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12 maggio 2012 6 12 /05 /maggio /2012 05:00

Luxemburg francobollo 1974

 

La strategia


Il marxismo contiene due elementi essenziali: l’elemento dell’analisi, della critica, e l’elemento della volontà attiva della classe operaia. E chi adopera soltanto l’analisi, non rappresenta il marxismo ma una miserabile parodia di questa dottrina.

ROSA LUXEMBURG


Se abbiamo tanto insistito fin qui nel mettere in rilievo l’importanza del metodo dialettico in Rosa Luxemburg e il significato del suo continuo riferimento alla totalità, è perché questa è la chiave per intendere non solo la sua costante polemica con il revisionismo ma tutta la sua strategia rivoluzionaria, fondata, come s’è visto, sul ristabilimento dell’unità dialettica fra azione quotidiana e scopo finale rivoluzionario.

Sotto questo aspetto il pensiero socialdemocratico era in piena crisi in quell’ultimo decennio dello scorso secolo che vedeva l’espandersi vittorioso del movimento pratico. Erano in crisi le vecchie tradizioni rivoluzionarie quarantottesche, vive ormai soltanto nell’alone romantico che circondava la figura di Guglielmo Liebknecht, “il soldato della rivoluzione”, e Federico Engels, alla vigilia della sua morte, aveva dato il crisma della sua autorità alla loro definitiva demolizione attraverso la prefazione alle Lotte di classe in Francia, che i dirigenti del partito erano riusciti a strappargli e che poi avevano pubblicato mutilata [103]. Ma erano in crisi anche le concezioni legate all’idea di un crollo della società capitalistica per effetto di una crisi catastrofica e come punto d’arrivo fatale della “miseria crescente”: la congiuntura economica smentiva le formulazioni troppo categoriche falsamente attribuite a Marx e sembrava addirittura smentire il fondamento stesso dell’analisi marxiana. A queste prospettive, che venivano progressivamente abbandonate, se ne sostituiva un’altra: quella dell’aumento costante dei voti socialisti e di una prossima maggioranza parlamentare che avrebbe dischiuso ai socialisti le vie del potere. Se si pensava ancora alla possibilità di un conflitto violento, era solo per l’ipotesi che la borghesia vi avesse fatto essa stessa ricorso rifiutandosi al passaggio legale e pacifico del potere. Questa sperata futura maggioranza parlamentare veniva così a rappresentare il legame fra l’azione quotidiana e lo scopo finale, un legame tuttavia che consentiva di occuparsi solo del presente perché il futuro altro non era che la somma aritmetica di tanti piccoli successi da riportarsi in ciascuno dei collegi elettorali in cui si divideva il Reich germanico.

La piatta routine che derivava da questa impostazione non poteva incontrare il favore di Rosa Luxemburg. Essa veniva da un paese a scarso sviluppo industriale come la Polonia, che era per di più parte dell’impero zarista, cioè di un impero che aveva da pochi decenni abolito la servitù della gleba e muoveva i primi passi verso l’industrializzazione essendo ancora dominato da forme politiche assolutistiche e precapitalistiche. Giovinetta aveva partecipato ai movimenti illegali nel suo paese e portava quindi con sé in occidente la carica rivoluzionaria propria dell’ambiente in cui si era formata; d’altra parte il suo cosmopolitismo ebraico, la vivacità del suo ingegno, la sua preparazione intellettuale, i suoi studi economici all’università di Zurigo e infine la sua esperienza di militante tedesca la disponevano a superare nettamente il condizionamento dell’ambiente d’origine e ad inserirsi nella realtà occidentale, pur senza perdere tuttavia il potenziale di lotta rivoluzionaria ch’essa aveva assimilato fin dalla primissima giovinezza. Avendo continuato a partecipare intensamente, e con funzioni di responsabilità, alla vita di due partiti che operavano in condizioni così diverse, quello tedesco e quello polacco, ed essendo per giunta portata dal suo profondo internazionalismo a seguire il movimento operaio di tutti i paesi, essa era nelle condizioni migliori per tentare una sintesi delle diverse esperienze, soprattutto delle due esperienze fondamentali, quella di un paese capitalistico sviluppato dove le preoccupazioni dominanti riguardavano l’azione quotidiana, nonostante tutti i discorsi rivoluzionari [104], e quella viceversa di un paese la cui situazione obiettiva, non lasciando che scarso spazio all’azione di ogni giorno, spingeva verso le rotture rivoluzionarie e verso le vecchie forme cospirative. “A cagione delle radici che aveva nel movimento russo-polacco, il radicalismo di Rosa Luxemburg aveva un carattere diverso da quello dei radicali tedeschi, con la sola eccezione di Liebknecht. Nel sentimento, volontà e pensiero di Rosa, la rivoluzione era sempre presente e prepararla era, come dice Clara Zetkin, la sua “sola ambizione”. Questa ambizione tentò di inoculare alla socialdemocrazia occidentale, soprattutto al partito tedesco. E in pari tempo essa cercò - la sua polemica contro Lenin lo dimostra - di rendere comprensibile l’essenza della democrazia al movimento russo-polacco, che era un movimento di cospiratori, e con l’essenza della democrazia essa intendeva la dignità di un uomo e la sua capacità di collaborare alla formazione del proprio destino” [105].

Questa sua tensione rivoluzionaria insieme con l’inflessibilità del suo carattere le resero particolarmente difficile l’acclimatamento nella vita della socialdemocrazia tedesca, dove certo non alitava uno spirito rivoluzionario, e resero più agevole il compito dei suoi avversari interni. “Fra i “padri del partito” della SPD, Rosa Luxemburg - col suo temperamento insolito per la concezione tedesca, con i suoi ideali non disposti a compromessi, che liberavano gli occhi dalla polvere della routine, che schiarivano e allargavano gli orizzonti - poteva suscitare un sentimento di estraneità piuttosto che di fiducia e di benevolenza. In breve però anch’essi dovettero convincersi che Rosa Luxemburg non era un meteorite dalla luce passeggera, ma un individuo sinceramente e totalmente, con tutto il suo essere e con tutta la sua coscienza, legato al movimento operaio. Ciò prevalse, anche se rimase sempre il sentimento di una certa estraneità di fronte a una militante che non concedeva mai nulla alla routine, che sempre cercava la soluzione, la via d’uscita da una data situazione. Perché fu lei per prima a rendersi conto che in seno a quel grande e forte partito, speranza allora di tutto il movimento operaio, aveva cominciato a penetrare il male, che lo rodeva già il verme dell’opportunismo, fu lei anche la prima che scosse la tranquillità dei dirigenti del partito” [106]. E in effetti fu non solo la prima a denunciare espressamente il revisionismo dichiarato dì Bernstein come una manifestazione di pensiero borghese, la presenza del nemico di classe nelle file del proletariato, ma fu anche la prima a scoprire il revisionismo e l’opportunismo latenti sotto la maschera dell’ortodossia marxista sia dei dirigenti che degli stessi radicali di pseudo-sinistra che non andavano più in là di un continuo richiamo verbale alla santità dei principi. Se ragioni tattiche la obbligavano spesso ad utilizzare nella polemica le parole stesse dei dirigenti, e quindi a far finta di tenerle per buone, le sue lettere recano chiara testimonianza del suo reale pensiero.

Fin dai suoi primi contatti con la socialdemocrazia tedesca scrive a Roberto Seidl a Zurigo denunciando il carattere “convenzionale, goffo (hölzern) e dozzinale (schablonenhaft)” degli articoli che vi si scrivono, e pochi anni dopo con lo stesso corrispondente parla senza veli del mondo ufficiale del partito che non consente neppure di scrivere la verità sui giornali socialisti [107]. L’anno appresso, in una lettera alla sua amica Roland-Holst, dà sfogo al suo animo contro l’atteggiamento politico di questo mondo ufficiale, apparentemente radicale ma sempre più dozzinale e senz’anima.

