise in discussione la divisione tra popolo e plebe: tutti i detenuti, di ogni estrazione sociale, e le loro famiglie, sono inclusi nelle preoccupazioni del GIP. Questo spostamento del «punto di vista» da cui si determina un'azione politica si scontra naturalmente con l'incomprensione di tutti quei «progressisti» che hanno incluso la divisione tra popolo (proletariato) e plebe nel loro programma (nel senso informatico del termine, qui, oltre che in quello politico) - il PC, la CGT, le organizzazioni del movimento operaio tradizionale.

  Questa opposizione tra una politica «proletaria» e una politica «plebea» è altrettanto netta anche per quanto riguarda le forme e i mezzi d'azione: per Foucault, il GIP presenta un'altra politica possibile rifiutando le strutture gerarchiche, i giochi di notorietà, il mimetismo gregario: «Al GIP, ciò significa: nessuna organizzazione, nessun capo, facciamo di tutto affinché esso rimanga un movimento anonimo che non esiste che per le tre lettere del suo nome. Tutti possono parlare. Chiunque parla non lo fa perché ha un titolo o un nome, ma perché ha qualcosa da dire. L'unica parola d'ordine del GIP è: «Lasciate parlare i prigionieri!» [11].

   È il carattere stesso della plebe, informale, protoplasmatico, nomade, che si traspone nel quadro del luogo d'azione. Quando si chiedeva a Foucault sino a qual punto il GIP era un gruppo, se aveva una «costituzione organica», egli rispondeva con chiarezza: «No, nessuna. Era un luogo di riunione. Il gruppo non era costituito...». L'accento posto sul desiderio di anonimato (paradossale in un gruppo che riunisce alcune celebrità del mondo letterario e universitario) va nello stesso senso. È un tratto distintivo della plebe quello di presentare volti e nomi incerti, intercambiabili, evanescenti - in contrasto con il popolo formale, rigorosamente identificato con i suoi capi, i suoi eroi e i suoi martiri.

   Nel momento in cui Foucault si sforza così di definire i lineamenti di un'altra politica possibile, il modello leninista è ancora prospero nell'estrema sinistra - quello di una coorte politica di ferro, modellata sull'organizzazione militare, disciplinata, gerarchica, galvanizzata.

   È al contempo contro questo modello che impregna sia la cultura politica radicale degli anni 70 sia contro della politica parlamentare (che sottopone i partiti alle condizioni dello Stato e dello statalismo): che è concepito questo esperimento di ispirazione libertaria: antiautoritario («niente capi, nessun ordine impartito»), egualitario («la parola è a disposizione di tutti») e molecolare (nessuna organizzazione). Da quando Foucault ha lanciato questi «incitamenti», il modello leninista è crollato nell'estrema sinistra formale e quest'ultima è in via di rapida conversione, anche se ancora non ammessa, alle condizioni dell'apparato parlamentare della politica. Chi dovrebbe stupirsi, allora, che le suggestioni foucaultiane incontrano sempre più distintamente delle pratiche, dei gesti, degli attori e, più in generale, un nuovo tono di politica radicale che ha in comune di ricusare quei rituali della politica che, tutti, ci riconducono a un'istituzione parlamentare e a un significante maggiore (la democrazia) il cui declino storico è sotto gli occhi di tutti?

   Del resto, le questioni sulle quali si è cristallizzata in modo crescente la politica viva (extraparlamentare) nei paesi dell'Europa occidentale non sono precisamente quelle nel cuore delle quali compaiono degli attori e delle questioni plebee: i migranti senza documenti, i richiedenti asilo, i disoccupati di lunga durata, i giovani dei quartieri residenziali e delle periferie, i lavoratori occasionali dello spettacolo, i malati di AIDS, i disaffiliati e gli abbandonati, ecc.? Di colpo, il quadro della battaglia che imperversa cambia da cima a fondo: non più un fronte di lotta unico, una battaglia che contrappone meta-soggetti (proletariato contro borghesia, «rappresentati», dai rispettivi partiti), nella prospettiva di una finale resa dei conti, ma una moltitudine di teatri di scontro sparsi, di focolai decentrati, di resistenze frammentate, più o meno effimere o durature.

