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26 settembre 2012 3 26 /09 /settembre /2012 05:00
La feccia dell'umanità

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di Paul Mattick

 

Questo articolo è stato scritto durante la crisi del 29, quando la disoccupazione negli USA, Gran Bretagna e molti altri paesi occidentali raggiunse e in alcuni casi superò il 30%. La versione originale, titolata “The scum of humanity”, comparve sulla rivista International Council Correspondence nel marzo del 1935. Nella versione originale l'articolo compare senza firma. Sia per il contenuto come per lo stile il testo è chiaramente attribuibile a Paul Mattick, editore della rivista. Di fatto l'articolo è presente come tale nella bibliografia di Paul Mattick preparata con la collaborazione di Paul Mattick figlio. Nell'originale le distinte parti del testo erano semplicemente numerate.

Una persona poco abituata a problemi politici che assista a riunioni di lavoratori, eccettuate quelle dei disoccupati, probabilmente rimarrà sorpresa dal fatto che la maggior parte dei presenti non fa parte degli strati più poveri del proletariato. I lavoratori meglio organizzati sono infatti gli appartenenti alla cosiddetta "aristocrazia operaia", che copre una posizione sociale che si trova fra le classi medie e il proletariato in senso stretto. Le organizzazioni sindacali di questi strati difendono gli interessi fondamentali dei propri membri, proporzionando loro vantaggi immediati, e non sono capaci di politicizzare i propri aderenti in una direzione socialista, ma d'altronde neppure ci provano. D'altra parte, il movimento operaio radicale può solo offrire ai propri aderenti soddisfazioni ideologiche, non vantaggi materiali.

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È precisamente per questo motivo  che è incapace di raggiungere gli strati veramente impoveriti del proletariato. Questa parte per la sua stessa condizione di miseria si vede obbligata a preoccuparsi solamente dei propri interessi più incalzanti e diretti se non vuole lasciare la vita stessa. Per questo motivo i movimenti politici radicali della classe operaia oscillano fra due poli della popolazione lavoratrice, l'aristocrazia operaia e il lumpenproletariato. Il peso dell'organizzazione viene portato da elementi che pur non facendosi illusioni di un'impossibile avanzamento personale nell'attuale società, mantengono un livello di vita tale che gli permette di dedicare denaro, tempo ed energie a sforzi i cui frutti, in forma di miglioramento materiale delle proprie condizioni, rimangono differiti a un futuro incerto. Questi militanti si confrontano alla società attuale a partire dal riconoscimento del suo necessario cambiamento, pur risultando loro possibile viverci dentro. L'attività del movimento operaio radicale in tempi non rivoluzionari è diretta fondamentalmente alla trasformazione dell'ideologia dominante. L'agitazione e la propaganda esigono sacrifici materiali ma in cambio non proporzionano vantaggi materiali. I membri attivi delle organizzazioni operaie devono avere del tempo a propria disposizione. Sono militanti che confidano in un trasformazione in senso rivoluzionario delle masse, ma che nel frattempo fanno il possibile per avvicinare il giorno del cambiamento e si dedicano ad educare, discutere, filosofare.

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Gli elementi della classe operaia che simpatizzano con queste idee ma che per le proprie condizioni vitali non hanno la possibilità di aspettare, si vedono continuamente rifiutati da queste organizzazioni. Le fluttuazioni della militanza nel movimento radicale non sono il risultato di false politiche o di mancanza di tatto della burocrazia nei rapporti con i membri non ancora ideologicamente stabili. Sono il risultato anche della crescente pressione di uno strato sempre maggiore di lavoratori impoveriti a "limitare le proprie mire". Le attività del movimento dal quale si aspettano aiuto possono solo proporzionargli parole e un qualcosa in cui perder tempo. Non solo non li aiuta ma rende più difficoltosa la lotta individuale per la sopravvivenza, una lotta che si fa ogni giorno più difficile, che richiede sempre più tempo e più sforzi psicologici quanto più si estende la miseria nella società e quanto più l'individuo vi affonda. Indipendentemente da quanta propaganda socialista abbiano assorbito, le proprie condizioni di esistenza li spingono ad agire in maniera opposta alle proprie convinzioni e come risultato di questo agire si ha che prima o poi queste convinzioni si dissolvono, perché si rivelano "inutili nella pratica". Questa è una delle ragioni per cui il movimento politico della classe operaia si spezza nei periodi di recessione e funziona meglio in tempi di riattivazione economica. Perciò, a partire dalla propria "esperienza", una gran parte del movimento operaio ha preso una posizione apertamente ostile contro l'idea che l'impoverimento delle masse è sinonimo di diffusione delle idee rivoluzionarie.

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A chi sostiene la teoria dell'impoverimento si segnala ripetutamente e appassionatamente l'esistenza del lumpenproletariato come prova che l'impoverimento rende le masse apatiche e non rivoluzionarie e che le mette in contrapposizione al proletariato piuttosto che in disposizione di servirlo, in quanto la classe dominante spesso si serve del lumpen per le proprie necessità. Il movimento operaio di conseguenza si adopera con grande zelo nel migliorare la condizione economica dei lavoratori, considerando che in questo modo si eleva la coscienza di classe del proletariato. Di fatto, nel periodo di crescita della società capitalista il miglioramento del livello di vita del proletariato è stata parallela alla crescita dei sindacati e delle organizzazioni politiche operaie e dal rafforzamento della coscienza politica dei lavoratori. Ma questa coscienza, come le organizzazioni stesse, non erano rivoluzionarie. Per questo motivo, la teoria dell'aumento del livello di vita del proletariato come mezzo per l'avanzata rivoluzionaria è stata smentita tanto quanto la teoria della pauperizzazione. La difficoltà fu risolta mediante l'assurda argomentazione che l'attitudine reazionaria dei lavoratori organizzati era il risultato delle sue direzioni reazionarie. La contraddizione che implica il combattere l'impoverimento e al tempo stesso considerarlo necessario si considerava lesiva per l'esistenza dell'organizzazione. Le masse non possono essere attratte dall'organizzazione se non ricevono alcuna promessa.

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La convinzione, basata in una lettura superficiale dei fenomeni, che l'impoverimento rende le masse reazionarie invece che rivoluzionarie, e la ripugnanza verso il lumpenproletariato visto come manifestazione vivente di questa “verità” è stata durante molto tempo la caratteristica comune del movimento politico della classe operaia e ancor oggi compare nel dibattito politico quando si tratta di spiegare l'aiuto che la classe dominante riesce a reclutare nel campo del proletariato. Lo scarso grado di organizzazione e il sottosviluppo della coscienza di classe nei disoccupati tende in apparenza a smentire la teoria dell'impoverimento. Lo stesso accade con la funzione che compie il lumpen nella società. Certo, è questa “feccia dell'umanità” che, in alleanza con la piccola borghesia e agli ordini del capitale monopolista che gremisce le file del fascismo. Gli elementi che il movimento fascista attrae dalla cerchia della classe operaia si aspettano e ottengono vantaggi che in ogni caso sono immediati, per quanto siano piccoli. Questi elementi non si legano a nessun movimento per motivi ideologici, che sorpassano di molto le loro ambizioni e possibilità. Che i vantaggi siano di carattere puramente temporale non preoccupa affatto questi elementi che, come è ovvio, vivono  “alla giornata”. Rimproverarli con l'accusa di tradimento verso la propria classe è semplicemente attribuirgli la possibilità di una coscienza e di un insieme di convinzioni che costituiscono un lusso escluso dalla loro stessa forma di vita. Essi agiscono per i propri interessi più immediati, e a questo proposito, perfino la maggior parte dei lavoratori accettano in gran parte il fascismo, passivamente o attivamente, per non pregiudicare se stessi. Chi passerà prima o dopo nel campo del nemico di classe viene determinato dal grado di impoverimento di ogni individuo. Tralasciando tutto ciò, la ricerca delle scienze sociali in quasi tutti i paesi dimostra che la forma delle tendenze rivoluzionarie è legata all'impoverimento generale delle masse. Queste ricerche si concentrano esclusivamente sugli ultimi anni e per questo motivo l'unica cosa che indicano è che inizialmente l'impoverimento si associa con il regresso delle tendenze rivoluzionarie.

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Lumpenproletariato e organizzazioni operaie

Il concetto di lumpenproletariato non è in nessun modo un concetto chiaramente delimitato. I gruppi comunisti a sinistra del movimento operaio ufficiale parlamentarista e sindacalista hanno dato a questo concetto una tale ampiezza da farlo diventare praticamente un insulto per qualificare tutti gli elementi che in virtù della propria situazione di classe dovrebbero naturalmente essere definiti come proletariato, ma che svolgono un qualche servizio per la classe dominante. In questa concezione, l'elemento lumpen non è composto tanto dalla “feccia dell'umanità” quanto dai “fiori e panna”, vale a dire, dalla burocrazia del movimento operaio. In questo tipo di definizione si riflette l'odio diretto verso i venduti e coscientemente si tralascia che il tradimento è più il prodotto dello sviluppo storico che frutto dell'interesse personale dei leaders corrotti.
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Ma secondo l'idea più estesa nel movimento operaio, il termine lumpenproletariato include i molti elementi che stanno alla base della società attuale e che sono messi in lotta direttamente contro i lavoratori; ad esempio guardie giurate e vigilanti, provocatori, spie, crumiri, etc. Nonostante questo, per il movimento operaio riformista che lotta per ottenere il potere nell'attuale società questi elementi perdono il proprio carattere di lumpenproletariato non appena la burocrazia riformista riesce a partecipare del governo. Le guardie diventano così “compagni in uniforme”; gli agenti della polizia segreta degni cittadini che proteggono il paese dalla minacciosa anarchia; e i crumiri, “lavoratori, tecnici dell’emergenza”. Un cambio di governo è sufficiente per cancellare da questi elementi l'etichetta di lumpen.
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I teppisti e i repressori della società esistente o di qualunque altra società di classi contrapposte non possono essere inclusi propriamente nel concetto di lumpenproletariato, in quanto risultano completamente necessari alla pratica sociale. Questo ragionamento non è applicabile ai crumiri, ma in realtà andrebbero esclusi anche questi dai lumpen in quanto, come diceva Jack London, “con rare eccezioni, siamo tutti crumiri”. Di fatto, il crumiro può essere criticato solo dal punto di vista di un ordine sociale che ancora non esiste. Per il momento si comporta in totale accordo con la pratica sociale, che pur avendo convertito la produzione in un processo intensamente sociale, non ammette altra regola se non la ricerca dell'interesse privato. Il crumiro non ha ancora compreso né sperimentato abbastanza nella pratica che sono precisamente le sue necessità individuali quelle che dovrebbero portarlo all'azione collettiva. Non è ancora abbastanza disilluso dell'improduttività degli sforzi destinati a “trovarsi un posto al sole” a partire dalle basi della società presente. Spera di assicurarsi dei privilegi per la sua maggior capacità di adattamento alla pratica sociale e solamente dall'inutilità dei suoi sforzi potrà convincersi che in realtà sta rimanendo ai margini della società, per quanto si sforzi di farsi giustizia. Anche se i lavoratori si vedono costretti a lottare contro i crumiri, questi non possono essere considerati lumpenproletariato.

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Siccome le relazioni di produzione capitaliste servono per far avanzare lo sviluppo generale umano per un certo periodo storico, questi “elementi basici della società” appartenenti alla classe operaia devono essere considerati elementi produttivi, al di là del loro parassitismo e della loro ostilità con i lavoratori. Se la capacità produttiva della società si moltiplica ad un ritmo vertiginoso per le relazioni di mercato e di competizione, i mezzi per salvaguardare e promuovere queste relazioni devono essere considerati strumenti produttivi. E si può opporre a questi mezzi solo chi si oppone alla società stessa. La funzione di entrambi i gruppi del proletariato, quello direttamente produttivo e quello indirettamente produttivo, che garantiscono la sicurezza della società, differiscono nella forma ma non nel principio, servono gli stessi scopi. Il rovesciamento della società esistente mostrerebbe una volta per tutte che il concetto di lumpentroletariato è applicabile solamente agli emarginati della società che sono accettati dalla nuova società come i resti della vecchia: i girovaghi e i delinquenti che pur essendo frutto dell'attuale società che costantemente li nega e li utilizza, dovranno essere combattuti anche nella nuova società. Questi elementi non sono altri se non quelli abitualmente considerati come “feccia dell'umanità”: vagabondi, “sanguisughe”, prostitute, profittatori, delatori, ladri, truffatori, ecc.


Lumpenproletariato e capitalismo

Quando ancora si poteva negare che la disoccupazione è un fenomeno sociale normale perchè le temporanee riprese occultavano il fatto che questo fenomeno è inseparabile dall'attuale sistema, una gran parte della criminologia borghese sosteneva che le attività e le tendenze delittuose negli strati inferiori della popolazione erano dovute innanzitutto all'oziosità. Questa visione era diffusa anche in alcuni circoli operai e dei lavoratori organizzati che avendo introiti relativamente regolari guardavano con non poco disprezzo gli accattoni che vagano per le città e per le strade. L'origine di questa “oziosità”, se questo termine può realmente servire a descrivere qualcosa, non era motivo di preoccupazione per chi dava questi giudizi. Il movimento socialista, ovviamente, ne attribuiva la responsabilità all'attuale società. Nonostante ciò, quando i socialisti avevano l'opportunità pratica di combattere questo fenomeno, non sapevano far altro che utilizzare il codice penale del diritto borghese.

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La miseria, il lumpentroletariato e la delinquenza non sono il risultato delle crisi capitaliste. Le crisi possono spiegare solo il grande aumento di questi fenomeni. La disoccupazione accompagna tutto lo sviluppo del capitalismo ed è necessario nell'attuale sistema produttivo per mantenere i salari e le condizioni di lavoro a livelli bassi corrispondenti alle esigenze di un'economia che genera profitti. Anche se la disoccupazione di per se non spiega l'egemonia del capitale sui lavoratori, spiega invece il rafforzamento di quell'egemonia. Indipendentemente dall'effetto provvidenziale che ha l'esercito industriale di riserva sul tasso di guadagno ottenuto dalle diverse aziende, l'esistenza stessa di questo esercito ha le sue motivazioni nelle leggi economiche che determinano il funzionamento della società capitalista. La tendenza dell'accumulazione di capitalista che da un lato produce capitale superfluo e un eccesso di popolazione dall'altro si è convertita in una dolorosa realtà. Essendo questo il suo funzionamento bisogna per forza ammettere, seppur anche solo a denti stretti, che la disoccupazione non potrà mai essere eliminata del tutto. Così gli sforzi vengono diretti poco a combatterla e più a diminuire i pericoli che implica per la società. Perciò assistiamo alle vigorose discussioni sulla riforma del sistema penale, che sono riflesso dei cambiamenti verificabili nel mercato del lavoro.

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Addirittura H. L. Menken, in un recente numero di Liberty ha proposto di introdurre nel sistema penale statunitense pratiche simili a quelle presenti in Cina, vale a dire l'eliminazione fisica senza limitazioni dei delinquenti con o senza prova di colpevolezza, una forma di giustizia abituale nei paesi dove esiste un sovrapopolamento cronico. In Germania si discute di reintrodurre le punizioni corporali, già in voga durante il Medioevo, in quanto le prigioni non sono più efficaci come strumenti di dissuasione e la forza-lavoro gratuita dei detenuti non può più essere utilizzata. La maggiore povertà risultante dalle crisi persistenti e dalla disoccupazione su grande scala toglie terreno al castigo, perché la vita in carcere non è molto peggiore dell'esistenza fuori da essa. I delinquenti sono sempre di più, fatto che aumenta ulteriormente la brutalità dei castighi e rende impossibile una riforma degli interni delle prigioni. Come ha detto George Bernard Shaw, “quando si guarda agli strati più poveri e oppressi della nostra società si trovano condizioni di vita tanto miserabili che risulta impossibile amministrare una prigione umanamente senza rendere la vita del delinquente migliore di quella di molti cittadini liberi. Se la prigione non è peggiore dei quartieri malfamati in quanto a degrado umano, questi quartieri si svuoteranno e si riempiranno le carceri.” Di modo che il castigo legale non è solo barbaro e si vede spinto verso una maggiore brutalità, ma le sue stesse istituzioni si convertono in nidi di delinquenza, come provano le statistiche che dimostrano come la maggior parte delle persone che sono state in prigione vengono dopo la conclusione della pena nuovamente incarcerate.
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In ogni modo, l'imbestialimento degli esseri umani, fenomeno legato allo sviluppo della società capitalista e che ha la sua massima espressione nella crescita del lumpenproletariato, non trova le sue origini solamente nella disoccupazione e nell'impoverimento di massa. Come diceva Marx, l'accumulazione di ricchezza in un polo della società non implica solamente la miseria nel polo opposto, ma l'accumulazione di fatiche, schiavitù, ignoranza, brutalità e degrado morale. Nelle condizioni lavorative del capitalismo, il lavoro si converte in puro e semplice lavoro forzato, indipendentemente da quanto “liberi” possano essere i lavoratori per altri aspetti. Anche fuori dall'ambito lavorativo, il lavoratore non appartiene a se stesso, ma semplicemente recupera la propria capacità di lavoro per il giorno seguente. Vive in libertà puramente per rimanere in condizioni di realizzare i propri lavori forzati e arriva così a deumanizzarsi completamente, a non avere alcuna relazione volontaria col proprio lavoro che diventa mero oggetto, pura appendice del meccanismo produttivo. Sperare che questi lavoratori, in queste condizioni, ottengano qualche tipo di piacere dal proprio lavoro è completamente illusorio. Ciò che cercheranno di fare è tutto il possibile per uscire da queste condizioni per affermarsi come esseri umani. A lungo andare, queste circostanze tendono ad “animalizzarli”.
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Con un potere esterno, mezzi coercitivi e semplice uso della forza è impossibile liberarsi del lumpenproletariato od ottenere una diminuzione della criminalità. La questione centrale è mantenere o creare negli esseri umani la disposizione psichica per occupare il posto che gli corrisponde nella società e il proprio stile di vita e questo si fa via via meno possibile. La mancanza di coscienza sociale e di adattabilità sociale da parte dei delinquenti è suscettibile di altre spiegazioni, che vanno oltre la “pigrizia”. Certo, esistono una gran quantità di teorie secondo le quali i difetti fisici e mentali sarebbero le ragioni fondamentali per le azioni criminali degli esseri umani. È innegabile che i fattori psicobiologici devono essere tenuti in considerazione per capire le inclinazioni criminali. Risulta ovvio però che la teoria che ha più da offrire in quanto a comprensione di questo fenomeno è la teoria politica e socioeconomica. I fattori biologici e psicologici contribuiscono a determinare le azioni coscienti e incoscienti degli esseri umani ma gli effetti di questi fattori risultano completamente modificati quantitativamente e qualitativamente a causa dei loro effetti sociali. Gli impulsi degli individui sono soggetti tanto alla situazione socioeconomica come alla situazione di classe a cui appartengono. In una società che garantisce una maggiore importanza ai ricchi e ai proprietari, gli impulsi narcisisti, ad esempio (come ha dimostrato lo psicologo Erich Fromm) devono portare ad un'enorme intensificazione del desiderio di possesso. E se nel contesto dell'attuale società queste tendenze non possono essere soddisfatte per vie “normali”, cercheranno la propria soddisfazione nella delinquenza. Anche se questi impulsi appaiono associati a difetti fisici o psichici, questi possono essere spiegati solo in connessione con la società e con il contesto di classe esistente. La delinquenza, in maggior parte diretta contro le leggi della proprietà, può essere compresa solo prendendo in considerazione la totalità del processo sociale. Anche gli altri tipi di delitti sono determinati se non direttamente, indirettamente dalla situazione sociale e politica. Deduciamo così che potranno essere modificati sostanzialmente o essere totalmente eliminati solamente con un cambiamento della società in cui avvengono.
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Non c'è prova più concreta dell'importanza del fattore economico per spiegare la delinquenza che il suo enorme aumento in epoca di crisi economiche. Come conseguenza delle depressioni i più deboli mentalmente e fisicamente fra i poveri si ritrovano a percorrere la strada della delinquenza. Di fatto, molte volte non rimane loro altra possibilità. Che il fattore socioeconomico risulti essenziale si evince pure dal fatto che ad esempio gli abusi sessuali su minori risultano molto più frequenti nelle famiglie di disoccupati rispetto alle famiglie con una vita economica stabile. Come si può spiegare la decadenza della famiglia o altri fattori di incremento della criminalità nella società attuale a partire da fattori biologici o psicologici? E il veloce aumento della prostituzione durante le crisi? Negli USA, le ricerche sull'influenza dell'ambiente di vita nella delinquenza, hanno dimostrato che la maggior parte dei soggetti provengono da quartieri degradati delle città e da famiglie che vivono “alla giornata”. La ricerca ha mostrato anche che la maggior parte dei delitti viene commessa contro la proprietà e che la maggior parte dei delinquenti sono “di intelligenza normale”. I giovani che vagano senza meta e senza obiettivi attraverso gli Stati del paese e per le strade sono in condizioni ideali per deviare verso il lumpenproletariato e integrarvisi permanentemente. Non hanno opportunità e nella loro disillusione decidono di trovare soddisfazioni vitali con qualunque mezzo, vale a dire, con i mezzi delittivi che costituiscono ancora una via aperta. “Ci riprenderemo ciò che è nostro”, dicono a se stessi. E i loro eroi non sono gli eroi rispettabili dell'attuale società, ma i Dillinger [1]. Jack London volle caratterizzare i vagabondi come lavoratori demoralizzati, ma la maggior parte di questi giovani non ha mai lavorato. La demoralizzazione precede il loro ingresso nel mondo del lavoro e quanto più rimangono disoccupati più perdono la capacità di adattarsi al ritmo della vita sociale.
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Come aveva compreso William Petty molto tempo fa, “è meglio per la società bruciare il lavoro di mille persone che permettere che queste mille persone perdano la propria capacità lavorativa per inattività”. Ma non solo dal punto di vista dei guadagni ma anche dal punto di vista della sicurezza sociale, il sistema attuale divora se stesso quando, anche contro la propria volontà, nega ai lavoratori la possibilità di mantenersi occupati. Solo attraverso la vendita della propria forza-lavoro i lavoratori possono esistere come tali. Tutta la loro vita dipende dalle volubili oscillazioni del mercato del lavoro. Liberarsi dalle costrizioni e dalle possibilità del mercato è possibile solo nel caso in cui si esca dalle fila della classe lavoratrice. A chi viene meno la possibilità del salto alla classe media, possibilità che è sempre stata eccezionale e che oggi è praticamente inesistente, non rimane altra possibilità che l'integrazione nel lumpenproletariato, opzione che solo in casi contati è scelta volontaria ma che risulta inevitabile a segmenti sempre maggiori della classe operaia. Anche se ci fosse la volontà di farlo, non è fattibile dare ai disoccupati condizioni di vita adatte a degli esseri umani, come nemmeno è possibile darle ai delinquenti in quanto altrimenti la pressione per lavorare perderebbe gran parte della propria forza e aumenterebbe il potere dei lavoratori per resistere nella lotta salariale, e consideriamo pure che spesso anche lavoratori che ricevono assistenza sociale cercano di migliorare i propri mezzi di sussistenza attraverso la delinquenza. In ogni caso, anche nei paesi con sussidi di disoccupazione una porzione maggiore o minore dei lavoratori permane esclusa da questa compensazione non può evitare, anche se gradualmente, di cadere nel lumpenproletariato.
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Chiunque risulti emarginato dal processo lavorativo perde la propria capacità e possibilità di lavorare di nuovo. Si consideri ad esempio il caso di qualcuno che sia stato disoccupato per tre o quattro anni. Per questa persona risulterà estremamente difficile occupare di nuovo il proprio posto nella vita economica. Data la crescente razionalizzazione del processo produttivo, non solo psicologica ma anche fisicamente sarà difficile che possa resistere alla maggior domanda di rendimento. Per questo motivo gli imprenditori rifiutano quasi sempre i lavoratori che siano stati disoccupati per vari anni, verso i quali hanno un'attitudine scettica, alla quale contribuisce l'aspetto miserabile e trasandato del richiedente. Una volta raggiunto un certo livello di miseria, non c'è possibile ritorno alla routine del lavoro giornaliero. Rimane allora solo la possibilità di sotto-nutrirsi attraverso l'elemosina e il lento deterioramento nelle strade delle grandi città. Rimane solo l'ubriachezza per cercare di cancellare il non senso della propria esistenza; o il salto nelle fila del sotto-mondo, che porta inevitabilmente alla prigione e alla morte violenta.

Impoverimento e rivoluzione

Se l'impoverimento che ha luogo fra le masse nel corso dello sviluppo capitalista fosse uniforme e riguardasse l'insieme della classe operaia in modo omogeneo, il risultato sarebbe lo sviluppo di una coscienza rivoluzionaria delle masse. I lumpenproletari sarebbero così tanti che l'esistenza stessa del lumpenproletariato sarebbe impossibile. Le attività lumpen degli individui si manifesterebbero solo in modo collettivo. L'esistenza individuale parassitaria o l'espropriazione individuale si eliminerebbero da se stesse, visto che non è possibile che una maggioranza viva di sotterfugi o di furto senza spezzare completamente le basi stesse della società. Il fatto che il lumpenproletariato sia possibile solo come minoranza è uno dei segni del suo carattere tragico. Come risultato dell'esistenza minoritaria rimane ai lumpenproletari solo la possibilità di vivere di sotterfugi o di delinquenza. In paesi in guerra, ad esempio, dove anche a scapito delle differenze salariali o di introiti la scarsità di beni di prima necessità come gli alimenti produce un livello di vita più o meno uniforme nella massa della popolazione, è più probabile che si produca una situazione rivoluzionaria che in tempi e situazioni dove l'impoverimento ha luogo per tappe o mediante salti bruschi. Fin tanto che il lumpenproletariato si origina non solo indiretta ma anche direttamente dalle relazioni esistenti, il fattore predominante all'impoverimento va ricercato nelle leggi cieche che lo fanno sorgere.
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Il lumpenproletariato prende forma dall'impoverimento inizialmente associato all'espansione del sistema economico e la fine di questa espansione lo condanna a rimanere minoranza, anche se può essere minoranza in crescita, per molto tempo. Siccome la fase di auge sociale è molto rapida e il suo declino molto lento, una parte della popolazione lavoratrice risulta esposta a condizioni di impoverimento alle quali può rispondere solo in forma lumpen e alle quali si deve piegare. Sono queste “vittime” di un lento processo di declassamento sociale che inizialmente non spinge gli individui a trasformarsi in rivoluzionari ma in forze principalmente negative. Al posto di soluzioni rivoluzionarie le vie d'uscita che appaiono possibili sono individuali e necessariamente antisociali. Di modo che il lumpenproletariato può liberarsi da se stesso dalla propria situazione solo attraverso la propria crescita, che è allo stesso tempo indice del processo di avanzamento rivoluzionario che si diffonde nella società. La forma di vita del lumpenproletariato deve diventare modo di vita di una parte dell'umanità tanto grande da non permettere all'individuo nessun tipo di vita, nemmeno all'interno del lumpenproletariato.
Come si è detto, l'apparenza superficiale sembra smentire la teoria dell'impoverimento. Considerando semplicemente l'attitudine psicologica dei disoccupati, per non parlare già di lumpen, produce orrore la penuria spiritale di questi elementi (a meno che l'osservatore si autoinganni, fenomeno che spesso viene considerato adeguato a effetti agitatori). Liberati dalla fatica che imbruttisce, risultano ancora più incapaci di prima di sviluppare una coscienza rivoluzionaria. Le loro conversazioni si limitano agli argomenti più elementari quali il successo e sport e non hanno relazione alcuna con la propria situazione. Scansano quasi con timore il riconoscimento della propria situazione e delle sue conseguenze politiche.
L'effetto che ha l'impoverimento sui disoccupati si può dividere in due tipi. Una piccola percentuale non si abbatte di fronte alla nuova situazione. Non sono ancora stati lontani dal lavoro per abbastanza tempo o risultano protetti dall'abisso da alcuni risparmi. Si elevano sopra se stessi, si impegnano nel trovare un impiego e hanno ancora speranze nel futuro dal quale si aspettano un miglioramento della propria condizione. L'intensità con la quale si sforzano di non sprofondare esclude questo gruppo più o meno completamente dall'attività politica. La loro principale attività è obbligatoriamente quella della salvaguardia dei propri interessi più immediati, non hanno la possibilità di dedicare le proprie energie a più ambiti simultaneamente. Allo stesso tempo, la gran massa dei disoccupati (che come conseguenza del tempo in cui sono rimasti senza lavoro hanno abbandonato il primo tipo) vive nel più profondo stato di rassegnazione e mancanza di energia. Non si aspettano nulla dalla vita. Neppure la fantasia gli permette di avere qualche speranza. Niente suscita il loro interesse e non sono capaci di applicarsi in qualche attività. Hanno lasciato da parte le caratteristiche dell'umanità vivente, vegetano e sono coscienti che piano piano stanno affondando. Da quest'enorme massa grigia sorge la piccola percentuale dei completamente disperati che si integrano ai lumpen o in poco tempo lasciano la vita. La disperazione e l'amarezza confinano con la pazzia e le vittime o si trascinano o si imbarcano in furiose liti come animali terrorizzati. Tanto velocemente la società si libera di loro, ecco che i posti rimasti vacanti vengono occupati da elementi che nascono dalla massa grigia dei rassegnati che a loro volta vengono sostituiti da elementi dei gruppi ancora integri.

