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18 luglio 2024 4 18 /07 /luglio /2024 09:00

Le divergenze di principio tra Rosa Luxemburg e Lenin

Paul Mattick

Rosa Luxemburg e Lenin si sono formati entrambi all'interno della socialdemocrazia di cui furono figure eminenti. Le loro opere individuali dovevano non soltanto esercitare una notevole influenza sui movimenti operai russi, polacchi e tedeschi, ma avere anche una portata storica universale. Perché entrambi incarnarono l'opposizione al revisionismo e al riformismo insiti nella Seconda Internazionale, e i loro nomi restano indissolubilmente legati alla riorganizzazione del movimento operaio durante e dopo la guerra mondiale. Questi marxisti, dalla personalità eccezionale, che non separarono mai la teoria dalla pratica, furono – per riprendere un'espressione cara a Rosa Luxemburg – delle «candele accese da entrambi i lati».

Pur essendosi assegnati una missione identica – e cioè, far uscire il movimento operaio dalla palude in cui si trovava impantanato e lanciarlo all'assalto del capitalismo – Luxemburg e Lenin presero strade diverse, se non addirittura opposte. Senza che la stima reciproca che hanno sempre avuto l'uno per l'altro si indebolisse, essi si scontrarono aspramente sulle questioni fondamentali della strategia e dei principi rivoluzionari. È lecito affermare sin d'ora che su molti punti essenziali le loro rispettive concezioni differiscono come il giorno dalla notte o, più esattamente, come i problemi della rivoluzione borghese e i problemi della rivoluzione proletaria. Ora che entrambi sono scomparsi, non è raro vedere dei leninisti incoerenti tentare, per ragioni politiche, di riconciliare Lenin e Rosa Luxemburg, e di minimizzare ciò che li opponeva l'un l'altro; ma non si tratta che di incredibili falsificazioni della storia, che servono soltanto ai falsificatori e soltanto per un certo periodo di tempo.

Ciò che unì Luxemburg e Lenin, fu la lotta contro il riformismo di prima del 1914 e contro lo sciovinismo in cui la socialdemocrazia internazionale oscillò sin dalla dichiarazione di guerra. Ma questa identità di vedute non doveva impedire alla controversia di manifestarsi con il massimo vigore tra di loro. Le loro divergenze riguardavano il corso che la rivoluzione doveva seguire e dunque, la tattica essendo essa inseparabile dai principi, il contenuto e la forma del nuovo movimento operaio. Se è noto che entrambi furono nemici giurati del revisionismo (il che spesso portò ad associare i loro nomi), non per questo oggi non si può farsi un'idea precisa di queste divergenze. Da una decina di anni, la Terza Internazionale ha senza dubbio usato e abusato il nome di Rosa Luxemburg, nel quadro delle crisi politiche che la scuotono continuamente e, più in particolare, dell'offensiva da essa lanciata contro il “lussemburghese controrivoluzionario”, come ci compiace a chiamarlo [1]. Ma nulla è stato fatto per chiarire la controversia. In generale, non si tiene a «disseppellire» il passato. Come la socialdemocrazia tedesca che, adducendo la «mancanza di denaro», rifiutò un giorno di pubblicare le opere del Lussemburgo [2], la Terza Internazionale finì per rinnegare la promessa - fatta a suo nome da Clara Zetkin [3] - di assicurare la pubblicazione di queste stesse opere. Tuttavia, di fronte alla concorrenza, la Terza Internazionale non manca di reclamare a sé Rosa Luxemburg, ogni volta che ciò le sembra opportuno.

In quanto alla socialdemocrazia, ha spesso il coraggio di parlare con voce spezzata dalla commozione della "grande rivoluzionario che si è ingannata" e che è caduta vittima della sua «foga» e non degli infami mercenari di Noske, il vecchio compagno di partito [4]. Quando, dopo l'esperienza di queste due Internazionali, alcuni pretendono non soltanto di costruire un movimento nuovo e veramente rivoluzionario, ma anche di trarre profitto dalle lezioni del passato, si limitano a ridurre le divergenze in questione a un disaccordo sulla questione nazionale, la quale, peraltro, avrebbe toccato esclusivamente dei problemi di ordine tattico relativo all'indipendenza della Polonia. A tal fine, ci si dà da fare per attenuare la controversia, per farne un caso emblematico e per concludere proclamando, contrariamente all'evidenza, che Lenin è uscito vittorioso dalla polemica.

Tuttavia, la questione nazionale rimane inseparabile dagli altri problemi sui quali Luxemburg e Lenin si sono combattuti. Essa è, infatti, più strettamente connessa con tutte le altre questioni riguardanti la rivoluzione mondiale; ma ha il vantaggio di far risaltare meglio la divergenza fondamentale: l'antagonismo inconciliabile della concezione giacobina della rivoluzione e della sua concezione proletaria. Quando, di fronte agli errori nazionalisti dell'era stalinista della Terza Internazionale, riteniamo opportuno, sull'esempio di Max Shachtman [5], di riprendere le idee di Rosa Luxemburg, dobbiamo anche considerarle giustificate in relazione a quelle di Lenin. La politica della Terza Internazionale è indubbiamente cambiata su molti punti dalla morte di Lenin, ma sulla questione nazionale è rimasta fondamentalmente leninista. Un leninista non può che prendere una posizione opposta a quella della Luxemburg, di cui non è soltanto l'avversario in materia di teoria, ma anche il nemico mortale. Al contrario, la posizione della Luxemburg è incompatibile con il bolscevismo leninista e, di conseguenza, chiunque si rifaccia a Lenin non potrebbe allo stesso tempo invocare Rosa Luxemburg a sostegno delle sue tesi.

L'opposizione al riformismo

Lo sviluppo del capitalismo mondiale, l'espansione imperialista, la graduale monopolizzazione dell'economia e i sovraprofitti ad essa collegati, dovevano permettere la formazione provvisoria di un'aristocrazia operaia, l'instaurazione di una legislazione del lavoro e un miglioramento generale della condizione proletaria. Da qui l'ascesa del revisionismo e i progressi del riformismo all'interno del movimento operaio. Al marxismo rivoluzionario – invalidato, si diceva, dalla prosperità capitalista – si sostituì la teoria della realizzazione progressiva del socialismo grazie alla democrazia. Da quel momento il movimento operaio ufficiale poté svilupparsi e raccogliere l'adesione di una massa di piccoli borghesi; quest'ultimi presero presto la direzione intellettuale e condivisero, con gli operai privilegiati, i vantaggi materiali legati alle carriere che si offrivano così alle loro ambizioni. Verso la fine del secolo, i cosiddetti “marxisti ortodossi”, guidati da Kautsky, condussero una lotta contro questa evoluzione una lotta che rimase puramente verbale e che d'altronde fu presto abbandonata. Tra i più importanti teorici di quest'epoca, Luxemburg e Lenin furono tra i pochi che proseguirono senza sosta, a favore di un movimento operaio realmente marxista, una lotta implacabile, prima contro il riformismo dichiarato, poi anche contro il riformismo «ortodosso».

