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7 luglio 2018 6 07 /07 /luglio /2018 05:00

Cinema e resistenza al franchismo

Christiane Passevant

I periodi di repressione portano i cineasti e gli artisti a resistere, soprattutto dirottando i codici della censura, il cinema iraniano ne è, tra altri, un esempio. In Spagna, durante i tre decenni che hanno preceduto la morte del dittatore, il cinema d'autore ne è stata una perfetta illustrazione.
Mettendo da parte gli amori effimeri folcloristici e il cinema di propaganda – come il famoso film Raza di cui Franco stesso firmò la sceneggiatura con uno pseudonimo, il cinema spagnolo fu posto sotto stretta sorveglianza per tutta la dittatura franchista. Tuttavia, sin dagli anni 50, dei film critici del regime riuscirono a superare la barriera della censura e confermano la rottura con un cinema convenzionale e privo di interesse. L'epoca vede infatti emergere il ritorno a un cinema sociale, sostenuto sia dalla nuova generazione che dai cineasti riconosciuti.

Le Conversazioni di Salamanca, organizzate dal cine-club di Salamanca nel 1955, riunirono numerosi cineasti, tra cui Basilio Martin Patino e Juan Antonio Bardem, regista di Morte di un ciclista, che dichiarò in quell'occasione: “Il cinema spagnolo attuale è politicamente inefficace, socialmente falso, intellettualmente infermo, esteticamente nullo e industrialmente rachitico”. Giudizio radicale e senza appello.

Bardem con Morte di un ciclista e il suo precedente film, I commedianti (1954), segna gli inizi di un cinema realista che conduce una riflessione politica sulla società franchista e le differenze di classe sociale. La borghesia è descritta in tutte le sue manifestazioni – cinismo, corruzione, interessi personali e ipocrisia, è fatta anche allusione alla falange e alla guerra civile spagnola.

María José de Castro, sposa di un ricco industriale madrileno, è l'amante di Juan, un professore universitario, al quale è stata fidanzata prima della guerra civile. Quest'ultimo appartiene a un ambiente aristocratico terriero mentre la giovane ha sposato un uomo che fa parte della borghesia affaristica sostenuta dal regime franchista. Quando, nel corso di una fuga amorosa, lei uccide accidentalmente un operaio in bicicletta e fugge via, il suo solo timore è quello dello scandalo e di perdere i privilegi di una vita monotona, vuota, ma dorata. In quanto a Juan, tormentato dai rimorsi, egli boccia una studentessa senza ascoltare la sua presentazione, il che provoca la rivolta degli studenti. Quest'episodio è importante perché rende conto che, malgrado la repressione del regime, la contestazione esiste nelle università.

Juan, turbato dal movimento di solidarietà e la morte del ciclista, preferisce rassegnare le dimissioni dal suo incarico. Incontra la studentessa per ringraziarla per ciò che ha provocato: la sua presa di coscienza di fronte alle menzogne della società e della sua propria situazione. Egli tenta allora di convincere Maria José di confessare tutto alla polizia per cominciare un'altra vita. Cosa che lei non accetta affatto.
La fine, che è in un certo senso una specie di cerchio perché il film mette in scena un incidente simile a quello dell'inizio, se è forse moralista e benpensante, rimane tuttavia aperta. Quest'altro ciclista, responsabile dell'incidente, non fugge via, ma va a cercare un aiuto. Indubbiamente Bardem ha in questo modo, imposto il suo final cut personale: l'atteggiamento solidale di un uomo del popolo opposto all'egoismo e all'ipocrisia della borghesia.