Indipendentemente da cosa si possa dire sulla teoria dell'impoverimento, tutte le argomentazioni cadono di fronte all'impoverimento reale che attualmente si sta manifestando e al quale non si può mettere freno nel contesto della società attuale. Se la teoria dell'impoverimento è falsa, anche la rivoluzione è improbabile. Nonostante ciò, è ancora molto probabile che l'impoverimento sia rimasto finora senza conseguenze rivoluzionarie visibili solo perché ha riguardato sempre solo minoranze. Una grande massa di impoveriti per la sua stessa ampiezza deve svilupparsi in una forza rivoluzionaria. In questo, l'abolizione del proletariato in quanto tale, è al tempo stesso la fine del lumpenproletariato, anche se questa scomparsa non è mai immediata. Risulta eliminato solo il terreno per il suo sviluppo. L'ideologia lumpen sorge come risutato della vita lumpen e si manifesterà ancora per molto tempo come una delle eredità indesiderabili del proletariato, fino a quando le nuove relazioni abbiano cambiato l'umanità al punto che le tradizioni ideologiche si trovino solo nei libri di storia e non nella testa degli esseri umani.

Alla luce di tutto ciò bisogna affermare che l'impoverimento è una condizione necessaria per la rottura rivoluzionaria e allo stesso tempo va combattuto giorno per giorno nella pratica. Questo non è contraddittorio, perché sono proprio i tentativi dentro i confini del capitalismo di diminuire la povertà ad avere in realtà l'effetto di aumentarla. Entrare in questo paradosso però ci porterebbe al campo dell'economia. Rimaniamo semplicemente con l'affermazione che nel lumpenproletariato i lavoratori possono vedere solo il ritratto del loro futuro, a meno che i loro sforzi per cambiare le relazioni di produzione esistenti procedano ad un ritmo maggiore. Solo la visione ristretta della piccola borghesia può guardare con disprezzo il lumpenproletariato. Per gli stessi lavoratori, la “feccia dell'umanità” non è altro che l'altra faccia della medaglia che si suole ammirare e chiamare civilizzazione capitalista. Solo la fine di questa porterà con se l'altra.

PAUL MATTICK
[A cura di Ario Libert]

 

 

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La feccia dell'umanità

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25 agosto 2012 6 25 /08 /agosto /2012 05:00

Kropotkin sul mutuo appoggio

 

Paul Mattick

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Questa nuova pubblicazione dello scritto di Kropotkin sul mutuo appoggio, pubblicato la prima volta a cavallo del secolo, non solo soddisfa il bisogno per la sua utilità, ma - in qualche misura - aiuta anche a combattere l'attuale neo-malthusianesimo e i rinnovati, anche se inutili, tentativi di presentare la concorrenza capitalistica come una "legge di natura", ispirati alla convinzione di Huxley che in natura e nella società la lotta per l'esistenza sia di uno contro tutti; Kropotkin ha dimostrato che sia nel mondo animale sia nella società umana è piuttosto l’aiuto reciproco che assicura l'esistenza e fare progressi.

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Quanto sostenuto da Huxley passa sotto il nome di darwinismo sociale-. "la sopravvivenza del più adatto". Il successo nella società in questo modo deriverebbe dalla selezione naturale.

Non ci si può fare niente e non è necessaria nessuna scusa in quanto la natura è né morale né immorale ma a-morale.

Certo, si cerca di sfidare la "legge naturale" attraverso l'istituzione di un ordine sociale finalizzato a mitigare la lotta di tutti contro tutti. Eppure questo è poco plausibile per il futuro perché la popolazione tende a superare i mezzi di sussistenza, e quindi la lotta per la sopravvivenza continua a distruggere il debole.

mutualismo-gobius-gamberetto.jpgKropotkin non rispose all'argomento malthusiano di Huxley, anche se è l'unico che Huxley ha portato a sostegno delle sue opinioni. Invece Kropotkin, ha descritto le forme di mutuo appoggio osservati nel mondo animale e vari tipi di collaborazione sociale, nel corso della storia dell'uomo. Questo lo ha fatto in modo eccellente, in modo che il libro - a prescindere dalla sua finalità specifica - è un importante studio del comportamento animale e dell'evoluzione della socialità umana. Egli stesso sotto l'influsso del darwinismo, Kropotkin ha voluto correggere la sua interpretazione capitalisticamente - determinata e parziale, che ha visto solo la concorrenza come strumento della sopravvivenza trascurando il fattore molto più importante del mutuo appoggio. Non ha ripreso l'argomento malthusiano perché pensava che i "controlli naturali esistenti alla sovrappopolazione l’avessero reso irrilevante". 

mutualismo-pagliaccio-anemone.JPGQuesto gioca a favore dei "darwinisti sociali", che non fanno distinzione tra società e natura, vedono in tutte le miserie sociali manifestazione di una "legge naturale". Essi insistono sul fatto che, anche se la lotta per l'esistenza non può essere caratterizzata da l'immancabile lotta accanita per i mezzi di sussistenza, tuttavia il pauperismo e la fame, come anche la carestia e la peste, devono essere considerati come "controlli naturali a un eccesso di popolazione". Dal loro punto di vista, la riduzione della sofferenza umana, causata da qualsivoglia ragione, si contrappone ai necessari "controlli naturali" alla sovrappopolazione.

mutualismo-ippopatamo-bufaghe.jpgKropotkin non rispose all'argomento malthusiano, perché anche lui non distingue abbastanza chiaramente tra società e natura. Proprio come per i darwinisti sociali la competizione è istintiva sia per gli uomini e gli animali, così per Kropotkin il mutuo appoggio è un "istinto morale" di "origine pre-umana" e una "legge di natura." Questo non gli impedì, tuttavia, di rendere parola d'ordine, il mutuo appoggio, che ci arriva "dal bosco, dalla foresta, dal fiume, dall'oceano," nelle fondamenta delle nostre "concezioni etiche" in modo da garantire "una più alta evoluzione della nostra specie". Sembra, quindi, che le "leggi naturali" per essere veramente efficaci abbiano bisogno del supporto o del rifiuto degli uomini.

kropotkin coloriL'osservazione rivela che vi è sia la concorrenza sia il mutuo appoggio all'interno e tra le diverse specie. Mutuo appoggio che, ovviamente, è la migliore strada per la sopravvivenza per le specie, la cui sopravvivenza dipende dall'aiuto reciproco, così come la competizione. Per molto tempo, tuttavia, la sopravvivenza nel mondo animale non è dipesa dalla pratica della mutualità o della concorrenza, ma è stata determinata dalla decisione degli uomini su quali specie avrebbero dovuto vivere e prosperare e quali sarebbero dovute essere sterminate. Qualunque "legge naturale" possa esistere rispetto al mondo animale, è annullata dalle "leggi" fatte dall’uomo che forma la "natura" alle proprie esigenze o capricci. "Natura allo stato naturale" per così dire, dove "le leggi naturali" potrebbero governare ha bisogno oggi di essere preservata e protetta da leggi nazionali e internazionali. Ovunque l’uomo ha il potere, le "leggi della natura" rispetto alla vita animale cessano di esistere.

darwinSe questo è vero per il mondo animale, quanto più questo deve essere vero per l'uomo stesso. Sebbene Marx fosse un grande ammiratore di Darwin, Marx ha richiamato l'attenzione sul fatto che la "natura" viene continuamente modificata dalle attività degli uomini, e (contro il malthusianesimo in particolare) che nessuna "legge naturale" governa la crescita della popolazione. La mutevole struttura sociale, non la "legge naturale", determina se c'è "sovrappopolazione" oppure no, e se in conseguenza di questa sovrappopolazione, o indipendentemente da essa, è il mutuo appoggio o la concorrenza che caratterizza i rapporti sociali. "La sovrappopolazione" e la fame e la miseria ad essa associata, non sono prodotti della natura, ma prodotti degli uomini, o piuttosto di rapporti sociali che escludono un'organizzazione sociale della produzione e della vita in generale tale da abolire il problema della sovrappopolazione con il problema della fame.

Marx.jpgLa "sovrappopolazione" di cui parla Huxley, non è quella relativa ai mezzi di sussistenza, ma rispetto alle esigenze di accumulazione del capitale, è un prodotto del modo di produzione capitalistico e non di una "legge di natura".

A dire il vero, la "sovrappopolazione" sembra esistere in vaste aree del mondo dove le popolazioni sono sottoposte a carestie, inondazioni e a mezzi di produzione arretrati. Anche se questa condizione può non essere costruita dall'uomo, è in ogni caso mantenuta dagli uomini, in modo da garantire posizioni di privilegio all'interno di rapporti sociali esistenti, o di rapporti di forza internazionali, o di entrambi simultaneamente. La "sovrappopolazione" non è la causa ma il risultato di questi tentativi di arrestare lo sviluppo sociale, come si può vedere dal fatto che, ovunque la fame viene eliminata la popolazione tende a diminuire. Ma anche se non fosse così, esistono per un tempo molto lungo ampie opportunità per un aumento della produzione in grado di nutrire una popolazione mondiale molte volte la sua dimensione attuale.  

sardine.jpgNon è in realtà la "sovrappopolazione" che preoccupa le classi dominanti. Piuttosto è vero il contrario, come si evince dagli sforzi frenetici per aumentare la popolazione al primo segno del suo declino tendenziale, dal fatto che il controllo delle nascite è un crimine, e dal mantenimento di condizioni che favoriscono un notevole aumento del masse impoverite. Le condizioni di miseria per le masse sono un prerequisito per la ricchezza e la particolare posizione sociale delle classi dominanti.

Anche se è bene sapere che c’è almeno altrettanto mutuo appoggio che competizione nella natura e nella società, questo non è sufficiente a far cambiare le abitudini degli uomini e modificare le relazioni sociali. Per coloro che traggono profitto dalle condizioni attuali non importa se si tratta di "naturale" o "innaturale", il "migliore" o il "peggiore" metodo per la sopravvivenza della specie. L'umanità non è un loro problema. Per coloro che creano i profitti può essere bello sapere che il mutuo appoggio praticato nei loro stessi ambienti attesti i loro alti concetti etici e di comportamento naturale, ma questo non li ferma dallo sfruttare. Tutta la polemica tra Huxley e Kropotkin è in un certo senso fuori luogo - non tocca i temi rilevanti della società, vale a dire che il "mutuo appoggio" in una società umana presuppone l'abolizione dei rapporti di classe.

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3 agosto 2012 5 03 /08 /agosto /2012 05:00

Notevole testo di critica ideologica scritto da Paul Mattick nel 1935! ed edito in "Western socialist", rivista che aveva come sottotitolo la seguente dicitura: "Giornale di Socialismo Scientifico dell'Emisfero Occidentale" [Journal of Scientific Socialism in the Western Hemisphere], stampato a Boston dal 1939 dal Workers’ Socialist Party e il Partito socialista del Canada. Il WSP assunse nel 1947 il nome di World Socialist Party per evitare la confusione con il suo quasi omonimo partito trotskysta. Paul Mattick abitava allora a Boston.

 

La leggenda di Lenin

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Paul Mattick

Più gialla e più coriacea diventa la pelle mummificata di Lenin, e più alto diventa il numero determinato statisticamente di visitatori al mausoleo di Lenin, meno la gente si preoccupa del vero Lenin e della sua significatività storica. Sempre più monumenti vengono eretti alla sua memoria, sempre più pellicole vengono fuori nelle quali lui è la figura centrale, sempre più libri scritti su di lui, e i pasticceri russi modellano dolci in forme che somigliano alla sua figura. E ancora lo sbiadirsi delle facce dei Lenin di cioccolata è associato alla poca chiarezza e all'improbabilità delle storie che vengono raccontate su di lui. Sebbene l’Istituto Lenin di Mosca potrebbe pubblicare la raccolta dei suoi lavori, questi non hanno più nessun significato in confronto alle leggende fantastiche che si sono formate attorno al suo nome. Appena la gente incominciò a preoccuparsi dei bottoni del colletto di Lenin, cessarono anche di preoccuparsi delle sue idee. Ognuno quindi si modella il proprio Lenin, e se non alla sua stessa immagine, in ogni caso secondo i propri desideri. Come la leggenda di Napoleone sta alla Francia e quella di Federico alla Germania, così la leggenda di Lenin sta alla nuova Russia.

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Come un tempo la gente si rifiutava assolutamente di credere alla morte di Napoleone, così sperò nella risurrezione di Federico, così in Russia ancora oggi ci sono contadini secondo i quali il nuovo "piccolo padre Zar" non è morto ma continua a indulgere il suo insaziabile appetito richiedendo a loro addirittura nuovi tributi. Altri accendono lumini eterni sotto la foto di Lenin: per loro egli è un santo, un redentore al quale si prega per un aiuto. Milioni di occhi fissano milioni di queste foto, e vedono in Lenin l’equivalente russo di Mosè, San Giorgio, Ulisse, Ercole, Dio o il Diavolo. Il culto di Lenin è diventato una nuova religione davanti la quale anche l’ateismo comunista felicemente si genuflette: rende la vita più facile in ogni aspetto. Lenin appare a loro come il padre dell’Unione Sovietica, l'uomo che rese possibile la vittoria della rivoluzione, il grande leader senza il quale essi stessi non esisterebbero. Ma non solo in Russia e non solo nella leggenda popolare, ma anche a una larga parte dell’intellighenzia marxista in tutto il mondo, la rivoluzione russa è diventata un evento mondiale addirittura così strettamente unito al genio di Lenin che si ha l’impressione che senza di lui la rivoluzione e quindi la storia mondiale avrebbe probabilmente potuto prendere un corso essenzialmente diverso. Una genuina e obiettiva analisi della rivoluzione russa, tuttavia, rivelerà immediatamente l’insostenibilità di tale idea.

Lenin Karpov

"L’affermazione che la storia è fatta dai grandi uomini è da un punto di vista teorico completamente infondata". Queste sono le parole con le quali Lenin stesso dà il via alla leggenda che insiste nel fare di lui l’unico responsabile del "successo" o del "crimine" della rivoluzione russa. Egli considerava la guerra mondiale determinante in rapporto alla diretta causa del suo scoppio e per il tempo del suo verificarsi. Sì; senza la guerra, dice, "la rivoluzione sarebbe stata probabilmente posticipata di decenni". L’idea che lo scoppio e il corso della rivoluzione russa dipese in grandissima misura da Lenin necessariamente implica una completa identificazione della rivoluzione con la presa del controllo del potere da parte dei bolscevichi. Trotsky ha evidenziato il fatto che l’intero credito per il successo della rivolta di Ottobre appartiene a Lenin; contro l’opposizione di tutti i suoi amici di partito, la risoluzione per l’insurrezione fu portata avanti da lui solo. Ma la presa del potere da parte dei bolscevichi non diede alla rivoluzione lo spirito di Lenin; al contrario, Lenin aveva talmente adattato se stesso alle necessità rivoluzionarie che praticamente egli eseguì completamente il compito della classe che lui apparentemente combatteva. Di sicuro spesso si afferma che con la presa del potere statale da parte dei bolscevichi la rivoluzione originariamente democratico-borghese fu senz'altro convertita in una socialista-proletaria. Ma è davvero possibile per chiunque credere seriamente che un singolo atto politico sia capace di rimpiazzare un intero sviluppo storico; che sei mesi – da febbraio a ottobre – siano sufficienti per formare i presupposti economici di una rivoluzione socialista in un paese che stava soltanto cercando di liberarsi dai suoi vincoli feudali e assolutisti, con lo scopo di dare più libero gioco alle forze del capitalismo moderno?

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Fino alla rivoluzione, e in stragrande misura anche oggi, il ruolo decisivo nello sviluppo economico e sociale della Russia fu giocato dalla questione agraria.

Su 174 milioni di abitanti prima della guerra, solo 24 milioni vivevano nelle città. Per ogni migliaia di lavoratori retribuiti, 719 erano occupati nell'agricoltura. Malgrado la loro enorme importanza economica, la maggioranza dei contadini conducevano ancora vite miserabili. La causa della loro situazione deplorabile era l’insufficienza di terra. Lo Stato, la nobiltà e i grandi proprietari terrieri assicuravano a loro stessi con brutalità asiatica un irragionevole sfruttamento della popolazione.

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Dall'abolizione della servitù della gleba (1861) la scarsità di terra per le masse contadine era stata costantemente la questione attorno alla quale tutto il resto ruotava nella politica interna russa. Formò l’oggetto principale di tutti i tentativi di riforma, che vide in questo la forza motrice dell’imminente rivoluzione, la quale dovette essere sviata. La politica finanziaria del regime zarista, con le sue nuove imposte di tassazione indiretta, peggiorarono maggiormente le condizioni dei contadini. Le spese per l’esercito, la flotta, l’apparato statale arrivarono a proporzioni gigantesche; la porzione più grande del budget statale andò a propositi improduttivi, i quali rovinarono totalmente la fondazione economica dell’agricoltura. “Terra e Libertà” era la necessaria richiesta rivoluzionaria dei contadini. Sotto questa parola d’ordine si verificarono una serie di rivolte contadine che presto, nel periodo che va dal 1902 al 1906, assunsero una portata significativa. In combinazione con i movimenti di sciopero di massa dei lavoratori che avevano luogo nello stesso periodo, esse produssero un tale violento scompiglio nel cuore dello zarismo che quel periodo potrebbe invero essere denotato come una “prova generale” per la rivoluzione del 1917. La maniera in cui lo zarismo reagì a queste ribellioni è illustrata nel modo migliore dall'espressione del vice governatore della provincia di Tambov Bogdanovich: “Pochi arrestati, i più sono stati passati per le armi”. E uno degli ufficiali che aveva preso parte alla soppressione dell’insurrezione scrisse: “Tutto attorno a noi, spargimenti di sangue; ogni cosa in fiamme; abbiamo sparato, abbattuto, pugnalato”. Fu in questo mare di sangue e fiamme che nacque la rivoluzione del 1917.

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Nonostante le sconfitte, la pressione dei contadini crebbe e fu più minacciosa. Portò alle riforme di Stolipin, che comunque, erano solo gesti vuoti, pieni di promesse che in realtà non fecero fare alla questione agraria un singolo passo avanti. Ma una volta dato il mignolo, si vorrà presto prendere l’intero braccio. L’ulteriore peggioramento della situazione dei contadini durante la guerra, la sconfitta dell’esercito zarista al fronte, le crescenti rivolte nelle città, la caotica politica zarista, nella quale ogni ragione fu gettata a mare, il dilemma generale per tutte le classi della società, portò alla rivoluzione di febbraio, che prima di tutto fece emergere la situazione violenta della questione agraria; la quale era stata una questione calda per mezzo secolo. Il suo carattere politico, tuttavia, non era stato inculcato a questa rivoluzione dal movimento contadino; questo movimento semplicemente gli diede il suo grande potere. Nel primo annuncio del Comitato Esecutivo Centrale del Consiglio (soviet) dei lavoratori e dei soldati di San Pietroburgo la questione agraria non fu neppure menzionata. Ma i contadini presto imposero la loro presenza all'attenzione del nuovo governo.

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Stanchi di aspettare il governo per agire in merito alla questione agraria, in aprile e maggio del 1917 le masse contadine deluse incominciarono ad appropriarsi della terra da sole. I soldati al fronte, timorosi di non aver modo di prendere il loro pezzo nella nuova distribuzione, abbandonarono le trincee e si precipitarono nei loro villaggi. Portandosi le armi dietro, comunque, e così non dando altra scelta al nuovo governo di reprimerli. Tutti i suoi appelli al sentimento di nazionalità e sacralità degli interessi russi non erano di alcuna utilità contro l’urgenza delle masse di ottenere alla fine i loro bisogni economici. E questi bisogni comprendevano la pace e la terra. Fu detto a quel tempo che i contadini che venivano implorati di rimanere al fronte altrimenti i tedeschi avrebbero occupato Mosca, erano alquanto indecisi e risposero agli emissari di governo: “E cosa importa ciò a noi? Che diamine, noi veniamo dal Governatorato di Tamboff”.

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Lenin e i bolscevichi non inventarono lo slogan vincente “Terra ai contadini”; piuttosto, essi accettarono che la vera rivoluzione contadina proseguisse indipendentemente da loro. Usando a loro favore il vacillante atteggiamento del regime di Kerensky, che sperava ancora di essere in grado di accomodare la questione agraria per mezzo di una discussione pacifica, i bolscevichi vinsero il favore dei contadini e furono così in grado di scacciare il governo Kerensky e di assumere il controllo del potere. Ma questo fu possibile per loro solo come agenti del volere contadino, sanzionando la loro appropriazione della terra, e fu solo attraverso il loro supporto che i bolscevichi furono in grado di mantenersi al potere.

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Lo slogan “terra ai contadini” non ha nulla a che vedere con i principi comunisti. La frammentazione di un grande possedimento in un vasto numero di piccole imprese agricole indipendenti era una misura direttamente opposta al socialismo, e che poteva essere giustificata solo in virtù di una necessità tattica. I successivi cambiamenti nella politica contadina di Lenin e dei bolscevichi furono vani nell'apportare qualche cambiamento nelle necessarie conseguenze della sua politica opportunistica originale. Malgrado tutta la collettivizzazione, che fino ad ora è largamente limitata a lati tecnici del processo produttivo, l'agricoltura russa è ancor oggi in pratica determinata da interessi e motivi di economia privata. E questo implica l'impossibilità, anche in campo industriale, di approdare a nient'altro che ad un'economia a capitalismo di Stato. Anche se questo capitalismo di Stato punta a trasformare completamente la popolazione agricola in salariati agricoli sfruttabili, questo obiettivo non è assolutamente possibile da ottenere in vista dei nuovi scontri rivoluzionari legati a tale avventura. La presente collettivizzazione non può essere considerata il compimento del socialismo.

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Questo diventa chiaro quando si tiene in considerazione il fatto che osservatori della scena russa come Maurice Hindus ritengono possibile che "anche se i Soviet dovessero collassare, l’agricoltura russa rimarrebbe collettivista, con il controllo forse più nelle mani dei contadini che del governo". Comunque, anche se la politica agricola bolscevica dovesse portare al risultato desiderato, la situazione dei lavoratori rimarrebbe comunque inalterata. E neppure tale compimento sarebbe considerato una transizione al socialismo reale, in quanto questi elementi della popolazione ora privilegiati dal capitalismo di Stato difenderebbero i loro privilegi contro tutti i cambiamenti esattamente come i proprietari privati fecero prima al tempo della rivoluzione del 1917.

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I lavoratori delle industrie formavano ancora una piccola minoranza della popolazione, ed erano coerentemente incapaci di imprimere alla rivoluzione russa un carattere conforme ai propri bisogni. Gli elementi borghesi che similmente combattevano lo zarismo retrocedettero davanti alla natura dei loro stessi compiti. Non potevano accedere alla soluzione rivoluzionaria della questione agraria, in quanto a un’espropriazione generale della terra avrebbe fatto seguito troppo facilmente l’espropriazione dell’industria. Né i contadini né i lavoratori li seguirono, e il destino della borghesia era deciso dalla temporanea alleanza tra questi ultimi gruppi. Non fu la borghesia ma i lavoratori a portare la rivoluzione borghese alla sua conclusione; il posto del capitalismo fu preso dall’apparato statale bolscevico sotto lo slogan leninista: “se capitalismo in ogni caso, allora facciamolo”. Di sicuro i lavoratori nelle città avevano rovesciato il capitalismo, ma solo allo scopo ora di convertire l’apparato del partito bolscevico nei loro nuovi padroni. Nelle città industriali la lotta dei lavoratori continuò sotto richieste socialiste, in modo apparentemente indipendente dalla rivoluzione contadina in corso allo stesso tempo ma in un senso decisivo determinato da quest’ultima. Le richieste rivoluzionarie originali dei lavoratori erano oggettivamente impossibili da portare a compimento. Dobbiamo riconoscerlo, i lavoratori erano in grado, con l’aiuto dei contadini, di vincere il potere statale per il loro partito, ma questo nuovo Stato presto assunse una posizione direttamente opposta a quella degli interessi dei lavoratori. Un’opposizione che persino oggi ha assunto forme che effettivamente permettono di parlare di uno "zarismo rosso": soppressione degli scioperi, deportazioni, esecuzioni di massa, e quindi anche la nascita di nuove organizzazioni illegali che conducono una rivolta comunista contro il presente finto socialismo. L’attuale discorso riguardo a un’estensione della democrazia in Russia, al pensiero di introdurre una sorta di parlamentarismo, alla risoluzione dell’ultimo congresso dei soviet in merito allo smantellamento della dittatura, tutto questo è meramente una manovra tattica progettata per compensare l’ultimo atto di violenza da parte del governo contro l’opposizione. Queste promesse non sono da prendere seriamente, ma sono un risultato della pratica leninista, la quale era sempre ben calcolata per funzionare in due direzioni allo stesso tempo nell’interesse della sua stessa stabilità e sicurezza. Lo zigzagare della politica leninista deriva dalla necessità di conformarsi costantemente all’avvicendamento delle forza di classe in Russia in modo tale che il governo possa sempre rimanere padrone della situazione. E così oggi si accetta ciò che si era respinto il giorno prima, o viceversa; un non principio è stato elevato a principio, e il partito leninista si concentra solo su una cosa, cioè, l’esercizio del potere di Stato ad ogni costo.