Non è esagerato affermare che di tutte le critiche al revisionismo, l'attacco lanciatogli contro dalla Luxemburg fu il più vigoroso e il più efficace. Polemizzando con Bernstein [6], sottolineò ancora una volta, di fronte alle tesi assurde dei sostenitori del legalismo a tutti i costi, «che è impossibile trasformare i rapporti fondamentali della società capitalista, che sono quelli del dominio di una classe sull'altra, per mezzo di riforme giuridiche che ne rispetterebbero il fondamento borghese» [7]. La riforma sociale, sostenne inoltre, ha come funzione non di «limitare la proprietà capitalista, ma al contrario di proteggerla. O ancora – economicamente parlando – non costituisce un attacco allo sfruttamento capitalista, ma un tentativo di normalizzarlo” [8]. Lungi dal condurre al socialismo, il capitalismo sta crollando, sostiene Rosa Luxemburg, ed è questo crollo che i lavoratori devono affrontare, non attraverso la riforma, ma attraverso la rivoluzione. Ciò non significa che si debbano trascurare le questioni del momento; i marxisti rivoluzionari sostengono anch'essi le lotte quotidiane dei lavoratori ma, a differenza dei revisionisti, essi si interessano al modo in cui la lotta è condotta molto più che ai suoi obiettivi immediati. Per i marxisti, il problema del momento consiste nel far progredire i fattori soggettivi, la coscienza di classe rivoluzionaria, attraverso le lotte sindacali e politiche. Porre la questione della riforma e della rivoluzione come termini che si escludono a vicenda significa porre il problema in modo errato; per quanto vi sia opposizione tra di loro, si deve posizionarla nel suo giusto contesto, il progresso sociale. La lotta per le rivendicazioni immediate non deve farci perdere di vista l'obiettivo finale: la rivoluzione proletaria [9].

Poco tempo dopo, Lenin a sua volta attaccò il revisionismo in un modo sostanzialmente simile. Anche lui vedeva nelle riforme dei sottoprodotti, in un certo senso, della lotta per la conquista del potere politico. Per quanto riguarda sia la lotta contro la mutilazione del marxismo che la lotta rivoluzionaria per la conquista del potere politico, le sue concezioni concordavano dunque con quelle di Rosa Luxemburg. E' soltanto nel quadro generale della rivoluzione russa del 1905, quando la situazione pose all'ordine del giorno la lotta rivoluzionaria per il potere e ne fece una questione scottante, da affrontare da un punto di vista più concreto, che delle divergenze si manifestarono per la prima volta tra di loro. Ecco perché il conflitto esplose a proposito di questioni di natura tattica: i problemi organizzativi e la questione nazionale.

La questione nazionale

Come Kautsky, che fu per molti aspetti il ​​suo mentore, Lenin era convinto del carattere progressista dei movimenti di indipendenza nazionali, aspettandosi – diceva – che «lo Stato nazionale offra indiscutibilmente le migliori condizioni per lo sviluppo del capitalismo» [10]. Sostenendo al contrario di Luxemburg che la parola d'ordine dell'autodeterminazione dei popoli è rivoluzionaria perché si tratta «di una rivendicazione che non differisce in alcun modo dalle altre rivendicazioni democratiche», Lenin proclamava: «In ogni nazionalismo borghese di una nazione oppressa, esiste un contenuto democratico, ed è questo contenuto che sosteniamo senza restrizioni» [11].

Come dimostrano numerosi passi delle sue opere, [12] l'atteggiamento di Lenin nei confronti della libera disposizione dei popoli e della questione nazionale è coerente con la sua posizione sulla conquista dei diritti democratici. Quest'ultima permette di capire la prima. Basterà citare a questo proposito quanto scrisse Lenin nelle sue «La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all'autodeterminazione (Tesi)": «Sarebbe radicalmente errato pensare che la lotta per la democrazia possa distogliere il proletariato dalla rivoluzione socialista, oppure farla dimenticare, oscurarla, ecc. Al contrario, come il socialismo non può essere vittorioso senza attuare una piena democrazia, così il proletariato non può prepararsi alla vittoria sulla borghesia senza condurre in tutti i modi una lotta conseguente e rivoluzionaria per la democrazia» [13].

Appare così chiaramente che agli occhi di Lenin movimenti e guerre a tendenze nazionaliste hanno come solo scopo di instaurare la democrazia, alle quali il proletariato deve partecipare perché, sempre secondo Lenin, la democrazia è un prerequisito obbligato alla lotta per il socialismo. «se si sviluppa la lotta per la democrazia, è possibile anche una guerra per la democrazia», egli dice, e, di conseguenza, “in una vera guerra nazionale, le parole 'difesa della patria' non sono affatto un inganno” [ 14]. Per questo Lenin afferma che in tal caso e «nella misura in cui la borghesia di una nazione oppressa lotta contro la nazione oppressore, noi siamo sempre “per”, in ogni caso e più risolutamente di chiunque altro»; e aggiunge: «perché noi siamo il nemico più audace e più coerente dell'oppressione» [15].

Lenin rimase fedele a questa concezione sino alla fine dei suoi giorni, e i suoi discepoli sino ad oggi, almeno nella misura in cui il potere bolscevico non correva (e non corre) il rischio di esserne danneggiato. La sola differenza, sicuramente lieve, tra il maestro e i suoi discepoli, è che se Lenin, prima della rivoluzione russa, considerava le guerre e i movimenti di liberazione nazionale come degli elementi del movimento generale per instaurare la democrazia, queste guerre e questi movimenti furono in seguito promossi come parti integranti del processo della rivoluzione proletaria mondiale.

Rosa Luxemburg considerava come fondamentalmente errate le tesi di Lenin, così come le abbiamo appena ricostituite. La Junius-broschüre, uscita durante la guerra, riassume così la sua concezione:«Finché esistono gli Stati capitalisti, finché soprattutto la politica imperialista universale determina e modella la vita interna ed esterna degli Stati, il diritto delle nazioni all'autodeterminazione è soltanto una parola vuota, in tempo di guerra come in tempo di pace. Molto di più: nell'attuale atmosfera imperialista non può esserci guerra di difesa nazionale e qualsiasi politica socialista che prescinda da questa atmosfera storica, che non vuole lasciarsi guidare, nel vortice universale, che dai punti di vista di un solo paese, è condannato in anticipo alla sconfitta» [16].