“Non sono per nulla entusiasta - essa scrive - del ruolo che il cosiddetto ‘radicalismo’ ortodosso ha giocato sin qui. Correre dietro alle singole sciocchezze opportunistiche e ripeterne la critica non è un lavoro che mi rallegri, piuttosto sono così cordialmente stufa di quest’ufficio che in questi casi preferisco di gran lunga tacere. Io ammiro anche la sicurezza con cui parecchi dei nostri amici radicali ritengono sempre necessario riportare la pecorella smarrita - il partito - nella sicura stalla nativa della “saldezza dei principi” e non sentono che in questo modo puramente negativo non fanno nessun passo avanti. E per un movimento rivoluzionario non andare avanti significa andare indietro. Il solo mezzo per combattere radicalmente l’opportunismo è proprio di andare avanti, di sviluppare la tattica, di accentuare il lato rivoluzionario del movimento. L’opportunismo è in generale una pianta palustre, che si sviluppa rapidamente e abbondantemente nell’acqua stagnante del movimento (operaio, n. d. L. B.); deperisce quando c’è una corrente robusta e gagliarda. Qui in Germania l’andare avanti è direttamente un bisogno urgente, bruciante). E questo lo sentono pochissimi. Gli uni si disperdono in piccole scaramucce con gli opportunisti, gli altri credono che la crescita automatica, meccanica, di numero (nelle elezioni e nell’organizzazione) significhi già per se stessa un andare avanti. Essi dimenticano che la quantità deve cambiarsi in qualità, che un partito di 3 milioni non può fare ancora gli stessi movimenti automatici che faceva un partito di mezzo milione. A lei non ho bisogno di dire che io non penso certo a qualche improvviso ‘scendere in strada’ o a qualche altra artificiosa avventura. Ma tutto il lavoro deve assumere un altro tono più profondo, la coscienza della propria forza deve aumentare e... ma basta perché altrimenti introduco in una lettera un articolo di fondo” [108].

Poco appresso, in occasione della rivoluzione russa e del dibattito sullo sciopero generale, comincia il suo raffreddamento con Kautsky, di cui essa vede i limiti e le contraddizioni fra le parole e gli atteggiamenti pratici; in una lettera del 1907 a Clara Zektin espone senza riserve anche il suo pensiero su Bebel, il leader incontrastato del partito, e su tutto il partito ch’egli dirige: “Io mi sento, dopo il mio ritorno dalla Russia, passabilmente sola (...) Sento la pusillanimità e la grettezza di tutto il nostro partito in un modo così aspro e doloroso come non mai per il passato. Ma non m’inquieto per queste cose come te, perché ho già capito con impressionante chiarezza che queste cose e questi uomini non si possono cambiare fino a quando la situazione non sia interamente mutata, e anche allora (...) dovremo né più né meno fare i conti con l’inevitabile resistenza di questa gente se dovremo condurre avanti le masse. La situazione è semplicemente questa: Augusto [109], e tanto più gli altri, si sono totalmente buttati via per il parlamentarismo e nel parlamentarismo. A qualunque svolta che esca dai limiti del parlamentarismo, falliscono completamente; anzi, di più, cercano di reincastrare tutto entro le sbarre parlamentaristiche, e quindi combatteranno rabbiosamente come ‘nemici del popolo’ tutti e chiunque vorrà uscirne. Sento che le masse e ancor più la grande massa dei compagni sono intimamente stufe del parlamentarismo. Esse saluterebbero con giubilo una corrente d’aria fresca nella tattica, ma le vecchie autorità pesano ancora su di loro e ancor più gli strati superiori dei giornalisti, deputati e sindacalisti opportunisti (...) Finché si trattava di difendersi contro Bernstein e C., Augusto e C. gradivano la nostra società e il nostro aiuto giacché da soli se la son fatta nei calzoni. Ma se si passa all’offensiva contro l’opportunismo, allora i vecchi stanno con Ede [110], Vollmar e David contro di noi” [111].

Questi giudizi di Rosa non hanno tanto un valore personale quanto un significato politico in quanto mettono in rilievo come, dietro le formule marxiste e le affermazioni classiste di Kautsky e di Bebel, si celasse fin da allora un’accettazione della prassi riformistica. La stessa Luxemburg, del resto, aveva riconosciuto, come vedremo, che la differenza fra una posizione rivoluzionaria e una riformistica, non stava tanto nel “che cosa”, cioè negli obiettivi di lotta quotidiana, quanto nel “come”, cioè nel collegamento di questi obiettivi allo scopo finale: se questo collegamento, pur proclamato a parole, veniva in fatto a mancare, se la prospettiva socialista non influiva sul cosiddetto “programma minimo” e questo rimaneva fine a se stesso, ecco che la linea ufficiale si confondeva nei fatti con la linea revisionistica. Di fronte ad essa la linea rivoluzionaria della Luxemburg - nonostante la leggenda diffusa ad opera dei suoi avversari di una “Rosa sanguinaria” o, “romantica della rivoluzione” (“petroliera romantica” la chiamò addirittura, con valutazione totalmente errata, Piero Gobetti) - era una linea marxista, nutrita di studi severi e di realismo politico. Nel corso della guerra mondiale, quando ormai era in piena rottura con la socialdemocrazia ufficiale e sentiva l’avvicinarsi della rivoluzione postbellica, essa esaltava ancora la nuova strategia marxista che ha messo il lavoro al posto delle barricate, ma a condizione di “indirizzare la tattica di combattimento di ogni ora versa l’immutabile meta finale [112]. E quello che essa contestava nella prassi socialdemocratica era appunto che l’azione quotidiana avesse questo indirizzo verso la meta finale.

Cerchiamo ora di vedere con chiarezza il contrasto di fondo fra le due concezioni. Gioverà innanzi tutto richiamare quanto si è già detto sulla differenza fra una visione evoluzionistica e una visione dialettica della storia. La prima, nettamente dominante nel pensiero socialdemocratico, vedeva la storia svolgersi in modo rettilineo, il socialismo dovendo succedere al capitalismo come una stazione segue un’altra lungo una linea ferroviaria. Anche per coloro che non avevano abbandonato l’ideale socialista e in buona fede credevano di lavorare per esso, tutto il lavoro consisteva nel fare di volta in volta qualche piccolo passo avanti, vuoi sul piano delle conquiste economiche vuoi su quello delle conquiste politiche, ogni passo rappresentando un sicuro avvicinamento alla meta. E la meta non era, in questa visione, concepita come un rovesciamento rivoluzionario bensì come la trasformazione graduale, progressiva, quasi insensibile, della società attuale nella società socialista. Perciò ogni sforzo doveva essere fatto per attenuare i contrasti, per smussare le punte, per trovare compromessi, per non esasperare le situazioni, per evitare le crisi acute, perché intanto la storia continua a camminare e, purché si abbia pazienza, arriverà dalla stazione capitalistica alla stazione socialista. Tutt’al più si deve cercare di impedire agli avversari che spingano indietro il corso della storia: in questo senso è giusto dire, come fa Schorske, che la tattica di Bebel era una tattica difensiva, e anche gli accenni alla violenza o allo sciopero generale che si trovano nei suoi discorsi sono collocati in una prospettiva difensiva [113].