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Qui, tuttavia, siamo interessati solo nel chiarire che la rivoluzione russa non fu dipendente da Lenin o dai bolscevichi, ma che l’elemento decisivo fu la rivolta contadina. E, su questo argomento, Zinoviev, ancora al potere a quel tempo e dalla parte di Lenin, aveva affermato durante l’undicesimo Congresso del Partito Bolscevico (marzo-aprile 1921): “Non fu l’avanguardia proletaria dalla nostra parte, ma il passaggio dalla nostra parte dell’esercito, perché noi chiedevamo la pace, che fu il fatto decisivo della nostra vittoria. L’esercito, comunque era formato da contadini. Se noi non avessimo avuto il supporto dei milioni di contadini soldati, la nostra vittoria sulla borghesia sarebbe stata fuori questione”. Il grande interesse dei contadini sulla questione della terra da un lato, e il minimo interesse da parte del governo dall’altro, permise ai bolscevichi di condurre una lotta vittoriosa per il governo.

I contadini erano abbastanza disponibili a lasciare il Cremlino ai bolscevichi, solo a patto che questi non interferissero con la loro lotta contro i grandi proprietari terrieri.

 

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Ma anche nelle città, Lenin non fu il fattore decisivo nel conflitto tra capitale e lavoro. Al contrario, egli fu impotentemente trascinato dalla scia dei lavoratori, i quali nelle loro richieste e misure effettive andarono ben oltre i bolscevichi. Non fu Lenin che condusse la rivoluzione, ma la rivoluzione condusse Lenin. Però non prima della rivolta d’Ottobre Lenin restrinse le sue originarie e risolute richieste al controllo della produzione, e desiderava fermarsi con la socializzazione delle banche e dei trasporti; senza un’abolizione generale della proprietà privata, i lavoratori non diedero attenzione ulteriore ai suoi punti di vista e esporpriarono tutte le imprese. È interessante ricordare che il primo decreto del governo bolscevico fu diretto contro le espropriazioni selvagge e non autorizzate delle fabbriche per mezzo dei consigli dei lavoratori. Ma questi consigli (soviet) erano a quel tempo più forti dell’apparato di partito e obbligarono Lenin a emanare il decreto per la nazionalizzazione di tutte le imprese industriali. Fu solo sotto la pressione esercitata dai lavoratori che i bolscevichi acconsentirono a questo cambio nei loro piani. Gradualmente, attraverso l’estensione del potere statale, l’influenza dei consigli s’indebolì, fino ad arrivare alla situazione attuale in cui i consigli non servono altro che a scopi decorativi.

 

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Durante i primi anni della rivoluzione, sino all’introduzione della Nuova Politica Economica (New Economic Policy, NEP) (1921), ci fu di sicuro qualche sperimentazione in Russia in senso comunista. Questo, però, non è da accreditare a Lenin, ma a quelle forze che lo resero un camaleonte politico che una volta assumeva un colore reazionario e un’altra un colore rivoluzionario. Inizialmente nuove rivolte contadine contro i bolscevichi portarono Lenin a una politica più radicale, un’enfasi più forte agli interessi degli operai e dei contadini poveri che si erano ritrovati a mani vuote dopo la prima distribuzione della terra. Ma poi questa politica si dimostra un fallimento, in quanto i contadini poveri, i cui interessi sono quindi privilegiati, si rifiutano di appoggiare i bolscevichi e Lenin “rivolge il suo sguardo ancora verso i contadini medi”. In tal caso Lenin non ha scrupoli nel rafforzare da capo gli elementi di capitale privato, e gli alleati di prima, che sono ora cresciuti in modo indesiderato, vengono abbattuti con i cannoni, com’è avvenuto a Kronstadt.

 

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Il potere, e niente di meno che il potere: è a questo che l’intera saggezza politica di Lenin si riduce infine. Il fatto che i modi con i quali si ottiene, i mezzi che portano al potere, determinano a loro volta la maniera in cui tale potere è applicato, era una materia che gli interessava poco. Il socialismo, per lui, era in ultima istanza semplicemente una sorta di capitalismo di Stato, seguendo il “modello del servizio postale tedesco”. E questo capitalismo di Stato colse sulla sua strada, perché in realtà non c’era null’altro da prendere.

Fu semplicemente una questione di chi sarebbe stato il beneficiario del capitalismo di Stato, e qui Lenin non diede la precedenza a nessuno. E pertanto George Bernard Shaw, tornando dalla Russia, fu alquanto corretto quando, in una lezione davanti alla Società Fabiana a Londra, affermò che “il comunismo russo non è niente più che la messa in pratica del programma fabiano che noi abbiamo predicato negli ultimi quarant’anni”.

 

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Ancora nessuno, tuttavia, ha avuto il sospetto che i fabiani costituiscano una forza rivoluzionaria mondiale. E Lenin è di sicuro prima di tutto acclamato come un rivoluzionario mondiale, nonostante il fatto che il presente governo russo con il quale il suo “patrimonio” è amministrato diffonde smentite enfatiche quando la stampa pubblica articoli di brindisi russi alla rivoluzione mondiale. La leggenda della significatività mondiale rivoluzionaria di Lenin riceve il suo nutrimento dalla sua coerente posizione internazionale durante la guerra. Fu alquanto impossibile per Lenin a quel tempo concepire che una rivoluzione russa non avrebbe avuto ulteriori ripercussioni e sarebbe stata abbandonata a se stessa. C’erano due ragioni per questo punto di vista: primo, perché tale pensiero era in contraddizione con la situazione oggettiva risultante dalla guerra mondiale; e secondo, egli sosteneva che l’attacco delle nazioni imperialiste contro i bolscevichi avrebbe rotto la schiena della rivoluzione russa se il proletariato dell’Europa occidentale non fosse venuto in suo soccorso. La chiamata di Lenin per la rivoluzione mondiale era primariamente una chiamata in supporto e per il mantenimento del potere bolscevico. La prova che non fu molto più che questo è fornita dalla sua incoerenza in questa questione: in aggiunta alle sue richieste per la rivoluzione mondiale, allo stesso tempo venne fuori con il “diritto di autodeterminazione di tutti i popoli oppressi”, per la loro liberazione nazionale. Anche questa partita doppia proviene allo stesso modo dal bisogno giacobino dei bolscevichi di mantenere il potere. Con entrambi gli slogan le forze di intervento dei paesi capitalisti negli affari russi erano indebolite, in quanto la loro attenzione veniva deviata sui loro stessi territori e colonie. Ciò permise ai bolscevichi di respirare. Al fine di renderla più lunga possibile, Lenin istituì la sua Internazionale. Essa stabilì per se stessa un doppio compito: da una parte, subordinare i lavoratori dell’Europa occidentale e dell’America alla volontà di Mosca; dall’altra, rafforzare l’influenza di Mosca sui popoli dell’Asia orientale. Il lavoro sul campo internazionale era modellato sul seguito del corso della rivoluzione russa. L’obiettivo era quello di combinare gli interessi dei lavoratori e dei contadini su scala mondiale e di controllarli attraverso i bolscevichi, per mezzo dell’Internazionale Comunista.

In questo modo almeno il potere statale bolscevico in Russia riceveva supporto; e nel caso in cui la rivoluzione mondiale dovesse diffondersi veramente, il potere sul mondo sarebbe a portata di mano. Anche se il primo progetto aveva avuto successo, allo stesso tempo il secondo non era stato ultimato. La rivoluzione mondiale non fu in grado di progredire come un’imitazione allargata di quella russa, e le limitazioni nazionali della vittoria in Russia necessariamente fecero dei bolscevichi una forza controrivoluzionaria sul piano internazionale. Perciò anche la richiesta della “rivoluzione mondiale” fu convertita nella “teoria di costruire il socialismo in un solo paese”. E questa non è una perversione di una posizione leninista – come Trotsky, per esempio, asserisce oggi – ma la conseguenza diretta di una pseudo politica di rivoluzione mondiale perseguita da Lenin stesso.

Era chiaro a quel tempo, addirittura a molti bolscevichi, che la restrizione della rivoluzione alla Russia avrebbe fatto della rivoluzione russa stessa un fattore per il quale la rivoluzione mondiale sarebbe stata impedita. Così, per esempio, Eugene Varga scrisse nel suo libro Problemi economici della dittatura del proletariato, pubblicato nell’Internazionale Comunista (1921): “Esiste il pericolo che la Russia possa essere eliminata come forza motrice della rivoluzione internazionale...Ci sono comunisti in Russia che si sono stancati di aspettare la rivoluzione europea e sperano di trarre il meglio dal loro isolamento nazionale... Con una Russia che considererebbe la rivoluzione sociale degli altri paesi come una materia con la quale non avrebbe niente a che vedere, i paesi capitalisti sarebbero in ogni caso in grado di vivere pacificamente con rapporti di buon vicinato. Sono lontano dal credere che il soffocamento della rivoluzione russa sarebbe in grado di fermare il progresso della rivoluzione mondiale. Ma quel progresso sarebbe rallentato”. E con l’inasprirsi delle crisi interne in Russia intorno al quel periodo, non ci volle molto tempo prima che tutti i comunisti, incluso Varga stesso, maturassero la sensazione di cui Varga qui si lamenta. Infatti, ancora prima, addirittura nel 1920, Lenin e Trotsky si presero la briga di arginare le forze rivoluzionarie d’Europa. La pace in tutto il mondo era necessaria al fine di assicurare la costruzione del capitalismo di Stato in Russia sotto gli auspici dei bolscevichi. Era sconsigliabile avere questa pace disturbata dalla guerra o da nuove rivoluzioni, in entrambi i casi un paese come la Russia sarebbe stato tirato in ballo di sicuro. Perciò, Lenin impose, con divisioni e intrighi, un corso neoriformista al movimento dei lavoratori dell’Europa Occidentale, un corso che portò alla sua totale dissoluzione. Fu con parole argute che Trotsky, con l’approvazione di Lenin, accese la sollevazione nella Germania Centrale (1921): “Noi dobbiamo dire chiaro e tondo ai lavoratori tedeschi che consideriamo questa filosofia dell’offensiva come il più grande pericolo e nella sua applicazione pratica come il più grande crimine politico”. E in altre situazioni rivoluzionarie nel 1923, Trotsky dichiarò al corrispondente del Manchester Guardian, ancora con l’approvazione di Lenin: “Noi siamo certamente interessati alla vittoria della classe dei lavoratori, ma non è per niente nel nostro interesse che scoppi la rivoluzione in Europa, la quale è dissanguata ed esausta, e che il proletariato riceva dalle mani della borghesia nient’altro che rovine. Noi siamo interessati nel mantenimento della pace”. E dieci anni dopo, quando Hitler salì al potere, l’Internazionale Comunista non mosse un dito per prevenirlo. Trotsky non è solo in errore, ma rivela una perdita di memoria risultante senza dubbio dalla perdita della sua uniforme, quando oggi caratterizza il fallimento di Stalin nell’aiutare la Germania comunista come un tradimento dei principi del leninismo. Questo tradimento fu costantemente praticato da Lenin, e da Trotsky stesso. Ma in accordo con un detto di Trotsky, la cosa importante è certamente non cosa viene fatto, ma chi lo fa.

Stalin è, in realtà, il discepolo migliore di Lenin, per quanto riguarda il suo atteggiamento nei riguardi del fascismo tedesco. I bolscevichi non si sono neanche certamente fermati dall’entrare in alleanza con la Turchia e dal fornire supporto politico ed economico al governo di quel paese anche quando le misure più aspre erano state prese contro i comunisti – misure che frequentemente eclissarono persino le azioni di Hitler.

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In visione del fatto che l’Internazionale Comunista nella misura in cui essa stessa continua a funzionare è meramente un’agenzia del settore turistico russo, in vista del collasso in tutti i paesi dei movimenti comunisti controllati da Mosca, la leggenda di Lenin il rivoluzionario mondiale è senza dubbio talmente indebolita che si potrebbe contare sulla sua scomparsa nel futuro prossimo. E di sicuro anche oggi i ruffiani dell’Internazionale Comunista non operano più con l’idea della rivoluzione mondiale, ma parlano della “Patria dei lavoratori”, dalla quale attingono il loro entusiasmo finché non sono forzati a viverci come lavoratori. Quelli che continuano ad acclamare Lenin come il rivoluzionario mondiale par excellence in realtà si entusiasmano per nulla più che i sogni politici di potere mondiale di Lenin, sogni che scemano nel nulla alla luce del giorno.

La contraddizione esistente tra la significatività storica reale di Lenin e quella che è generalmente ascritta a lui è più grande e allo stesso tempo più inscrutabile di quella di qualsiasi altro personaggio agente nella storia moderna. Abbiamo mostrato che non può essere considerato il responsabile del successo della rivoluzione russa, e anche che la sua teoria e pratica non può, come si fa spesso, essere apprezzata come d’importanza rivoluzionaria mondiale. Né, malgrado tutte le affermazioni contrarie, Lenin può essere considerato come uno che ha esteso o integrato il Marxismo. Nel lavoro di Thomas B. Brameld intitolato “Un approccio filosofico al comunismo”, recentemente pubblicato dall’Università di Chicago, il comunismo è ancora definito come “una sintesi delle dottrine di Marx, Engels e Lenin.” Non è solo in questo libro, ma anche in generale, e in particolare nella stampa del partito comunista, che Lenin è piazzato in tale relazione con Marx ed Engels. Stalin ha denotato il leninismo come il “marxismo nel periodo dell’imperialismo”. Tale posizione, tuttavia, ricava la sua unica giustificazione da un’infondata sopravalutazione di Lenin. Lenin non ha aggiunto al marxismo un singolo elemento che può essere giudicato come nuovo e indipendente. La prospettiva filosofica di Lenin è il materialismo dialettico come sviluppato da Marx, Engels e Plekhanov. È a questo che si riferisce in connessione con tutti i problemi importanti: è il suo criterio in ogni cosa e la sua corte d’appello finale. Nel suo principale lavoro filosofico, Materialismo ed Empirocriticismo, Lenin semplicemente ripete Engels tracciando le opposizioni dei diversi punti di vista filosofici intaccando la grande contraddizione: Materialismo contro Idealismo. Mentre per la prima posizione, la Natura è primaria e la Mente secondaria; per l’altra è vero esattamente l’opposto. Questa formulazione precedentemente nota è documentata da Lenin con materiale aggiuntivo proveniente dai vari campi di conoscenza. E così non si può pensare a un arricchimento essenziale della dialettica marxiana da parte di Lenin. Nel campo della filosofia, parlare di una scuola leninista è impossibile.

Nel campo dell’economia, inoltre, tale significatività indipendente non può essere ascritta a Lenin. Gli scritti economici di Lenin sono più marxisti di quelli di ogni altro suo contemporaneo, ma sono solo brillanti applicazioni delle dottrine economiche già esistenti associate al marxismo. Lenin non ebbe assolutamente idea di essere un teorico indipendente in materia economica; per lui, Marx aveva già detto tutto di fondamentale in questo campo. Siccome, per lui, era alquanto impossibile andare oltre Marx, si occupò solamente di provare che i postulati marxisti erano in accordo con lo sviluppo effettivo. Il suo principale lavoro in economia, Lo sviluppo del capitalismo in Russia, è un'eloquente testimonianza di questo punto. Lenin non volle mai essere più di un discepolo di Marx, e pertanto è solo nella leggenda che si possa parlare della teoria del “leninismo”.

Lenin voleva soprattutto essere un politico pratico. I suoi lavori teorici sono quasi solo esclusivamente di natura polemica. Combattono i nemici teorici o altri nemici del Marxismo, che Lenin identifica con i suoi sforzi politici e quelli dei bolscevichi in generale. Per il Marxismo, la pratica decide sulla verità di una teoria. Come un professionista adoperandosi nell’attualizzare le dottrine di Marx, Lenin potrebbe effettivamente aver restituito al marxismo un enorme servizio. Tuttavia, ancora in riguardo al Marxismo, ogni pratica è sociale, e può essere modificata e influenzata dagli individui solo in misura davvero limitata, mai in modo decisivo. Non c’è dubbio che l’unione della teoria e della pratica, dell’obiettivo finale e delle concrete questioni del movimento, con le quali Lenin era costantemente preso, possa essere acclamata come un grande risultato. Ma il criterio per questo raggiungimento è il successo che lo attende, e quel successo, come abbiamo già detto, fu negato a Lenin. Il suo lavoro non solo fallì nel far progredire il movimento rivoluzionario mondiale; fallì anche nel formare i presupposti per una società davvero socialista in Russia. Il successo (che ebbe effettivamente) non lo portò vicino al suo obbiettivo, ma lo spinse più lontano. 

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Le condizioni attuali in Russia e la presente situazione dei lavoratori nel mondo devono essere sufficienti per provare a ogni osservatore comunista che la presente politica “leninista” è solo l’opposto di quella espressa dalla sua fraseologia. E alla lunga tale condizione deve senza dubbio distruggere la leggenda artificialmente costruita di Lenin, in modo che la storia stessa possa mettere Lenin nel suo appropriato posto storico.

 

Paul Mattick

 

[Traduzione di Ario Libert]

 

 

 

LINK al documento on line tratto dal sito consiliarista "Connessioni":

La leggenda di Lenin 

 

LINK di presentazione alla figura di Paul Mattick:

Charles Reeve, Paul Mattick

 

LINK ad una pagina multilingue dedicata agli scritti di Paul Mattick:

Paul Mattick Homepage

 

LINK a una pagina del MIA dedicata agli scritti in tedesco di Paul Mattick:

Paul Mattick

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30 giugno 2012 6 30 /06 /giugno /2012 05:00

Riforma sociale o rivoluzione?

 

Luxemburg francobollo 1974

 

Nota introduttiva  di Lelio Basso a:

Riforma sociale o rivoluzione?


luxemburg_sozialreform_oder_revolution.jpegLo scritto che segue di Rosa Luxemburg è il primo contributo teorico da lei dato come militante della socialdemocrazia tedesca dopo la sua venuta in Germania. Prima di allora aveva lavorato come socialista polacca e le sue collaborazioni a riviste e giornali tedeschi erano dedicate principalmente a problemi polacchi o, comunque, a problemi di politica estera, e anche la sua attività pratica, dopo il suo arrivo in Germania, era stata dalla socialdemocrazia tedesca indirizzata verso il lavoro in seno alle popolazioni polacche del Reich tedesco. Ma il Bernsteindebatte, il grande dibattito sorto in quel periodo attorno agli articoli pubblicati da Bernstein sulla Neue Zeit, doveva offrirle l’occasione di rivelare la sua preparazione teorica ma soprattutto il taglio dialettico della sua mente e la sua formidabile tempra di polemista.
  
bernstein eduardCome è noto, il Bernsteindebatte fu l’occasione che obbligò la socialdemocrazia tedesca a porsi esplicitamente - non però a risolvere - tutta una serie di problemi che esistevano indipendentemente da Bernstein e che si possono riassumere nella frattura fra le formulazioni teoriche ufficiali della socialdemocrazia e la sua reale attività pratica. In teoria la socialdemocrazia riconosceva il marxismo come sua dottrina ispiratrice, soprattutto per merito di Engels che da Londra seguiva attentamente il movimento e di Kautsky che dal 1883 dirigeva la rivista Neue Zeit e attraverso di essa conduceva la battaglia per il trionfo dell’ideologia marxista: fra i capi del partito W. Liebknecht era di formazione marxista, e A. Bebel, che ne fu il leader fino alla vigilia della prima guerra mondiale, pur essendo di formazione lassalliana, si era poi convertito al marxismo. Tuttavia, anche per alcune deficienze proprie al vecchio Engels e soprattutto a Kautsky, il marxismo assimilato dalla socialdemocrazia tedesca aveva perso gran parte del suo mordente dialettico e del suo vigore rivoluzionario, e a seconda delle circostanze o dei temperamenti esso veniva interpretato come messianismo rivoluzionario o come la teoria che giustificava la partecipazione alle elezioni e al lavoro pratico quotidiano. Il programma approvato al congresso di Erfurt del 1891 aveva tentato di conciliare la duplice esigenza, ponendo una accanto all’altra una parte teorica contenente affermazioni rivoluzionarie e una parte pratica contenente un programma minimo d’azione, ma senza riuscire a realizzare un nesso effettivo fra le due parti. Il programma minimo non serviva affatto a preparare la crisi rivoluzionaria ma piuttosto ad attenderla, mentre la parte teorica non riusciva a definire una strategia proletaria e lasciava nel vago la conquista del potere [1].

August BebelIl risultato di questa incapacità di saldare i due momenti fu che mentre il partito si dedicava sempre più intensamente all’attività pratica quotidiana, la prospettiva rivoluzionaria appariva sempre più campata per aria e astratta dalla realtà. Ancora negli anni intorno al ‘90 questa prospettiva era sembrata ai dirigenti socialdemocratici molto vicina, addirittura calcolabile con “matematica certezza” [2] e Bebel diceva al congresso di Erfurt: “Io sono convinto che la realizzazione dei nostri scopi è
così vicina che pochi sono in questa sala che non vivranno quei giorni”[3]. Tuttavia, poiché nello stesso tempo la socialdemocrazia rinunciava all’insurrezione di strada, la prospettiva rivoluzionaria rimaneva legata o a un crollo del sistema capitalistico determinato da una grave crisi economica, cioè a un meccanismo indipendente dall’azione del proletariato, o alla conquista di una maggioranza parlamentare.

bismarck.jpgSenonché la prima di queste due alternative sembrava dileguarsi proprio in quello stesso torno di tempo: la Germania stava allora attraversando un periodo di prosperità economica. Dal quarto posto che essa occupava fra i paesi industriali nel 1870, passava al terzo intorno al 1890 e al secondo intorno al 1900. Il volto economico dei paese mutava rapidamente: il processo di concentrazione celebrava i suoi trionfi nell’industria del ferro, dell’acciaio e del carbone, nonché nella chimica e nell’elettrotecnica, ponendo le basi di una politica imperialistica che doveva estrinsecarsi nel commercio estero, nelle conquiste coloniali, nella politica internazionale, nella corsa al riarmo. Contropartita di questa espansione capitalistica erano un aumento dei salari reali, che pur rimanevano bassi ma che comunque smentivano le teorie ancora di moda della miseria crescente, e lo sviluppo delle assicurazioni sociali, volute già prima da Bismarck, che presentavano alle masse la faccia paternalistica dello Stato. Le probabilità di una crisi economica catastrofica o anche di una crisi tout courtapparivano sempre minori agli stessi socialisti: la teoria marxista delle crisi sembrava ricevere un duro colpo. 

Franz MehringAgli occhi di molti una sola strada di accesso al potere si presentava come possibile: la conquista di una maggioranza parlamentare. Ancora nel 1893 Mehring aveva protestato nella Neue Zeit contro questa utopia: “L’idea che la maggioranza di un parlamento borghese, sia pure formata da operai coscienti, possa una volta aprire la strada alla società socialista, è come un coltello a cui manchi sia il manico che la lama. Solo quando la fede delle masse nel parlamentarismo borghese è morta del tutto, si apre la strada verso l’avvenire” [4].

Kautsky-copia-1Ma Kautsky aveva reagito [5] e lo stesso Engels aveva molto concesso agli entusiasmi parlamentaristici. L’esperienza doveva invece confermare il nocciolo di verità che era nella posizione di Mehring quando non la si intenda come rifiuto della lotta parlamentare ma come rifiuto di riconoscere in essa la via al socialismo. La parlamentarizzazione dei partiti socialisti ha indubbiamente contribuito in modo notevole al trionfo dell’opportunismo: per conquistare seggi parlamentari occorre infatti estendere l’influenza del partito a strati più vasti di popolazione e ciò avviene troppo spesso non conquistando la coscienza di questi strati al socialismo ma adattando il socialismo alla mentalità e ai bisogni pratici di questi strati. Ma se la parlamentarizzazione del partito allontanava, anziché avvicinare, la prospettiva socialista, essa permetteva tuttavia di conseguire, attraverso l’accresciuta influenza del partito, scopi più vicini.
Appaiono casi evidenti in questo periodo le due componenti fondamentali del revisionismo: da un lato la possibilità di sfruttare la congiuntura economica per conquistare miglioramenti del tenore di vita, e quindi un accresciuto interesse per gli scopi pratici immediati, per la lotta quotidiana; dall’altro la speranza di utilizzare le istituzioni rappresentative per accrescere l’influenza del partito sul potere politico. A misura che questi due tipi di azione sembrano incidere sempre più efficacemente nella realtà immediata e creano condizioni di vita sempre più tollerabili a larghi strati delle masse, la prospettiva rivoluzionaria viene perdendo di interesse e il movimento operaio orienta sempre più i suoi sforzi verso gli scopi immediati, all’interno cioè della società capitalistica: la subordinazione della socialdemocrazia al capitalismo, nonostante le professioni di fede ripetute di congresso in congresso, appare già allora evidente.