Mai, assolutamente mai, Rosa Luxemburg, fece la minima concessione a Lenin su questo argomento. Così, quando il diritto all'autodeterminazione fu posto in pratica, dopo la rivoluzione russa, si è domandata perché i bolscevichi mantenessero contro ogni grande difficoltà, con tanta caparbietà, una parola d'ordine «in palese contraddizione, non soltanto con il  centralismo d'altronde manifesto della loro politica , ma anche con l'atteggiamento che hanno adottato nei confronti di altri principi democratici (…). Questa flagrante contraddizione è tanto meno comprensibile in quanto le forme democratiche della vita politica in ogni paese (...) costituiscono effettivamente le basi più preziose, le basi indispensabili anche della politica socialista, mentre l'illustre "diritto delle nazioni all'autodeterminazione" è il dominio della vuota fraseologia e della mistificazione piccolo-borghese» [17].

Si trattava, a suo avviso, di una «varietà di opportunismo» avente lo scopo di «legare le molte nazionalità allogene, che costituivano l'impero russo, alla causa della rivoluzione», in breve un altro aspetto della politica opportunista adottato dai bolscevichi nei confronti dei contadini russi: «Si voleva soddisfare la loro fame di terra con la parola d'ordine di sequestro diretto delle proprietà signorili e di allearli così alla bandiera della rivoluzione e del governo proletario».

Sfortunatamente, proseguiva Rosa Luxemburg,«in entrambi i casi, il calcolo era totalmente sbagliato. Difensori dell'indipendenza nazionale, anche sino al separatismo, Lenin e i suoi amici pensavano chiaramente di fare della Finlandia, dell'Ucraina, della Polonia, della Lituania, dei paesi baltici, del Caucaso, ecc., altrettanti fedeli alleati della Rivoluzione russa. Ma abbiamo assistito allo spettacolo opposto: una dopo l'altra, queste “nazioni” hanno usato la libertà appena offerta per allearsi, come nemici mortali della rivoluzione russa, con l'imperialismo tedesco (…). Certamente, in tutti i casi citati, non sono le "nazioni" che praticano questa politica reazionaria, ma le classi borghesi e piccolo-borghesi che, in violenta opposizione con le loro masse proletarie, hanno trasformato il "diritto all'autodeterminazione nazionale" in strumento della loro politica di classe controrivoluzionaria. Ma - e qui tocchiamo il cuore del problema - questa formula nazionalista rivela il suo carattere utopico e piccolo-borghese, perché, nella dura realtà della società di classe, e soprattutto in un'epoca di esacerbati antagonismi, si trasforma in un mezzo di dominio delle classi borghesi» [18].

I bolscevichi non avevano dunque esitato ad agitare, in piena lotta rivoluzionaria, la questione delle aspirazioni nazionali e delle tendenze separatiste; ecco cosa, secondo Rosa Luxemburg, aveva «gettato confusione nei ranghi del socialismo». Ed in seguito effettuava questa dichiarazione: «“I bolscevichi hanno fornito l'ideologia per mascherare l'offensiva controrivoluzionaria; hanno rafforzato la posizione della borghesia e indebolito quella del proletariato (…). Era riservato agli antipodi dei socialisti di governo, ai bolscevichi, di condurre, grazie alla bella formula dell'autodeterminazione, l'acqua al mulino della controrivoluzione e di fornire così un'ideologia che permettesse non solo di schiacciare la stessa rivoluzione russa, ma anche di liquidare la guerra mondiale nel suo conformemente ai piani controrivoluzionari» [19].

 

Ci si può interrogare, dopo Rosa Luxemburg, sulle ragioni che hanno spinto Lenin a rimanere fedele alla formula del diritto dei popoli all'autodeterminazione e alla liberazione delle nazionalità oppresse. Questo slogan non era in palese contraddizione con le richieste della rivoluzione mondiale? E Lenin, come Rosa Luxemburg, era impegnato per innescare questa rivoluzione. Come tutti i marxisti del suo tempo, non credeva che la Russia, abbandonata a se stessa, fosse in grado di portare avanti fino in fondo la lotta rivoluzionaria. Ha condiviso la tesi di Marx-Engels secondo la quale «se la rivoluzione russa diventa il segnale di una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che le due rivoluzioni si completino, l'attuale proprietà comune russa può diventare il punto di partenza di un'evoluzione comunista» [20]. Lenin non era dunque soltanto convinto che i comunisti dovevano prendere il potere in Russia; era altrettanto convinto che la rivoluzione russa non poteva portare al socialismo che alla condizione di conquistare l'Europa e, oltre essa, il mondo intero. Data la situazione oggettiva creata dalla guerra, l'idea di una Russia che resistesse alle potenze imperialiste da sola, senza il sostegno di una rivoluzione in Europa occidentale, non poteva sfiorarlo, non più di Rosa Luxemburg. Quest'ultima era d'altronde categorica: «Beninteso, essi [i Russi] non potranno mantenersi in questo sabba infernale» [21]. Questa diagnosi non aveva semplicemente come base ciò di cui sapeva essere capaci Lenin e Trotsky, sulla sfiducia che le loro sparate aberranti sul diritto dei popoli all'autodeterminazione, la loro politica di concessioni ai contadini e al resto. Non gli era dettato nemmeno dal rapporto di forze esistente tra la Russia rivoluzionaria e le potenze imperialiste, e non derivava affatto da una concezione analoga a quella dei socialdemocratici che, statistiche in mano, si divertivano a dimostrare che lo stato arretrato dell'economia russa non giustificava né una rivoluzione né le permetteva il socialismo.

La ragione profonda del suo pessimismo era soprattutto il fatto che "la socialdemocrazia di questo Occidente sviluppato in modo superiore è composta da abietti codardi che, come pacifici spettatori, faranno perdere tutto il sangue ai Russi" Inoltre, pur criticando i bolscevichi per via delle esigenze della rivoluzione mondiale; lei ha sostenuto la loro causa; non ha mancato di sottolineare, ad esempio, che se i bolscevichi hanno subito gravi rovesci economici, è perché il proletariato dell'Europa occidentale non ha fatto niente per aiutarli. "Oh si! i bolscevichi!" esclamava. "Naturalmente non mi incantano affatto con il loro fanatismo per la pace [allusione a Brest-Litovsk. PM]. Ma in fin dei conti, non è colpa loro. Sono in una situazione di costrizione: non possono scegliere che tra due mali e scelgono il minore. Altri sono responsabili del fatto che il diavolo a trarre profitto dalla rivoluzione russa" [22].