Esattamente l’opposto era la concezione luxemburghiana. Per essa la storia non cammina in modo rettilineo ma per contrasti dialettici, attraverso la lotta di classe. Vi è una necessità storica, come s’è visto, nel senso che la storia non può essere fatta arbitrariamente, non è un negozio dove si possa comprare quello che si vuole [114], ma dove il presente condiziona sempre il futuro. Tuttavia questo presente essendo contraddittorio, la società attuale essendo lacerata da profondi contrasti di classe, vi si contengono tendenze contraddittorie: l’imperialismo e il socialismo sono entrambe tendenze obiettive dello sviluppo sociale. Perciò se si vuole che la tendenza socialista dello sviluppo storico prevalga sull’altra, bisogna combattere duramente, ad ogni passo, ma bisogna farlo in modo rigorosamente scientifico. Bisogna cioè in primo luogo individuare le tendenze obiettive dello sviluppo social [115], cogliere di esso il lato rivoluzionario [116], e spingere fortemente in questa direzione in modo da accrescere sia il contrasto con la classe dominante, che necessariamente punta sull’opposto lato dello sviluppo storico, sia, di conseguenza, la coscienza rivoluzionaria delle masse [117]. Non si tratta quindi semplicemente di pazientare ma di agire [118]. Certo anche per Rosa Luxemburg, come è ovvio, vi sono momenti di tensione più o meno acuta, vi sono gli alti e i bassi della lotta, ma non possono esservi mai soste in senso assoluto perché la situazione fornisce sempre occasioni e spunti alle agitazioni e alle battaglie. Tanto più è inammissibile volere evitare la lotta aperta nei momenti di crisi: “È una pazzesca follia immaginare che noi dobbiamo soltanto sopravvivere alla guerra, come il coniglio che aspetta sotto un cespuglio la fine del temporale per riprendere poi tutto vispo la sua corsa”, scrive contro l’attendismo di Kautsky [119]. E poiché la storia non segue un cammino rettilineo, ma contrastato, accidentato e perciò stesso diversificato, le situazioni non si ripetono identiche ed è impossibile voler applicare delle ricette o delle formule valide in ogni caso, come pretendono i burocrati dell’organizzazione e i filistei del “parlamentarismo soltanto”: la lotta dev’essere sempre una lotta concreta, fondata su un’analisi spregiudicata capace di cogliere nel vivo la realtà mutevole dei rapporti di classe e delle posizioni di forza. “La moderna classe proletaria conduce la sua lotta non secondo uno schema bell’e pronto custodito in un libro o in una teoria. La moderna lotta operaia è un pezzo di storia, un pezzo di sviluppo sociale. E in mezzo alla storia, in mezzo allo sviluppo, in mezzo alla lotta, noi impariamo come dobbiamo lottare (...) Il primo dovere dei militanti politici, come noi siamo, è di procedere con lo sviluppo dei tempi e di rendersi conto ad ogni momento dei mutamenti nel mondo moderno e dei cambiamenti della nostra strategia di battaglia” [120].

Nessuno schema quindi, nessun modello preformato, ma neppure empirismo. Al contrario. La necessaria varietà di tattiche e di strategie che è una conseguenza inevitabile della varietà delle situazioni (e il rivoluzionario che non sapesse cogliere e sfruttare la molteplicità del reale sarebbe un dogmatico e non un marxista) si applica tuttavia soltanto per quanto riguarda i “momenti interni” dello sviluppo: lo sbocco finale dev’essere sempre lo stesso e le linee essenziali della strategia sono costanti. “Naturalmente nemmeno la tattica corrente della socialdemocrazia consiste nell’attendere lo sviluppo delle contraddizioni capitalistiche fino all’acme e solo a quel punto un loro mutamento repentino. Al contrario, ci basiamo semplicemente sulla direzione ormai riconosciuta dello sviluppo ma poi nella lotta portiamo all’estremo le sue conseguenze e in ciò sta l’essenza di ogni tattica rivoluzionaria” [121]. E ancora: la socialdemocrazia “non può e non deve attendere fatalisticamente, con le braccia incrociate, l’arrivo della “situazione rivoluzionaria” (...) Al contrario essa deve, come sempre, precorrere lo sviluppo delle cose, cercare di affrettarlo. Ma essa non può farlo distribuendo improvvisamente, al momento giusto o sbagliato, la “parola d’ordine” campata per aria di uno sciopero generale, ma innanzi tutto chiarendo ai più vasti strati proletari la venuta inevitabile di questo periodo rivoluzionario, i momenti sociali interni che ad esso conducono e le conseguenze politiche” [122].

È ora probabilmente chiaro il significato di quell’accenno che abbiamo fatto più sopra al “che cosa” e al “come” nella differenza fra strategia rivoluzionaria e opportunista. Infatti Rosa Luxemburg non nega la validità delle rivendicazioni che formano il cosiddetto “programma minimo” della socialdemocrazia, la validità delle riforme parziali e delle conquiste limitate, come non contesta il valore del “piccolo lavoro quotidiano”, perché anzi è proprio da questo lavoro quotidiano ch’essa vuol fare scaturire lo sbocco rivoluzionario. Ma mentre per i revisionisti e, come si è detto, anche per i centristi e i sedicenti “ortodossi”, queste conquiste parziali hanno un valore per se stesse o sono tutt’al più delle tappe lungo la strada maestra che porta al socialismo, per Rosa Luxemburg esse servono anche dialetticamente a mostrare quella che è l’essenza della società capitalistica e i limiti invalicabili che essa presenta. Perciò apparentemente tutti vogliono le stesse cose: conquiste sindacali, riforme sociali e democratizzazione delle istituzioni politiche. Ma in realtà “quando si considera la cosa più da vicino, le due concezioni sono addirittura contrapposte”, perché per la concezione rivoluzionaria tutte queste conquiste, al di là del loro valore immediato, devono servire a convincere il proletariato “dell’impossibilità di cambiare fondamentalmente la propria situazione per mezzo di questa lotta e della conseguente imprescindibile necessità di arrivare infine alla conquista del potere politico” [123].

In altre parole, le lotte e le conquiste non possono mutare la natura fondamentale dell’imperialismo e le sue insopprimibili tendenze: perciò appunto servono a metterle meglio in evidenza, accrescono con ciò la volontà di lotta e la coscienza di classe dei lavoratori, e aumentando in tal modo la tensione sociale conducono alla crisi finale. Questa crisi finale gli opportunisti l’avevano praticamente espunta dalla loro visione storica perché non vi si addiceva più: concepita la storia come una strada maestra che porta per via di evoluzione graduale a tappe sempre più avanzate, parlare di crisi finale o di catastrofe significava introdurre dall’esterno nel processo storico un elemento arbitrario, contrario alla logica del processo storico, di sapore blanquistico. E quanto ai pretesi ortodossi che si mantenevano fedeli all’idea di una crisi finale della società capitalistica, essi tuttavia non riuscivano a legarla alla lotta quotidiana, perché appunto non riuscivano a vedere il carattere dialettico di quest’ultima: per essi perciò il famoso “crollo” del capitalismo appariva piuttosto come qualche cosa di astratto, lontano, meccanico, quasi l’esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da una forza trascendente, il decreto del destino o della storia. Nella visione di Rosa Luxemburg, proprio per il significato che essa dà alla lotta quotidiana, come mezzo continuo di intervento cosciente nel processo storico per far trionfare una delle sue tendenze di sviluppo contro un’altra, la crisi rivoluzionaria non è altro che il punto terminale di questo processo di sviluppo, all’interno del quale la tensione fra i due poli opposti è andata crescendo fino a giungere al punto di rottura. “Le catastrofi, essa avverte, non sono in contrasto con lo sviluppo ma sono un momento, una fase dello sviluppo” che solo i piccolo borghesi possono concepire “come un insensibile processo di diverse fasi e gradi di sviluppo che scivolano l’uno nell’altro in modo del tutto pacifico” [124].