Quando Bernstein incominciò a scrivere i suoi articoli, la prassi del partito era già di fatto dominata dall’opportunismo. Di una svolta politica in senso possibilistico si era fatto portavoce il leader della socialdemocrazia bavarese, von Vollmar, fin dal 1891, con due discorsi in cui poneva l’accento proprio sui compiti immediati[6]: la socialdemocrazia, egli sosteneva, doveva rinunciare alle discussioni “teoriche” sul domani per concentrare tutta la sua forza “sulle cose immediate e più urgenti”, ma in pari tempo egli pagava il prezzo di questo suo possibilismo accettando la politica estera del governo, presentando la Triplice Alleanza come strumento di pace e lasciando intendere che in caso di guerra la socialdemocrazia avrebbe collaborato alla difesa del paese. Era già in nuce in questo discorso quella che sarà la linea del progressivo cedimento della socialdemocrazia fino alla capitolazione del 1914. Ma quando von Vollmar fu attaccato per le tesi sostenute, egli poté rispondere non senza fondamento che in realtà non aveva fatto altro che prospettare quella che era già la prassi del partito, giudizio che sarà confermato dalla più recente storiografia. “Il “revisionismo” è solo un debole riflesso di questa molteplice prassi riformistica. Non gli Schippel, Bernstein, Heine, Calwer e Hildebrand, ma i Vollmar, Grillenberger, Auer, Kloss, v. Elm, Legien, Leipart, Hué, Dr. Südekum, Ebert, Scheidemann, Keil e Löbe, non gli accademici revisionisti dei “Sozialistischen Monatshefte”, ma i segretari del lavoro e i dirigenti sindacali, i consiglieri comunali e i deputati dei Landtag, i portatori, in ultima analisi inattaccabili perché insostituibili, del lavoro politico di ogni giorno, determinavano il carattere del partito, che già prima del ‘900 si era mutato essenzialmente in un lavoro pratico di partito con alcune frasi rivoluzionarie non prese sul serio” [7].
Contribuivano a questa svolta in modo particolare le regioni meridionali dove l’industria era meno sviluppata e meno sviluppata quindi la classe operaia, e dove i voti dovevano essere pescati fra i piccoli borghesi e i contadini: per questo Vollmar, bavarese, si era fatto promotore di un programma agrario che tenesse conto degli interessi dei grossi e medi contadini. E a misura che il partito, grazie a questa sua politica di adattamento, acquisiva maggior forza elettorale e offuscava la sua originaria natura classista, affluivano ad esso nuovi ceti piccoloborghesi, attratti in parte dall’ambizione della carriera e del successo e in parte dalla funzione democratico-borghese che il partite obiettivamente assolveva. E fin dal 1892, appena due anni dopo la fine della legge eccezionale, Hans Müller poteva parlare di una lotta di classe all’interno della socialdemocrazia notando l’ingresso nel partito di elementi “senza nessun sentimento rivoluzionario e senza sensibilità proletaria, strati sociali che non solo non pensano ad eliminare radicalmente l’attuale ordinamento economico, ma che mirano a procurarsi all’interno di esso una posizione migliore" [8].
Sicché mentre i dirigenti del partito continuavano ad usare la terminologia tradizionale e a pagare il dovuto tributo verbale al marxismo, il partito subiva in quegli anni una trasformazione profonda sotto la pressione soprattutto degli eletti nelle assemblee locali, dei funzionari periferici e dei sindacalisti. E mentre al Landtag bavarese già nel 1894 il gruppo parlamentare arrivava a votare il bilancio, attirandosi il biasimo del successivo congresso nazionale del partito a Francoforte, nel Baden la socialdemocrazia locale dava vita al più avanzato esperimento di collaborazione con partiti borghesi al governo. Nello stesso tempo i sindacati cercavano di scuotersi di dosso la tutela ideologica e politica del partito; al congresso sindacale di Francoforte Theodor Leipart esprimeva un sentimento diffuso quando diceva: “Lasciateci tranquillamente entrare nella società borghese a rappresentare i nostri diritti e rivendicazioni come cittadini a parità di diritto, come fanno gli altri ceti e partiti” [9].Quanto più si abbandonava la prospettiva del socialismo proiettandola lontano nel tempo, tanto più si affermava logicamente la tendenza a migliorare le condizioni attuali: la scissione fra l’avvenire e il presente si faceva sempre più completa [10]. E naturalmente il funzionario medio del partito non si occupava che del presente che lo toccava da vicino [11].
Il processo era più lento ma non meno evidente in sede di parlamento nazionale dove il partito doveva fare i conti con le sue tradizioni, con la vigilanza dei militanti più coscienti, con le deliberazioni dei suoi congressi. Tuttavia anche in questa sede si sviluppava l’offensiva revisionistica contro la linea ufficiale del partito e si può dire che ad ogni campagna elettorale il desiderio di estendere la propria clientela elettorale provocasse nuove brecce non solo nella dottrina ma nella politica del partito. Cominciò Max Schippel sostenendo la necessità di votare le spese militari per non lasciare i soldati tedeschi esposti a maggiore pericolo in caso di guerra; in appoggio a questa tesi, Heine, deputato di Berlino, enunciò la teoria della “compensazione” per cui i socialdemocratici avrebbero dovuto negoziare il loro voto contro concessioni nel campo della politica sociale; Schippel ancora si fece sostenitore di una politica comune di lavoratori e imprenditori in favore di dazi doganali. E nonostante che il partito in generale condannasse queste prese di posizione, lo spirito revisionistico che le animava finiva con il permeare di sé tutta l’attività quotidiana del partito, creando quella scissione ufficiale fra la dottrina e la pratica che Bernstein si propose appunto di colmare sottoponendo a revisione anche la dottrina marxista.
Ciò facendo peraltro egli provocava un conflitto aperto: se i dirigenti avevano potuto fin allora far finta di non vedere il carattere revisionistico della prassi e mascherare sotto le frasi tradizionali la frattura fra pratica e teoria, fra lotta quotidiana e scopo finale, fra presente e avvenire, che il programma di Erfurt non era riuscito a superare, la sortita di Bernstein sul terreno della dottrina li obbligava a prendere aperta posizione. Ciò del resto aveva visto chiaramente uno dei vecchi dirigenti, che nella direzione del partito rappresentava nettamente la tendenza di destra, Ignazio Auer, il quale scriveva a Bernstein: “Ritieni realmente possibile che un partito, che ha una letteratura vecchia di 50 anni, un’organizzazione vecchia di quasi 40 una tradizione ancora più vecchia, possa fare un tale mutamento in un batter d’occhio? (...) Mio caro Ede, quel che tu chiedi, non si vota neppure si dice, ma si fa. Tutta la nostra attività - persino quella svolta sotto la legge vergognosa - è stata l’attività di un partito socialdemocratico riformista. Un partito che deve fare i conti con le masse, non può essere assolutamente diverso” [12].
Anche Rosa Luxemburg fu invasa dal sacro fuoco della polemica: “Sono pronta a dare la metà della mia vita per questo articolo (contro Bernstein, n. d. L. B.), tanto ce l’ho con lui” scrive a Jogisches da Berlino il 2 agosto 1898 [14]. E mentre da un lato è premuta dalla fretta di scrivere perché altri non dica prima le cose che essa vuol dire (“bisogna lavorare in fretta perché tutto il lavoro sarà inutile se qualcuno lo farà prima di noi”, dice nella stessa lettera), dall’altro lato sente che bisogna contrapporre a Bernstein non argomenti marginali, come essa rimprovera a Plekhanov di aver fatto (“ho trascurato Bernstein, ed ecco che è già uscito Plekhanov e perciò devo ora lavorare senza fiato [...] Mi spiace soltanto che Pl. si sia limitato ai problemi che hanno minore importanza per il partito e di cui non intendevo occuparmi. Bisogna fare in fretta questo mio articolo; fra due settimane dovrà essere pronto”, lettera del 3 agosto 1898 a Jogisches, ibid.), ma tali da colpire al cuore il revisionismo, cioè “dimostrare positivamente che il capitalismo deve spaccarsi la testa” (lettera del 2 agosto cit.).
Tuttavia il lavoro non è facile: “diamine, è un gran lavoro, non si sa dove mordere per prima” (lettera del 4 o 5 luglio, ibid.): “la sera lavoro su Bernstein, che fulmini, che cosa difficile. Oh, mi fa male la testa!” (lettera del 10 luglio, ibid.). Ma quanto più sente le difficoltà, tanto più sente l’importanza e l’urgenza del suo articolo che deve permetterle l’ingresso a bandiere spiegate nella socialdemocrazia tedesca e in primo luogo conquistarle un mandato al prossimo congresso e permetterle di prendervi la parola: “se riuscirà il mio articolo su Bernstein, esso stesso sarà il mio mandato migliore e allora potrò andare tranquilla a Stoccarda” (lettera del 3 agosto, ibid.). Tuttavia alla difficoltà della materia si aggiunge anche la sempre cagionevole salute: “la penna mi cade proprio di mano; in parte è colpa della debolezza: dopo avere scritto una cartolina così, appena respiro, e le poche forze devo risparmiarle per l’articolo su Bern”. (lettera del 12 agosto, ibid.). E ancora: “Ti scrivo a letto, o piuttosto su un divano-letto, distesa - è già il quinto giorno che non posso alzarmi e non mangio proprio nulla. Oggi però comincio a sentirmi meglio - posso già bere il tè con latte e spero man mano di tornare in forma. Che mi arrabbi a causa di questa pausa nel lavoro puoi indovinarlo da te” (lettera del 2 settembre in Z pola walki 1962, n. 1 [17], pp. 145-182).

Finalmente il lavoro fu ultimato ma era troppo tardi per poter essere pubblicato nella Neue Zeit prima del congresso. “Allora mi sono messa e in due giorni ho scritto una serie di articoli per la Leipziger Volkszeitung” (lettera 17 settembre, ibid.). La serie apparve in sette numeri del giornale, dal 21 al 28 settembre, e fu una vera rivelazione per i marxisti tedeschi: Parvus, Schonlank, Clara Zetkin non esitarono a manifestare il loro entusiasmo. E prima ancora che la pubblicazione fosse terminata, la commissione stampa del partito approvava all’unanimità la nomina di Rosa Luxemburg alla direzione del quotidiano socialista di Dresda, la Sächsische Arbeiterzeitung.
Il dibattito rimbalzò dalla stampa al congresso di Stoccarda, ove Bebel, Kautsky, Schönlank, Clara Zetkin, la Luxemburg ed altri intervennero contro le teorie bernsteiniane che furono difese da von Vollmar, Heine, Gradnauer, Auer, ecc., e la decisione fu che il dibattito dovesse continuare sulla stampa. Fu allora che Bernstein presentò il suo punto di vista in forma organica nel suo libro Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie (Stoccarda, 1899), che diede il via a un secondo dibattito nel quale Kautsky intervenne con il suo libro Bernstein und das sozialdemokratische Programm (Stoccarda, 1899) e Rosa Luxemburg con una seconda serie di 5 articoli che apparvero ancora nella Leipziger Volkszeitung dal 4 all’8 aprile 1899. Anche questa volta il successo fu notevole: gli articoli furono immediatamente riprodotti in una serie di giornali (Bergische Arbeitersstimme di Solingen, Der Weckruf di Essen, Aachener Volksblatt di Acquisgrana); Antonio Labriola e Guglielmo Liebknecht scrissero al giornate per ricevere a casa la collezione degli articoli, e prima che la serie fosse terminata l’editore Heinisch si offerse di pubblicarla in volume insieme alla prima serie e con l’aggiunta di una prefazione. L’autrice vi aggiunse altresì in appendice i suoi articoli sulla milizia e il militarismo e il libro fu pronto in capo a poche settimane, con il titolo Sozialreform oder Revolution? Una seconda edizione curata dall’autrice che vi apportò alcune modifiche apparve nel 1908 ed è su questa seconda edizione che è condotta la nostra traduzione.
Non crediamo di dover dare in questa sede un riassunto delle teorie bernsteiniane: in sostanza Bernstein partiva da una serie di statistiche e di dati empirici per attaccare la concezione marxista: negando la concentrazione capitalistica (egli vedeva nelle società anonime un fenomeno di diffusione e quindi di decentrazione capitalistica anziché di concentrazione), e la riduzione dei lavoratori alla condizione salariata attraverso la scomparsa delle classi medie indipendenti, egli negava i fondamenti oggettivi della rivoluzione socialista. Esclusi questi fondamenti oggettivi, Bernstein negava qualsiasi validità alla previsione marxista: per lui, al contrario, il capitalismo aveva trovato il modo di adattarsi alle necessità storiche, di liberarsi dalle crisi ricorrenti, e di assicurare la propria sopravvivenza eliminando a poco a poco le proprie difficoltà e i propri lati negativi. Compito del movimento operaio doveva quindi esser quello di utilizzare tutte le possibilità che gli si offrivano di migliorare la propria condizione di vita nell’ambito della società attuale, senza proporsi fini lontani: i sindacati, le cooperative e la democrazia parlamentare erano le armi che dovevano permettere questo graduale e sicuro, miglioramento. La tattica più acconcia per conseguire questi risultati doveva essere quella di appoggiare l’espansione economica capitalistica: in questo senso Bernstein è favorevole anche al colonialismo [15]. Naturalmente il miglioramento delle condizioni generali di vita, lo sviluppo della democrazia, la lotta contro i lati peggiori del capitalismo non potevano essere monopolio degli operai: non si trattava di una questione di classi ma di ideali democratici che non possono essere prerogativa di un solo ceto sociale. “Bisogna che la socialdemocrazia abbia il coraggio di emanciparsi dalla fraseologia del passato e di voler apparire ciò che attualmente essa è in realtà: un partito di riforme democratiche e socialiste” [16].
Come giustamente osserva Mehring, la risposta più efficace Bernstein l’ha avuta dalla storia. Accecato dalla prosperità di quegli anni, aveva dichiarato che difficilmente vi sarebbero state ancora delle crisi economiche generali, e viceversa una nuova crisi arrivò subito agli inizi del secolo; aveva annunciato che i sindacati avrebbero gradualmente espropriato i profitti a favore dei salari e invece si ebbe l’impetuoso sviluppo dell’accumulazione capitalistica; aveva suggerito alla socialdemocrazia di trasformarsi in un partito democratico che stringesse alleanze con la borghesia rimasta sana per migliorare progressivamente il regime e le elezioni del 1903 gli diedero una pesante risposta [17]. Se Mehring fosse vissuto più a lungo avrebbe potuto aggiungere a queste considerazioni le esperienze successive: due guerre mondiali, la sconvolgente crisi economica del 1929 e anni successivi, infine la feroce dittatura nazista hanno fatto definitiva giustizia di tutte le illusioni e di tutti gli ottimismi revisionistici, mostrando quanto profonde radici abbiano le contraddizioni capitalistiche, quanto instabile sia la prosperità, quanto insicura la democrazia, quanto incerto il progresso sociale sul fondamento delle attuali strutture. In realtà le statistiche e i dati invocati da Bernstein a sostegno delle sue tesi erano talvolta insufficienti, talvolta male interpretati dall’autore, talvolta invece validi in relazione a una conclusione specifica, ma non era questo il difetto principale del libro; come doveva rimproverargli Rosa Luxemburg il difetto principale del libro era nel metodo, nelrifiuto della dialettica [18],nell’isolamento dei fatti, nell’incapacità di riconoscere in tal modo le tendenze di fondo contraddittorie della società capitalistica, e nella contrapposizione che ne derivava fra la realtà immediata e gli sviluppi futuri, fra la lotta quotidiana socialista e l’obiettivo rivoluzionario.

“Il compito di chiarire la relazione fra tattica riformistica e scopo rivoluzionario dei partito, - ha scritto Schorske, - spettò a una nuova venuta alla socialdemocrazia tedesca: Rosa Luxemburg (1871-1919). Questa giovane donna straordinaria era destinata a giocare un ruolo di primo piano nella rivitalizzazione della tradizione rivoluzionaria nella socialdemocrazia. Essa combinava una delle menti analitiche più penetranti del suo tempo con un calore immaginativo che fanno i suoi scritti unici nella letteratura marxista”.[19]E analogamente Frölich: “Chi conosce la letteratura socialista di quel tempo si stupirà sempre di nuovo della chiarezza con cui l’autrice vede dinanzi ai suoi occhi lo sviluppo sociale, della sua sovrana padronanza del marxismo e dell’originalità e pulsante vivacità con cui lo usa per i problemi attuali.
(...) Il pensiero tattico fondamentale di Rosa Luxemburg abbraccia in poche parole l’intera arte della politica rivoluzionaria: è necessario unire organicamente la soluzione dei compiti pratici quotidiani con lo scopo finale. Cioè considerare la lotta di classe come un compito della strategia politica. E questo era di grande importanza in un tempo in cui non si distingueva fra strategia e tattica, ma si contrapponevano gli uni all’altra i principi e la tattica e si dichiarava di pertinenza della tattica e con ciò si giustificava qualunque opportunismo, qualunque azione che contraddicesse ai principi” [20].
Il valore dello scritto di Rosa Luxemburg non è quindi tanto legato alla polemica contingente e parecchie delle sue affermazioni possono essere state- smentite dai fatti, parecchi dei suoi giudizi contraddetti dalla realtà. Il valore essenziale di questo scritto è nel metodo, e il metodo è tuttora valido, anzi più importante oggi che la pratica dell’opportunismo, battezzato come “realismo politico” o anche “politica delle cose”, ha devastato pressoché tutto il movimento operaio occidentale. Conseguenza logica dell’impostazione di Rosa Luxemburg era, come si vedrà, che il revisionismo e l’opportunismo sono una manifestazione del pensiero e della politica borghesi e che, come tali, non possono avere cittadinanza in seno alla socialdemocrazia. Perciò nella prima edizione dello scritto si chiedeva l’esclusione di Bernstein dal partito. Il congresso di Hannover del 1899, in cui il dibattito fu ripreso, votò una risoluzione proposta da Bebel che condannava le proposizioni bernsteiniane, negava che il partito dovesse rivedere le proprie dottrine, riaffermava la fedeltà alla lotta di classe e all’obiettivo della conquista del potere, ma in sostanza lasciava tutto come prima: il programma di Erfurt con le sue contraddizioni, la prassi riformistica nell’azione quotidiana e la presenza di Bernstein e dei revisionisti in seno al partito. Quando uscì la seconda edizione del libro, la domanda di esclusione di Bernstein dal partito non avrebbe più potuto proporsi: il revisionismo aveva di fatto conquistato il partito.

 

Lelio Basso

 

LINK allo scritto di Lelio Basso:

Nota introduttiva a: "Riforma sociale o rivoluzione?

 

 

LINK allo scritto della Luxemburg:

Riforma sociale o rivoluzione?

 

 

[A cura di Ario Libert]


 

NOTE

[1]
Secondo E. Matthias (Kautsky und der Kautskynismus, cit.), la parte teorica in quanto conteneva la dimostrazione, sia pure data in termini evoluzionistici e non marxisti, del futuro avvento del socialismo, aveva essenzialmente lo scopo di mantenere vivo l’entusiasmo delle masse e di tenerle con ciò legate al partito, che in pratica faceva solo la politica del giorno per giorno, una specie di surrogato dei paradiso dei credenti.

[2] F. ENGELS, Der Sozialismus in Deutschland in Die Neue Zeit, X (1891-92), 1, n. 19, pp. 580-589.

[3] Protokoll über die Verhandlungen des Parteitages der Sozialdemokratischen Partei Deutschlands - Abgehalten zu Erfurt vom 14. bis 20. Oktober 1891, Berlino, 1891, p. 172. E ancora: “Noi non abbiamo da far altro che attendere il momento in cui il potere cadrà nelle nostre mani” (ibid.).

[4] Der neue Reichstag in Die Neue Zeit XI (1892-93), 2, fasc. 42.

[5] K. KAUTSKY, Der Parlamentarismus, die Volksgesetzgebung und die Sozialdemokratie, Stoccarda, 1893. 

[6] I discorsi furono pubblicati in opuscolo il cui titolo era appunto riferito ai compiti immediati: Über die nächsten Aufgaben der deutschen Sozialdemokratie. Zwei Reden gehalten am 1. Juni und 6. Juli in “Eldorado” zu München (Monaco, 1891).

[7] G. A. RITTER, op. cit., p. 187.

[8] H. MÜLLER, Der Klassenkampf in der deutschen Sozialdemokratie, Zurigo, 1892, p. 25.

[9] Protokoll des dritten Kongresses der Gewerkschaften Deutschlands. Abgehalten zu Frankfurt a.M. vom 8. bis 13. Mai 1899 (Amburgo, s.d., p. 113).

[10] G. A. RITTER, op. cit., p. 160, nota, ricorda che al congresso di Gottinga del sindacato lavoranti in legno un oratore ebbe a dire espressamente che, poiché lo Stato dell’avvenire non era da attendersi dall’oggi al domani, e noi dobbiamo metterci in grado di resistere nelle attuali condizioni”. V. anche nella lettera di Adler a Bebel dell’8 settembre 1903 in V. ADLER, Briefweehsel, cit., p. 421-22, l’accenno alla tendenza che si sviluppa nei lavoratori a “godersi tranquillamente quello che si è guadagnato, a poter vivere una buona volta come gli altri”.

[11] La socialdemocrazia ufficiale tedesca dell’anteguerra, il cui rappresentante era Augusto Bebel, univa così ad una grande attività politico-sociale un formale passivo radicalismo in tutti gli altri campi della vita pubblica. Il medio funzionario socialdemocratico non aveva nessun intrinseco rapporto con i problemi di politica estera e quelli militari, della scuola e della giustizia e nemmeno con quelli dell’economia in generale, specialmente riguardo alla questione agraria. Egli non immaginava mai che sarebbe venuto il giorno in cui lui, il socialdemocratico, avrebbe dovuto risolvere tutti questi problemi; a lui stava a cuore tutto ciò che si riferiva in senso stretto agli interessi professionali dell’operaio industriale e in ciò era abile ed attivo. Quello che, forse, subito dopo lo interessava era al più la questione del diritto elettorale” (A.ROSENBERG, Storia, cit., pp. 14-15).

[12] E. BERNSTEIN, Ignaz Auer, der Führer, Freund und Berater in Sozialistische Monatshefte, 1907, 1, p. 345.

[13] Cunow e Plekhanov nella Neue Zeit, Parvus nella Sächsische Arbeiterzeitung Mehring nella Leipziger Volkszeitung.

[14] In Z pola walki, 1961, n. 3, pp. 128-161.

[15] Poiché alcuni giornali sono andati più in là ancora e hanno dichiarato che il partito doveva condannare in tutte le circostanze e in principio l’acquisizione della baia (di Kiao-ciao, nd. L.B.), debbo dire che io non condivido assolutamente questo modo di vedere (E. BERNSTEIN, Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie, Stoccarda, 1899, p. 146). “Sotto questo punto di vista la socialdemocrazia non avrebbe assolutamente nulla da temere dalla politica coloniale della Germania. Poiché lo sviluppo delle colonie che la Germania ha conquistato (e di quelle che eventualmente dovesse conquistare ancora si può dire la stessa cosa) prenderà talmente tanto tempo che ancora durante lunghi anni non si potrà parlare di una influenza notevole sulle condizioni sociali della Germania, io dico che proprio per questa ragione la socialdemocrazia tedesca può guardare senza partito preso anche il problema delle colonie” (ibid., p. 149).

[16] Ibid., p. 165.

[17] F. MEHRING, Storia della socialdemocrazia tedesca, II, Roma, 1961, p. 762.

[18] Ciò che Marx e Engels hanno prodotto di grande, l’hanno prodotto non grazie alla dialettica hegeliana, ma malgrado essa” (Die Voraussetzungen, cit., p. 36).

[19] C. E. SCHORSKE, op. cit., p. 21.

[20] R. LUXEMBURG, GW, Bd. III: Gegen den Reformismus, eingeleitet und bearbeitet von Paul Frölich, p. 21.

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2 giugno 2012 6 02 /06 /giugno /2012 05:00

Discorso sul programma 

 

Luxemburg francobollo 1974

 

Discorso sul programma 

 

 

 

Nota introduttiva

 

di Lelio Basso


La rivolta popolare del 9 novembre e la caduta della monarchia ponevano finalmente anche in Germania in termini di attualità pratica i problemi della strategia rivoluzionaria su cui Rosa Luxemburg aveva lungamente discusso e su cui avrebbe dovuto ora sperimentare le sue qualità di dirigente politico. Uscita dal carcere, essa assunse la direzione della Rote Fahne, il quotidiano della Lega Spartaco, di cui erano apparsi fortunosamente due numeri il 9 e il 10 novembre, ma che iniziò le sue pubblicazioni regolari il 18 novembre e divenne subito, nelle mani della Luxemburg, uno strumento al tempo stesso di agitazione e di formazione di idee. Il tema di fondo della battaglia in corso era sul carattere della rivoluzione: socialista o no? Per la Luxemburg non vi era alcun dubbio [1]: la guerra mondiale era stata lo sbocco necessario della politica imperialistica e l’imperialismo era l’espressione normale del capitalismo giunto a un certo grado di sviluppo; l’alternativa perciò era fra una rivoluzione socialista o una continuazione della politica imperialistica di cui essa aveva già scritto, nella Juniusbroschüre, che avrebbe portato ad una dittatura e ad una nuova guerra mondiale.

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Solo una rivoluzione socialista avrebbe potuto impedire queste conseguenze, solo essa avrebbe potuto assicurare all’umanità uno sviluppo democratico e pacifico. D’altra parte era evidente che la classe operaia, pur avendo in parte sotto la guida della socialdemocrazia seguito la politica imperialistica, era la sola classe immune da responsabilità dirette e al tempo stesso quella che aveva dovuto subire le conseguenze e i sacrifici della guerra contro la quale era venuta intensificando la sua lotta: essa aveva perciò titoli a porre la sua candidatura al potere. Dietro al problema del carattere della rivoluzione appariva perciò subito il problema del potere: se la rivoluzione doveva avere natura e scopo socialisti il potere doveva passare interamente nelle mani dei lavoratori. Il 9 e il 10 novembre i comandi della macchina statale giacevano in pezzi: il kaiser aveva abdicato, il governo si era dimesso passando la direzione della cosa pubblica al capo della socialdemocrazia, l’esercito batteva in ritirata sconfitto, la grande borghesia aveva paura delle sue responsabilità e non osava alzar subito la testa. D’altra parte le masse operaie, scese in piazza e nelle strade, erano di fatto padrone in quei giorni del paese.

Sarebbe stato facile in quel momento proclamare la repubblica socialista, ciò che non avrebbe naturalmente evitato la resistenza della borghesia e la guerra civile ma avrebbe subito spinto le masse alla lotta per il consolidamento del potere. Ma i socialdemocratici, che si erano compromessi con la guerra imperialistica e che avrebbero avuto anch’essi dei conti da rendere al paese, si opposero recisamente a questi sviluppi e cercarono di sfruttare a proprio vantaggio la vittoria popolare. Il compromesso ch’essi raggiunsero il io novembre con il partito socialdemocratico indipendente [2] è in pratica la chiave dei futuri sviluppi. I socialdemocratici di destra ebbero infatti l’abilità di non negare lo scopo socialista della rivoluzione, con il che evitarono di mettersi in urto con l’aspirazione profonda delle masse e, in particolare, con il proletariato berlinese fortemente radicalizzato e diretto da socialisti indipendenti di sinistra, ma pretesero di affidarne l’attuazione ad una futura assemblea costituente, con il che guadagnavano il tempo necessario a consolidare l’alleanza con tutte le forze conservatrici e a salvare l’ordine costituito lasciando passare il momento più pericoloso della tempesta rivoluzionaria. Fu cosi che essi si opposero alla proclamazione immediata della repubblica sociale pur dichiarando che questa era il loro obiettivo di partito, e così pure si opposero a che tutto il potere fosse attribuito ai consigli degli operai e dei soldati perché ciò contraddiceva ai principi democratici.

Accettando il compromesso gli indipendenti arrestavano praticamente lo slancio rivoluzionario senza mettersi in condizione di utilizzare il tempo a proprio vantaggio. Nasceva così il 10 novembre il nuovo regime con un governo provvisorio (Rat der Volksbeauftragten) composto di tre socialdemocratici maggioritari (Ebert, Scheidemann e Landsberg) e tre indipendenti (Haase, Dittmann e Barth) di cui Ebert e Haase erano copresidenti, e con una giunta esecutiva (Vollzugsrat) nominata dall’assemblea dei rappresentanti degli operai e dei soldati, composta di sei membri per ciascuno dei due partiti, rappresentanti dei consigli operai, olre 12 rappresentanti dei soldati di Berlino, senza che fosse chiara la delimitazione delle sfere di competenza. In pratica la giunta esecutiva ebbe scarso o nessun potere effettivo e il governo rimase il solo effettivo detentore dell’autorità, ma in seno al governo si delineò la netta prevalenza dei socialdemocratici di destra, grazie ai legami ch’essi strinsero e agli appoggi che ottennero dalla burocrazia, dall’esercito e da tutte le forze conservatrici del paese. Né d’altra parte i socialisti indipendenti membri del governo opposero seria resistenza; anzi su alcuni temi di fondo, e per esempio sulla lotta contro i consigli operai, l’indipendente Barth non fu certo da meno dei maggioritari. Quella stessa diarchia di potere che due anni prima in Russia aveva portato i Soviet a rovesciare il governo provvisorio, si risolse invece rapidamente in Germania a beneficio del governo, anzi di un’ala di esso che riuscì a manovrare la situazione in modo da rimandare ogni riforma alla futura assemblea costituente e riuscì a preparare le condizioni per togliere alla stessa assemblea qualsiasi carattere di pericolosità rivoluzionaria [3].