Paul Mattick, 1935

 

NOTE

* Articolo di Paul Mattick pubblicato in Rätekorrespondenz (settembre 1935) e in International Coucil Correspondence (luglio 1936). Tradotto dall'inglese da Serge Bricianer e pubblicato in Intégration capitaliste et rupture ouvrière (EDI, 1972).

[1] Sappiamo che durante gli anni 30 era comune, nella Russia stalinista, assimilare al "luxemburghismo", il "trotskismo", il "menscevismo" e ad altre correnti di opposizione, e che il crimine del "luxemburghismo" era punibile con la pena di morte; Stalin stesso elencò gli "errori" di Rosa Luxemburg in una lettera che indirizzò nel 1931 alla rivista Proletarskaya Revoliutsia (N.d.T. francese).
[2] Cfr. la lettera indirizzata il 6 gennaio 1916 da Rosa Luxemburg alla redazione della Neue Zeit.
[3] Cfr. C. Zetkin, Um Rosa Luxemburgs Stellung zur russischen Revolution (pubblicato nel 1921 dalla casa di edizioni dell'Internazionale comunista, C. Hoym ad Hambourg). [Il Comitato centrale della S.E.D., il partito dirigente della Germania dell'Est, ha infine cominciato la pubblicazione delle opere complete di Rosa Luxemburg. Gli altri due tomi del primo volume sono usciti nel 1970, N. d. A., 1971].
[4] Comme une foule d’articles commémoratifs parus dans la presse social-démocrate l’atteste.
[5] M. Shachtman, «Lenin and the Rosa Luxemburg»
, The New International, mars 1935 [Rivista teorica del partito trotskista americano, di cui Shachtman fu uno dei «padri fondatori». N.d.T. francese].
[6], [7], [8], [9] Riforma sociale o rivoluzione?
[10] e [11] Du doit des nations à disposer d’elles-mêmes (1914), in: Lénine, Questions de la politique nationale et de l’internationalisme prolétarien, Moscou, 1968; (Sul diritto delle nazioni all’autodecisione).
[12] Cfr., ad esempio: Une caricature du marxisme et à propos de l’ «économisme impérialiste» (1916) in: Lénine, Œuvres, Moscou-Paris (s.d.), tome 23; (Intorno a una caricatura del marxismo e all’“economicismo imperialistico").

[13] cfr. Lenin,
La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all'autodecisione (Tesi), in: Opere complete, vol. 22, pp. 147-160 (scritto nel gennaio-marzo 1916. Pubblicato nel Vorbote, n. 2, aprile 1916. Pubblicato in russo nel Sbornik Sotsial-Demokrata, n. 1, ottobre 1916).
[14] Lenin, Intorno a una caricatura del marxismo e all’“economicismo imperialistico".

[15] Lenin, Sul diritto delle nazioni all’autodecisione, Opere Scelte, vol. 1, Edizioni in lingue estere, Mosca, 1947, pag 538-583 (pubblicato nella rivista Prosvestcenie, n. 4-5-6, nel  1914).

[16] R. Luxemburg, La crise de la démocratie socialiste (1916). Raymond Renaud, Paris, 1934, p. 121.
[17], [18], [19] Rosa Luxemburg, La Révolution russe (La Rivoluzione russa).

[20] K. Marx e F. Engels, prefazione alla seconda edizione russa (1882) del Manifesto comunista, trad. Molitor, Paris, p. 46.
[21] Cfr., Rosa Luxemburg, Lettres à Karl et Louise Kautsky, trad. Stchoupak et Desrousseaux, Paris, 1925, p. 244.
[22] Id., p. 255.
[23] La Révolution russe, p. 89.
[24] Karl Liebknecht, Militarisme, guerre, révolution  (Militarismo, guerra, rivoluzione).
[25] E. Varga, Die wirtschaftspolitischen Probleme der proletarischen Diktatur, Hambourg, 1921.
[26] La Tragédie russe, (La tragedia russa), Spartakusbriefe, 11, settembre 1918, trad. francese in: Œuvres II, pp. 50-52.
[27] Queste righe, non lo si dimentichi, furono scritte poco tempo dopo l'entrata in guerra della Russia alla Società delle Nazioni e la firma del patto Stalin-Laval (N. d. T. francese).
[28] N. Bucharin, discorso au IV Congresso dell'Internazionale communista (novembre 1922).
[29] M. Shachtman, «Lenin and Rosa Luxemburg», op. cit.
[30] «Du Défaitisme dans la guerre impérialiste» (1915), in: N. Lénine e G. ZINOVIEV, Contre le courant, trad. V. Serge et M. Parijanine, Parti, 1927, I, p. 116.
[31] Lénine, «Sur le rôle de l’or…», Œuvres, 33, p. 107.
[32] La Révolution russe, p. 67.
[33] La révolution russe, p. 89.

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16 maggio 2024 4 16 /05 /maggio /2024 17:00

La teoria dell'accumulazione della Luxemburg

 