   Coloro che non vedono in queste proliferazioni soltanto dispersione e perdita di sostanza, anomia, scomparsa di ogni forza suscettibile di contrastare il dominio, non capiscono semplicemente che siamo nel mezzo di un cambiamento d'epoca; la posta in gioco di quest'ultimo è niente meno che il passaggio da un regime clausewitziano della politica (la guerra di classe che parodia la guerra tra Stati nazionali e culminante nella grande battaglia che decide di ogni cosa - ma che non giunge mai, almeno non alle nostre latitudini) a un regime di proliferazioni e intensità nel quale la divisione si perpetua e si attesta sotto forma di una moltitudine di scontri eterogenei - solo che tutti convergono nei fatti non verso la nozione di un «miglioramento» del sistema, ma di una defezione generalizzata.

   Ciò che richiede la lotta dei migranti senza documenti, non non è una «Fortezza Europa» un po' meno chiusa, dei ministri degli Interni un po' meno portati ai voli charter, ma un ritorno all'ospitalità; un ritorno che passa attraverso tanti movimenti di disconoscimento, tanti spostamenti violenti, tanta dimenticanza di noi stessi in quanto modellati dalla nostra condizione immunitaria e dalle nostre angosce di sicurezza, che un giorno arriveremmo a vedere «Sangatte» e i centri di accoglienza con la stessa disgustata incredulità con cui vediamo i roghi delle streghe e i combattimenti dei gladiatori [12].

   Il circolo della plebe è dunque questo ritorno inatteso, al centro del rinnovamento delle pratiche politiche e dell'intensificazione delle forme di defezione, di ciò che il calcolo dei dominatori aveva concepito come una macchina da guerra contro i disegni prometeici del proletariato (addirittura contro la semplice energia del popolo di Michelet e di Péguy). La plebe ritorna come agente di dissoluzione, fattore di irregolarità, ma anche come vettore di spostamento e di invenzione (il capitalismo essendo non ciò che dobbiamo distruggere e superare, ma ciò che dobbiamo disertare e dimenticare imparando a «fare le cose in modo diverso», facendo il «passo decisivo da parte, esimendoci», secondo la bella lezione di Paul Veyne sul passaggio dagli antichi modi di vita alla vita cristiana).

   I movimenti plebei, i modi plebei dell'azione politica, non si incatenano secondo un regime dialettico a ciò a cui dovrebbero sostituirsi, sostituendolo, precisamente (una possibile traduzione della famosa Aufhebung, madre di tutte le dialettiche), ma ponendo delle differenze, dice Foucault. il modo d'approccio plebeo alla politica è indissociabile da questo movimento di abbandono massiccio degli schemi hegeliani («non essere più hegeliani» - parola d'ordine di Foucaultiana). Lo spostamento o lo sradicamento violento a cui invita questo approccio passa attraverso la formidabile, dolorosa prova della defezione da tutta una serie di grandi significanti della politica contemporanea - l'uomo, certo, quello del discorso umanista e umanitario, ma anche il cittadino del discorso della post-democrazia consensuale, umanitaria, «giuridicista» - che si è avverato non essere altro che lo pseudonimo dell'uomo della classe media delle metropoli del «primo mondo».

   La plebe sta tornando in forze, in modo nient'affatto idilliaco, sulle rovine di questa versione (diventata obesa e dispotica) della speranza democratica, che aveva puntato tutto sull'istituzione repubblicana, il suffragio universale, la concorrenza dei partiti statali, il sistema parlamentare e il potere della stampa (generalmente confuso con la decorativa «libertà di opinione»).