Nel quadro di queste linee strategiche profondamente divergenti, era naturale che la Luxemburg si scontrasse su tutti i terreni con la politica pratica condotta dal partito. Tre campi di attività aveva indicato Engels alla lotta proletaria, quello economico, quello politico e quello ideologico, ma quest’ultimo era praticamente abbandonato, almeno come campo di lotta per affermare un’autonoma posizione di classe del proletariato, ché anzi erano le ideologie borghesi che `facevano ogni giorno più breccia nel campo socialdemocratico. Restavano la lotta economica e la lotta politica, concepita la prima essenzialmente come lotta sindacale (il movimento cooperativo non aveva larghe prospettive) e la seconda come lotta parlamentare. Possono queste forme d’azione essere considerate per se stesse rivoluzionarie, capaci, come sostenevano i revisionisti, di fare sbocciare quasi silenziosamente il socialismo dalla società capitalistica, attenuandone a poco a poco le contraddizioni, mitigandone l’asprezza, introducendovi sempre nuovi elementi socialisti attraverso un processo graduale e insensibile? La Luxemburg lo contesta e mostra invece che azione sindacale e azione parlamentare, in quanto si svolgono per loro natura all’interno del sistema e quindi gli si subordinano, non possono da sole modificarne radicalmente la sostanza.

I sindacati sono lo strumento migliore per creare le condizioni più favorevoli ai lavoratori per la vendita della propria forza-lavoro sul mercato capitalistico, ma sul terreno salariale non possono andare al di là di questo obiettivo, cioè ottenere il massimo prezzo possibile consentito dalle leggi del mercato capitalistico. Bernstein assegnava ai sindacati la funzione di erodere progressivamente la quota del reddito nazionale spettante al profitto a favore della quota spettante ai salari, fino ad uccidere il profitto e quindi il capitalismo, ma Bernstein dimentica, osserva la Luxemburg, che questa lotta del salario contro il profitto non si svolge in astratto, bensì sul concreto terreno della società capitalistica e non può quindi da sola infrangerne il meccanismo fondamentale che è appunto il meccanismo del profitto. Anzi poiché il profitto tende di sua natura al massimo di espansione, è di sua natura all’attacco, la lotta sindacale finisce spesso con l’essere una lotta difensiva per mantenere la quota conquistata, per contenere la pressione dello sfruttamento capitalistico: è in ultima analisi un lavoro di Sisifo, che dev’essere proseguito instancabilmente senza che possa mai toccare, almeno con i suoi soli mezzi, il porto d’approdo, cioè l’emancipazione del lavoro.[125] I dirigenti sindacali attaccarono ferocemente la Luxemburg per questa espressione “lavoro di Sisifo” come se essa avesse tacciato di inutilità la lotta sindacale: in realtà essa intendeva semplicemente chiarire i limiti dell’azione sindacale, incapace di far superare al movimento operaio i confini della società capitalistica, ma ne esaltava viceversa il valore per i risultati che poteva conseguire nell’ambito della società stessa.[126]

Questa diversità di valutazione non aveva solo implicazioni teoriche: essa si rifletteva necessariamente anche nell’azione pratica, soprattutto sul terreno dei rapporti fra sindacato e partito. I revisionisti e gli opportunisti (e i leader sindacali erano in prima fila in questa schiera), essendo portati a dissolvere la lotta per il socialismo nella azione quotidiana, cioè nella lotta parlamentare e in quella sindacale, finivano con il concepire questi due campi di attività come due manifestazioni di egual valore ed autonome del movimento operaio: donde, in pratica, la teoria dell’autonomia e della parità di diritti fra partito e sindacati, teoria che ebbe la sanzione dei congressi e fu consacrata in un patto che impegnava la direzione del partito a consultarsi con la commissione generale sindacale prima di prendere decisioni che potessero impegnare i lavoratori in azioni ritenute di interesse sindacale. Contro questa pretesa parità di diritti la Luxemburg insorse vivacemente in nome dell’unità del movimento operaio che non può essere dicotomizzato in settori separati e indipendenti. Ancora una volta è il concetto di totalità che essa oppone agli opportunisti i quali frantumano il movimento in pezzi staccati: lo scopo finale del movimento è uno scopo politico, l’emancipazione dei lavoratori dallo sfruttamento capitalistico, e questo scopo può essere perseguito coscientemente solo dall’organizzazione politica del proletariato, il partito socialista, che, in quanto tale, rappresenta la totalità del movimento. La lotta sindacale è solo un momento di questa totalità e non può esser vista se non in relazione al tutto, al quale dev’essere subordinata. La parità di diritti fra sindacato e partito è quindi un assurdo sul piano teorico, anche se nella pratica della socialdemocrazia tedesca di quel tempo trovava la propria giustificazione nel fatto che il partito aveva rinunciato a porsi come espressione della volontà rivoluzionaria cosciente del proletariato, come guida dell’azione complessiva di classe e aveva ridotto la propria attività al mero parlamentarismo, cioè anche esso ad un’azione che può svolgersi solo sul terreno della presente società, con il che esso abbandonava in pratica lo scopo finale cessando pertanto di essere il momento unificatore della totalità.[127]

Naturalmente questa subordinazione del sindacato al partito in senso luxemburghiano - che comunque va inquadrata nella concreta situazione del tempo - non va confusa con la teoria del sindacato mera “cinghia di trasmissione” della volontà, o, peggio, degli ordini del partito. Rosa Luxemburg non disconosce l’autonomia dell’organizzazione sindacale nella sfera della sua propria attività; solo ritiene che quest’attività possa essere concepita soltanto come momento di una azione più vasta, politica nel senso più lato della parola, che fa capo al partito. Vista in questo quadro l’azione sindacale non si esaurisce nelle sue realizzazioni immediate, ma ha un compito formativo di coscienza che è in un certo senso il suo punto più alto. Si tratta precisamente di avviare i lavoratori a toccare con mano i limiti di classe della presente società, a vedere come un’emancipazione reale dallo sfruttamento di cui son vittime sia impossibile nell’ambito del presente ordinamento e richieda necessariamente un profondo rivolgimento sociale che porti all’instaurazione di un regime socialista: non tanto quindi per quello che ottiene - anche se è un miglioramento importante - ma soprattutto per quello che non può ottenere, il movimento sindacale contribuisce efficacemente alla lotta socialista. Questo è possibile solo se il sindacato si tiene sul terreno marxista della lotta di classe, che ha fatto la ragione della sua forza e della sua superiorità sugli altri sindacati: pretendere alla parità di diritti, pretendere conseguentemente ad una propria autonoma “teoria” sindacale significa privare il sindacato della sua forza principale che è la dottrina marxista, cioè precisamente la dottrina che dà al sindacato la coscienza della sua funzione nel movimento globale[128], e farne in definitiva un ingranaggio del meccanismo borghese.