Raya Dunajevskaja

Capitolo primo: Le sue divergenze con Marx e Lenin
L'accumulazione del capitale [1] di Rosa Luxemburg è una critica della Teoria della Riproduzione Allargata di Marx analizzata da questi nel Volume II del Capitale. Il problema dell'accumulazione del capitale è stato sempre il tema centrale della economia politica. È stato il soggetto del dibattito tra Ricardo e Malthus, tra Say e Sismondi, tra Engels e Rodbertus e tra Lenin ed i populisti (narodniki). La Luxemburg occupa una cospicua, ma non invidiabile, posizione in questo dibattito - quella di una rivoluzionaria acclamata dagli economisti borghesi per aver fornito "la formulazione più chiara del problema della domanda effettiva" prima della Teoria generale dell'impiego, dell'interesse e della moneta di Keynes. È tipico notare che gli economisti borghesi discutevano nel 1645 il problema del mercato, problema sul quale i marxisti discutevano trent'anni fa. Prima del 1914 il controllo statale della produzione ed il problema della accumulazione non erano stati posti così acutamente come oggi in termini di declino del saggio del profitto. La borghesia di allora riteneva che l'accumulazione fosse un problema risolvibile con l'espansione dei mercati. È vero che la Luxemburg pose il problema in questi termini, ma la sua preoccupazione principale anche allora era quella del crollo del capitalismo. Tuttavia, metodicamente, essa si staccò dal marxismo nell'analisi del problema dell'accumulazione del capitale, ed era inevitabile pertanto che arrivasse a false conclusioni. Ciò che fa di queste il problema del giorno è che le sue conclusioni sono ripetute non soltanto dagli economisti borghesi ma anche dentro al movimento rivoluzionario marxista. La preoccupazione attuale di "clienti" e di "mercati" può avere una migliore risposta attraverso un riesame della teoria di accumulazione capitalista di Marx e della deviazione della Luxemburg da essa.
1) Premessa
Das KapitalDa quando fu pubblicato il II Volume del Capitale il centro della discussione sulla riproduzione allargata è stata la presentazione diagrammatica di Marx di come il plusvalore viene realizzato in una società capitalista ideale. Per comprendere le formule bisogna capire la premessa sulla quale esse sono costruite: una società capitalistica chiusa, ossia una società isolata dominata dalla legge del valore. Per Marx il conflitto fondamentale in una società capitalistica è quello tra il capitale ed il lavoro; tutti gli altri elementi sono subordinati. Se così è nella vita, allora la prima necessità nella teoria, molto più che nella società, e quella di porre il problema, puramente e semplicemente, come un problema tra capitalista e lavoratore. Da cui l'accettazione del concetto di una società consistente soltanto di capitalisti e di lavoratori. Da cui l'esclusione di terzi gruppi e, come lui stesso afferma ripetutamente [3], l'esclusione del commercio estero, come non avente niente a che fare fondamentalmente con il conflitto tra lavoratore e capitalista. Una società capitalista si distingue da tutte le altre società precedenti in quanto è una società producente-valori. La legge del valore non ha niente in comune con il fatto che nelle altre società di classe al lavoratore venivano pagati i suoi mezzi di sussistenza. Qui la sete per le ore di lavoro non pagato deriva dalla natura stessa della produzione e non dalla ghiottoneria del padrone. Il valore, cioè il tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione delle merci cambia costantemente a causa delle incessanti rivoluzioni tecnologiche nella produzione, e questa è una sorgente senza fine di disturbi delle condizioni di produzione così come delle relazioni sociali e distingue il capitalismo da tutti gli altri modi di produzione. La società capitalistica isolata di Marx è dominata da questa legge del valore e Marx non ci permette di dimenticare che questa legge è legge di mercato mondiale: "L'industriale ha sempre il mercato mondiale davanti i suoi occhi; egli raffronta e deve continuamente paragonare i suoi prezzi di costo con quelli del mondo intero e non solo con quelli del suo mercato interno" [4].

Così, mentre Marx esclude il commercio estero, ciò nonostante egli pone la sua società ambito, del mercato mondiale. Queste sono le condizioni del problema. Quale ne è lo scopo?

2) Lo scopo

Le famose formule di Marx nella parte III del II Volume erano concepite per servire due scopi.

Da una parte, egli desiderava esporre l'incredibile aberrazione di Adamo Smith, che aveva vaporizzato, la parte costante del capitale dividendo la produzione sociale totale non per c (capitale costante), v (capitale variabile) e sv (plusvalore), ma soltanto per v ed s.

Dall'altra parte Marx desiderava rispondere all'argomento dei sottoconsumatori che la continua accumulazione di capitale era impossibile a causa della impossibilità di "realizzare plusvalore", ossia di vendere [5].

Marx spende un tempo apparentemente interminabile nell'esporre l'errore di Smith. E ciò perché si tratta del grande confine che separa sia l'economia politica borghese, sia la critica piccolo-borghese dal socialismo scientifico. L'errore di Smith divenne parte del dogma dell'economia politica perché corrispondeva agli interessi di classe della borghesia accettare quell'errore. Se, come sosteneva Smith, la porzione costante del capitale, in ultima analisi si dissolve in salari, allora i lavoratori non hanno bisogno di combattere contro la temporanea appropriazione delle ore di lavoro non pagate. Ad essi basta soltanto aspettare affinché il prodotto del loro lavoro si dissolva in salari. Marx prova che è vero il contrario. Non soltanto e non si «dissolve in salari», ma esso stesso diventa la vera strumentazione attraverso la quale il capitalista guadagna il suo potere sul lavoratore.

Nel demolire la teoria del sottoconsumo, Marx dimostra che non vi è una connessione diretta tra la produzione ed il consumo. Ecco le parole di Lenin:

«La differenza tra la visione degli economisti piccolo borghesi e la visione di Marx non consiste nel fatto che i primi realizzano in generale la connessione tra la produzione ed il consumo nella società capitalistica, e lui non lo fa. (Ciò sarebbe assurdo). La distinzione consiste in questo, che gli economisti piccolo borghesi considerano il legame tra produzione e consumo come un legame diretto ossia che la produzione segue il consumo. Marx indica che la connessione è soltanto indiretta, che risulta connessa soltanto nell'istanza finale, perché nella società capitalista il consumo segue la produzione".[6].

I seguaci del sottoconsumo costruirono il concetto della preponderanza della produzione sul consumo per arrivare al collasso automatico della società. Là dove i classici videro soltanto la tendenza verso l'equità, i critici piccolo borghesi vedono solo la tendenza via dall'equilibrio. Marx dimostra che tutte e due le tendenze sono inestricabilmente connesse.

3) I due settori della produzione sociale e le condizioni per la riproduzione allargata

Per illustrare il processo di accumulazione o di riproduzione allargata, Marx divide la produzione sociale in due settori principali; nel primo la produzione dei mezzi di produzione e nel secondo la produzione dei mezzi di consumo.

La divisione è sintomatica e rispecchia la divisione in classi della società. Marx categoricamente rifiutò di dividere la produzione sociale in più di due settori, per esempio, in un terzo settore per la produzione dell'oro, per quanto l'oro non sia né un mezzo di produzione né un mezzo di consumo, ma piuttosto un mezzo di circolazione. Si tratta tuttavia di un problema interamente al postulato base di una società chiusa nella quale esistono soltanto due classi e i pertanto i soltanto due decisive divisioni della produzione sociale. Sono le premesse che definiscono i limiti del problema. La relazione i due settori non è soltanto una relazione tecnica, essa ha le sue' radici relazione di classe tra il lavoratore ed il capitalista.