Morte di un ciclista è una critica della nuova borghesia degli anni 50, sostenuta dal regine franchista, mentre la popolazione vive nella povertà. In Morte di un ciclista, il discorso delle donne provenienti dall'ambiente borghese, che ritengono che finché ci saranno dei poveri le cose andranno bene, è tanto più scioccante nei confronti della miseria dei quartieri popolari. Miseria filmata d'altronde nei suoi minimi dettagli durante la sequenza della visita di Juan alla vedova del ciclista, in cui attraversa un quartiere popolare di Madrid le cui rovine datano all'anteguerra civile. Gli indumenti dei bambini, la mancanza di calzature, gli alloggi esigui per le famiglie, testimoniano delle condizioni di vita dell'epoca.
Il rovescio del decoro della pace sociale franchista non è affatto seducente e contrasta con le descrizioni della propaganda. La Morte di un ciclista di Bardem si apparenta al neorealismo italiano per il soggetto, con la descrizione delle differenze sociali e del lusso della Chiesa, che non è risparmiata, mostrato parallelamente alla miseria dei quartieri popolari.

Durante le Conversazioni di Salamanca, Basilio Martin Patino e Juan Antonio Bardem hanno firmato congiuntamente un testo critico del cinema spagnolo di questo periodo. La scoperta annuncia un'altra procedura della creazione cinematografica: “Il cinema spagnolo vive isolato. Isolato non soltanto dal mondo, ma dalla nostra realtà. Mentre il cinema di tutti i paesi concentra il suo interesse sui problemi che la realtà quotidiana pone, servendo così una missione essenziale di testimonianza, il cinema spagnolo rimane un cinema di bambole truccate. Esso non presenta né i problemi né le testimonianze che il nostro tempo richiede a ogni creazione umana”. È certo che Morte di un ciclista di Juan Antonio Bardem (1955), El Verdugo (Il carnefice) di Luis Garcia Berlanga (1963) e La Caza (La caccia) di Carlos Saura (1966) evocano, sotto forme più o meno realiste, allusive o metaforiche, i problemi sociali e politici della società spagnola sotto il dominio del regime franchista.

El Verdugo (Il carnefice) di Luis Garcia Berlanga (1963) è un capolavoro di umorismo nero. Il film mostra una Spagna sottomessa, conformista, in pieno ritorno alla morale cristiana, ma che si dibatte tuttavia nei problemi quotidiani, malgrado la fedeltà al potere. La sovversione giunge qui sino a prendersela con un argomento tabù: la pena di morte e il suo sistema di esecuzione, la garrota. Scegliendo il modo comico e la derisione, Berlanga si riallaccia alla farsa libertaria che fa pensare a quella di Fernando Mignoni (Nuestro Culpable), il film della CNT, 1938). Vi tornerà sopra nel 1977 con La escopeta nacional (La carabina nazionale).
In una prigione, dopo un'esecuzione, José Luis, impiegato delle pompe funebri, incrocia il carnefice, Amedeo — inenarrabile José Isbert —, un vecchio che fa il suo “lavoro” e uccide con la garrota i condannati, con coscienza e senza partecipazione emotiva.
Il giovane becchino non ha nessun successo con le donne, il suo status sociale in tal senso gli fa da ostacolo, e quando incontra Carmen, la figlia del carnefice, l'attrazione dei due giovani è reciproca, tanto più, come confessa Carmen, la professione del carnefice non è affatto seducente per i pretendenti.
Quella del beccamorto non è più splendida, è per questo che José Luis accarezza il sogno di andare all'estero, in Germania, per diventare meccanico. Ma ben presto il sogno svanisce quando Carmen rimane incinta e il matrimonio si impone. La sequenza del matrimonio è una scena da antologia di critica sociale al vetriolo. Il loro matrimonio fa seguito a un matrimonio borghese, con tutta la scenografia, ed è svolto senza alcuna considerazione da parte del personale ecclesiastico. Un vero sketch in cui, a poco a poco, gli apparati della cerimonia precedente spariscono, si imballano i candelabri, i fiori, le ghirlande e la musica cessa. Detto in altro modo, differenza di trattamento e differenze classiste.
Un altro problema si profila allora per la giovane coppia che non ha un posto dove vivere: accedere all'attribuzione di un appartamento nei nuovi fabbricati. Sarebbe una cosa ideale, ma per poter usufruire di questo tipo di alloggio, bisogna che uno dei congiunti sia funzionario di Stato. Il suocero è a due mesi dalla pensione e propone allora al suo genero di succedergli. Dopo molte esitazioni e trattative, José Luis è infine nominato carnefice ufficiale... E la famigliola si installa nell'appartamento tanto ambito e ubicato nella periferia di Madrid. Tuttavia l'ossessione di José Luis è di dover procedere all'esecuzione di un condannato alla garrota per un appartamento da funzione…