Il problema rimase comunque aperto nelle settimane che seguirono il io novembre, e netta fu naturalmente la presa di posizione della Luxemburg in favore del potere alla classe operaia e contro l’assemblea costituente [4]. Ma, date le idee di Rosa Luxemburg sulla presa del potere e sulla dittatura del proletariato, essa non poteva immaginare la presa del potere come un semplice putsch: nella sua concezione doveva essere la maggioranza, anzi possibilmente la grande maggioranza, della classe operaia a conquistare il potere. Per cui il problema della conquista del potere da parte del proletariato s’intrecciava con l’altro della necessità di guadagnare ad una volontà rivoluzionaria la maggioranza dei lavoratori, cioè la necessità che gli spartachiani diventassero la guida effettiva del proletariato.
Ma nonostante la grande popolarità di cui godevano i leader della Lega Spartaco per il loro coraggioso atteggiamento contro la guerra, questa prospettiva era ben lungi dal realizzarsi: una leadership presso un proletariato che ha una lunga tradizione di organizzazione non si ottiene senza l’adesione di un vasto strato di quadri intermedi che sono quelli che di fatto mobilitano e guidano le masse. E i quadri intermedi erano rimasti legati all’organizzazione di partito: a Berlino in maggioranza al partito indipendente e alla sua ala sinistra rappresentata dai “revolutionäre Obleute”, nel resto della Germania, salvo qualche città, in prevalenza al vecchio partito. E così il problema della leadership da conquistare in seno alla classe operaia si trasformava nel problema della collocazione degli spartachiani: tendenza autonoma all’interno del partito indipendente, o partito separato? Rosa Luxemburg e Leo Jogisches propendevano piuttosto per la prima soluzione: Rosa diffidava dell’estremismo rivoluzionario staccato dalle masse, temeva i colpi di mano e le avventure; credeva viceversa nella capacità delle masse di educarsi attraverso la lotta e voleva poter rimanere in contatto permanente con esse durante lo sviluppo della lotta stessa [5].

 

I mesi di novembre e dicembre sono perciò caratterizzati da una complessa battaglia che si articola in questo modo: lotta per il potere ai consigli degli operai e dei soldati e contro la convocazione della costituente, lotta per dare un contenuto socialista agli obiettivi della rivoluzione e quindi contro il governo che vi si oppone, lotta per portare il partito socialista indipendente su queste posizioni, infine lotta all’interno dello stesso gruppo spartachista contro le tendenze estremistiche e contro le avventure, prima che una certa maturazione rivoluzionaria si fosse prodotta in seno alla classe lavoratrice. Purtroppo nessuno di questi obiettivi poté essere raggiunto. Il primo congresso dei Consigli degli operai e dei soldati tedeschi (Berlino, 16-21 dicembre), nel quale i socialdemocratici maggioritari ebbero la maggioranza assoluta e gli spartachiani non ebbero che una rappresentanza insignificante (288 socialdemocratici e go indipendenti di cui io spartachiani e poco più di un centinaio di altri) approvò la convocazione dei comizi elettorali per la costituente al 19 gennaio, accettando praticamente la propria autoliquidazione voluta dal governo. Naturalmente in quelle condizioni era difficile dare obiettivi socialisti alla rivoluzione se non attraverso una graduale intensificazione della battaglia e una graduale elevazione della coscienza e della maturità delle masse, ma questa battaglia trovava ostacolo in seno al partito socialista indipendente, diviso fra una corrente estremista che si appoggiava sugli operai berlinesi e una maggioranza oscillante che tendeva a mantenere l’alleanza di governo con i socialdemocratici di destra e quindi a condividerne le responsabilità controrivoluzionarie. Le quali si accrebbero notevolmente quando cominciò l’offensiva governativa contro le forze di sinistra che diede luogo a scontri violenti fra forze di governo e la divisione popolare di marina nei giorni 23 e 24 dicembre. “Poiché i leader del partito socialista indipendente rimanevano assolutamente passivi di fronte all’attacco ai marinai da parte del governo e non mostravano alcuna intenzione di ritirarsi dal governo, la Lega Spartaco fu costretta a rompere completamente con i leader del partito socialista indipendente. Tuttavia fu indirizzata una lettera al comitato centrale che criticava la politica del partito e richiedeva la convocazione di un congresso. Si domandava una risposta entro il 25 dicembre ( ...) Dato che i leader del partito socialista indipendente il 25 dicembre non avevano ancora inviato alcuna risposta, ma d’altra parte, avevano dichiarato il 24 su Freiheit [6], che, date le difficoltà di viaggio e comunicazione e la campagna elettorale, non era possibile convocare il congresso, fu deciso di riunire una conferenza nazionale della Lega Spartaco il 29 dicembre, in cui la Lega avrebbe dovuto decidere il proprio atteggiamento nei confronti della crisi del partito indipendente, del programma, dell’assemblea costituente e della conferenza internazionale socialista di Berna” [7].

La conferenza si riunì in forma privata il 29 dicembre con 83 delegati per deliberare sulla costituzione di un partito separato, che fu effettivamente decisa, dopo breve dibattito, con soli 3 voti contrari. Vi furono divergenze di opinione circa il nome: Jogisches e Luxemburg preferivano “Partito socialista operaio”, altri “Partito comunista”, in definitiva fu adottato il nome di “Partito comunista di Germania (Lega Spartaco)” [8]. Il 30 dicembre la conferenza proclamò ufficialmente la costituzione del nuovo partito e si trasformò in congresso di fondazione dello stesso. Fu nella seconda giornata del congresso, e cioè il 3I dicembre, che Rosa Luxemburg, relatrice sul programma, pronunciò il discorso che qui è tradotto dal testo pubblicato successivamente in opuscolo [9]. 
Il discorso espone con molta chiarezza il complesso delle idee che Rosa Luxemburg aveva sostenuto nel corso delle precedenti settimane: programma di realizzazione socialista secondo l’insegnamento di Marx “in cosciente opposizione” al programma di Erfurt, cioè “alla separazione delle rivendicazioni immediate cosiddette minime (...) dallo scopo finale socialista considerato come un programma massimo”, denuncia delle illusioni sul carattere e la volontà socialista dei due partiti governativi (socialdemocratico maggioritario e indipendente) e dimostrazione del loro carattere controrivoluzionario e della loro funzione di restaurazione capitalistica; necessità di passare a una seconda fase rivoluzionaria, liberata da ogni illusione miracolistica, in cui il proletariato deve mirare a rafforzare progressivamente il potere pubblico attraverso i consigli costruendone e rafforzandone l’organizzazione dal basso verso l’alto e contemporaneamente deve estendere e sviluppare le sue rivendicazioni economiche e politiche in un intreccio continuo e in una spirale ascendente che serva anche a rinsaldare la coscienza di classe e la capacità democratica dei lavoratori. Nel quadro di questo discorso s’intende meglio il significato della posizione che essa aveva assunto e difeso il giorno prima, insieme con Liebknecht, Jogisches ed altri, rimanendo però soccombente nel voto, circa la partecipazione alle elezioni della costituente. [10].
Essa era profondamente convinta, e anche questa volta gli avvenimenti le han dato tragicamente ragione, che non sussistessero le condizioni per una conquista violenta del potere in Germania dove gli spartachiani erano minoranza e dove, al di fuori di Berlino, il vecchio ordine era rimasto ancora in gran parte in piedi e le campagne non erano affatto conquistate alla rivoluzione. Perciò essa considerava che si dovesse contare su uno sviluppo ancora piuttosto lungo del processo rivoluzionario nel corso del quale la coscienza rivoluzionaria delle masse avrebbe dovuto maturare, e riteneva che la lotta elettorale per l’Assemblea costituente sarebbe stata un momento di questo processo di maturazione; rifiutarlo significava implicitamente rinunciare a una strada e propendere per l’altra, quella dell’assalto violento. Per la stessa ragione essa sarà contraria, nei giorni della rivolta in cui perderà la vita, alla parola d’ordine “via il governo Ebert-Scheidemann”, che le sembrava una parola d’ordine non suscettibile ancora di raccogliere sufficienti consensi in Germania e capace quindi di gettare il proletariato in un vicolo cieco. Purtroppo, per le strane contraddizioni dei congressi, si approvò alla unanimità il programma proposto dalla Luxemburg, ma si decise una linea politica contraria: la non partecipazione alle elezioni con lo sbocco tragico delle giornate di gennaio quando i lavoratori rivoluzionari di Berlino si lasciarono trascinare dalla provocazione governativa e furono sanguinosamente battuti. Il pericolo che Rosa Luxemburg aveva dal novembre in poi paventato e denunciato, cioè il prevalere dell’estremismo avventuristico sulla strategia rivoluzionaria, che corrispondeva al disegno degli Ebert e dei Scheidemann per frustrare la rivoluzione socialista, si verificò in pieno [11].
Lelio Basso

NOTE

[1] "L’abbattimento del dominio capitalistico, la realizzazione dell’ordine socialista: questo e nulla di meno è il tema storico della presente rivoluzione” (Der Anfang in Rote Fahne del 18 novembre 1918, ora in ARS Il, p. 594).
[2] Il Partito socialdemocratico indipendente di Germania (Unabhängige Sozialdemokratische Partei Deutschlands) era stato fondato al congresso di Gotha (5-8 aprile 1917) da parte dei socialisti dissidenti dalla politica bellicista del partito che erano stati già dagli organi direttivi dichiarati fuori del partito. La destra del nuovo partito era formata da Kautsky e Bernstein; all’estrema sinistra erano gli spartachisti che aderirono non senza esitazioni e polemiche interne ma conservarono una propria autonomia di gruppo. Al centro erano uomini come Haase e Ledebour. La linea del partito non fu rivoluzionaria ma piuttosto centrista; tuttavia le maestranze berlinesi e i loro capi, che militavano fra gli indipendenti, presero una posizione rivoluzionaria.
[3] Sul conflitto di poteri in questo periodo in Germania cfr. la  ricostruzione di H. E. FRIEDLANDER, Conflict of revolutionaryauthorithy: Provisional Government vs. Berlin Soviet, November-December 1918, in International Review of Social History, 1962, 1962, 2, pp. 163-176.
[4] Cfr. in particolare gli articoli Die Nationalversammlung e Nationalversammlung oder Räteregierung, in Rote Fahne, rispettivamente del 20 novembre e 17 dicembre 1918, ora in ARS, 11, rispettivamente pp. 603 e 640.
[5] L’opposizione della Luxemburg alla scissione è stata spesso criticata come una delle cause dell’insuccesso della rivoluzione tedesca. E certo la mancanza di un partito autonomo rivoluzionario, creato da tempo e già organizzato con i propri quadri, ha pesato negativamente sugli sviluppi della situazione. Tuttavia il problema è meno semplice di come sia comunemente presentato. Infatti nelle condizioni della socialdemocrazia tedesca, partito unico della classe operaia, una scissione era estremamente difficile da realizzare e non è detto che una scissione prematura non portasse ad un isolamento maggiore. I rivoluzionari di Brema che non aderirono al partito degli indipendenti e rimasero autonomi non riuscirono a costituire un partito e probabilmente gli spartachiani, anche se fossero rimasti fuori del partito, non avrebbero fatto più di quanto con una organizzazione autonoma entro il partito hanno potuto fare mantenendo i contatti con le masse dei socialisti indipendenti. Finché la Luxemburg ha potuto sperare che l’ondata rivoluzionaria avrebbe trascinato queste masse non ha voluto rompere con il partito, anche perché temeva il rischio delle avventure disperate. La scissione significava rinuncia alla prospettiva rivoluzionaria immediata, e nel dicembre 1918 questa rinuncia non appariva ancora giustificata. Ma dal momento che si apriva un nuovo capitolo, con un partito nuovo, bisognava avere il tempo di lottare lungamente per poter acquistare maggiore influenza fra le masse di quanta il nuovo partito ne avesse alle sue origini. Donde la convinzione della Luxemburg che bisognasse partecipare alle elezioni e la sua contrarietà all’insurrezione di gennaio, ma le sue opinioni non prevalsero.
[6] Freiheit era il titolo del giornale organo dei socialisti indipendenti. 
[7] W. PIECK, The Founding of the Communist Party of Germany in International Press Correspondence, IX (1929), n. 1.
[8] Ibid. Erano presenti al congresso, oltre agli 83 delegati, 3 rappresentanti della Lega rossa dei soldati, un rappresentante della gioventù e 16 ospiti.
[9] R. LUXEMBURG, Rede zum Programm gehalten auf Gründungsparteitag der Kommunistischen Partei Deutschlands (Spartakusbund) am 29-31 Dezember 1918 zu Berlin, (Berlino, 1919).
[10] La tesi partecipazionista era la tesi del comitato centrale. “Ma le ragioni e le argomentazioni avanzate a favore della partecipazione non convinsero la maggioranza dei delegati che espressero invece la convinzione che quello non era tempo per elezioni e che la lotta contro l’Assemblea nazionale doveva esser portata avanti per mezzo di scioperi di massa e mitragliatrici; la partecipazione alle elezioni, si sosteneva, avrebbe solo confuso i lavoratori e li avrebbe distratti dalla lotta. Quando la questione fu messa ai voti, solo 15 furono in favore della partecipazione e 62 contrari. I compagni Luxemburg e Jogisches furono molto delusi di questo risultato; essi vedevano in questo atteggiamento una mancanza di comprensione per i compiti del partito e temevano che la prevalenza di questi sentimenti avrebbe portato a un pericoloso sviluppo del partito. Ma essi non permisero che questo si trasformasse in una scissione dei partecipanti alla conferenza, perché erano convinti che i membri del partito si sarebbero presto accorti dell’errore della loro decisione” (W. PIECK, art. cit.).
[11] "Essi (i Scheidemann e gli Ebert) con piena coscienza e chiarezza di propositi distorcono i nostri scopi socialisti in avventura sottoproletaria, per trarre in inganno le masse" (Das alte Spiel in Rote Fahne del 18 novembre 1918, ora in ARS, II, p. 599).

 

LINK allo scritto delal Luxemburg:

Discorso sul programma

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13 aprile 2012 5 13 /04 /aprile /2012 05:00

Al collegamento sottostante il lettore potrà leggere L'autodifesa che Rosa Luxemburg pronunciò nel febbraio del 1914, sei mesi prima dello scoppio della prima guerra mondiale, durante il processo intentatole per incitamento alla diserzione. Preziosa testimonianza di quanto centrale fosse, nel pensiero e nell'azione politica autenticamente marxista e libertaria della sinistra socialdemocratica, l'antimilitarismo, così come la denuncia del colonialismo e dell'imperialismo, al contrario del puro e semplice collaborazionismo dell'apparato partitico socialdemocratico tedesco.

Qui sotto al collegamento allo scritto di Rosa Luxemburg abbiamo fatto seguire la nota introduttiva ad esso tratta dalla grande antologia dei suoi scritti, editi con il titolo di Scritti politici, nel 1967 dalla casa editrice dell'allora partito comunista italiano Editori Riuniti, e curati da Lelio Basso, il massimo conoscitore della grande studiosa e attivista politica tedesca.

 

Autodifesa di Rosa Luxemburg pronunciata al Tribunale di Francoforte nel febbraio del 1914 contro l'accusa di incitamento alla diserzione

 

Luxemburg francobollo 1974


 

Difesa della compagna Rosa Luxemburg davanti al Tribunale speciale di Francoforte

Nota introduttiva
di Lelio Basso

 

Abbiamo ampiamente illustrato nell’introduzione l’importanza che il militarismo assumeva nella concezione generale che Rosa Luxemburg aveva della società capitalistica e delle prospettive rivoluzionarie, e abbiamo messo in rilievo i contributi originali ch’essa apportò alle idee correnti in seno alla socialdemocrazia. Questa aveva ereditato le tradizioni democratiche che vedevano nel militarismo e negli eserciti stanziali un punto d’appoggio della reazione e vi contrapponevano l’idea della milizia popolare, così come erano ostili alla guerra in nome di un generico pacifismo; sfuggiva ad esse, e sfuggiva alla socialdemocrazia tradizionale, il preciso significato di classe del militarismo. Come abbiamo visto Rosa Luxemburg mise in rilievo, accanto alle tradizionali accuse al militarismo, bastione della reazione e fautore di guerra, la funzione economica che esso esercitava anche in tempo di pace, in quanto offriva con il riarmo uno sbocco supplementare alla produzione capitalistica e quindi un mezzo sicuro di accrescimento della domanda globale, e di incremento del profitto. In questo senso il militarismo diventava un momento necessario dello sviluppo capitalistico nella fase imperialistica per controbilanciare gli squilibri tradizionali del mercato, cosa come al tempo stesso diventava strumento della politica di conquista di nuovi mercati coloniali, anch’essa momento necessario dello sviluppo imperialistico. La lotta contro il militarismo e contro la guerra in preparazione era perciò per Rosa Luxemburg una precisa esigenza di classe del proletariato, tanto pili che, come si è visto, essa vedeva nella futura guerra la matrice di quella crisi politica da cui avrebbe potuto nascere la spinta rivoluzionaria e il crollo della società capitalistica. Ma poiché ogni rivoluzione esige una larga partecipazione di masse coscienti, e la coscienza si acquista solo attraverso l’esperienza e la lotta, l’impegno antimilitarista diventava un momento necessario della preparazione rivoluzionaria: senza questa preparazione, il momento della crisi sarebbe sopravvenuto egualmente ma avrebbe trovato, come trovò, il proletariato impreparato al suo compito. E ciò tanto più che, seguendo in questo Engels, essa pensava che il successo finale della rivoluzione avrebbe potuto realizzarsi non tanto con una vittoria del popolo armato contro l’esercito ma con un passaggio dei soldati dalla parte del popolo, e ciò presupponeva nei soldati una coscienza e maturità politica capaci di liberarli dal sistema dell’ubbidienza cadaverica imposta loro dai regolamenti e dalla prassi militari. A questo fine era pure necessario un lungo periodo di lotte educatrici che trascinassero soprattutto la gioventù: la propaganda antimilitarista doveva quindi rompere la separazione fra esercito e popolo e porre invece le premesse di una alleanza.

Ma la socialdemocrazia tedesca, presa ormai soltanto dalle preoccupazioni dell’immediato e decisamente inserita nel sistema, non poteva affrontare una lotta a fondo di questa natura che avrebbe colpito al cuore il sistema stesso. Si continuava a votare in omaggio alla tradizione contro i bilanci militari, ma si giustificava questo voto solo richiamandosi al sistema della milizia. Si trascuravano in genere le questioni di politica internazionale o tutt’al più, se si affrontavano, si evitava di andare alla radice dei fatti limitandosi a perseguire le speranze di soluzioni pacifiche. Perciò le due risoluzioni fatte approvare da Rosa Luxemburg in sede di congressi internazionali, quella di Parigi del 1900 e quella di Stoccarda del 1907, dovevano rimanere lettera morta per la socialdemocrazia tedesca. Fu quasi soltanto Karl Liebknecht a farsi promotore di un’azione concreta e decisa contro il militarismo e di un’intensa propaganda fra la gioventù, proponendo una serie di mozioni ai congressi di Brema (1904), Iena (1905) e Mannheim (1906), che incontrarono in generale l’ostilità di Bebel nonostante che Liebknecht invocasse appunto la risoluzione luxemburghiana del congresso internazionale di Parigi, teoricamente obbligatoria anche per la socialdemocrazia tedesca. Il 12 ottobre 1907 Liebknecht fu processato e condannato a un anno e mezzo di prigione per il suo scritto Militarismo e antimilitarismo, sconfessato da Bebel in pieno Reichstag.

Del resto dopo la sconfitta elettorale del 1907, dopo le cosiddette “elezioni ottentotte”, la preoccupazione principale dei dirigenti socialdemocratici fu di liberare il partito dall’accusa di “antinazionale”, raddoppiando in zelo patriottico. Nella prima discussione del bilancio militare dopo le elezioni, si ebbe al Reichstag il primo discorso importante di Noske, il futuro “uomo forte” della repressione antioperaia del dopoguerra, il quale non esitò ad affermare che i socialisti erano interessati ad assicurare l’organizzazione militare necessaria alla difesa del paese e che essi volevano un popolo libero e culturalmente più avanzato per garantire una Germania più forte. Questo discorso fu oggetto di un acceso dibattito al congresso di Essen (1907) dove la divisione di fondo fra le due tendenze del partito apparve abbastanza chiara: chi considerava più importante la lotta contro l’imperialismo condannava Noske, chi si preoccupava di più delle elezioni e dei problemi immediati, era disposto a compromessi con l’imperialismo e accettava anche il militarismo. Il gruppo dirigente del partito era schierato su queste ultime posizioni, con la sola riserva della preoccupazione di Bebel di mantenere l’unità del partito e di non rinnegare apertamente le dottrine tradizionali: ciò fece si che di compromesso in compromesso si arrivasse, come sbocco naturale, alla capitolazione del 4 agosto 1914.Momento importante di questo cammino fu appunto il rifiuto della lotta antimilitarista, per giustificare la quale si minimizzava la aggressività dell’imperialismo; così al congresso internazionale di Stoccarda (1907), Bebel affermò che “nei circoli influenti della Germania quasi nessuno vuole la guerra” [1]; così all’epoca della seconda crisi marocchina (1911) la socialdemocrazia tedesca si oppose a qualunque azione internazionale negando che vi fosse pericolo di guerra; così si oppose, in Germania, a un’organizzazione autonoma della gioventù, voluta da Liebknecht, Zetkin, Ludwig Frank, per timore che fosse preda della propaganda antimilitarista; così infine nel 1913 il gruppo parlamentare si pronunciò con 52 voti contro 37 e 7 astenuti per il voto favorevole ad una proposta del governo che istitutiva una nuova tassa per accrescere le spese degli armamenti: come disse allora Fritz Geyer, uno dei leader del gruppo dei deputati oppositori, il governo tedesco sapeva ormai che poteva spingere la politica di riarmo grazie ai fondi che gli procuravano i voti socialdemocratici. Il vecchio slogan “a questo sistema né un uomo né un soldo” cessava di guidare la tattica parlamentare della socialdemocrazia tedesca, e prendeva il sopravvento l’altro che già correva dal 1907 “nell’ora del pericolo non pianteremo in asso la patria” [2].

Ma nella stessa misura in cui i progressivi cedimenti della direzione e dei parlamentari socialdemocratici incoraggiavano il governo imperiale nella sua corsa verso la guerra, facendo svanire lo spauracchio di una ferma opposizione delle masse [3], nella stessa misura s’intensificava l’agitazione antimilitarista della sinistra socialista, in particolare di Liebknecht e della Luxemburg, pienamente coscienti del pericolo imminente di guerra. Nel corso di un intenso giro di propaganda nella seconda metà del settembre 1913, Rosa Luxemburg pronunciò il giorno 26 un discorso a Bockenheim, presso Francoforte sul Meno, e successivamente a Fechenheim. Manca il resoconto stenografico del discorso, di cui fu pubblicato un breve riassunto nella Volksstimme di Francoforte [4]. La polizia non assisteva alla riunione, ma un redattore del giornale evangelico-nazionale Frankfurter Warte, tale Henrici, sulla base di suoi appunti stenografici, denunciò l’oratrice a cagione della frase: “Se si pretende da noi che leviamo l’arma omicida contro i nostri fratelli francesi e altri fratelli stranieri, noi dichiariamo: ‘no, non lo facciamo’“ [5]. La procura di Stato di Francoforte elevò l’imputazione di incitamento dei soldati alla disubbidienza e il processo fu celebrato dinanzi alla II sezione penale del tribunale di Francoforte il 20 febbraio 1914. All’inizio del dibattimento Rosa Luxemburg, interrogata dal presidente, riconobbe di aver pronunciato le parole incriminate ma ne contestò l’interpretazione che era stata data dall’accusa. E al termine del processo, dopo che i suoi due difensori Kurt Rosenfeld e Paul Levi ebbero esaminato l’accusa sotto l’aspetto giuridico, l’imputata pronunciò la sua autodifesa politica, che fu pubblicata in extenso, insieme a un resoconto del processo, nell’opuscolo intitolato Militarismus, Krieg und Arbeiterklasse - Rosa Luxemburg vor der Frankfurter Strafkammer - Ausführlicher Bericht über die Verhandlung am 20. Februar 1914 (Francoforte sul Meno). La presente traduzione è condotta su questo testo.

La sentenza fu di condanna a un anno di prigione, che Rosa Luxemburg scontò poi durante la guerra. Ma essa non era nuova a processi e a carcerazioni [6] e la condanna non smorzò il suo impegno antimilitarista: anzi l’accentuò. Due giorni dopo la condanna ebbero luogo a Francoforte e Hanau grandi manifestazioni di protesta, in cui Rosa Luxemburg pronunciò discorsi fortemente polemici. “II procuratore di Stato - essa disse - ha motivato la gravità della misura della pena dicendo che io avevo voluto colpire il nerbo vitale dello Stato odierno. (...) Vedete, il nerbo vitale dello Stato odierno non è il benessere delle masse, non l’amore della patria, non l’insieme della civiltà, no, sono le baionette. (...) Uno Stato, il cui nerbo vitale è lo strumento di morte, è maturo per essere rovesciato (...) Noi lotteremo da mattina a sera con tutte le nostre forze contro questo nerbo vitale. Avremo cura di reciderlo quanto più presto possibile” [7] Nel corso di una ulteriore grandiosa manifestazione a Friburgo in Brisgovia, la Luxemburg pronunciò un nuovo importante discorso il cui testo è conservato pressoché integrale: un accenno agli “innumerevoli drammi” che si svolgono nelle caserme tedesche fu invocato dal ministro della guerra prussiano, generale von Falkenhayn, per sollecitare dalla procura di Stato di Berlino una nuova incriminazione a carico di Rosa Luxemburg [8], che peraltro non giunse fino alla sentenza [9]. 

 

Lelio Basso
[A cura di Ario Libert]

NOTE

[1] Int. Soz.-Kongr., cit., p. 83.

[2] Cfr. E. SCHORSKE, op. cit., pp. 284 sgg. 

[3] La ricca documentazione e l’ampia memorialistica che oggi possediamo su quel periodo della storia tedesca hanno permesso di stabilire come la classe dirigente, nelle sue decisioni sulla pace e sulla guerra, considerasse la presenza di una classe operaia combattiva e decisa a opporsi alla guerra come un elemento importante che frenava le sue mire aggressive. Lo stesso Scheidemann nelle sue Memoiren eines Sozialdemokraten, I, Dresda, 1928, p. 235, dice che “l’immensa maggioranza del popolo era senza alcun dubbio incondizionatamente contro la guerra”. Tuttavia i dirigenti socialdemocratici preferirono non utilizzare la loro forza reale contro la guerra e mettersi d’accordo con il potere. SCHORSKE, op. cit., attribuisce questa decisione a una serie di fattori: paura dei rigori della legge (scioglimento delle organizzazioni, provvedimenti antisocialisti, ecc.), timore di una vittoria russa e timore di perdere l’appoggio delle masse, timore anche che la guerra e la rivitalizzazione del movimento russo consentissero all’interno del partito una ripresa del “gruppo di Rosa” (lettera di Ebert in Schrifte, I, Dresda, 1926, p. 309), tutti fattori che in realtà si possono esprimere nell’unico motivo del desiderio di identificarsi con la società tedesca in generale, di integrarsi nel sistema. Sempre secondo Schorske, il bisogno di sfuggire alla condizione di paria in cui erano stati tenuti dalla pressione della classe dirigente e dalla loro stessa intransigenza era entrato in conflitto decisivo con il vecchio ethos dell’opposizione perenne allo Stato borghese: il desiderio di uno status e di un riconoscimento in seno all’ordine esistente erano ormai troppo forti. Era questo del resto il punto d’approdo naturale della politica condotta nei decenni precedenti.