   Sono dei casi Improbabili, delle imprevedibili esplosioni di violenza che ricordano al mondo la permanenza di questa polvere umana votata all'oblio e alle tenebre qual è appunto la plebe. Sono questi estratti dagli archivi dell'Hôpital Général e della Bastiglia che, contro ogni previsione, salvano qualcosa della vita infima di questi «uomini infami» del XVII e XVIII secolo (dementi, corrotti, religiosi apostati, ragazze di strada, ecc.), di queste esistenze oscure colpite un giorno dal fascio luminoso del potere; sono le lettere dei fanti della prima guerra mondiale morti al fronte che, a distanza di decenni, riappaiono in occasione di un anniversario o di una commemorazione; sono le memorie redatte in carcere dal parricida Pierre Rivière; sono le lettere e i diari sparsi di Richard Durn, il «pazzo assassino» di Nanterre, di cui la stampa fornisce dei frammenti... [13].

   Questi salvataggi non sono altro che degli scogli isolati in mezzo all'oceano dell'oblio in cui è immersa la totalità infinita degli avvenimenti plebei. Ma sono in numero sufficiente per attestare l'affinità costitutiva tra la plebe e l'avvenimento - quando quest'ultimo non è puro e semplice disastro (e ancora: Auschwitz e Hiroshima sono delle operazioni tanatocratiche la cui peculiarità è quella di ridurre alla condizione di plebe - sterminabile - una frazione dell'umanità).

   Ciò che mostra l'opera di Foucault, è quanto siamo costantemente attraversati, senza volerlo, da una moltitudine di avvenimenti plebei - così come siamo costantemente portati a cercare la Storia o il «fare epoca» dalla parte delle «cime», di quanto lascia delle tracce visibili, gloriose o disastrose, di ciò che costituisce un patrimonio, di ciò che attesta uno spostamento: «Il nostro inconscio è fatto dai quei milioni, da quei miliardi di piccoli avvenimenti che, a poco a poco, come gocce di pioggia, impregnano il nostro corpo, il nostro modo di pensare, e poi il caso fa sì che uno di questi micro-avvenimenti lascia delle tracce, e può diventare una specie di monumento, un libro, un film» [14].

 

 

un film»  [14].

 Se définissant comme un homme « aimant la poussière », énonçant l’ambition d’écrire « des histoires » de « la poussière », Foucault nous incite à reconditionner notre perception de l’événement du côté de l’infinitésimal, de l’innommable, de l’indicible ; à tenter de comprendre à quel titre - mais à coup sûr - le « coup de folie » de Richard Durn fait davantage événement et époque qu’une douzaine de remaniements ministériels ; à voir en Pierre Rivière moins un malheureux aliéné que le témoin d’une histoire massacrante scandée par les guerres napoléoniennes, les conquêtes coloniales, les violences sociales...

Ce qui caractérise en propre l’action de la plèbe, tel geste plébéien strident et isolé ou, au contraire, tel mouvement ou passage à l’acte collectif, c’est sa capacité à balafrer le présent, à le défigurer - ce qui est une autre manière d’en rendre sensible, pour un instant et, rarement, durablement, l’insoutenable laideur... Il en va ainsi du « geste » de Pierre Rivière qui lacère l’ordre des familles ; de celui de Richard Durn qui taillade l’institution politique ; de celui de Ben Laden qui incise dans l’ordre (impérial) mondial. L’événement est là, où le scandale d’un geste (comme un cri) plébéien crée une nouvelle et insupportable visibilité. L’effet de choc produit par de tels actes coupés de toute « logique » des enchaînements et des discours tient à ce qu’ils émanent d’invisibles, de sans-pouvoir ou de vaincus. Il tient à leur déliaison d’avec des actes de langage ou des efforts de communication. Il y a cette inaltérable affinité de la plèbe avec le silence, le déficit de parole, l’impossibilité d’« enchaîner » sur une phrase (Lyotard), le cri ou la voix là où le discours est en défaut. Foucault : « Oui, j’aimerais bien écrire l’histoire des vaincus. C’est un beau rêve que beaucoup partagent : donner enfin la parole à ceux qui n’ont pu la prendre jusqu’à présent, à ceux qui ont été contraints au silence par l’histoire, par la violence de l’histoire, par tous les systèmes de domination et d’exploitation. » [15]