Il plusvalore non è uno spirito incorporeo che ondeggia tra il ciclo e la , è i incorporato i nei mezzi di produzione come nei mezzi di consumo. separare il plusvalore dai mezzi di produzione o dai mezzi di consumo è tentativo che conduce all'ideologia piccolo; borghese del sottoconsumo. Citiamo nuovamente Lenin:

«Il postulato che il capitalista non può realizzare il plusvalore è soltanto una ripetizione volgarizzata delle elucubrazioni di Smith rispetto al realizzo in generale. Soltanto parte del plusvalore consiste di mezzi di consumo; l'altra parte consiste di mezzi di produzione. Il consumo di quest'ultima parte viene realizzato i attraverso la produzione. Pertanto i populisti che predicano l'impossibilita di realizzare plusvalore devono logicamente riconoscere l'impossibilità di realizzare «il capitale costante» e così ritornare ad Adamo Smith» [7]

Questo concetto è fondamentale per l'intera concezione di Marx. Taglia attraverso tutte le varietà di mercati. Il punto di Marx è che la forma valore predetermina la destinazione delle merci. Il ferro non viene consumato dagli uomini, ma dall'acciaio; lo zucchero non viene consumato dalle macchine ma dalla gente. Il valore è indifferente rispetto all'uso dal quale è nato, ma deve essere incorporato in valori d'uso per venir realizzato. Soltanto il valore d'uso dei mezzi di produzione - scrive Marx - indica quanto sia «la determinazione dei valori d'uso nella determinazione degli ordini economici.» (8)

Nell'ordine economico capitalista i mezzi di produzione formano la parte maggiore dei due settori della produzione sociale; e perciò anche del «mercato». Negli Stati Uniti, per esempio, il 90 per cento della ghisa viene consumato dalle compagnie che la producono; il 50 per cento del mercato per i prodotti dell'industria dell'acciaio è l'industria dei trasporti.

È impossibile avere la più lieve comprensione delle leggi economiche della capitalista senza essere fermamente consci del ruolo della forma materiale del capitale costante. Gli elementi materiali della produzione seme della riproduzione - forza lavoro, materie prime e mezzi di produzione - sono gli elementi della riproduzione allargata. Per produrre maggiore Quantità di prodotti, occorrono più mezzi di produzione. Questa e non quella del «mercato» è la differenza specifica della riproduzione allargata.

Marx procede ulteriormente ad affermare l'importanza chiave della forma materiale del prodotto ai fini della riproduzione allargata, incominciando la sua illustrazione della riproduzione allargata con un diagramma che indica che «per quanto concerne il suo valore» la riproduzione allargata non è che riproduzione semplice.

Non è la quantità, ma la destinazione degli elementi dati della riproduzione semplice che viene cambiata, e attesta cambiamento è la base materiale susseguente riproduzione.

«La difficoltà nel comprendere la riproduzione allargata non consiste nella forma-valore della produzione, ma nel confronto, del valore con la sforma materiale» [9].

Il concetto di Marx è che - per non perdersi in s un circolo vizioso di prerequisiti - di dover andare costantemente al mercato con le merci prodotte e ritornare dal mercato con le merci acquistate - occorre porre il problema della riproduzione allargata nella sua «semplicità».

Questo può esser fatto rendendosi conto di due semplici fatti:

  1. che la legge di produzione capitalista comporta l'aumento della popolazione lavoratrice da cui consegue che, mentre parte del plusvalore deve essere incorporato nei mezzi di consumo e trasformato in capitale varia con il quale si comprerà ulteriore forza lavoro, quella forza lavoro sarà sempre disponibile;
  2. che la produzione capitalistica crea il suo proprio mercato - la ghisa è per l'acciaio, l'acciaio per la costruzione di macchine, ecc. e pertanto, per quanto si riferisce al mercato del capitale, i capitalisti sono i migliori clienti di se stessi ed i migliori compratori dei prodotti.

Pertanto conclude Marx l'intera complessa questione delle condizioni di riproduzione allargata può essere ridotta alla domanda seguente: può il plusprodotto nel quale il plusvalore è incorporato andare direttamente (senza essere prima venduto) in una produzione ulteriore? La risposta di Marx è la seguente: Non è necessario che quest'ultimo venga venduto; esso può in natura entrare nella nuova produzione (10).

Marx stabilisce che il prodotto sociale totale non può essere o «mezzi di produzione» o «mezzi di consumo»; vi è una preponderanza di mezzi di produzione sui mezzi di consumo. E non si tratta che è così, ma che deve essere così, perché i valori di uso prodotti nella società capitalistica non sono quelli usati dai lavoratori e nemmeno quelli usati dai capitalisti, ma quelli usati dal capitale. Non sono gli uomini che realizzano la parte maggiore del plusvalore; essa viene realizzata attraverso l'espansione costante del capitale costante. La premessa della riproduzione semplice - una società composta solamente di lavoratori e di capitalisti - rimane la premessa della riproduzione allargata. Contemporaneamente il plusvalore rimane unicamente determinato dalla differenza tra il valore del prodotto e il valore della forza lavoro. La legge del valore continua a dominare sulla riproduzione allargata. L'intero problema del secondo volume così discusso è di render chiaro che la realizzazione non è un problema di mercato, ma un problema di produzione. Il conflitto nella produzione e pertanto nella società è il conflitto tra il capitale ed il lavoro. Questa è la ragione per la quale Marx non ha mai voluto allontanarsi dalla sua premessa.

Capitolo secondo: la critica di Rosa Luxembourg

1) La realtà contro la teoria

Il peso principale della critica della. Luxembourg contro la teoria di accumulazione di Marx fu diretto contro la sua assunzione di una società capitalistica chiusa. Essa diede a questa assunzione un significato a doppio uso: primo uno società composta soltanto di lavoratori ; secondo dominio del capitalismo sul mondo intero.

Marx tuttavia non considerò il dominio del capitale nel mondo intero, ma il suo comportamento in una singola e isolata nazione. Quando i critici della [11] fecero notare questo punto la Luxembourg gettò su di parole di fuoco. Nella sua «Anticritica» (12) la Luxembourg scrisse che parlare di una singola società capitalista era una assurdità fantastica caratteristica dei più crassi epigoni. Essa insistette che. Marx non poteva avere dei concetti così stratosferici nella sua mente. .Ciò nonostante, come fu messo in rilievo da Bukarin, la Luxembourg non solo interpretava male il concetto di Marx, ma travisava il semplice fatto che Marx aveva con molta chiarezza messo sulla carta:

«allo scopo di semplificare il problema della riproduzione allargata noi ci astrarremo dal commercio estero ed esamineremo una nazione isolata.» (13)

La Luxembourg d'altra parte argomentava che una precisa dimostrazione della storia avrebbe indicato che la riproduzione allargata non ha mai avuto luogo in una società chiusa; ma piuttosto attraverso una distribuzione ed una espropriazione di strati o società non capitalistiche. La Luxembourg erroneamente mise a confronto la realtà con la teoria; la sua critica sorse teoricamente da questo solo fondamentale errore. Essa venne tradita dai potente sviluppo storico dell'imperialismo che era in corso e sostituì alla relazione del capitale lavoro la relazione del capitalismo con il non capitalismo. Ciò la condusse a negare l'assunzione di Marx di una società chiusa. Una volta abbandonata premessa, base dell'intera teoria marxista non vi era altra via di uscita lei che quella di entrare nella sfera dello scambio e del consumo.