II 29 luglio 1914 il deputato socialdemocratico Albert Südekum, membro della commissione del Reichstag per gli armamenti e già da tempo in contatto con il cancelliere Bethmann Hollweg, scriveva a quest’ultimo una lettera in cui a nome di Ebert, Braun, Hermann Müller, Bartel e R. Fischer, assicurava che non erano programmate azioni di lotta. (La lettera è stata riprodotta, insieme con la risposta del cancelliere, da D. FRICKE e H. RADANDT, Neue Dokumente über die Rolle Albert Südekums in Zeitschrift für Geschichtswissenschaft 1956, n. 4, p. 757. Sulla figura di Südekum v. L. VALIANI, Il PSI nel periodo della neutralità in Annali Feltrinelli, 1962, p. 283, nota 77). Nella seduta del ministero prussiano del 30 luglio Bethmann Hollweg poté assicurare che non vi sarebbero stati scioperi né generali né parziali. (Cfr. W. BARTEL, op. cit., p. 125). Il giorno successivo il ministero della guerra comunicò al comando supremo che “secondo un’informazione sicura il partito socialdemocratico è fermamente deciso a comportarsi come si addice ad ogni tedesco in queste circostanze. Considero mio dovere far conoscere questa notizia affinché le autorità militari ne tengano conto nelle loro misure” (ibid., p. 168). I dirigenti del sindacato per parte loro si misero in contatto con il ministero degli interni ed ebbero la risposta che non sarebbero stati disturbati se non avessero disturbato, a seguito di che decisero di sospendere qualunque agitazione o sciopero già in corso e raggiunsero in questo senso un accordo con i datori di lavoro. Questa decisione non poté non avere i suoi effetti sui deputati socialdemocratici, di cui un quarto circa erano funzionari sindacali.

Si vedano anche i resoconti dei colloqui del deputato socialdemocratico Cohen con il sottosegretario Wahnschaffe in KUCZYNSKY, Der Ausbruch des ersten Weltkrieges und die deutsche Sozialdemokratie, Berlino, 1957, pp. 207 sgg.

[4] N. 277 del 27 settembre 1913. Il testo del giornale è ora riprodotto nel volume Rosa Luxemburg in Kampf gegen den deutschen Militarismus, Berlino, 1960, pp. 25-26.

[5] Nel volume citato alla nota precedente è riprodotta una comunicazione segreta del ministro prussiano degli interni al Regierungspräsident di Wiesbaden, in data 4 marzo 1914, in cui si criticano le autorità di polizia di Francoforte per non aver esercitato una diretta sorveglianza di polizia sul comizio di Rosa Luxemburg in Bockenheim. “Io sono piuttosto dell’opinione che le autorità di polizia di Francoforte abbiano sottovalutato l’effetto che la Luxemburg è solita ottenere con i suoi discorsi sui partecipanti alle riunioni. I suoi discorsi appassionati fanno di regola una forte impressione sull’uditorio, e questa circostanza, unita alla considerazione che l’oratrice è nota come rappresentante delle concezioni più radicali della socialdemocrazia” avrebbero richiesto un controllo diretto della polizia sulle espressioni dell’oratrice (op. cit., pp. 60-61).

[6] Nella biografia della Luxemburg Paul Frölich (Rosa Luxemburg - Gedanke und Tat, cit., p. 100) riferisce che essa era stata processata per un articolo in cui incitava i polacchi delle zone sotto occupazione tedesca a resistere all’opera di snazionalizzazione e germanizzazione promossa dal governo tedesco, ma aggiunge di non aver potuto trovare a quale pena fosse stata condannata. Nel luglio 1904 fu condannata a 3 mesi di carcere per offese all’imperatore, ma fu liberata per amnistia poco prima di aver terminato di scontare la pena. Dal 4 marzo al 28 luglio 1906 fu imprigionata dalle autorità zariste a Varsavia. Il 12 dicembre 1906 fu nuovamente condannata dal tribunale di Weimar a due mesi di carcere per eccitamento alla violenza per il discorso pronunciato al congresso di lena sullo sciopero di massa: scontò la pena dal 12 giugno al 12 agosto 1907. La condanna a un anno inflittale dal tribunale di Francoforte fu scontata dal 18 febbraio 1915 al 18 febbraio 1916. Un successivo processo iniziato contro di lei a Berlino non giunse a conclusione (v. nota 3). Il 10 luglio 1916 fu, nuovamente arrestata per misura di sicurezza a causa dello stato di guerra e trattenuta in carcere per tutta la durata della guerra: fu liberata dagli operai l’8 novembre 1918 alla vigilia della caduta del Kaiser.

[7] Cfr. Rosa Luxemburg im Kampf gegen den deutschen Militarismus, cit., pp. 81-84.

[8] Ibid., pp. 91-107.

[9] Del processo si tennero le prime tre udienze avanti il Tribunale di Berlino il 29 e 30 giugno e il 3 luglio: centinaia di soldati si offersero per testimoniare la verità delle accuse di maltrattamenti ai soldati mosse dalla Luxemburg contro il regime militare e il processo minacciò così di diventare un terribile atto d’accusa contro il militarismo tedesco, tanto che si preferì sospenderlo dopo la terza udienza e rinviarlo a nuovo ruolo, senza però riprenderlo in seguito. Una caricatura del Wahre Jaktob del 25 luglio 1914, alla vigilia della guerra, intitolata appunto “Il militarismo sul banco degli accusati” mostra un tribunale presieduto da Rosa Luxemburg in atto di giudicare il militarismo tedesco mentre ai due lati stanno file interminabili di soldati in vesti di testimoni: nelle prime file sono i cadaveri dei soldati uccisi dai maltrattamenti. Il resoconto del processo, quale fu dato dai giornali del tempo, si trova ora nel volume citato alle note precedenti, pp. 142-157, 162-173, 183-194.

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1 febbraio 2012 3 01 /02 /febbraio /2012 06:00

La condanna del "comunismo" autoritario

da parte di Michail Bakunin 

Bakunin

 

Il nostro debito nei confronti di Michail Bakunin è molteplice.

 

Ma ce n'è uno che è tra tutti il più importante. I comunisti libertari della fine del XX secolo gli devono soprattutto, ben oltre le sue polemiche con Marx, superandole ad ampie falcate, di aver letto in un futuro ben più lontano ciò che un giorno sarebbe stato il bolscevismo. Certo, per fare ciò, si è mostrato eccessivo, spesso ingiusto, nei confronti del suo contemporaneo, il fondatore del socialismo detto scientifico.Tutt'al più alcuni tratti autoritari e contaminati di statismo erano evidenziabili in Marx, benché non manifestantesi che allo stato embrionario. Il colpo di forza del congresso dell'Aja del 1872 che escluse Bakunin dall'Internazionale aggrava queste velleità. Bakunin, nella sua polemica, se la prende meno con il suo rivale che con lo Stato popolare (Volksstaat) dei lassalliani e socialdemocratici, che Marx e Engels impiegarono troppo tempo a respingere.

 

marx_engels_congresso_aja_1872.jpgCongresso dell'Aja del 1872 che oppose le componenti marxista e anarchica della prima Internazionale (quadro di A. Rieznikov, nel più puro spirito oleografico sovietico).


herzen_e_Ogarev_1861.jpgMa, avendo individuato l'embrione, Bakunin ha avuto la divinazione geniale della sua escrescenza futura. Così che la sua critica smisurata e un po' tendenziosa si troverà giustificata a posteriori quando essa si applicherà agli epigoni abusivi di Marx. La prescienza di Bakunin in quanto alle divinazioni perverse, prima di diventare mostruose, di ciò che prenderà impropriamente il nome di "marxismo", merita dunque da parte nostra un grande inchino.

Bakunin NadarPrima ancora di polemizzare con l'ispiratore della prima Internazionale, il profeta russo aveva messo in guardia contro il "comunismo" autoritario. Sin dal 19 luglio 1866, in una lettera a Alekandr Herzen e a Nikolai Ogarëv, discutendo con i suoi due corrispondenti come se si trattasse di una sola persona, Bakunin scriveva: "Tu che sei un socialista sincero e devoto, certamente, saresti pronto a sacrificare il tuo benessere, tutta la tua fortuna, la tua stessa vita, per contribuire alla distruzione di questo Stato, la cui esistenza non è compatibile né con la libertà né con il benessere del popolo. O allora, fai del socialismo di Stato e visto che sei capace di riconciliarti con questa menzogna più vile e più temibile che abbia generato il nostro secolo: il democratismo ufficiale e la burocrazia rossa" [1].

proudhon-dSulla condanna del "comunismo" autoritario, Bakunin riprendeva le invettive del suo maestro Proudhon. Al secondo congresso della Lega della pace e della libertà, a Berna, a fine settembre del 1868, prima di rompere con questa emanazione del liberalismo borghese, affermava: "Detesto il comunismo [autoritario], perché esso è la negazione della libertà e non posso concepire nulla di umano senza libertà. Non sono affatto comunista perché il comunismo concentra e fa assorbire tutte le potenze della società nello Stato, perché sfocia necessariamente nella centralizzazione della proprietà tra le mani dello Stato [...]. Voglio l'organizzazione della società e della proprietà collettiva o sociale dal basso verso l'alto, per la via della libera associazione, e non dall'alto verso il basso per mezzo di qualsiasi autorità. Ecco in che senso sono collettivista e nient'affatto comunista" [2].

prima_internazionale_1864.gifTuttavia Bakunin è diventato membro locale, a Ginevra, dell'Associazione internazionale dei lavoratori dal luglio 1868 e ha scritto a Gustave Vogt, presidente della Lega della pace e della libertà, in settembre: "Non possiamo né dobbiamo ignorare l'immenso e utile portata del congresso di Bruxelles [della Prima Internazionale]. È un grande, è il più grande avvenimento dei nostri giorni e, se siamo noi stessi dei sinceri democratici, dobbiamo non soltanto desiderare che la Lega internazionale degli operai finisca con l'abbracciare tutte le associazioni operaie dell'Europa e dell'America, ma dobbiamo cooperarvi con tutti i nostri sforzi, perché essa può costituire oggi la vera potenza rivoluzionaria che deve cambiare la faccia del mondo" [3].

Marx.jpgCon questo slancio, Bakunin scrive a Marx, il 22 dicembre 1868: "Non conosco più altra società, altro ambiente che il mondo dei lavoratori. La mia patria ora è l'Internazionale di cui tu sei uno dei principali fondatori. Vedi dunque, caro amico, che sono tuo discepolo e sono fiero di esserlo". Marx fa subito sapere di passarlo in silenzio. Apro dunque una parentesi, per chiuderla velocemente.

Al suo ritorno in Europa occidentale, dopo i suoi lunghi anni di prigionia in Russia, Bakunin aveva fatto sue le idee anarchiche, improntate a Proudhon, benché sviluppate in un senso più rivoluzionario. Ma questa nuova convinzione si era sovrapporta presso lui a un gusto inveterato per la clandestinità delle cospirazioni. Egli aveva raccolto in qualche modo l'eredità del babuvismo, della carboneria, del blanchismo e più ancora delle attività segrete appropriate alla lotta contro il dispotismo zarista. Internazionalsita nell'anima, egli aveva cospirato in diverse "Fraternità" internazionali da cui reclutava gli affidati in diversi paesi latini.

bakuninL'ultima in data di queste iniziative sarà, nel 1868, all'indomani della sua rottura con la Lega della pace e della libertà, l'Alleanza internazionale della democrazia socialista, organizzazione, egli sosteneva, "semi segreta e semi pubblica", e che serviva di fatto da copertura a una società più ristretta e segreta: L'Organizzazione rivoluzionaria dei fratelli internazionali. Fatto ciò, Bakunin, sinceramente attratto dal movimento operaio, sollecitò l'adesione della sua Alleanza all'Internazionale (AIT). La diffidenza di Marx e del suo nucleo del Consiglio generale di Londra non era del tutto senza motivazione. Infatti, la candidatura dell'Alleanza, nuova versione delle società segrete fomentate da Bakunin, poteva far apparire quest'ultima come "destinata a diventare un'Internazionale nell'Internazionale" [5].

babeuf.jpgCome giunse Bakunin a conciliare le sue opzioni ferocemente antiautoritarie con questo tentativo appena mascherato di "entrismo"? Ecco la giustificazione che egli si faceva scrupolo di esporre negli statuti segreti dell'Alleanza, di cui una copia cadde tra le mani del Consiglio generale dell'AIT a cui Marx dettava legge: "Quest'organizzazione esclude ogni idea di dittatura e di potere dirigente tutelare. Ma per l'instaurazione stessa di questa alleanza rivoluzionaria e per il trionfo della rivoluzione contro la reazione, è necessario che nell'ambiente dell'anarchia popolare che costituirà la vita stessa e tutta l'energia della rivoluzione, l'unità del pensiero e dell'azione rivoluzionaria trovi un organo (...), una specie di stato-maggiore rivoluzionario composto da individui devoti, energici, intelligenti, e soprattutto amici sinceri, e non ambiziosi né vanitosi, del popolo capaci di servirsi di intermediari tra l'idea rivoluzionaria e gli istinti popolari [...]. Per l'organizzazione internazionale in tutta l'Europa, cento rivoluzionari fortemente e seriamente alleati bastano" [6].

marx karl, LevineLa dissonanza tra democrazia diretta e elitismo rivoluzionario era già notevole presso i babuvisti [7]. La si ritroverà ai nostri in certe controversie comuniste libertarie.

Chiusa questa parentesi, ritorniamo alla richiesta di adesione dell'Alleanza all'AIT. Il Consiglio generale di Londra comincia con il reagire molto sfavorevolmente. Nella sua seduta del 22 dicembre 1868, considera "che la presenza di un secondo corpo internazionale operante all'interno e posto fuori dall'Associazione internazionale dei lavoratori sarebbe il mezzo più infallibile della disorganizzazione e, di conseguenza, dichiara che l'Alleanza internazionale della democrazia socialista non è ammessa come ramo dell'Associazione internazionale dei lavoratori". La sentenza è redatta per mano di Marx. Ma, alcuni mesi dopo, il 9 marzo 1869, sotto la penna dello stesso Marx, il Consiglio generale, ripensandoci, non vede più alcun ostacolo alla "conversione delle sezioni dell'Alleanza in sezioni dell'Internazionale": L'Alleanza accetta queste condizioni ed è dunque ammessa [8].

incisione ProudhonBakunin assiste al congresso di Basilea dell'Internazionale, nel settembre del 1869, e fa blocco con i sostenitori di Marx contro gli epigoni degenerati di Proudhon che sostengono la proprietà individuale contro la proprietà collettiva.

Non sarà che due anni più tardi che le relazioni si faranno tese; alla conferenza di Londra che si apre il 17 settembre 1871, Marx svela un autoritarismo incompatibile con le opzioni libertarie di Bakunin. In poche parole, Marx tenta di accrescere i poteri del Consiglio generale di Londra, Bakunin vorrebbe ridurli. Uno vuole centralizzare, l'altro decentrare. L'ultima conseguenza sarà il congresso dell'Aja, all'inizio di settembre 1872, in cui Marx, attraverso procedure sleali e per mezzo di falsi mandati, riuscì ad escludere Bakunin e il suo amico James Guillaume, poi a relegare il Consiglio generale dell'Internazionale negli Stati Uniti.

guillaume.jpgÈ allora che Bakunin, indignato da questo atto di forza, si scatena davvero contro Marx e il "comunismo" autoritario. Questa rabbia ci vale le imprecazioni che oggi ci sembrano profetiche, poiché al di là degli intrighi marxiani essa pone in causa e denuncia tutto un processo che, ben dopo la morte di Bakunin e di Marx, riveste una singolare attualità.

Innanzitutto Bakunin presagisce ciò che un giorno sarà, sotto il termine ingannevole di dittatura del proletariato, la dittatura del partito bolscevico. In una lettera al giornale La Liberté di Bruxelles, scritta da Zurigo il 5 ottobre 1872, tuona contro la confisca del movimento rivoluzionario da parte di una cricca di capi: "Pretendere che un gruppo di individui, anche il più intelligente e i meglio intenzionati, sarà capace di diventare il pensiero, l'anima, la volontà dirigente e unificatrice del movimento rivoluzionario e dell'organizzazione economica del proletariato di tutti i paesi, è una tale eresia contro il senso comune e contro l'esperienza storica, che ci si domanda con stupore come un uomo così intelligente come Marx abbia potuto concepirla" [9].

E Bakunin continua a vaticinare: "Non ammettiamo nemmeno come transizione rivoluzionaria, né le Convenzioni nazionali, né le Assemblee costituenti, né i governi transitori, né le dittature sedicenti rivoluzionarie; perché siamo convinti che la rivoluzione [...] quando si trova concentrata tra le mani di alcuni individui che governano, diventa inevitabilmente e immediatamente la reazione".

La fatale esperienza di una potente Internazionale affondata dalla volontà arbitraria di un solo uomo porta Bakunin a diffidare da un'internazionale autoritaria come lo sarà, molto più tardi, quella della III Internazionale sotto la guida bolscevica: cosa dire di un amico del proletariato, di un rivoluzionario che pretende di voler seriamente l'emancipazione delle masse e che,  ponendosi come dirigente e arbitro supremo di tutti i movimenti rivoluzionari che possono scoppiare in diversi paesi, osa sognare l'asservimento del proletariato di tutti questi paesi a un pensiero unico, sbocciato dal suo cervello?

Bakunin non ci ripensa. L'accecamento di Marx gli sembra inconcepibile: "Mi chiedo come faccia a non vedere che l'instaurazione di una dittatura universale, collettiva o individuale, di una dittatura che necessiterebbe in qualche modo che un ingegnere sia a capo della rivoluzione mondiale, che regola e dirige il movimento insurrezionale delle masse in tutti i paesi così come si dirige una macchina, che l'instaurazione di una simile dittatura basterebbe da sé per uccidere la rivoluzione, per paralizzare e falsare tutti i movimenti popolari".

E il genere di dittatura che Marx ha esercitato sul Consiglio generale di Londra porta Bakunin a temere che un tale esempio si amplifichi e assuma delle proporzioni aberranti: "E cosa pensare di un congresso internazionale che, nel cosiddetto interesse  di questa rivoluzione, impone al proletariato di tutto il mondo civilizzato un governo investito di poteri ditattoriali, con il diritto inquisitoriale e pontifico di sospendere delle federazioni regionali, di proibire nazioni intere in nome di un principio sedicente ufficiale e che non è altro che il pensiero di Marx, trasformato dal voto di una maggioranza fittizia in una verità assoluta?".

proudhon idee generale de la revolution L'anno successivo, nel 1873, ancora scottato per la disavventura dell'Aja, Bakunin redige un libro intitolato Stato e Anarchia dove approfondisce le sue riflessioni e precisa le sue invettive [10]. Il filo conduttore del suo ragionamento è, come dubitarne?, le pagine di  Idée générale de la Révolution au XIXè siècle [Idea generale della Rivoluzione nel XIX secolo] del suo maestro Proudhon. Con e dopo di lui, Bakunin pone la domanda: "Se il proletariato diventa la classe dominante, ci chiediamo, esso dominerà? (...). Chi dice Stato dice necessariamente dominio e, di conseguenza, schiavitù (...). Da qualunque angolazione ci si ponga, si giunge allo stesso esecrabile risultato: il governo dell'immensa maggioranza delle masse popolari da parte di una minoranza privilegiata. Ma questa minoranza, dicono i marxisti, si comporrà di operai. Essi sono, certamente, dei vecchi operai, ma che non appena saranno diventati dei governanti, smetteranno di essere degli operai e si porranno a guardare il mondo proletario dall'alto dello Stato, non rappresenteranno più il popolo, ma se stessi e la loro pretesa a governarli".

E Bakunin scende in guerra contro la pretesa del socialismo autoritario di essere "scientifico". Non sarà nient'altro che il governo dispotico delle masse proletarie da una nuova e molto ristretta aristocrazia di veri o pretesi uomini di scienza. Il popolo non essendo colto, sarà interamente liberato da preoccupazioni governative e del tutto integrato nel gregge dei governati [11].

politburo.jpgAltrove, Bakunin si compiace nel dipingere sotto i tratti particolarmente sgradevoli questo Stato futuro dalle pretese scientifiche e che somiglia come un fratello a quello dell'URSS di oggi: "Ci sarà un governo eccessivamente complicato, che non si accontenterà di governare e di amministrare le masse politicamente,[...], ma che ancora li amministrerà economicamente, concentrando nelle sue mani la produzione e la giusta ripartizione delle ricchezze, la coltivazione della terra, l'edificazione e lo sviluppo delle fabbriche, l'organizzazione e la direzione del commercio, infine l'applicazione del capitale alla produzione da parte del solo banchiere, lo Stato. Tutto ciò esigerà una scienza immensa e molte teste straripanti di cervello in questo goveno. Sarà il regno dell'intelligenza scientifica, il più aristocratico, il più dispotico, il più arrogante e il più spregevole di tutti i regimi" [12].

Lenin KarpovMa il dispotismo in questione sarà durevole Per Bakunin: "I marxisti si consolano all'idea che questa dittatura sarà temporanea e di breve durata. Secondo essi, questo giogo statale, questa dittatura è una fase di transizione necessaria per giungere all'emancipazione totale del popolo: l'anarchia o la libertà rimane lo scopo, lo Stato o la dittatura il mezzo. Così per liberare le masse popolari, si dovrà cominciare con l'asservirle (...). A ciò essi ci rispondono che nessuna dittatura può avere altro fine che di durare il più a lungo possibile" [13]. 

Si crederebbe in anticipo a una confutazione libertaria di Stato e Rivoluzione del "compagno" Lenin [14]!

Bakunin è giunto sino a presentire il regno degli apparatčiks. In un testo del marzo 1872, prima ancora del colpo di forza dell'Aia, egli annunciala nascita "di una borghesia poco numerosa e privilegiata, quella dei direttori, rappresentanti e funzionari dello stato cosiddetto popolare" [15].

Infine, in uno scritto datato novembre-dicembre 1872, che fungerà da conclusione, Bakunin accuserà Marx di aver "quasi assassinato l'Internazionale con il suo criminale tentativo dell'Aia" e porrà come condizione per essere ammessi nell'Internazionale detta antiautoritaria, che sopravviverà al colpo di forza la seguente condizione: "Capire che, poiché il proletario, il lavoratore manuale, l'uomo di fatica, è il rappresentante storico dell'ultimo schiavismo sulla terra, la sua emancipazione è l'emancipazione di tutti, il suo trionfo è il trionfo finale dell'umanità, e che, di conseguenza, l'organizzazione della potenza del proletariato di tutti i paesi [...] non può avere come scopo la costituzione di un nuovo privilegio, di un nuovo monopolio, di una classe o di un nuovo dominio" [16].

Bakunin era un comunista libertario ante litteram!

 

 

 

Daniel Guérin

 

[Traduzione di Ario Libert]


NOTE:


[1] Corrèspondance de Mikhail Bakounine, lettres à Herzen e à Ogarev [Corrispondenza di Mikhail Bakunin, lettere a Herzen e a Ogarev], éd. Perrin, 1896; in: Archives Bakounine.

[2] Sotto la direzione la direzione di Jacques Freymond, La première Internationale [La prima internazionale], op. cit., 1, p. 451.

[3] Ibidem, p. 450.

[4] Ibidem, I, p. 451 E. Kaminski, Bakounine, la vie d'un révolutionnaire [Bakunin, la vita di un rivoluzionario], op. cit.

[5] Les prétendues scissions dans l'Internationale, [Le pretese scissioni nell'internazionale], in: Bakounine, Œuvres complètes, vol. VI, [Opere complete], Champ libre,  p. 271.

[6] "L'Alliance de la démocratie socialiste et l'Association internationale des travailleurs" [L'Alleanza della democrazia socialista e l'Associazione internazionale dei lavoratori], in: Freymond, op. cit., 11, pp. 474-475.

[7] Cfr. Bourgeois et bras nus, 1792-1795, Gallimard, 1973, pp. 312-313; Les Nuits rouges, 1998.

[8] Procès-verbaux du Conseil général de la 1è Internationale, 1868-1870 [Verbali del Consiglio generale della I Internazionale],   in: Freymond, op. cit., 11, pp. 262-264 e 272-273.

[9] Lettre au journal 'La Liberté' 5 octobre 1872 [Lettera al giornale La Liberté], in: Bakounine, Œuvres complètes, vol. III, p. 147.

[10] Bakounine, Etatisme et Anarchie [Stato e anarchia], 1873, in: Œuvres complètes, vol. IV.

[11] Lettre au journal 'La Liberté', op. cit.

[12] Bakounine, Ecrits contre Marx [Scritti contro Marx], in: Œuvres complètes, Vol III, p. 204.

[13] Etatisme et Anarchie [Stato e anarchia], op. cit., pp. 346-347.

[14] Lenin, L'Etat et la Révolution [Stato e rivoluzione], op. cit.

[15] L'Allemagne et le communisme d'Etat [La Germania e il comunismo di Stato], in: Bakounine, Œuvres Complètes, vol. III, p. 118.

[16] Ecrit contre Marx [Scritti contro Marx], op. cit., pp. 182-183.

 



LINK al post originale:

La condamnation du "communisme" autoritaire par M. Bakounine 

 

LINK interno a una breve presentazione di Daniel Guerin:

Daniel Guerin 1904-1988

 

LINK ad un saggio pertinente presente in un sito sulfureo:

Pier Carlo Masini, Il conflitto fra Marx e Bakunin in un'opera di Franz Mehring

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12 dicembre 2011 1 12 /12 /dicembre /2011 06:00

AUTOGESTIONE E GERARCHIA

 

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Schlichter, Il potere cieco 


 

di Cornelius Castoriadis

 

 

Autogestione e gerarchia dei salari e dei redditi

 

Non ci sono dei criteri oggettivi che permettano di fondare una gerachia delle remunerazioni. Così come non è compatibile con una gerarchia del comando, una società autogestita non è compatibile con una gerarchia dei salari e dei redditi. Innanzitutto, la gerarchia dei salari e dei redditi corrisponde attualmente alla gerarchia del comando- totalmente, nei paesi dell'Est (ricordiamo che l'articolo fu scritto nel 1974, a meno di 20 anni dall'implosione dei sistemi del capitalismo di stato), per una buona parte, nei paesi occidentali. Dobbiamo ancora vedere come questa gerarchia è reclutata. Un figlio di un ricco sarà un uomo ricco, un figlio di un quadro ha tutte le possibilità di diventare un quadro. Così, per una gran parte, gli strati che occupano gli strati superiori della piramide gerarchica si perpetuano ereditariamente. E ciò non è un caso.

Un sistema sociale tende sempre ad autoriprodursi. Se degli strati sociali hanno dei privilegi, i loro membri faranno tutto quanto possono per averli ed i loro privilegi significano precisamente che essi possono enormemente fare a questo proposito- per trasmetterli ai loro discendenti. Nella misura in cui, in un tale sistema, questi strati hanno bisogno di "uomini nuovi"- perché gli apparati di direzione si estendono e proliferano- essi selezionano, tra i discendenti degli strati "inferiori", o più "adatti" per cooptarli in seno ad essi. In questa misura, può accadere che il "lavoro" e le "capacità" ed i "meriti" significano qui essenzialmente la capacità di adattarsi al sistema vigente e di meglio servirli. Tali capacità non hanno senso per una società autogestita e del suo punto di vista.

chirurgo.jpgCertamente, delle persone possono pensare che, anche in una società autogestita, gli individui più coraggiosi, più tenaci, più lavoratori, più "competenti", dovrebbero aver diritto ad una "ricompensa" particolare, e che quest'ultima dovrebbe essere pecuniaria. E ciò nutre l'illusione che potrebbe esserci una gerarchia dei redditi che sia giustificata.