Tutto andrebbe per il meglio se, come suo suocero gliene aveva dato assicurazione, la prospettiva dell'esecuzione di un condannato fosse improbabile. Ma l'angoscia di José Luis diventa realtà: è convocato per l'esecuzione di un condannato a morte alla garrota.

A partire da quel momento, tenterà di tutto per sfuggire all'esecuzione e la farsa comica volge al dramma. José Luis è terrorizzato di fronte all'esecuzione e si deve letteralmente trascinarlo sul luogo per obbligarlo a fare il suo lavoro di carnefice. Il piano in cui Nino Manfredi è spinto nella prigione, grande spazio vuoto, dà la dimensione della barbarie della pena di morte. Il film è una farsa sociale, che ritrae con un umorismo feroce il ritorno all'ordine morale, le condizioni di vita pietose della popolazione, ma anche i comportamenti di deferenza verso l'autorità.

Luis Garcia Berlanga, che non appartiene a nessuna scuola, ha contribuito al rinnovamento del cinema spagnolo con tre dei suoi film realizzati durante gli anni 50 e scritti insieme a Juan Antonio Bardem: Questa coppia felice del 1951); Benvenuto, signor Marshall del 1952 e I giovedì miracolosi del 1957, quest'ultimo film fu proibito per quattro anni dalla censura. Sino alla morte di Franco, nel 1975, la censura proibirà numerosi film, tra cui l'indimenticabile documentario di Basilio Martin Patino, Canciones para despues de una guerra (Canzoni per un dopoguerra) (1971). Il regista di Nove lettere a Berta del 1965, scelse allora la clandestinità per produrre due altri film documentari Carissimi carnefici del 1973 e Caudillo del 1974), folgoranti attacchi alla dittatura franchista.

È nel contesto dittatoriale esistente, e sfidando la censura, che uscì El Verdugo (Il carnefice] nel 1963, la cui sceneggiatura è frutto di una collaborazione tra Luis Garcia Berlanga e Rafael Azcona che continuerà a partire da questo film per tutta la carriera cinematografica di Berlanga. L'aspra ironia del film è esplosiva e ci si può chiedere come El Verdugo sia sfuggito alla censura. Se il film sfugge alla censura, è in parte senz'altro perché il film è una coproduzione italiana. Quando è proiettato a Venezia, dove ottiene il premio della critica, acquisisce di colpo una fama internazionale e è difficile in seguito proibirlo. Il soggetto è molto serio e riguarda direttamente la pena di morte per garrota, tipo di esecuzione che verrà applicato al giovane anarchico, Puig Antich, nel marzo del 1974.

Girato nella regione di Toledo, La Caza di Carlos Saura è indubbiamente quello dei tre film che denuncia più direttamente la violenza e il legame con il passato della guerra civile. Nulla attenua la crudeltà del racconto che mette in scena dei vecchi falangisti nostalgici. La tensione tra i personaggi, le allusioni dirette alla guerra civile passata, il disprezzo e il brutale dominio del vincitore, tutto contribuisce a fare di questa battuta di caccia una parabola della violenza e della barbarie. La progressione drammatica è notevole, tanto sul piano dei dialoghi, delle riflessioni off che dell'uso fatto della camera che si avvicina a poco a poco ai volti alla pelle e diventa sempre più intrusiva, come per annunciare i laceramenti dei personaggi verso una ineluttabile tragica fine.