Che non vi sia alcuna possibile via d'uscita da questo dilemma viene rivelata in forma molto chiara dalla stessa Luxembourg. Alcune delle parti meglio scritte, nel suo libro «L'accumulazione» sono le descrizioni del reale progresso di accumulazione attraverso le conquiste dell'Algeria, dell'India; attraverso la guerra dei Boeri e la formazione dell'impero africano; la descrizione della guerra dell'oppio contro la Cina e dello sterminio degli indiani d'America; il sempre crescente commercio con le società non capitaliste e le analisi delle tariffe protettive e del militarismo.

La Luxembourg era talmente accecata dal potente fenomeno imperialista dei suoi giorni che non riuscì a vedere che tutto ciò non aveva niente a che fare con il problema posto nel volume secondo del Capitale che riguarda la maniera in cui il plusvalore viene realizzato in un mondo capitalista ideale, come non aveva niente a che fare con il reale processo di accumulazione che Marx analizza nel terzo volume, giacché il processo ideale di accumulazione è un processo capitalista, ossia un processo di produzione di valori.

La Luxembourg d'altra parte scriveva:

«La cosa più importante è che il valore non può essere realizzato né dai lavoratori, né dai capitalisti, ma soltanto da strati sociali che non producono capitalisticamente.» (14)

Non era per un semplice caso che la Luxembourg non poteva discutere la accumulazione capitalistica senza far entrare nel ragionamento altri modi di produzione. Gli errori di pensiero, perfino quando sono commessi da grandi marxisti, hanno una logica propria. Così come è impossibile nella attuale lotta di classe prendere una posizione tra la classe capitalistica ed il proletariato, è altrettanto impossibile prendere una posizione tra i due modi di pensiero che riflettono il ruolo delle due classi nel processo di produzione, per cui vi era soltanto una cosa teoricamente disponibile per lei quella di seppellire, come vedremo, l'intera distinzione della produzione del valore.

Il mercato contro la produzione

Perché si produce?

Secondo la Luxembourg i marxisti russi erano profondamente in errore quando pensavano che preponderanza del capitale costante sul capitale variabile rivelava da solo la specifica caratteristica legge della produzione capitalistica,

«per cui la produzione fine a se stessa, ed al consumo individuale è semplicemente una condizione sussidiaria.»

Per sollevare il consumo da questa posizione subordinata, la Luxembourg trasforma l'essenza interna del capitalismo in un semplice involucro. Il rapporto di c/v essa scrive, è semplicemente il linguaggio capitalistico della produttività generale del lavoro. Con un solo colpo di penna la Luxembourg priva il rapporto c/v - prudentemente isolato - dal suo carattere di classe. La produzione di valori perde il suo carattere specifico di una ben definita tappa nello sviluppo dell'umanità. La Luxembourg viene così portata a identificare c/v che il marxismo aveva considerato legge caratteristica specifica produzione capitalistica, con tutte le forme di produzione precapitalistiche; così pure con la futura organizzazione socialista (15).

Il passo inevitabile seguente è quello di svestire la forma materiale del capitalismo del suo carattere di classe. Mentre Marx costruisce la relazione tra il I Settore, che produce mezzi di produzione, ed il II Settore che produce mezzi di consumo, egli riflette le relazioni di classe inerenti al rapporto c/v, la Luxembourg invece parla di «rami della produzione» come se si trattasse termini puramente tecnici. Essa dapprincipio priva del suo contenuto di capitale la forma materiale del capitale, quindi la scarta perché non ha contenuto di capitale:

«L'accumulazione non è soltanto una relazione interna tra i due settori della produzione. È innanzitutto una relazione tra i capitalisti ed i settori non capitalisti.» (16)

La Luxembourg ha trasformato l'accumulazione del capitale da una sostanza derivata dal lavoro in un'altra il cui principale sostegno è una forza estranea: i settori non capitalisti. Per completare questa inversione della fonte principale dell'accumulazione capitalistica essa è costretta a rompere i confini della società chiusa, fuori della cui soglia era già uscita. La sua soluzione mette l'intero problema sulla propria testa, ed ora prega che noi abbandoniamo la soluzione di una società chiusa e che «permettiamo che il plusvalore venga realizzato fuori della produzione capitalistica».

Essa dice che questo passo rivelerà che dalla produzione capitalista possono emergere «sia mezzi di produzione che mezzi di consumo» (17).

Non esiste una legge che obbliga i prodotti della produzione capitalista ad essere l'uno e non l'altro. Difatti, afferma la Luxembourg, senza alcuna coscienza di quanto si stia allontanando dal metodo Marxista, la forma materiale non ha niente a che fare con i bisogni della produzione capitalista. La sua forma materiale corrisponde ai bisogni di quegli strati non capitalistici che rendono possibile il suo realizzo (18).

Differenze su ciò che determina la produzione

Per il marxismo è la produzione che determina il mercato. Invece la Luxembourg si trova in una posizione dove, pur accettando il marxismo, fa sì che sia il mercato a determinare la produzione. Una volta eliminata la fondamentale distinzione marxista tra mezzi di produzione e mezzi di consumo, quale indicativa di una relazione di classe, la Luxembourg è obbligata a guardare al mercato nel senso borghese della «domanda effettiva». Avendo perso di vista la produzione, cerca gli uomini. Giacché è ovviamente impossibile che i lavoratori ricomprino i prodotti da essi creati, essa cerca altri «clienti» per comperare questi prodotti.