Analoghe considerazioni si possono fare per la lotta parlamentare, considerata non come un momento dell’azione di classe, ma come la forma per eccellenza della lotta emancipatrice, secondo la teoria allora di moda che l’aumento progressivo dei voti socialisti avrebbe portato, senza bisogno d’altro, alla consacrazione “parlamentare” del socialismo. La Luxemburg, lo abbiamo visto, aborriva dagli schemi di validità universale, e perciò non escludeva la possibilità di un passaggio pacifico al socialismo ma escludeva che si potesse farne un principio generale, risultato di una scelta socialista perché la lotta di classe si svolge nelle condizioni storiche date e deve adattarsi concretamente ad esse. “Il problema: rivoluzione o passaggio puramente legale al socialismo? non è un problema della tattica socialdemocratica, ma innanzi tutto un problema dello sviluppo storico[129],ma sarebbe assurdo decidere a priori l’uso dei soli mezzi legali perché “quel che ci viene presentato come legalità borghese è nient’altro che la forza della classe dominante elevata a priori a norma obbligatoria”.[130] In questa prospettiva, che ammette la possibilità di mezzi legali e mezzi illegali di lotta, l’azione parlamentare ha pieno diritto di cittadinanza, è anzi uno strumento efficace a condizione che non se ne sopravaluti l’importanza. Nei periodi tranquilli della società borghese, “la lotta politica della socialdemocrazia sembra consumarsi nella lotta parlamentare. Ma la lotta parlamentare, l’altra faccia che fa riscontro e completa la lotta sindacale, è come questa una lotta condotta esclusivamente sul terreno dell’ordinamento sociale borghese. È, secondo la sua natura, lavoro di riforma politica, come i sindacati sono lavoro di riforma economica. Essa rappresenta lavoro politico del presente, come i sindacati rappresentano lavoro economico del presente. L’una e gli altri sono soltanto una fase, un grado di sviluppo nel complesso della lotta proletaria di classe, i cui scopi finali vanno in eguale misura al di là della lotta parlamentare e della lotta sindacale. La lotta parlamentare perciò sta alla politica socialdemocratica, anch’essa come una parte al tutto, precisamente come il lavoro sindacale” [131]. Se si pretende di elevare questa parte a tutto, come faceva allora il partito nel Baden, ci si subordina alla società borghese: generalizzando a tutta la Germania la prassi del Baden “la socialdemocrazia avrebbe semplicemente cessato di esistere” [132]. La parola d’ordine “nient’altro che parlamentarismo” è una manifestazione di “cretinismo parlamentare” secondo l’espressione di Marx [133]. Ma quando si abbia coscienza che “le mosse parlamentari e le strategie elettorali non hanno possibilità di modificare i fatti storici”[134] e che la vera forza del partito sta nella coscienza e nella compattezza delle masse (“la nostra vera vittoria e la nostra vera potenza stanno nei 4 milioni e mezzo di elettori (...) ed è soltanto la pressione di queste masse dall’esterno che conferisce importanza al nostro gruppo nel Reichstag, conti esso 20 uomini di più o di meno”) [135], il terreno parlamentare è un terreno di lotta che il partito deve utilizzare ampiamente e proficuamente.

Le cose sin qui dette potrebbero far apparire assurdo a un lettore superficiale che Rosa Luxemburg si sia poi trovata, in seno alla socialdemocrazia tedesca, alla punta della lotta per la conquista del suffragio universale in Prussia (dove vigeva ancora il suffragio delle tre classi) e in generale in tutte le battaglie per la democratizzazione delle istituzioni tedesche. Ma non vi è in verità nulla di assurdo e di strano. Anche se Rosa Luxemburg non credeva nella panacea parlamentaristica, credeva però fermamente nei valori democratici e nell’importanza che essi avevano per elevare la coscienza e la maturità delle masse lavoratrici cui spettava la responsabilità di assumere la direzione del processo storico. E d’altro canto, a differenza dei suoi compagni di partito, essa non si faceva nessuna illusione sulla democraticità della società capitalistica, sul processo naturale di sviluppo democratico che avrebbe dovuto a poco a poco consegnare il potere nelle mani dei lavoratori. Al contrario essa fu tra i primi a riconoscere che la società capitalistica, giunta in quegli anni alla fase dell’imperialismo, recava in sé i germi di distruzione della vita democratica e che pertanto era necessario dare su questo terreno una battaglia senza quartiere alle forze dell’avversario.

Individuare le tendenze storiche dello sviluppo capitalistico e contrapporgli le tendenze dello sviluppo socialista: abbiamo visto che questo era il fondamento della strategia luxemburghiana. Una volta riconosciuto che l’imperialismo, ben lungi dal favorire la vita democratica, come credevano i socialdemocratici suoi contemporanei, era invece per sua natura portato a soffocarne anche i germi, Rosa Luxemburg non poteva non vedere in ciò una delle contraddizioni fondamentali del suo tempo, dato che, contemporaneamente, l’imperialismo trascinava nuove masse nel processo produttivo e poneva quindi a queste masse il problema di una propria promozione sociale e civile, che è inseparabile da una crescita democratica. Ed ecco perché, mentre i dirigenti ultraparlamentari del partito, fedeli alla tattica della difensiva, della pazienza, dell’attesa, si preoccupavano di non inasprire le situazioni, pensando che la bufera sarebbe passata, di mostrarsi concilianti per acquistare nuovi elettori nelle file pacifiche del ceto medio, di non dare battaglia e di non correre rischi per non provocare la collera della reazione e non mettere a repentaglio la sorte delle organizzazioni politiche e sindacali [136], e mentre il “marxista” e “rivoluzionario” Kautsky inventava la nuova strategia, la strategia dell’usura (Ermattungsstrategie) [137] , cioè del non far nulla, Rosa Luxemburg si poneva alla testa dell’agitazione per il suffragio universale e, fra lo scandalo e il terrore dei suoi compagni di partito, lanciava la parola d’ordine della repubblica.

Fin dal suo pamphlet contro Bernstein del 1898, Rosa Luxemburg aveva dato questa impostazione alla lotta democratica del proletariato. “Il progresso costante della democrazia che al nostro revisionismo come pure al liberalismo borghese appare la legge fondamentale della storia umana, o almeno della storia moderna, visto più da vicino, risulta essere una chimera. (...) Se noi prescindiamo così da una legge storica generale dello sviluppo della democrazia, anche nel quadro della società moderna, e guardiamo soltanto alla fase attuale della storia borghese, vediamo anche qui, nella situazione politica, dei fattori che, anziché condurre alla realizzazione dello schema bernsteiniano, conducono piuttosto in senso contrario, all’abbandono da parte della società borghese delle precedenti conquiste.” Fra le cause che spingono in questa direzione, Rosa Luxemburg indicava allora, oltre il fatto che le istituzioni democratiche avevano esaurito in gran parte la funzione utile alla borghesia nella fase di ascesa al potere, il peso crescente dell’amministrazione e quindi della burocrazia nella vita statale, ma soprattutto lo sviluppo dell’imperialismo e del militarismo (“ma se politica mondiale e militarismo sono una tendenza in espansione nella fase attuale, la democrazia borghese deve di conseguenza muoversi lungo una linea discendente” dove “politica mondiale” è sinonimo di imperialismo), e, infine, la paura della classe dirigente davanti all’avanzata del movimento operaio. Ne consegue che “se per la borghesia la democrazia è diventata un elemento in parte superfluo, in parte di ostacolo, essa per la classe operaia, invece, è diventata necessaria e indispensabile. Necessaria prima di tutto in quanto offre le forme politiche (autogoverno, diritto elettorale) che serviranno al proletariato da appigli e punti di appoggio nella sua opera di trasformazione della società borghese. Ma anche indispensabile, perché solo in essa, nella lotta combattuta per la democrazia, nell’esercizio dei diritti democratici, il proletariato diviene cosciente dei propri interessi di classe e dei propri compiti storici. La democrazia insomma è indispensabile, non in quanto rende superflua la conquista del potere politico da parte del proletariato, ma al contrario perché fa di questa conquista una necessità e al tempo stesso l’unica possibilità[138].

E qualche anno dopo: “Se il partito socialdemocratico operaio in tutti i paesi combatte per una maggiore influenza sulla legislazione e sull’amministrazione, per il suffragio universale, per la scuola obbligatoria e gratuita, ecc., non è perché queste siano soltanto delle “belle idee” come avrebbe detto il probo signor Limanowski, e debbano necessariamente collegarsi al socialismo, che non è meno “bella idea”, ma perché tutte queste forme democratiche, necessarie al proletariato, derivano dallo sviluppo della società borghese, dallo sviluppo del capitalismo. Ciò non è cambiato dal fatto che il proletariato oggi combatta soprattutto per la democratizzazione dello Stato borghese, non insieme alla borghesia, ma contro la borghesia. Questo fatto dimostra che ad un certo grado di maturità degli antagonismi di classe, la borghesia cessa di essere la rappresentante dello sviluppo borghese, la direzione delle cui correnti progressiste si arroga il proletariato[139].