Ce dont sont témoins nombre d’événements plébéiens d’aujourd’hui, in-vus ou au contraire relevés comme l’innommable même (Durn), c’est de l’effondrement du « rêve » foucaldien ici énoncé : notre temps est en effet celui où « beaucoup partagent » avant tout le désir d’ensevelir l’histoire des vaincus sous une épaisse chape de silence et d’empêcher, plus que jamais, que les vaincus accèdent à la parole. La télé, entre autres, est ce dispositif de pouvoir (de monopole de la « communication ») dont la finalité première est d’empêcher toute espèce de prise de parole plébéienne - d’où l’importance et la légitimité des irruptions d’intermittents du spectacle dans des émissions de variété ou des journaux télévisés.

Mais, d’un autre côté, on dira que c’est précisément parce qu’elle n’a pas de langue propre et parce qu’elle éprouve ce déficit constant du côté du langage que la plèbe a partie liée avec l’événement. Les maîtres de la langue (les hommes politiques, les clercs, les journalistes, les prêtres, etc.) ont, depuis bien longtemps, déserté cette configuration dans laquelle le discours (de l’orateur, du pamphlétaire, du prédicateur, etc.) enchaîne sur l’action qui transforme. Leur aptitude au discours est solidaire de l’état des choses, suspensive de l’événement, policière - elle se veut exorcisme de toute violence, quelle qu’elle soit, or l’événement fait violence, mortellement, aux choses établies, à l’ordre des places, aux régularités et aux routines efficaces. Ce que les instruits et les gouvernants détectent et désignent couramment comme l’indice de « barbarie » des mouvements ou gestes plébéiens renvoie toujours d’une manière ou d’une autre à cette impossibilité de les inclure dans ces réseaux langagiers et communicationnels qui sont les dispositifs les plus performants de neutralisation des intensités violentes. La plèbe laconique ou muette qui n’entre pas en communication, ne délibère pas, mais passe à l’acte - voilà qui conserve intacte la marque horrifiante et terrifiante de l’insupportable.

En d’autres termes, nous dirons : dans la bouche des hommes politiques, des professeurs, des gens de télévision et des prêtres (etc.), le langage est ce qui a pour destination première d’empêcher les gens de se soulever. Or toute politique orientée vers l’émancipation commence non par une divine surprise électorale, mais bien par un soulèvement. C’est ce que rappelle Foucault dans sa série d’articles tant décriés - pour cette raison précisément et quelques autres encore - sur le soulèvement iranien qui, à la fin des années 1970, provoqua la chute du shah : « Je ne suis pas d’accord avec qui dirait : “Inutile de vous soulever, ce sera toujours la même chose.” On ne fait pas la loi à qui risque sa vie devant un pouvoir. A-t-on raison ou non de se révolter ? Laissons la question ouverte. On se soulève, c’est un fait ; et c’est par là que la subjectivité (pas celle des grands hommes, mais celle de n’importe qui) s’introduit dans l’histoire et lui donne son souffle. Un délinquant met sa vie en balance contre des châtiments abusifs ; un fou n’en peut plus d’être enfermé et déchu ; un peuple refuse le régime qui l’opprime. Cela ne rend pas innocent le premier, ne guérit pas l’autre, et n’assure pas au troisième les lendemains promis [...]. Nul n’est tenu de trouver que ces voix confuses chantent mieux que les autres et disent le fin fond du vrai. Il suffit qu’elles existent et qu’elles aient contre elles tout ce qui s’acharne à les faire taire, pour qu’il y ait un sens à les écouter et à chercher ce qu’elles veulent dire. Question de morale ? Peut-être. » [16]