 

ingegnere.jpgQuesta illusione non resiste all'esame. Tanto più che nel sistema attuale, non si vede su cosa si potrebbe fondare logicamente e giustificare in modo calcolabile delle differenze di remunerazione. Perché tale competenza dovrebbe valere al suo possessore quattro volte di più di reddito rispetto ad un altro, e non due o dodici? Che senso ha dire che la competenza di un buon chirurgo vale esattamente tanto- o più, o meno- di quella di un buon ingegnere? E perché non vale esattamente tanto quanto quella di un buon conduttore di treno e di un buon istruttore?

Una volta usciti da alcuni campi molto ristretti, e privati di significato generale, non ci sono criteri oggettivi per misurare e comparare tra di loro le competenze, le conoscenze ed il sapere di individui diversi. E, se è la società che sostiene le spese di acquisizione del sapere di un individuo- come avviene praticamente già ora- non si vede perché l'individuo che ha già beneficato una volta del privilegio che questa acquisizione costituisce in sé stessa, dovrebbe beneficarne una seconda volta sotto forma di un reddito superiore. La stessa cosa vale del resto per il "merito" e "l'intelligenza". Vi sono certo degli individui che nascono più dotati di altri relativamente ad alcune attività, o lo diventano. Queste differenze sono in generale ridotte, ed il loro sviluppo dipende soprattutto dall'ambiente familiare, sociale ed eduvativo. Ma in ogni caso, nella misura in cui qualcuno ha un "dono", l'esercizio di questo "dono" è in se stesso una fonte di piacere se non è ostacolato. E, per i rari individui che sono eccezionalmente dotati, quel che importa non è una "ricompensa" finanziaria, ma creare quanto essi sono irresistibilmente spinti a creare. Se Einstein fosse stato interessato dal denaro, non sarebbe diventato Einstein- ed è probabile che sarebbe stato un padrone o un finaziere molto mediocre.

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Si mette a volte in risalto quest'argomento incredibile, che senza una gerarchia dei salari la società non potrebbe trovare delle persone che accettano di compiere le funzioni più "difficili"- e si presentano come tali le funzioni di quadro, di dirigente, ecc. Si conosce la frase così spesso ripetuta dai "responsabili": "se tutti guadagnano allo stesso modo, allora preferisco prendere la scopa". ma in paesi come la Svezia dove le differenze di salario sono diventati minori che in Francia, le imprese non funzionano in modo peggiore che in Francia, e non si sono visti i quadri precipitarsi sulle scope.

Ciò che sempre di più si constata nei paesi industrializzati, è piuttosto il contrario: le persone che lasciano le imprese, sono quelle che occupano gli impieghi veramente più difficili, cioè più faticosi e meno interessanti. E l'aumento dei salari del personale corrispondente non riesce a fermare l'emorragia. Per questo motivo, questi lavori sono sempre più lasciati alla manodopera immigrata. Questo fenomeno si spiega se si riconosce questa cosa evidente, che a meno di esservi costretti dalla miseria, le persone rifiutano sempre più di essere impiegati in lavori idioti. Non si è mai constatato il fenomeno inverso, e si può prevedere che continuerà ad essere così. Si giunge dunque a questa conclusione, dalla logica stessa di questo argomento, che sono i lavori più interessanti che dovrebbero essere i meno remunerati, perché, in ogni condizione, sono questi i lavori più attraenti per le persone, e cioè che la motivazione per sceglierli e compierli si trova già, per la maggioranza di essi, nella natura stessa del lavoro.

 

Autogestione, motivazione al lavoro e produzione per i bisogni

 

Ma a cosa approdano infine tutti gli argomenti miranti a giustificare la gerarchia in una società autogestita, qual è l'idea nascosta sulla quale nascosta sulla quale si fondano? È che le persone non scelgono un lavoro e non lo fanno che per guadagnare più degli altri. Ma ciò, presentato come una verità eterna concernente la natura umana, non è in realtà che la mentalità capitalista che ha penetrato più o meno la società (e che, come lo mostra la persistenza della gerarchia dei salari nei paesi dell'Est, rimane dominante anche lì). Ora questa mentalità è una delle condizioni affinché il sistema attuale esiste e si perpetua- e inversamente, non può esistere finché questo sistema continua. Le persone annettono un'importanza alle differenze di reddito, perché tali differenze esistono, e perché, nel sistema sociale attuale, sono posti come importanti.


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Se si può guadagnare un milione al mese invece di centomila franchi, e se il sistema sociale sostiene con tutti questi aspetti l'idea che chi guadagna un milione vale di più, è migliore di quello che ne guadagna centomila- allora effettivamente, molte persone (non tutti comunque, anche oggi) saranno motivati a far di tutto per guadagnare un milione invece di centomila. Ma se una tale differenza non esiste nel sistema sociale; se è considerato assurdo voler guadagnare più di quanto gli altri , di voler ad ogni costo far precedere il proprio nome con una particella, allora altri motivi, che hanno, essi, un vero valore sociale, potranno apparire o piuttosto svanire: l'interesse del lavoro stesso, il piacere di fare bene ciò che si è scelti da sé di fare bene, l'invenzione, la creatività, la stima e la riconoscenza degli altri. Inversamente, finquando la miserabile motivazione economica sarà presente, tutte quelle altre motivazioni saranno atrofizzate sin dall'infanzia degli individui. Perché un sistema gerarchico è basato sulla concorrenza degli individui, e la lotta di tutti contro tutti.


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Esso erige costantemente gli uomini gli uni contro gli altri, e li incita ad utilizzare tutti i mezzi per prevalere. Presentare la concorrenza crudele e sordida che si svolge nella gerarchia del potere, del comando, dei redditi, come una "competizione" sportiva in cui i "migliori" vincono in un gioco onesto, vuol dire prendere le persone per degli imbecilli e credere che essi non vedano come le cose si svolgano realmente in un sistema gerarchico, che si tratti della fabbrica o negli uffici, all'Università, ed anche sempre più nella ricerca scientifica da quando quest'ultima è diventata un'immensa impresa burocratica. L'esistenza della gerarchia è basata sulla lotta senza tregua di tutti contro tutti- e che esacerba questa lotta. È perché appunto la giungla diventa sempre più spietata a mano a mano che si salgono i gradini della gerarchia- e che non si incontra la cooperazione che alla base, là dove le possibilità di "promozione" sono ridotte o inesistenti. E l'introduzione artificaile di differenziazione a questo livello, attraverso la direzione delle imprese, mira precisamente a soezzare questa cooperazione. Ora, dal momento in cui vi sarebbero dei privilegi di una qualsiasi natura, ma soprattutto di natura economica, rinascerebbe immediatamente la concorrenza tra gli individui, allo stesso tempo che la tendenza ad aggrapparsi ai privilegi che si posseggono già, e, a questo scopo, a tentare anche di acquisire più potere e a sottrarlo al controllo degli altri. Sin da quel momento, non può più essere questione di autogestione.

Infine, una gerarchia dei salari e dei redditi è altrettanto incompatibile con una organizzazione razionale dell'economia di una società autogestita. Perché una tale gerarchia falsa immediatamente e pesantemente l'espressione della domanda sociale. Un'organizzazione razionale dell'economia di una società autogestita implica, infatti, per tanto tempo che gli oggetti ed i servizi prodotti dalla società hanno ancora un "prezzo" -sin quando non li si può distribuire gratuitamente- e che dunque c'è un "mercato" per i beni di consumo individuali, che la produzione è orientata secondo le indicazioni di questo mercato, e cioè finalmente attraverso la domanda solvibile dei consumatori. Perché non c'è, per cominciare, altro sistema difendibile.

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Contrariamente ad uno slogan recente, che non si può approvare che metaforicamente, non si può dare a tutti "tutto e subito". Sarebbe d'altra parte assurdo limitare il consumo attraverso il razionamento autoritario che equivarrebbe ad una tirannia intollerabile e stupida sulle preferenze di ognuno: perché distribuire ad ognuno un disco e quattro biglietti per il cinema- senza parlare dei sordi e dei ciechi? Ma un "mercato" dei beni di consumo individuale non è veramente difendibile se non è veramente democratico- e cioè, se le schede di voto di ognuno hanno lo stesso peso. Queste schede di voto, sono i redditi di ognuno. Se questi redditi sono ineguali, questo voto è immediatamente truccato: vi sono delle persone la cui voce conta molto più di quella degli altri. Così oggi, il "voto" del ricco per una villa sulla Costa Azzurra o un aereo personale pesa molto più di uno con problemi abitativi per un alloggio decente, o di un manovale per un viaggio in treno di seconda classe. E bisogna rendersi conto che l'impatto della distribuzione ineguale dei redditi sulla struttura della produzione dei beni di consumo è immenso.


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Un esempio aritmetico, che non pretende di essere rigoroso, ma è vicino alla realtà in ordine di grandezza, permette di illustrarlo. Se si suppone che si potrebbe raggruppare l'80% della popolazione francese dai redditi più bassi intorno a una media di 20.000 per anno dopo le imposte (i redditi più bassi in Francia, che riguardano una categoria molto numerosa, gli anziani senza pensione o con una piccola pensione, sono di gran lunga inferiori ai S.M.I.C.*) e i 20% rimanenti intorno ad una media di 80.000 per anno dopo le imposte, si vede con un calcolo semplice che queste due categorie si dividono per metà il reddito disponibile per il consumo. In queste condizioni, un quinto della popolazione disporrebbe del potere di consumo degli altri quattro quinti. Ciò significa che all'incirca il 35% della produzione dei beni di consumo del paese sono esclusivamente orientati secondo la domanda del gruppo più favorito e destinati al suo soddisfacimento, dopo la soddisfazione dei bisogni "elementari" di questo stesso gruppo; o ancora, che il 30% di tutte le persone impiegate lavorano per soddisfare i "bisogni" non essenziali delle categorie più favorite (supponendo che il rapporto consumo/investimento è di 4 a 1- il che è grosso modo l'ordine di grandezza osservato nella realtà).

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Si vede dunque che l'orientamento della produzione che il "mercato" imporrebbe in queste condizioni non rifletterebbe i bisogni della società, ma un'immagine deformata, nella quale il consumo non essenziale degli strati favoriti avrebbe un peso sproporzionato. È difficile credere che, in una società autogestita, in cui questi fatti fossero noti con tutta esattezza e precisione, le persone tollererebbero una tale situazione; o che essi potrebbero, in queste condizioni, considerare la produzione come affare loro, e sentirsi considerati- senza ciò non si potrebbe nemmeno per un istante parlare di autogestione.

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La soppressione della gerarchia dei salari è dunque il solo mezzo per orientare la produzione secondo i bisogni della collettività, di eliminare la lotta di tutti contro tutti e la mentalità economica, e di permettere la partecipazione interessata, nel vero senso del termine, di tutti gli uomini e di tutte le donne alla gestione degli affari della collettività.

 

 

Cornelius Castoriadis

 

 

 

[Traduzione di Ario Libert]

 

 

*S.M.I.C., e cioè Salaire Minimum Interprofessionel de Croissance (Salario minimo interprofessionale di crescita), era il salario minimo orario vigente in Francia e introdotto nel 1950 al di sotto del quale non poteva scendere nessun salario.

 

 

 

LINK al post originale:

Autogestion et hiérarchie

 

LINK alla prima parte di questo saggio:

Autogestione e gerarchia, 01 di 02

 

LINK ad altri scritti di Castoriadis nel presente blog:
Sul regime e contro la difesa dell'URSS

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28 ottobre 2010 4 28 /10 /ottobre /2010 06:00



AUTOGESTIONE E GERARCHIA

 

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Schlichter, Il potere cieco

 

 

di Cornelius Castoriadis 

 

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Creta, Le tre Dame

Viviamo in una società la cui l'organizzazione è gerarchica, si tratti di lavoro, produzione, o impresa, amministrazione, politica, o Stato oppure ancora dell'educazione e della ricerca scientifica. La gerarchia non è un'invenzione della società moderna. Le sue origini sono remote, benché non sia sempre esistita, e vi fossero delle società non gerarchiche che hanno funzionato molto bene. Ma nella società moderna il sistema gerarchico (o, il che è lo stesso, burocratico) è diventato praticamente universale. Non appena si verifica una qualunque attività collettiva, essa è organizzata sul principio gerarchico, e la gerarchia del comando e del potere coincide sempre più con la gerarchia dei salari e dei redditi. Di modo che le persone non arrivano quasi più ad immaginarsi che potrebbe essere diversamente, e che potrebbero essere esse stesse qualcosa di diversamente definito che dal loro posto nella piramide gerarchica.

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Malta, La Dea dormiente

I difensori del sistema attuale cercano di giustificarlo come il solo "logico", "razionale", "economico". Abbiamo già cercato di mostrare che questi "argomenti" non valgono nulla e non giustificano nulla, che essi sono falsi presi ognuno separatamente e contraddittori quando li si considera nel loro insieme. Avremo l'occasione di ritornare sul questo tema. Ma si presenta anche il sistema attuale come il solo possibile, lo si pretende imposto dalle necessità della moderna produzione, dalla complessità della vita sociale, la grande scala di tutte le attività, ecc. Cercheremo di mostrare che non è vero, e che l'esistenza di una gerachia è radicalmente incompatibile con l'autogestione. 

 

AUTOGESTIONE E GERARCHIA DEL COMANDO

 

Decisione collettiva e problema della rappresentazione

 


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Kupka, Resistenza o l'Idolo Nero, 1903


44.gifCosa significa, socialmente, il sistema gerarchico? Che uno strato della popolazione dirige la società e che gli altri non fanno che eseguire le sue decisioni; di modo che, questo strato, ricevendo i redditi più grandi, approfitta della produzione e del lavoro della società molto più di altri. In breve, che la società è divisa tra uno strato che dispone del potere e dei privilegi, ed il resto, che ne è privo. La gerarchizzazione -o la burocratizzazione - di tutte le attività sociali non è oggi che la forma, sempre più preponderante, della divisione della società. Come tale, è allo stesso tempo risultato e causa del conflitto che lacera la società.

 la greve 12Se le cose stanno così, diventa ridicolo domandarsi: l'autogestione, il funzionamento e l'esistenza di un sistema sociale autogestito è compatibile con il mantenimento della gerarchia? Tanto vale chiedersi se la soppressione dell'attuale sistema penitenziario attuale sia compatibile con il mantenimento delle guardie carcerarie, degli ufficiali e dei direttori carcerari, ciò che è ovvio è bene venga detto esplicitamente. Tanto più che, da millenni, si è fatto entrare negli spiriti delle persone sin dalla loro pìù tenera infanzia l'idea che è "naturale" che gli uni comandino e gli altri obbediscano, che gli uni abbiano il superfluo e gli altri appena il necessario.

Noi vogliamo una società autogestita. Cosa significa ciò? Una società che si gestisce, cioè che si dirige da se stessa. Ma ciò deve essere ancor maggiormente precisato. Una società autogestita è una società in cui tutte le decisioni sono prese dalla collettività che è, ogni volta, considerata come oggetto delle sue decisioni. Vale a dire un sistema in cui coloro che compiono un'attività decidono collettivamente ciò che devono fare e come farlo, nei soli limiti che danno loro la loro coesistenza con altre unità collettive. Così, delle decisioni che riguardano i lavoratori di un laboratorio devono essere prese dai lavoratori di quest'officina; quelle che riguardano diversi laboratori alla volta, dall'insieme dei lavoratori coinvolti o dai loro delegati eletti e revocabili; quelle che riguardano l'intera impresa, da tutto il personale dell'impresa; quelle riguardanti un quartiere, dagli abitanti del quartiere; e quelle che riguardano l'intera società, dalla totalità delle donne e degli uomini che ci vivono.

 

Ma cosa significa decidere? 

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Steinlen, Lo sbirro (La Vache)  

 

Decidere, è decidere da sé. Non è lasciare la decisione a delle "persone competenti", sottoposti ad un vago "controllo". Non è nemmeno designare le persone che andranno, loro, a decidere. Non è perché la popolazione designa, una volta dopo un certo numero di anni, coloro che faranno le leggi, che essa fa le leggi. Non è perché designa dopo un certo numero di anni, colui che deciderà della politica del paese, che essa stessa decide di questa politica. Essa non decide, essa aliena il suo potere di decisione a dei "rappresentanti" o dei delegati che, per questo stesso fatto, non sono e non possono essere i suoi rappresentanti o dei delegati, attarverso le differenti collettività, come anche l'esistenza di organi- comitati o consigli- formati da tali delegati sarà, in un certo numero di casi, indispensabile. Ma non sarà compatibile con l'autogestione soltanto se questi delegati rappresentano veramente la collettività di cui essi stessi sono emanazione, e questo implica che rimangono sottoposti al suo potere. Il che significa, a sua volta, che quest'ultima non soltanto li elegge, ma può anche revocarli ogni volta che essa lo giudica necessario.

Dunque, dire che vi è gerarchia del comando formato da "persone competenti" ed in principio inamovibili; o dire che vi sono dei rappresentanti" inamovibili per un dato periodo di tempo (e che, come l'esperienza dimostra, diventano praticamente inamovibili per sempre), è dire che non vi è autogestione, nemmeno "gestione democratica". Ciò equivale infatti a dire che la collettività è diretta da persone la cui direzione degli affari comuni è oramai diventata l'affare specializzato ed esclusivo, e che, di diritto o di fatto, sfuggono al potere della collettività.

 

Decisione collettiva, formazione ed informazione

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Gustave Doré, Il Leviatano, da La Bibbia, 1874

 

D'altra parte, decidere, è decidere per conoscenza di causa. Non è più la collettività che decide, anche se formalmente essa "vota", se qualcuno o qualcuna dispongono da soli delle conoscenze e delle informazioni pertinenti. Ma anche, che possano definire se stessi dei criteri a partire dai quali essi decidono. È per fare ciò, che essi dispongono di una formazione sempre più ampia. Ora, una gerarchia del comando implica che coloro che decidono possiedono - o piuttosto pretendono di possedere- il monopolio delle informazioni e della formazione, ed in ogni caso, che essi vi hanno un accesso privilegiato. La gerarchia è basata su questo fatto, ed essa tende costantemente a riprodurlo. Perché in un'organizzazione gerarchica, tutte le informazioni salgono dalla base al vertice e non ridiscendono più, né circolano (di fatto, esse circolano, ma controle regole dell'organizzazione gerarchica). Allo stesso modo, tutte le decisioni scendono dal vertice verso la base, che non ha che da eseguirle. Ciò equivale pressappoco a dire che vi è gerarchia del comando e dire che queste due circolazioni si fanno ognuna a senso unico: il vertice raduna ed assorbe tutte le informazioni che salgono verso esso e non ridifonde agli esecutori che lo stretto necessario all'esecuzione degli ordini che rivolge loro e che emanano soltanto da esso. In una tale situazione, è assurdo pensare che potrebbe esserci autogestione o anche "gestione democratica".

 

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Frontespizio di ll Leviatano di Hobbes, 1651. 

 

Come possiamo decidere, se non disponiamo di informazioni necessarie per decidere bene? E come possiamo impararea decidere, se si è sempre ridotti ad eseguire ciò che altri hanno deciso? Non appena una gerarchia del commando si instaura, la collettività diventa opaca per se stessa, e si verifica un enorme spreco. Diventa opaca, perché le informazioni sono trattenute al vertice. Uno spreco si verifica, perché i lavoratori non informati o mal informati non sanno ciò che dovrebbero sapere per condurre bene il loro compito, e soprattutto perché le capacità collettive di dirigersi, così come l'inventività e l'iniziativa, formalmente riservate al comando, sono ostacolate ed inibite a tutti i livelli. 


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Steinlen, da: "L'Assiette au Beurre", 1902

 

Dunque, volere l'autogestione- o anche la "gestione democratica", se la parola democrazia non è utilizzata per gli scopi semplicemente decorativi- e voler mantenere una gerarchia del comando è una contraddizione in termini. Sarebbe molto più coerente, sul piano formale, dire, come fanno i difensori del sistema attuale: la gerarchia del comando è indispensabile, dunque, non ci può essere società autogestita.

Soltanto, ciò è falso. Quando esaminiamo le funzioni della gerarchia, cioè a cosa essa serve, constatiamo che, per una gran parte, esse non hanno senso e non esistono che in funzione del sistema sociale attuale, e che le altre, quelle che conserverebbero un senso ed una utilità nel sistema sociale autogestito, potrebbero facilmente essere collettivizzate. Non possiamo discutere, nei limiti di questo testo, la questione in tutta la sua ampiezza. Tenteremo di chiarirne alcuni aspetti importanti, riferendci soprattutto all'organizzazione dell'impresa e della produzione.

   

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Steinlen, da: "L'Assiette au Beurre", 1902

 

 

Una delle funzioni più importanti della gerarchia attuale è di organizzare la costrizione. Nel lavoro, ad esempio, che si tratti di officine o di uffici, una parte essenziale dell'"attività" dell'apparato gerarchico, dei capi squadra sino alla direzione, consiste nel sorvegliare, controllare, sanzionare, imporre direttamente o indirettamente la "disciplina" e l'esecuzione conforme degli ordini ricevuti da coloro che devono eseguirli. E perché bisogna organizzare la costrizione, perché occorre che vi sia la costrizione? Perché i lavoratori non manifestano spontaneamente un entusiasmo straripante per fare quanto la direzione vuole che essi facciano. E questo perché? Perché né il loro lavoro, né il suo prodotto appartengono loro, perché si sentono alienati e sfruttati, perché non hanno deciso essi stessi ciò che devono fare e come farlo, né ciò che avverrà di quanto essi hanno fatto; in breve, perché c'è un conflitto sociale perpetuo tra coloro che lavorano e coloro che dirigono il lavoro degli altri e ne approfittano. In somma dunque: bisogna che ci sia gerarchia, per organizzare la costrizione- e bisogna che ci sia costrizione perché ci sia divisione e conflitto, cioè affinché ci sia anche la gerarchia. In genere, si presenta la gerarchia come se esistesse per regolare i conflitti, mascherando il fatto che l'esistenza della gerarchia è essa stessa fonte di un conflitto perpetuo. Perché finché vi sarà un sistema gerarchico, vi sarà, per questo fatto stesso, rinascita continua di un conflitto radicale tra uno strato dirigente e privilegiato, e le altre categorie, ridotte a dei ruoli di esecuzione.

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Fotogramma da Tempi modernidi Charlie Chaplin, 1936.

 

Si dice che se non ci fosse costrizione, non vi sarebbe nessuna disciplina, che ognuno farebbe ciò che vorrebbe e sarebbe il caos. Ma ciò non è nient'altro che un sofisma. La questione non è di sapere se occorre della disciplina, o anche a volte la costrizione, ma quale disciplina, decisa da chi, controllata da chi, sotto quali forme e per quali scopi. Più gli scopi che servono una disciplina sono estranei ai bisogni ed ai desideri di coloro che devono realizzarli, più le decisioni concernenti questi scopi e le forme della disciplina sono esteriori e più vi è bisogno di costrizione per farli rispettare. Una collettività autogestita non è una collettività senza disciplina, ma una collettività che decide essa stessa la sua disciplina e, nel caso del fallimento, delle sanzioni contro coloro che la violano deliberatamente. Per quanto riguarda in particolare il lavoro, non si può discutere seriamente la questione presentando l'impresa autogestita come rigorosamente identica all'impresa contemporanea tranne il fatto che si sarebbe tolto il guscio gerarchico.

 

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Fotogramma dal film Metropolis di Fritz Lang, 1927.

 

Nell'impresa contemporanea, si impone alle persone un lavoro che è loro estraneo e sul quale essi non hanno nulla da dire. La cosa straordinaria non è che essi vi si oppongono, ma che non vi si oppongono  affatto nella maggior parte dei casi. Non si può credere un solo istante che il loro atteggiamento nei confronti del lavoro rimarrebbe lo stesso quando la relazione al loro lavoro sarà trasformata e che essi cominceranno a diventarne i padroni. D'altra parte, anche nell'impresa contemporanea, non c'è una disciplina, ma due. Vi è la disciplina che a colpi di costrizioni e di sanzioni finanziarie o altre l'apparato gerarchico tenta costantemente di imporre. E c'è la disciplina, molto meno apparente ma non meno forte, che sorge all'interno dei gruppi di lavoratori di una squadra o di un'officina e che fa ad esempio sì che né coloro che ne fanno troppo né coloro che non fanno abbastanza siano tollerati. I gruppi umani non sono mai stati e non sono mai dei agglomerati caotici di individui mossi unicamente dall'egoismo ed in lotta gli uni contro gli altri, come vogliono farlo credere gli ideologi del capitalismo e della burocrazia che non esprimono così che la loro propria mentalità. Nei gruppi, ed in particolare coloro che sono chiamati ad un compito comune permanente sorgono sempre delle norme di comportamento ed una pressione collettiva che le fa rispettare.

  

Autogestione, competenza e decisione

 

Veniamo ora all'altra funzione essenziale della gerarchia, che appare come indipendente dalla struttura sociale contemporanea: le funzioni decisionali e direzionali. La domanda che si pone è la seguente: perché le collettività considerate non potrebbero compiere esse stesse questa funzione, dirigersi da se stesse e decidere da sé, perché occorrerebbe uno strato particolare di persone, organizzate a parte, che decidono e che dirigono? A questa domanda, i difensori dell'attuale sistema forniscono due genere di risposte: una si appoggia sull'invocazione del "sapere" e della "competenza": bisogna che coloro che sanno, o coloro che sono competenti, decidano. L'altra afferma, con parole più o meno velate, che bisogna in ogni modo che qualcuno decida, perché altrimenti sarebbe il caos, detto altrimenti perché la collettività sarebbe incapace di dirigersi da sé.

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Nessuno contesta l'importanza del sapere e della competenza, né, soprattutto che oggi un certo sapereed una certa competenza sono riservati ad una minoranza. Ma, anche in questo caso, questi fatti non sono invocati che per coprire dei sofismi. Non sono coloro che possiedono più sapere e competenza in generale che dirigono il sistema attuale. Chi dirige, sono coloro che si sono mostrati capaci di ascendere nell'apparato gerarchico o coloro che, in funzione della loro ordine familiare e sociale, sono stati sin dall'inizio posti sulla buona strada dopo aver ottenuto qualche diploma. In entrambi i casi, la "competenza" che si esige per mantenersi o arrampicarsi nell'apparato gerarchico riguarda molto più la capacità di difendersi e di vincere nella concorrenza che si sferrano gli individui, cosche e clan in seno all'apparato gerarchico-burocratico, che l'attitudine a dirigere un lavoro collettivo.

In secondo luogo, non è perché qualcuno o qualcuna possiedono un sapere o una competenza tecnica o scientifica, che il miglior modo di utilizzarli è di affidar loro la direzione di un insieme di attività. Si può essere un eccellente ingegnere nella propria specialità senza per questo  essere capaci di "dirigere" l'insieme di un dipartimento di una fabbrica. Non c'è del resto che da constatare quanto accade attualmente a questo proposito. Tecnici e specialisti sono generalmente confinati nei loro campi particolari. i "dirigenti" si circondano di alcuni consiglieri tecnici, raccolgono i loro pareri sulle decisioni da prendere (pareri che spesso divergono tra loro) ed infine "decidono". Si vede chiaramente l'assurdità dell'argomento. Se il "dirigente" decidesse in funzione del suo "sapere" e della sua "competenza", dovrebbe essere erudito e competente a proposito di tutto, sia direttamente sia per decidere quale, tra i pareri divergenti degli specialisti, sia il migliore. Ciò è evidentemente impossibile ed i dirigenti optano di fatto arbitrariamente, in funzione del loro "giudizio". Ora questo "giudizio" di uno solo non ha alcuna ragione di essere maggiormente valida del giudizio che si formerebbe in una collettività autogestita, a partire da un'esperienza reale infinitamente più ampia di quella di un solo individuo.