In altre parole, Rosa Luxemburg considerava che nella fase imperialistica, esaurita ormai definitivamente la funzione democratica della borghesia, era il proletariato che doveva porsi alla testa della lotta per la democrazia, non per completare la rivoluzione borghese, ma per aprire, grazie all’egemonia conseguita su questo terreno, la nuova fase della rivoluzione socialista. Dopo la rivoluzione russa del 1905 essa vedeva con sempre maggior chiarezza questa funzione storica del proletariato, e perciò respingeva la tesi menscevica secondo cui la rivoluzione socialista avrebbe dovuto attendere che la borghesia avesse prima compiuto il ciclo della rivoluzione democratica, perché questa rivoluzione democratico-borghese, nella fase dell’imperialismo, era ormai esclusa [140].

Ma dove questa strategia luxemburghiana ha avuto un’influenza notevole nello sviluppo successivo del movimento operaio è stato sul problema della guerra. Qui si può dire che sia stata Rosa Luxemburg ad introdurre un importante elemento di originalità nell’analisi dello sviluppo e nell’individuazione del tipo di catastrofe, interna allo sviluppo, a cui il capitalismo andava incontro. Sia Marx che i suoi successori avevano generalmente puntato su una crisi economica come matrice di rivoluzione ed era contro questa opinione che Bernstein aveva condotto la sua battaglia. Nel replicargli, la Luxemburg dichiarava di non considerare essenziale l’idea che una crisi economica dovesse segnare il momento dello sfacelo: “Che questo momento sia stato concepito sotto forma di una crisi economica generale e catastrofica non è accaduto naturalmente senza buone ragioni, ma nondimeno rimane per l’idea fondamentale un fatto marginale e non essenziale” [141]. Quel che era essenziale era che lo sviluppo capitalistico contenesse in sé necessariamente elementi di crisi e nella fase nuova dell’imperialismo questo elemento poteva essere la guerra [142]. Abbiamo visto come Rosa Luxemburg partisse dal concetto che l’imperialismo non è manifestazione patologica del regime capitalistico ma è il suo modo di essere nella fase che il mondo attraversa; che dietro ai sottili giochi della politica mondiale delle grandi potenze imperialistiche agiscono delle tendenze economiche che rappresentano per il capitalismo una “necessità storica”; che esso comporta necessariamente in tempo di pace il militarismo e la corsa al riarmo, e che tutto ciò sboccherà inevitabilmente in una guerra. Questo tema della guerra era per la verità tornato spesso nei congressi dell’Internazionale e gli anarchici avevano con insistenza proposto lo sciopero generale da scatenarsi in concomitanza con la dichiarazione di guerra, proposta che era stata respinta come utopistica e di impossibile attuazione. Per contro le correnti socialiste di destra, per le quali l’imperialismo era un fatto patologico che si poteva correggere, si illudevano che anche la guerra fosse evitabile con accorgimenti diplomatici o conferenze sul disarmo e non pensavano certo alla guerra come possibile sbocco rivoluzionario.

Spetta pertanto alla Luxemburg il merito di aver. portato in primo piano in seno al movimento internazionale il fattore militarismo e guerra come un potenziale fattore rivoluzionario. Avendo individuato in esso uno degli aspetti imperialistici della “necessità storica”, essa capì che solo il movimento operaio poteva contrapporgli la difesa della pace [143]: se in questo senso fosse stata condotta un’azione energica, tenace e chiarificatrice per preparare le masse ad intendere il carattere imperialistico della guerra e la natura di classe dello Stato, per abituarle a combattere il militarismo in tempo di pace e insomma per minare nella coscienza popolare l’ossequio alle autorità costituite, politiche e militari, e sostituirvi invece uno spirito di accesa combattività contro l’oppressione che ne deriva e contro il pericolo di guerra, questo stato d’animo avrebbe potuto diventare il punto di partenza di un’agitazione contro la guerra e contro le sue conseguenze, suscettibile di sboccare in una crisi rivoluzionaria nel corso o al termine della guerra stessa.

In questa prospettiva sono da collocare le sue analisi sul militarismo e l’imperialismo di cui abbiamo parlato, in questa prospettiva la sua tenace campagna antimilitaristica [144], che condusse insieme con Karl Liebknecht ma senza l’appoggio sostanziale del partito. La storia doveva darle ragione con la prima rivoluzione russa del 1905, nata nel corso della guerra russo-giapponese, e con le rivoluzioni che hanno accompagnato e seguito le due guerre mondiali. Ma la sua campagna in questo senso data dal 1900, al termine del decennio che segna, si può dire, l’avvento della fase imperialistica[145]: al congresso del partito tedesco a Magonza (settembre 1900) Rosa Luxemburg e i suoi compagni di sinistra avevano particolarmente insistito su questo punto [146]. Fu dunque a giusto titolo che al congresso internazionale di Parigi, immediatamente successivo a quello di Magonza, essa fu nominata relatrice della IV commissione (pace internazionale, militarismo, soppressione degli eserciti permanenti) e in quella sede fece valere le sue concezioni, mettendo in rilievo quello che vi era di nuovo sotto questo aspetto, cioè “che la politica del militarismo si è generalizzata e accentuata sotto la forma della politica mondiale dell’imperialismo”, che con ciò “la società borghese è entrata in una fase nuova della sua evoluzione; il mondo capitalistico prende nuovo slancio nel suo sviluppo” ma “precipita il momento fatale della sua disfatta”. “Poiché questa politica - essa aggiunse - comincia a dominare tutta la politica interna ed estera del mondo capitalistico, è necessario che nella politica socialista si organizzi la difesa. È tempo che per mezzo dei suoi rappresentanti il partito socialista prenda ufficialmente atto della politica mondiale; è questo appunto che noi abbiamo voluto mettere in rilievo con la nostra risoluzione (...). Ma non è soltanto per dare un nuovo slancio alla lotta quotidiana ma anche dal punto di vista del nostro scopo finale che un’unione più stretta dei proletari di tutti i paesi in materia politica si impone nel momento presente. Cittadini, all’inizio del movimento socialista, si supponeva generalmente che sarebbe una vasta crisi economica che segnerebbe il principio della fine, la grande débâcle capitalista. Ora quest’ipotesi ha perso molte delle sue probabilità; ma diventa sempre più probabile che sia invece una vasta crisi politica mondiale che suonerà l’ora della morte del capitalismo. Dunque, cittadini, se il Marlborough capitalista se ne va in guerra, dalla quale forse non tornerà più, se la politica mondiale genera conflitti e avvenimenti inattesi, incalcolabili, bisogna bene che noi ci prepariamo per il grande ruolo che ci toccherà assumere presto o tardi” [147].