La plèbe, c’est ce « n’importe qui » manifestant une capacité maintenue de se soulever ; une aptitude à produire des effets qui l’emporte sur le « parler clair » ou le « dire vrai » auxquels nos sociétés accordent tous les privilèges. Dans leur « confusion » même, les voix et les cris qui accompagnent le soulèvement sont dotés d’une forte capacité d’énonciation : ils rappellent à l’immémorial, à l’insuppressible - à l’irréductibilité du « reste » plébéien aux disciplines et aux règlements policiers. Ils rappellent que cela même qui est voué à un rigoureux régime de disparition - la vie de la plèbe et son énergie - revient sans fin, et que c’est cela même qui fait que l’histoire n’est pas une pure forme vide, un pur continuum sans contenu : « Le mouvement par lequel un homme seul, un groupe, une minorité ou un peuple tout entier dit : “Je n’obéis plus” et jette à la face d’un pouvoir qu’il estime injuste le risque de sa vie - ce mouvement me paraît irréductible. Parce qu’aucun pouvoir n’est capable de la rendre absolument impossible [...]. Tous les désenchantements de l’histoire n’y feront rien : c’est parce qu’il y a de telles voix que le temps des hommes n’a pas la forme de l’évolution, mais celle de l’“histoire”, justement. » [17]

L’histoire est - mais ne le savons-nous pas depuis Nietzsche au moins, et Blanqui ? - cette combinaison de retour de l’immémorial (le même) et de surgissement de l’hétérogène. De ce double régime, la plèbe est l’exacte incarnation : ce « toujours là » recouvert par les strates du mépris et de l’oubli et ce « toujours nouveau » qui s’invente au fil des séquences et des événements sous de nouveaux atours, dans de nouveaux gestes. Les mollahs prêchant l’insoumission, de mosquée en mosquée, pendant le soulèvement iranien, c’est le retour de Münster, de Savonarole, la vengeance des vaincus, entendue non comme ressentiment mais comme l’affect qui met en mouvement la pure énergie résistant au pouvoir et le démasquant. Mais c’est tout autant l’inédit et le sans-précédent d’une situation inconcevable aux yeux de tous ces spécialistes qui diagnostiquaient l’irréversible « occidentalisation » de la société iranienne... a plèbe a donc partie liée avec l’histoire (le retour du disparu et la production des différences) pour autant qu’elle est cette contre-force qui entrave le pouvoir, le disperse, en brouille les effets - pour autant qu’elle est l’im-pouvoir, pourrait-on dire. Le pouvoir, en effet, loin de coïncider avec la composition d’une histoire, est ce qui vise à l’empêcher. Le propre d’une machine de pouvoir est de constituer de l’homogène, des régularités, de combattre l’imprévu, de densifier, d’identifier. Et le propre du pouvoir est de repousser toute limite. Les logiques du pouvoir sont, par définition, antipolitiques, car rigoureusement allergiques aux intervalles et à un régime de diversité et de division. La plèbe est, précisément, ce qui résiste au pouvoir là où celui-ci est « par ses mécanismes », dit Foucault, porté à l’infini. La plèbe est donc ce qui fait revenir la politique dans le jeu du pouvoir, en l’entravant. Elle incarne ou donne corps à cette sorte de droit naturel à la résistance, à l’expansion mécanique du pouvoir, résistance sans laquelle nos sociétés ne sont que policières (ce qui ne veut pas dire exclusivement répressives). Un droit naturel, en tant que tel, ne se codifie pas, il se proclame, il se constate. La plèbe demeure infiniment sans « légitimité », n’étant que le corps ou la texture de ce jeu de forces antagoniques infini dont est faite « la vie » et dont la loi est : là où s’établit du pouvoir, survient une force qui y résiste et s’y oppose. Le passage - conditionnel - à la dimension morale va se jouer dans l’affirmation d’une inéluctabilité de la résistance de la plèbe à l’infinitude du pouvoir, quoi qu’il doive en coûter, quelque forme qu’elle prenne, par-delà le bien et le mal. S’il est une petite musique utopique qui accompagne cette phénoménologie de la plèbe, de ses cents visages et actions, elle tiendrait à cette définition : elle est ce qui, obstinément et sans fin, présente la limite de tout pouvoir et objecte à son expansion sans fin.