 

Autogestione, specializzazione e razionalità

  

Sapere e competenza sono per definizione specializzati e lo diventano sempre più ogni giorno. Uscito dal suo campo speciale, il tecnico o lo specialista non è più capace di chiunque altro di prendere una buona decisione. Anche all'interno del suo campo particolare, del resto, il suo punto di vista è fatalmente limitato. Da una parte, egli ignora gli altri campi, che sono necessariamente in interazione con il suo e tende naturalmente a trascurarli. Così, nelle imprese così come nelle attuali amministrazioni, la questione del coordinamento "orizzontale" dei servizi di direzione è un incubo perpetuo. Si è giunti, da tanto tempo , a creare degli specialisti del coordinamento per coordinare le attività degli specialisti della direzione- che si rivelano così incapaci di dirigere se stessi. Da una parte  e soprattutto, gli specialisti posti nell'apparato direttivo sono per questo motivo separati dal reale processo produttivo, da quanto accade, delle condizioni nelle quali i lavoratori devono effettuare il loro lavoro. La maggior parte del tempo, le decisioni prese dagli uffici dopo elaborarti calcoli, perfetti sulla carta, si rivelano inapplicabili così come sono, perché non hanno tenuto sufficientemente conto delle condizioni reali nelle quali avrebbero dovuto essere applicate. Ora queste condizioni reali, per definizione, soltanto la collettività dei lavoratori le conosce. Tutti sanno che questo fatto è, nelle imprese contemporanee, una fonte di conflitti perpetue e di uno spreco immenso.

 

Kafka, il Processo, fotogramma
Fotogramma da Il processo di Orson Welles tratto da Kafka

 

Per contro, sapere e competenza possono essere razionalmente utilizzate se coloro che li possiedono sono reimersi nella collettività dei produttori, se diventano una delle componenti delle decisioni che questa collettività avrà da prendere. L'autogestione esige la cooperazione tra coloro che possiedono un sapere o una competenza particolare e coloro che assumono il lavoro produttivo nel senso stretto. È totalmente incompatibile con una separazione di queste due categorie. È soltanto se una tale cooperazione si instaura che questo sapere e questa competenza potranno essere pienamente utilizzate; mentre, oggi, non sono utilizzate che per una piccola parte, poiché coloro che le possiedono sono confinati  a dei compiti limitati, strettamente circoscritti dalla divisione del lavoro all'interno dell'apparato di direzione. Soprattutto, soltanto questa cooperazione può assicurare che sapere e competenza saranno messe effettivamente al servizio della collettività e non per fini particolari.

Una tale cooperazione potrà svolgersi senza che dei conflitti sorgano tra gli "specialisti" e gli altri lavoratori? Se uno specialista afferma, a partire del suo sapere specializzato, che un certo metallo, perché possiede tali proprietà, è il più indicato per quell'utensile o quel pezzo, non si vede perché ed a partire da cosa ciò potrebbe sollevare delle obiezioni gratuite da parte degli operai. Anche in questo caso, del resto, una decisione razionale esige che gli operai non siano estranei- ad esempio, perché i proprietari del materiale scelto svolgono un ruolo durante la lavorazione dei pezzi e degli utensili. Ma le decisioni veramente importanti riguardanti la produzione comportano sempre una dimensione essenziale relativa al ruolo ed al posto degli uomini nella produzione. A proposito di ciò, non esiste- per definizione- nessun sapere e nessuna competenza che possa dominare il punto di vista di coloro che avranno da effettuare realmente il lavoro. Nessuna organizzazione di una catena di montaggio o di assemblaggio può essere né razionale né accettabile se è stata decisa senza tener conto del punto di vista di coloro che vi lavoreranno. Perché non ne tengono conto, queste decisioni sono attualmente quasi sempre traballanti, e se la produzione funziona comunque, è perché gli operai si organizzano tra di loro per farla andare, trasgredendo le regole e le istruzioni "ufficiali" sull'organizzazione del lavoro. Ma, anche le si suppongono "razionali" dal pubto di vista stretto dell'efficacia produttiva, queste decisioni sono inacettabili precisamente perché esse sono, e non possono che essere, esclusivamente basate sul principio dell'"efficacità produttiva". Ciò significa che esse tendono a subordinare integralmente i lavoratori al processo di produzione, ed a trattarli come dei pezzi del meccanismo produttivo. Ora questo non è dovuto alla cattiva direzione, alla sua stupidità e nemmeno semplicemente alla ricerca del profitto. (A riprova che l'"Organizzazione del lavoro" è rogorosamente la stessanei paesi dell'Est e nei paesi occidentali). Ciò è la conseguenza diretta ed inevitabile di un sistema in cui le decisioni sono prese da altri rispetto a coloro che le dovranno realizzare; un tale sistema non può avere un'altra "logica".

Ma una società autogestita non può seguire questa "logica". La sua logica è ben altra, è la logica della liberazione degli uomini e del loro sviluppo. La collettività dei lavoratori può ben decidere - e a nostro avviso, avrebbe ragione di farlo- che per essa, delle giornate di lavoro meno faticose, meno assurde, più libere e più felici sono infinitamente preferibili di qualche pezzo in più di cianfrusaglia. E, per tali scelte, assolutamente fondamentali, non c'è alcun criterio "scientifico" o "oggettivo" che valga: il solo criterio è il giudizio della collettività stessa su ciò che essa preferisce, a partire dalla sua esperienza, dai suoi bisogni e dai suoi desideri.

Ciò è vero su scala della società intera. Nessun criterio "scientifico" permette a chicchessia di decidere che è preferibile per la società di avere l'anno prossimo più tempo libero piuttosto che più consumi o l'inverso, una crescita più rapida o meno rapida, ecc. Colui che dice che tali criteri esistono è un ignorante o un impostore. Il solo criterio che in questi campi ha un senso, è che gli uomini e l edonne che formano la società vogliono, e ciò, soltanto essi possono deciderlo e nessuno al loro posto.

 

 

Testo scritto in collaborazione con Daniel Mothé e pubblicato in CFDT Aujourd’hui, n° 8, luglio-agosto 1974.
Ripreso in Le contenu du socialisme
, UGE 10/18, 1979.

 

LINK al post originale:
Autogestion et gérarchie
 

LINK interno ad un altro saggio di Castoriadis:

Sul regime e contro la difesa dell'URSS, 1946 

 

LINK ad un intervista a Catoriadis in 6 puntate:

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31 maggio 2010 1 31 /05 /maggio /2010 22:08

Per prima cosa, tengo a scusarmi con i miei pochi lettori per la brutalità delle immagini scelte per illustrare questo post, ma ritengo sia bene ricordare come gli stalinisti di ogni risma sino a poco tempo fa (e persino i nostalgici di oggi), illustravano ideologicamente il paese di Bengodi da essi edificato a prezzo di carneficine inimmaginabili e carcerazione sociale a vita nel loro cosiddetto paradiso socialista.

Detto ciò, non è senza orgoglio che presento un altro scritto inedito di quella mente fervida e ipercritica che fu Maximilien Rubel, datato 1946, (un vero pezzo da archeologia intellettuale) e quindi addirittura precedente l'inizio della grande stagione di Socialisme ou Barbarie, (su cui avremo modo di tornare prestissimo), con traduzioni di scritti da quella stessa rivista e saggi storico critici che illustrino quell'importante serbatoio di critica ed analisi storico-sociologica ed elaborazione ideologica, nonché la figura ed i contributi teorici di Rubel stesso.

 

 


 

 

 

Sul regime e contro la difesa dell’U.R.S.S.



di Cornelius Castoriadis



La politica rivoluzionaria che, un tempo, consisteva essenzialmente nella lotta contro gli strumenti diretti del dominio borghese (Stato e partiti borghesi), si è da molto tempo complicata con l'apparizione di un nuovo compito non meno fondamentale: la lotta contro i propri partiti che la classe operaia si era creati per la sua liberazione e che, in un modo o nell'altro, lo avevano tradito.
 
Questo processo di putrefazione permanente dei vertici ha assunto una tale importanza che è impossibile elaborare oggi una politica rivoluzionaria coerente ed efficace senza possedere una concezione netta della sua natura e della sua dinamica. L'esperienza fondamentale su questo punto si formula così: la socialdemocrazia, creata in un periodo in cui il proletariato e la borghesia erano le sole forze di polarizzazione, le sole fonti di potenza autonome sulla scena politica, non poteva tradire il primo per passare nel campo dell'altra, che seguendo una politica sempre più apertamente borghese.
 
Lo stalinismo per contro, per quanto abbia mostruosamente tradito la rivoluzione proletaria, non seguì non di meno una linea politica indipendente ed una strategia autonoma ed opposta a quella della borghesia, non meno che a quella del proletariato. Dove si trova la causa di questo fenomeno e come potremmo venire a capo degli ostacoli che crea alla rivoluzione? Dalla giusta soluzione di questo problema dipende tutto nel momento attuale. Ma questa soluzione è possibile solo se si parte dall'analisi realista e priva di ogni pregiudizio dottrinario della società in cui lo stalinismo si è pienamente realizzato e da cui trae la maggior parte della sua virulenza politica- della società sovietica.
 
 
 
I. La società sovietica

 

a: L'economia 

urss-20-218-.jpgSe è incontestabile che non si può comprendere la società sovietica se non analizzandone le basi economiche, non è meno vero che per lo studio delle sue basi è indispensabile sbarazzarsi di ogni formalismo giuridico. Sino ad oggi, infatti, si credeva aver detto l'essenziale su questa economia quando si menzionavano la nazionalizzazione e la pianificazione che ne costituiscono i tratti dominanti; poi, senza chiedersi quale significato reale hanno acquisito questi tratti nell'insieme dialettico della via sociale sovietica, si indicavano le parti corrispondenti al programma socialista e si gridava trionfalmente: per lo meno, le basi socialiste sussistono nell'economia sovietica.

urss.jpgUn abbozzo di ragionamento simile, che dimentica che le realtà sociali ed economiche si trovano molto spesso al di là della formula giuridica che le copre, avrebbe portato a riconoscere la realizzazione perfetta dell'eguaglianza civica nella democrazia borghese, la cui impostura è stata molte volte denunciata da Lenin; avrebbe portato ad ignorare anche lo sfruttamento che ha luogo nella società capitalista, poiché il diritto borghese ignora a parole il capitale, il plusvalore, ecc; ci avrebbe condotto dall'analisi economica materialista di Marx al giuridicismo dei classici e del XVIII secolo.  

urss-20-205-.jpgSi tratta dunque, nello studio dell'economia sovietica, come in quella di ogni altra economia, di sapere come si effettuano, attraverso ed al di là del camuffamento giuridico, la produzione e la distribuzione, altrimenti detto: chi dirige la produzione e, di conseguenza, chi possiede l'apparato della produzione e, chi ne trae vantaggio?

Le categorie sociali fondamentali tra le quali si svolgono i processi economici sono:

 -il proletariato, formato dall'insieme dei lavoratori che sono incaricati di un semplice lavoro di esecuzione;

  -l'aristocrazia operaia, che comprende l'insieme dei lavoratori qualificati;

 -la burocrazia, che raggruppa le persone che non partecipano al lavoro di esecuzione ed assumono la direzione del lavoro degli altri.

 

urss-20-219-.jpgEvidentemente, come sempre, i limiti tra queste tre categorie non sono rigide. Questa distinzione è essenzialmente basata su un criterio tecnico; ma questa base tecnica è necessariamente legata a delle conseguenze economiche, sociali e politiche. Perché su questa distinzione è fondata in URSS la soluzione dei due problemi capitali di ogni organizzazione economica: il problema della direzione della produzione e quello della sua ripartizione. 

urss-20-222-.jpgLa direzione della produzione è unicamente affidata alla burocrazia. Né l'aristocrazia operaia né il proletariato prendono alcuna parte a questa direzione. Questa direzione avviene, anche all'interno della burocrazia, in maniera dittatoriale, che non concede al burocrate medio che dei margini di iniziativa estremamente limitati in quanto alla concretizzazione della parte del piano che riguarda il suo settore. Questo in quanto alla forma. In quanto all'essenza, e cioè in quanto a sapere quali sono le direzioni che imprime il vertice burocratico al processo economico e quali sono le considerazioni coscienti, inconsce o imposte dalle cose che dettano, lo esamineremo dopo. 

urss-20-449-.jpgLe condizioni di validità della legge del valore (principalmente: proprietà ed appropriazione privata, contabilità separata di ogni impresa, libertà del mercato, ecc.) difettano nell'economia sovietica. D'altra parte, la pianificazione, combinata dalla statizzazione ed abbracciante l'insieme dell'economia, fa sì che l'automatismo economico è sostituito, all'interno di certi quadri molto generali, dalla direzione umana cosciente dell'economia. È per questo che possiamo dire che, nell'economia sovietica, della legge del valore non resta che questa formula molto generale, che il valore dell'insieme dei prodotti è eguale alla somma del lavoro astratto socialmente necessario alla loro produzione.

urss-20-691-.jpgA parte ciò, è l'arbitrio burocratico che regola la distribuzione, cioè che determina i salari; quest'arbitrio non conosce che due limiti economici obiettivi: per quel che riguarda il lavoro semplice, il salario non può essere inferiore al minimo vitale (limite inoltre estremamente elastico, come l'esperienza dei due primi piani quinquennali hanno dimostrato);- per quel che riguarda il lavoro qualificato, il salario si determina secondo la rarità relativa di questa specie di lavoro, tenendo conto dei bisogni del consumo o di quelli considerati come tali dal piano. A parte ciò, l'arbitrio burocratico regola tutto, legato evidentemente dalle leggi psicologiche di godimento ottimale da considerazioni di politica generale. All'interno della burocrazia, la distribuzione si fa seguendo i rapporti di forza, similmente al modo in cui si effettua la distribuzione del plusvalore totale tra i gruppi ed i trust imperialisti.

urss-20-414-.jpgLa dinamica di questa economia è caratterizzata dall'assenza di crisi organiche, effetto della pianificazione quasi completa. Il suo equilibrio, di conseguenza, non può essere messo in causa che dall'effetto dei fattori esterni, il che sembra dovere, se un giorno essa dovesse giungere a dominare il pianeta, conferirle una stabilità interna mai prima conosciuta nella storia.

Quando vogliamo definire questa forma economica diventa evidente che essa non presenta nessuna analogia con l'economia capitalista, perché, malgrado la persistenza dello sfruttamento e la monopolizzazione della direzione della produzione da parte di uno strato sociale, le leggi economiche vi sono forzatamente differenti; d'altra parte, dei quattro elementi fondamentali ed indivisibili dell'economia socialista e cioè:

 abolizione della proprietà privata;

 pianificazione;

 Abolizione dello sfruttamento;

direzione della produzione da parte dei produttori;

essa non presenta (e sotto forti riserve) che i primi due, i meno importanti; invece di avvicinarsi sempre più alla realizzazione di questi scopi fondamentali, l'economia sovietica li ha completamente abbandonati- senza avvicinarsi per ciò al modo di produzione capitalista. Né capitalista né socialista e nemmeno in marcia verso una di queste due forme, l'economia sovietica presenta un nuovo tipo storico, il cui nome poco importa in realtà quando se ne conosce la sostanza.

 

b: La politica

urss-20-477-.jpgIn quanto al regime politico, il suo carattere totalitario è stato molte volte descritto che è superfluo insistervi sopra. Bisogna semplicemente menzionare che questo regime, accanto alla dittatura poliziesca, comporta un'ascendente ideologico sulle masse, una "statizzazione delle idee", tale che essa autorizza a parlare di "alterazione della coscienza delle masse" nella società sovietica nel momento attuale.

 

c: "Stato operaio degenerato"

È chiaro che la denominazione di uno Stato di fatto è una semplice convenzione e che tutti i termini sono validi, a condizione che ci si intenda sul loro contenuto e che essi non comportino dei pericolosi malintesi attraverso i loro effetti politici. È da questo punto di vista che deve essere affrontato e condannato il termine "Stato operaio degenerato" impiegato a proposito dell'URSS. La struttura di quest'espressione implica che il fatto fondamentale dell'attuale realtà sovietica si trovi nel suo carattere di Stato operaio e che, per spiegare alcune sfumatura, si debba ricorrere alla nozione di degenerazione. Ora, non c'è nulla del genere. La degenerazione è da molto tempo superata poiché è giunta alla maturità completa; l'evoluzione è giunta a tal punto che, attraverso la creazione di nuove forme con dei nuovi contenuti, permette di afferrare il fenomeno nel suo attuale funzionamento per così dire "indipendentemente" dalla sua provenienza.

 

urss-20-279-.jpgLa statizzazione e la pianificazione svolgono oggi un ruolo fondamentale nell'economia sovietica; ma dire che, nel loro attuale contenuto, esse bastano a dare un carattere anche un po' "operaio" allo Stato sovietico; vuol dire attribuire un significato al diritto indipendentemente dal reale processo economico, è sostituire l'analisi economica marxista ad un giuridicismo astratto; è ancora separare l'economico dal politico in un modo schematico ed inaccettabile per lo studio dell'epoca attuale. Se la statizzazione in URSS basta per conferire a questo Stato il nome (preso con un significato attivo) di "Stato operaio in degenerazione", perché le statizzazioni di un paese borghese non basterebbero a conferirgli il nome di Stato operaio in gestazione?

 

urss_staline.jpgLa questione non è di sapere se ci sia statizzazione, ma per chi ed a profitto di chi è instaurata o mantenuta questa statizzazione. Se nella società capitalista classica la potenza economica rimane distinta dal potere politico e se lo appropria in quanto oggetto esterno ad essa, il processo storico ha rovesciato poco a poco questo schema: già durante l'epoca imperialista la distinzione, tanto reale quanto personale, del potere politico e del potere economico, appariva come caduco; nella società sovietica è impossibile persino concepirla. Una situazione tecnica ed economica determina una struttura politica, che, da questo momento, regge l'economia, mentre l'importanza dell'automatismo delle leggi economiche diminuisce sempre più. È per questo che il solo criterio permettente di dare una definizione sociologica dell'URSS è il seguente: chi detiene il potere politico ed a profitto di chi lo esercita? La risposta a questa domanda non può essere che la seguente: il potere politico (e di conseguenza, anche la potenza economica) è detenuta da uno strato sociale i cui interessi sono assolutamente contraddittori nella sostanza con quelli del proletariato sovietico e che esercita questo potere per i suoi propri interessi contro-rivoluzionari. Questo strato non ha nulla in comune con la classe operaia, né con la classe capitalista. Essa costituisce, così come lo Stato che essa dirige e che essa esprime, una nuova formazione storica.

 

 II : La politica rivoluzionaria in U.R.S.S.

 

a: Rivoluzione politica o rivoluzione sociale 

urss-20-478-.jpgLa strategia e la tattica della IV Internazionale e della sua sezione russa verso questo stato di cose deve essere nettamente ed interamente rivoluzionaria. La questione di sapere se possiamo definire in modo scolastico la rivoluzione da compiere in URSS come una rivoluzione politica o sociale presenta poco interesse, se ci rendiamo conto dei compiti da realizzare. Bisogna per di più comprendere che il fondo pratico di questa distinzione non si trova nella necessità di effettuare oppure non una trasformazione dei rapporti di proprietà, ma in questo: possiamo conservare l'apparato statale con dei semplici cambiamenti nel personale dirigente ed i posti di responsabilità (rivoluzione politica) oppure quest'apparato dev'essere spezzato e ricostruito di nuovo in forme nuove (rivoluzione sociale)? Ora, è evidente che è questo secondo caso che si presenterà in URSS quando la classe operaia rovescerà Stalin.

urss-3.jpgPoiché la struttura reale dello Stato sovietico non conserva essenzialmente nulla che possa differenziarlo in generale da non importa quale altro apparato storico di dominio da una classe sull'altra. Quando la rivoluzione sarà compiuta in URSS, bisognerà non soltanto sostituire il partito al potere con il nostro, non soltanto far rivivere o piuttosto rinascere gli strumenti del potere operaio, i soviet (perché i soviet di oggi non ne hanno che il nome), ma bisognerà creare anche dei nuovi strumenti di controllo, perché uno dei fattori favorevoli allo sviluppo della burocrazia consiste nel fatto che durante il periodo 1917-1923 la direzione bolscevica non ha potuto esprimere praticamente tutta la diffidenza che doveva ispirargli questa burocrazia. Quel che Trotsky chiama il secondo aspetto della rivoluzione permanente e che concerne la rivoluzione socialista stessa, il cambiamento continuo di pelle, deve trovare la sua applicazione anche nella regolamentazione dei rapporti politici e statali dopo la vittoria della rivoluzione.

b: Difesa dell'URSS e rivoluzione

urss-mascherine.jpgI grandi punti della strategia e della tattica rivoluzionarie rimangono dunque validi anche per la rivoluzione anti-burocratica, con riserva di adattamento adeguato. È quel che detta oggi imperiosamente l'abbandono della parola d'ordine della "difesa dell'URSS". Anche per coloro che ammettono l'esistenza di basi socialiste nell'economia sovietica, è chiaro che la salvezza finale di queste vestigia dipende dalla vittoria della rivoluzione su scala mondiale e che l'ostacolo n° 1 per questa vittoria si trova nella burocrazia staliniana. La lotta contro questa burocrazia costituisce dunque il compito fondamentale per il proletariato sovietico. Questa lotta in tempo di guerra è compatibile con la "difesa dell'URSS"? Evidentemente no. Sviluppare questa lotta significa ad esempio gli scioperi, le manifestazioni, minare l'apparato di repressione e inceppare il funzionamento in generale dell'apparato statale, provocare l'insurrezione nell'esercito, ritirare i reggimenti in rivolta dal fronte e farli marciare sulla capitale, ecc. La guerra, come la rivoluzione, è un blocco. Non si può condurre l'una che abbandonando l'altra. La "lotta sui due fronti" rileva della strategia da cattedra e non è mai esistita in pratica, perché inevitabilmente arriva il momento in cui l'una delle due lotte dovrà prevalere sull'altra.

urss-20-300-.jpgCi si chiede molto spesso: possiamo augurare la vittoria di un imperialismo sullo stalinismo, si può rimanere indifferenti al risultato della lotta che avrebbe come conseguenza di abolire le "basi socialiste" dell'economia sovietica? Si può rispondere molto facilmente domandando in cosa l'esistenza di queste basi costituisce oggi un fattore favorevole per lo sviluppo della rivoluzione mondiale. Si potrebbe anche evidenziare che queste obiezioni dimostrano una mentalità arretrata, che crede all'importanza distaccata di vittorie o di non-sconfitte locali ed isolate per venti o trenta anni, indipendentemente dal processo internazionale.

Ma il fatto essenziale si trova altrove. Si trova nell'ignoranza completa dell'ABC del marxismo di cui danno prova le persone  che credono che all'epoca attuale una rivoluzione in tempo di guerra sia possibile all'interno di un paese senza che ciò implichi un'alta temperatura rivoluzionaria mondiale e senza che la vittoria di questa rivoluzione trascini anche per gli altri paesi una crisi capace per lo meno di legare le mani ad un intervento contro-rivoluzionario. È nei fatti questa considerazione che ha dettato o che doveva dettare la nostra politica disfattista all'interno dei paesi in guerra contro l'Asse. È anche questa fiducia nelle nostre idee e nella solidarietà internazionale del proletariato che deve guidare la nostra politica in URSS.

Beninteso, non si tratta di sostituire ora e su scala internazionale la propaganda difensista con la propaganda disfattista. La parola d'ordine della "rivoluzione indipendentemente da ogni rischio di sconfitta" è una parola d'ordine che ha un significato principalmente per la sezione russa. Per l'Internazionale in generale sarebbe inopportuno e pericoloso sottolineare in un modo speciale e di farne un punto centrale di propaganda. Senza mai perdere di vista la solidarietà internazionale del movimento, il proletariato di ogni paese deve lottare contro i suoi propri carnefici. Quel che importa oggi per L'Internazionale, è di avere una concezione chiara della natura dello stalinismo e di sbarazzarsi della deprecabile confusione creata dalla coesistenza mostruosa delle parole d'ordine "rivoluzione contro la burocrazia" e "difesa dell'URSS".

 

Nota sulla tesi Lucien, Guérin, Darbout

 

urss-20-731-.jpgQuesta tesi, con delle conclusioni pratiche con le quali siamo d'accordo (abbandono del "difensismo", disfattismo rivoluzionario in URSS), presenta accanto a delle lacune (mancanza di giustificazione del disfattismo, mancanza di un saggio di legame organico tra il fenomeno  della degenerazione russa e la società capitalista), alcuni errori a nostro avviso molto essenziali perché se ne dicano poche parole.

Dopo aver, a giusto titolo, criticato il giuridicismo dovuto alla formula delle leggi invece di osservare la realtà economica, e dopo aver detto in sostanza che la collettivizzazione dell'economia sovietica non significa nulla a causa dell'espropriazione politica del proletariato, i compagni L., G., e D. scrivono a proposito delle nazionalizzazioni in Europa orientale "che esse non differiscono assolutamente da quelle che possiamo vedere in Europa occidentale". Ora, precisamente in questo caso è l'espropriazione politica della borghesia che rende queste nazionalizzazioni significative: la monopolizzazione, effettuata o in corso, del potere politico da parte dei partiti comunisti in questi paesi, rende la burocrazia staliniana padrona dei mezzi di produzione nazionalizzati, allo stesso modo, in generale, come lo è la burocrazia russa, benché in modalità diverse. Il che mostra ancora una volta che lo stalinismo persegue in questi paesi, sotto una prospettiva di breve i medio periodo, la politica che conduce su scala mondiale con una prospettiva di lungo termine, e cioè, una politica di assimilazione.

urss-20-211-.jpgIl che ci porta ad un altro errore fondamentale dei compagni L., G., e D., consistente nell'identificare l'antitesi stalinismo-imperialismo con non importa quale antitesi imperialista; il che implica un'indifferenza in quanto al regime interno dei paesi occupati dall'Armata rossa e alle differenze fondamentali, della proposizione  propria dei compagni, che presenta con quella dei paesi occupati dall'imperialismo; il che ci lascia completamente al buio quando si tratta di sapere perché lo stalinismo si appoggia, nella sua lotta contro gli imperialisti, sul movimento operaio degli altri paesi. I compagni comprendono perfettamente che il regime sovietico non è socialista e che non è obbligato per questo ad essere capitalista; perché non possono comprendere che la sua politica estera, per non essere rivoluzionaria, può ben essere non capitalista, e cioè anticapitalista? È per questo il termine "espansionismo burocratico" è di molto preferibile a quello di "imperialismo", sfumato in non importa quale modo.

 

Maximilien Rubel

 

 

[Traduzione di Ario Libert]

 

 

  

LINK al post originale:
Sur le régime et contre la défense del l'U.R.S.S.

 

LINK interni:

Maximilien Rubel, Karl Marx e il socialismo populista russo, (1947)

 

 

LINK al progetto di scannerizzazione totale della rivista Socialisme ou Barbarie:

Socialisme ou Barbarie

    

 

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