La famosa risoluzione del congresso di Stoccarda (1907) non è che uno sviluppo di questa premessa: a Stoccarda, quando ormai anche i più ciechi dovevano prender atto che i pericoli di guerra si avvicinavano, il militarismo e i conflitti internazionali costituivano il primo e più importante comma dell’ordine del giorno. La delegazione tedesca, che dava il tono ai congressi internazionali, era formata prevalentemente da elementi di destra e Bebel aveva preparato una mozione del suo solito stile centrista in cui le parole erano scritte in generale per impedire gli atti. Di fronte ad essa stavano dinanzi al congresso altre tre risoluzioni: quella di Hervé che riprendeva l’idea dello sciopero militare e dell’insurrezione come risposta immediata ad ogni dichiarazione di guerra da qualunque parte venisse; quella di Guesde che respingeva qualunque idea di agitazione antimilitaristica in quanto il militarismo era inseparabile dal capitalismo e solo la vittoria integrale del socialismo lo avrebbe fatto sparire; infine quella di Jaurés-Vaillant che appariva la più realistica e la più seria nella definizione dei mezzi di lotta contro il militarismo. Nella sottocommissione incaricata di proporre una risoluzione al congresso, Rosa Luxemburg - che al congresso rappresentava la socialdemocrazia polacca - entrò su proposta di Lenin che all’uopo le fece attribuire un mandato del partito socialdemocratico russo. E fu in rappresentanza dei due partiti, polacco e russo, che essa presentò l’emendamento al testo di Bebel che doveva poi diventare, nel corso della prima guerra mondiale, la piattaforma di lotta di Lenin. L’emendamento si ricollega alla relazione del congresso di Parigi perché conclude con l’affermazione che dalla crisi politica ed economica provocata da una guerra i partiti socialisti devono trarre motivo per un’intensa agitazione delle masse popolari fino al rovesciamento del dominio capitalistico, il che naturalmente è possibile soltanto se prima della guerra, e soprattutto con l’intensificarsi del pericolo, è stata condotta una lotta sempre più decisa contro il militarismo e l’imperialismo, usando i mezzi più energici che la situazione consente. Nel difendere l’emendamento, che fu approvato, essa si levò contro i delegati tedeschi Bebel e Vollmar i quali avevano “dichiarato che non si sarebbe potuto fare più di quanto si era fatto fin allora. Eppure la rivoluzione russa non è soltanto sorta dalla guerra ma ha altresì servito a interrompere la guerra che altrimenti lo zarismo avrebbe certo continuato. Noi comprendiamo la dialettica storica non nel senso che dobbiamo attendere con le braccia incrociate fino a che essa ci porti i suoi frutti maturi. Io sono seguace convinta del marxismo e considero proprio perciò come un grave pericolo dare alla concezione marxistica quella forma rigida e fatalistica, che ha per sola conseguenza di provocare delle reazioni eccessive come l’herveismo” [148].

Stoccarda segnò una svolta nella lotta contro la guerra, dando con l’emendamento Luxemburg un indirizzo nuovo alle posizioni marxiste, che i successivi congressi dell’Internazionale, in particolare quello di Basilea (1912) dovevano confermare [149]. Ma Rosa Luxemburg sapeva che l’affermazione di un principio ha ben scarso valore se non si traduce in azione: non sarebbe stato possibile utilizzare la guerra come matrice di rivoluzione se non si fosse prima lungamente lottato contro la guerra. Se in ogni momento dello sviluppo storico è insita la contraddizione dialettica fra la “necessità storica” dell’imperialismo e quella del socialismo, se cioè ogni momento racchiude potenzialmente due futuri contraddittori, dipende dal “come” le forze sociali contrastanti riescono a legare ogni singolo momento alla catena dei fatti storici, la possibilità che questa abbia uno sbocco piuttosto che un altro. I socialisti che si adoperano a conciliare, ad attenuare i contrasti, a collaborare con l’avversario e a giustificarne gli atteggiamenti come “democratici” o “pacifici”, i socialisti che sperano la pace o la democrazia dalla collaborazione con le forze dell’imperialismo, sono un ostacolo obiettivo alla soluzione socialista e quindi un obiettivo aiuto all’imperialismo [150]. La socialdemocrazia “con l’approvazione dei crediti e l’accettazione della tregua civile agisce con tutti i mezzi nel senso di evitare la crisi sociale e il ridestarsi delle masse per opera della guerra”, scriverà durante la guerra stessa [151]. Ed è certamente da ascriversi in gran parte alla responsabilità della socialdemocrazia tedesca se nel corso della crisi rivoluzionaria succeduta alla guerra non solo è stata decisamente frenata ogni soluzione socialista ma conservata pressoché intatta la forza di classe del capitalismo imperialistico che doveva pochi anni dopo prendersi con Hitler la sua rivincita.

La strategia luxemburghiana era quindi in totale antitesi con la linea ufficiale del partito, soprattutto dopo il 1905. In sostanza essa aveva la certezza della prossima guerra mondiale, vedeva che quanto più l’imperialismo si avvicinava alla sua suprema prova di forza tanto più si faceva sentire la sua esigenza di soffocare anche la vita democratica, vedeva quindi avvicinarsi sui fronti principali di battaglia dei momenti di crisi acuta che avrebbero potuto fornire un’esca potente ad una soluzione rivoluzionaria. Ma una rivoluzione non esige soltanto l’esistenza di condizioni oggettive che la rendano possibile, bensì anche una partecipazione attiva e quindi una preparazione soggettiva delle masse. Come conseguire questa preparazione che avrebbe dovuto essere uno dei compiti essenziali della socialdemocrazia? Per la Luxemburg, come per Marx, la coscienza si forma nella prassi e la coscienza di classe nella lotta di classe: i volantini e i discorsi di propaganda non sarebbero per sé soli sufficienti senza la diretta esperienza delle masse. Ma l’esperienza diretta delle masse ha bisogno a sua volta di esser guidata e indirizzata dalla socialdemocrazia a cogliere nella società presente il suo essenziale carattere contraddittorio, a risalire cioè dallo stimolo occasionale, dall’obiettivo parziale, dalla lotta quotidiana alla visione totale della società, a verificare in ogni conflitto le barriere di classe che costituiscono l’ostacolo insopprimibile ad eliminare le cause profonde del conflitto stesso nel quadro della società presente [152]. In questo sta appunto il riferimento alla categoria della totalità, la visione dell’avvenire nel presente, il legame permanente della lotta quotidiana con lo scopo finale. Compito del partito è quindi non solo quello di cogliere ogni occasione di lotta, ogni possibilità di mobilitazione delle masse, ma anche quello di approfondire quanto più possibile i termini della lotta e di esasperare i contrasti perché ciò non solo sviluppa la coscienza delle masse ma avvicina e prepara la crisi rivoluzionaria, cioè trasforma in sviluppo reale quelle che sono soltanto, come s’è visto, tendenze di sviluppo immanenti alla società capitalistica, traduce in realtà storica la necessità storica della rivoluzione socialista.

Naturalmente tutto ciò non può essere provocato artificiosamente: senza una contraddizione reale, senza una tensione reale dei rapporti sociali le masse non sono spinte alla lotta e, se manchi una spinta spontanea delle masse, le parole d’ordine dei partiti non sono per sé sole sufficienti. Tuttavia le contraddizioni reali non mancano nella società capitalistica, ne sono anzi momento essenziale: la strategia e soprattutto la tattica devono saper cogliere di volta in volta i motivi più validi, scoprire le tensioni magari latenti, avvertire tutti gli squilibri, utilizzare tutti gli appigli. E devono, inoltre, tendere a unificare queste diverse spinte in un moto politico unitario che assuma chiaramente l’obiettivo più avanzato possibile in quel momento, quello che può costituire il comune punto di riferimento delle diverse lotte in corso solo in questo modo si può uscire da un quadro settoriale parziale, che in quanto tale rimane sempre interno alla società presente, e dare un indirizzo socialista alle lotte dei lavoratori. Del resto le contraddizioni della società non sono da intendersi come un dato bruto, meramente oggettivo, indipendente dalla presenza e dall’azione delle masse, perché il processo storico e sempre frutto di una interazione reciproca fra momenti oggettivi e soggettivi: in ultima analisi il grado di acutezza, e quindi di incidenza rivoluzionaria, delle contraddizioni capitalistiche è funzione del grado di coscienza e di forza combattiva dei lavoratori.