In uno scenario aspro, deserto, improduttivo, spoglio, in cui si indovina l'antico teatro di inseguimenti e di battaglie, tre amici, José, Paco e Luis vanno a caccia di conigli. Il terreno appartiene a José e il suo invito non è anodino, ma un pretesto per riprendere contatto con i suoi vecchi amici per ottenere un aiuto. Quattro uomini, un proprietario terreno rovinato, separato dalla sua sposa e che vive con una giovane, un uomo d'affari reazionario che ha fatto un ricco matrimonio, il suo cognato, e un alcolizzato che è il capro-espiatorio della banda. I tre amici erano combattenti falangisti e dal modo in cui hanno piacere nell'uccidere i conigli per nessun motivo, fa evidentemente pensare ai massacri ai quali hanno partecipato durante la guerra civile. Vi fanno d'altronde allusione osservando che “è un buon posto per uccidere”. E uno dei due aggiunge, preparando il materiale: “la miglior caccia, è la caccia all'uomo”. Enrique non ha che vent'anni, è nato dopo la guerra civile e ascolta senza capire bene le intenzioni dei vincitori frustrati. È venuto per cacciare.

In La Caza, così come in Morte di un ciclista di Bardem, il disprezzo per i poveri, i “perdenti” è flagrante. Vi è da una parte la battuta di caccia per i “padroni”, dall'altra la miseria di Juan, che custodisce il terreno e vive in un tugurio con sua madre malata e la sua nipote adolescente. Anch'egli caccia, con i suoi furetti, ma è per mangiare e non per divertirsi. Le differenze di classe emergono con l'atteggiamento sottomesso di Juan di fronte al padrone, per il suo rancore inespresso davanti al rifiuto di Josè di intervenire per aiutare a curare la madre impotente, malgrado la sua fedeltà che lascia supporre, che un tempo, è stato il battitore di un altro tipo di selvaggina che non di conigli.

A poco a poco, sotto una calura torrida, la tensione sale, l'odio sostituisce la comunicazione, dapprima impercettibilmente, attraverso gli sguardi, poi con le parole e i rimproveri. Un quarto di secolo dopo la vittoria franchista, i tre uomini sono con evidenza confrontati in un periodo difficile della loro vita, ma si deve far mostra della loro forza virile, lo esige il machismo. La camera è molto vicina, sfiora i volti, il sudore, i pori della pelle, i ghigni, come per penetrare i personaggi. La calura, l'alcol, l'eccitazione del massacro, i ricordi e i segreti dissimulati, i tabù – un amico suicida, un cadavere occultato in una grotta durante la guerra civile – amplificano l'aggressività degli uomini il cui passato comune non rappresenta più un cemento di complicità, ma piuttosto una sete di distruzione.

Tutto concorre all'accelerazione degli avvenimenti verso una fine tragica, il massacro intensivo dei conigli, il furetto abbattuto, le umiliazioni, gli insulti, il manichino portato dal villaggio usato come bersaglio e poi bruciato... Di colpo, è l'esplosione della violenza senza nessun controllo della patina sociale. La caccia diventa una carneficina da cui, soltanto Enrique esce indenne, atterrito dalla violenza della scena.

Carlos Saura dirà di La Caza che il film segna la svolta di un'espressione più personale del suo cinema: “Per me è un film chiave perché mi sono reso conto, allora, che era assurdo dedicarsi all'adattamento di romanzi o a trattare di personaggi che mi sono estranei. Ho dunque deciso di fare dei film unicamente su delle cose che conosco. In questo senso, tutti i miei film a partire da La Caza sono molto più personali di quelli che precedono... Mi trovavo là con dei personaggi in carne e ossa che conoscevo bene, erano i miei zii o i genitori dei miei amici...”. Ana e i lupi (1973) sarà la logica continuazione di La Caza, Un'altra parabola del regime franchista e dei vincitori.

La satira sociale, il neorealismo spagnolo, la farsa iconoclasta, la metafora sono altrettante espressioni che faranno del cinema spagnolo un vero strumento di sovversione politica e di critica sociale, questo malgrado la ferula della censura franchista. E si può vedervi un legame con lo slancio del cinema libertario che, tra 1936 et 1938, ha prodotto in autogestione un cinema d'autore di narrazione e documentario.

[Traduzione di Ario Libert]

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