Une autre façon de le dire, qui rapprocherait Foucault de Pierre Clastres, serait : le pouvoir est ce qui ne va pas de soi. La figure de l’abus de pouvoir est incluse dans toute forme, la plus légitime fût-elle, d’institutionnalisation du pouvoir. D’où l’importance de penser le hors-champ (hors pouvoir) radical de ce « droit » qui fonde ces mouvements qui résistent au pouvoir ou l’infectent, mais qui, aussi bien, simultanément, réactivent la politique elle-même. Ce que Foucault nomme : « Être respectueux quand une singularité se soulève, intransigeant dès que le pouvoir enfreint l’universel. » Le « dès que » le dit suffisamment : il n’est pas de pouvoir que le philosophe puisse décréter substantiellement bon au point de s’y rallier. Ici, Foucault se sépare distinctement de ses amis maoïstes de l’époque, rejetant pêle-mêle la figure autoritaire du dirigeant omniscient, celle du tribunal « populaire » et celle de l’intellectuel fidélisé. [18] Sous le feu de sa critique, la logomachie des maos se dévoile comme un avatar de plus de la politique réduite aux conditions de l’État. S’efforçant de dessiner les contours d’une politique déplacée du côté de la plèbe, Foucault renouvelle la pensée libertaire de l’action.

Alain Brossat

 

 

LINK:

http://refractions.plusloin.org/spip.php?article86

 

NOTE

[1] «Enquête sur les prisons: brisons les barreaux du silence », Dits et Écrits (abrégé ci-après en DeÉ), II, pp. 176 sqq.

[2] Ibidem.

[3] Je n’aborde pas ici la question de l’affaiblissement notoire, au fil des dernières décennies, de ce récit. Je parle ici d’un régime de récit, indexé sur la relation entre un groupe constitué, son expérience collective, sa mémoire et les traces de son existence durable.

[4] À l’occasion du quarantième anniversaire de la manifestation du 17 octobre 1961, une plaque commémorative a été inaugurée sur le pont Saint-Michel, à l’initiative de la Mairie de Paris, elle-même sollicitée par de nombreuses associations. Mais le texte qui y est inscrit demeure vague, éludant notamment la responsabilité de la police parisienne et de l’autorité politique dans la perpétration de ce crime d’État.

[5] «Entretien sur la prison: le livre et sa méthode , DeÉ, II, pp. 740 sqq.

[6] «Table ronde», DeÉ, pp. 316 sqq.

[7] Ibidem

[8] Ibidem

[9] Ibidem

[10] Ibidem

[11] « Le grand enfermement », DeÉ, II, pp. 296 sqq.

[12] Voir à ce propos le dossier consacré aux zones d’attente par la revue Drôle d’époque ,n° 13, Nancy, novembre 2003

[13] Voir à ce propos : Arlette Farge et Michel Foucault : le Désordre des familles, lettres de cachet des archives de la Bastille, Archives Gallimard/Julliard, 1982 ; Moi, Pierre Rivière, ayant égorgé ma mère, ma sœur et mon frère... Un cas de parricide au xixe siècle présenté par Michel Foucault, Archives Gallimard/Julliard, 1973 ; « La vie des hommes infâmes », DeÉ, III, pp 237 sqq. À propos de la « tuerie de Nanterre », je me permets de renvoyer à mon article sur l’affaire Durn in le Passant ordinaire (Bègles), n° 40/41.

[14] « Le retour de Pierre Rivière », DeÉ, III, pp. 114 sqq.

[15] « La torture, c’est la raison », DeÉ, III, pp. 390 sqq.

[16] « Inutile de se soulever ? », DeÉ, III, pp. 790 sqq.

[17] Ibidem.

[18] Voir par exemple « Sur la justice populaire, débat avec les maos », DeÉ, II, pp. 340 sqq.

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