Questa esigenza era presente alla Luxemburg fin dall’inizio della sua attività e la troviamo illustrata nel primo rapporto da lei preparato sulla situazione polacca per il congresso internazionale di Zurigo [153], e da questo punto di vista è particolarmente efficace e suggestiva l’analisi della rivoluzione russa del 1905 nel suo opuscolo sullo sciopero generale. La stretta unità della lotta polit

ica ed economica - due facce della stessa lotta di classe - la forza creativa dell’azione e la possibilità di suscitare sempre nuove ondate, la rapida maturazione della coscienza nel fuoco della battaglia e la nascita di nuove forze organizzative dalle esperienze stesse della lotta: tutto ciò appare con nitida evidenza nel racconto luxemburghiano. Da esso emerge anche con chiarezza una strategia che tende a utilizzare tutte le possibilità di lotta, facendo nascere o sviluppando in ciascuna battaglia la consapevolezza di più avanzati traguardi, di più vasti obiettivi, in cui si raccolgano e si fondano tutte le spinte popolari. Ed è il valore profondo di questa esperienza, non certo la meccanica ripetizione degli atti, che essa si sforzò di far assimilare anche al proletariato occidentale.

Se essa fece in quegli anni dell’agitazione antimilitarista e dell’agitazione per il suffragio universale i due punti cardini della sua battaglia in Germania, è perché riteneva che su questi due terreni l’imperialismo fosse più minaccioso e aggressivo e che su di essi si dovesse quindi concentrare la reazione popolare. Ma non intese mai farne delle agitazioni a se stanti. In tutta la sua polemica di quegli anni due motivi risuonano costanti: la necessità di mantenere sempre il proletariato all’offensiva, di non lasciar mai cadere nel nulla l’onda che si è sollevata, di non lasciar disperdere il potenziale di lotta che si è accumulato [154], e la necessità di rompere le barriere settoriali e di sospingere la volontà di lotta dei lavoratori verso obiettivi politici comuni. Così rimprovera al partito e al suo organo ufficiale, il Vorwärts, di avere accuratamente cercato di tenere separate due grandi agitazioni contemporanee, una per il suffragio universale e una contro la disoccupazione (un bel saggio di strategia dell’usura alla Kautsky!) invece di collegare la richiesta di pane e lavoro con la richiesta del voto [155]; così nella campagna elettorale del 1911 protesta contro la direttiva del partito di limitare la campagna elettorale ai temi di politica interna, tasse e legislazione sociale. “Ma la politica finanziaria, il dominio degli Junker, la tregua nella legislazione sociale sono organicamente legate con il militarismo, con il riarmo navale, con la politica coloniale, con il regime personale e la sua politica estera. Ogni divisione artificiosa di questi campi può dare solo un’immagine lacunosa e unilaterale della nostra situazione politica. Nelle elezioni al Reichstag noi dobbiamo principalmente diffondere la luce socialista, ma questo non è possibile se noi limitiamo la nostra critica esclusivamente alla politica interna della Germania, se non descriviamo i grandi legami internazionali, l’avanzata del dominio capitalistico in tutti i continenti, l’anarchia che si manifesta dovunque e il ruolo dominante della politica coloniale e mondiale in questo processo” [156]. E ancora contro la tattica paziente e addormentante dell’“usura”: “Non usura ma lotta su tutta la linea: questo è quello che ci occorre. Non la rivincita fra un anno e mezzo alle urne, ma subito colpo su colpo” [157].

L’obiettivo unificatore di queste lotte non può essere che la lotta all’imperialismo, in cui si riassume l’essenza di tutte le contraddizioni sociali. “I problemi del militarismo e dell’imperialismo rappresentano oggi l’asse centrale della vita politica; in essi e non in un qualunque problema di responsabilità ministeriale o in altre rivendicazioni puramente parlamentari sta la chiave della situazione politica” [158]. Ma il sostegno visibile della politica imperialistica, il punto di riferimento di tutte le forze reazionarie è la monarchia: “La monarchia semifeudale con il suo regime personale forma indubbiamente da un quarto di secolo, e ogni anno sempre più la base del militarismo, la forza motrice della politica di riarmo navale, lo spirito guida dell’avventura imperialistica, come costituisce il sostegno degli Junker in Prussia e il baluardo del predominio dell’arretratezza prussiana in tutta la Germania; essa è perciò, per così dire, il nemico personale giurato della classe operaia e della socialdemocrazia. La parola d’ordine della repubblica è quindi in Germania oggi infinitamente più che l’espressione di un bel sogno del democratico ‘Stato popolare’ o di un astratto dottrinarismo politico; essa è un grido di guerra pratica contro militarismo, ‘marinismo’ [159], politica coloniale, imperialismo, dominio degli Junker, prussificazione della Germania; essa è solo una conseguenza e una sintesi drastica della nostra lotta quotidiana contro tutti questi aspetti parziali della reazione dominante” [160].

Una sintesi drastica di tutte le lotte parziali rappresentava per Rosa Luxemburg il crogiuolo che avrebbe dovuto fondere tutte le energie della classe lavoratrice e attrarre nella lotta forze che la politica ufficiale del partito e delle organizzazioni sindacali teneva lontane: in particolare le masse non organizzate, che facevano paura ai dirigenti preoccupati di assicurare in ogni caso l’ordine e la disciplina delle agitazioni [161]. E in questo crogiuolo Rosa Luxemburg sperava di saldare anche l’unità fra proletari in tenuta da lavoro e proletari in divisa militare: questi ultimi “sono soltanto una parte della popolazione lavoratrice e se questa raggiunge la necessaria coscienza che la guerra è riprovevole e dannosa al popolo, allora anche i soldati comprenderanno da soli, senza le nostre intimazioni quel che devono fare nel caso specifico” [162]. Contro “lo spirito d’avventura della soldatesca imperante”, che minaccia la pace internazionale e attenta alla sicurezza pubblica e al diritto personale con lo stato d’assedio, che mette in gioco lo stesso suffragio universale e il diritto di coalizione [163], un fronte di tutti i lavoratori diventa possibile purché non sia lo stesso partito socialdemocratico a frenarne lo slancio.

È noto che la socialdemocrazia tedesca si adoperò proprio invece a frenare lo slancio delle masse facendo apparire come fantastiche le realistiche previsioni di Rosa Luxemburg. E così aiutò obiettivamente l’imperialismo a scatenare la guerra mondiale. Il quadro della strategia luxemburghiana che abbiamo tentato di delineare non sarebbe tuttavia completo se non sottolineassimo che, nella sua concezione, questa opposizione radicale del proletariato alla società borghese in nome del socialismo doveva dare al proletariato stesso insieme con l’autonomia politica anche l’autonomia culturale. “Ben presto (...) l’azione del socialismo, per salvare la civiltà dagli artigli feudali prussiani si spiegherà con accresciuto vigore grazie proprio alla liquidazione del revisionismo. Perché la connessione intima del movimento socialista con lo slancio intellettuale si realizza non grazie ai transfughi che ci vengono dalla borghesia, ma grazie all’ascesa della massa proletaria. Questa connessione si fonda non su un’affinità qualunque del nostro movimento con la società borghese, ma sulla sua opposizione a questa società. La sua ragion d’essere e lo scopo finale del socialismo, la restituzione di tutti i valori della civiltà alla totalità del genere umano. E più il carattere proletario della socialdemocrazia si accentuerà, più vi saranno delle probabilità che la civiltà tedesca sia salvata dalla stretta dei suoi zelatori feudali e che la Germania stessa sfugga all’anchilosi di tipo cinese in cui vorrebbero mantenerla i conservatori” [164].

 

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