Dopo essersi cosi allontanata dal metodo marxista, essa procede a rimproverare Marx per non aver usato questo punto di vista come punto di partenza. Essa scrive che la formula marxista sembra affermare che la produzione lavora per la produzione stessa. Come Saturno divorava i suoi bambini, così ogni cosa prodotta viene consumata interamente:

«Nello schema l'accumulazione viene effettuata senza che sia possibile vedere, in alcuni grado, per chi, per quali nuovi consumatori, abbia corso in ultima analisi questa continua espansione della produzione. I diagrammi presuppongono il seguente corso delle cose. L'industria del carbone si espande allo scopo di espandere l'industria dell'acciaio. Quest'ultima si espande per permettere l'espansione dell'industria metalmeccanica. L'industria metalmeccanica si espande allo scopo di contenere la sempre crescente armata di lavoratori del carbone, dell'acciaio e della metalmeccanica. E così all'infinito, in un circolo vizioso.» (19)

Grazie alla sua sostituzione del settore non capitalista alla società chiusa di Marx, la Luxembourg riesce a rompere questo «vizioso». Essa afferma che i capitalisti non sono dei fanatici e non producono per amore della produzione. Né le rivoluzioni industriali, né la «volontà» di accumulare sono sufficienti ad incrementare la riproduzione allargata: «È necessaria un'altra condizione, l'espansione della domanda effettiva» (20). Eccettuato il plusvalore che è necessario per sostituire il capitale fisso e quello necessario a fornire ai capitalisti il lusso, il plusvalore non può altrimenti saltar fuori dall'accumulazione, non può essere «realizzato». Ossia:

«Soltanto i capitalisti sono in condizione di realizzare la parte consumata del capitale fisso e la parte consumata del plusvalore. Essi possono in questa maniera garantire la condizione per il rinnovamento della produzione scala precedente.» (21)

Sembra che all'attenzione della Luxembourg sia sfuggito il concetto che «la parte consumata del capitale fisso» non è consumata personalmente, ma «produttivamente». I capitalisti non mangiano né le macchine né il loro logorio, né le macchine nuove. La parte consumata del capitale fisso ed i nuovi investimenti in capitali sono realizzati attraverso la produzione Questo è il preciso significato della riproduzione allargata, come Marx non si stancò mai ripetere.

La Luxembourg invece di parlare delle leggi della produzione basate sulla relazione capitale-lavoro, non ha ora altra scappatoia che il desiderio soggettivo dei capitalisti per il profitto. Essa scrive che la produzione capitalistica si distingue da tutti gli altri ordini precedenti di sfruttamento perché non solo ha fame di profitti, ma ha fame di sempre maggiori profitti. Ora, come può la somma dei profitti aumentare quando i profitti stessi camminano sempre in un circolo, fuori da una tasca e dentro ad un'altra (23), cioè fuori della tasca dei produttori di acciaio e dentro a quella dei magnati dell'acciaio e dell'industria metalmeccanica? Non ci dobbiamo meravigliare se Marx era così insistente nello stabilire che:

«Il profitto e quel travestimento del plusvalore che dobbiamo togliere prima che la vera natura del plusvalore venga scoperta.» (22)

In qualità di teorica seria, la Luxembourg, fu costretta a sviluppare la sua deviazione fino alla sua logica conseguenza. Mentre per Marx, l'espansione della produzione, significa un aggravamento del conflitto tra lavoro e capitale, per la Luxembourg significava innanzitutto espansione della domanda e dei profitti.

Essa contestava a Marx di aver ammesso ciò che avrebbe dovuto provare, ossia che la riproduzione allargata era possibile in una società chiusa. Con la sua attenzione centrata sull'imperialismo, essa non vide che il capitalismo si stava con molta maggior estensione, capitalisticamente (espansione della fabbricazione di macchine dentro il mercato interno) e tra paesi capitalisti (per esempio Stati Uniti ed Inghilterra) che non attraverso terzi gruppi o tra paesi capitalisti e non capitalisti.

La Luxembourg aveva lasciato la sfera della produzione per quella dello scambio e del consumo. E lì rimase. Avendo abbandonato le premesse di Marx, non aveva alcun punto di vantaggio dal quale esaminare questi fenomeni. Essa arrivò sulla grande arena del mercato, domandando che venisse provato quello che era ovvio, mentre accettava per concessi i rapporti di produzioni che appunto quell'ovvio di prima oscurava. Restando sul mercato, non vi era altro per lei che adottare il linguaggio caratteristico di quella, che lei stessa, in altre circostanze aveva chiamato la «mentalità mercantile».

La forma pura del valore

La Luxembourg afferma che, per quanto il carbone possa esser richiesto dal ferro; ed il ferro dall'acciaio, e l'acciaio per l'industria metalmeccanica sia mezzi di produzione che dei mezzi di consumo, il plusprodotto non può venir incorporato nella produzione ulteriore senza aver prima assunto la pura forma del valore, che è evidentemente denaro e profitti:

«Il plusvalore, indipendentemente dalla forma materiale che possiede, non può essere direttamente trasferito alla produzione per l'accumulazione; venir prima realizzato.» (24)

Nella stessa maniera per cui il plusvalore deve esser realizzato dopo che è stato prodotto, così dopo deve riassumere la «produttiva»di mezzo di produzione, di forza lavoro e di mezzi di consumo. Come le altre condizioni della produzione questo ci porta nuovamente al mercato. Finalmente, dopo questi avvenimenti, continua la Luxembourg, la massa addizionale di merci deve esser nuovamente realizzata e trasformata in denaro. Questo ci porta nuovamente al mercato e soltanto dopo che è successo quanto sopra... Chiudendo la porta a quello che la Luxembourg pensa sia un «vizioso» produzione per amore della produzione, essa apre la porta a quello che Marx chiamava «circolo vizioso dei prerequisiti»(25).

Mentre Marx diceva che soltanto il valore d'uso dei mezzi di produzione indica quanto sia importante la determinazione del valore d'uso nella determinazione dell'intero ordine economico, la Luxembourg lascia completamente fuori considerazione il valore d'uso del capitale: «Nel parlare della realizzazione del plusvalore» essa scrive noi a priori non consideriamo la sua forma materiale (26). Mentre Marx indica l'inseparabile modellazione del valore in valori d'uso, la Luxembourg tenta violentemente di separarli, come se il plusvalore potesse venir realizzato al di fuori della sua forma.

La contraddizione tra i valori d'uso ed il valore alla quale la produzione capitalista non può sfuggire, viene risolta dalla Luxembourg con il tentativo di scaricare il prodotto totale della produzione capitalistica sulle aree non capitalistiche.

La Luxembourg può aver così pensato di essersi liberata dal «circolo vizioso» dello schema di Marx. In realtà, liberando i suoi pensieri dalle leggi di produzione capitalistica, la Luxembourg liberava se stessa dall'attualità della lotta di classe. Ed è stato questo processo che le ha permesso di abbandonare la premessa di una società capitalistica , e di conseguenza le implicazioni e le limitazioni delle categorie marxiste.

Raya Dunajevskaja

 

[Traduzione di Gigante]

 

NOTE

[1] Accumulazione del capitale - un contributo alla spiegazione economica dell'imperialismo di Rosa Luxembourg, 1a ed. pubblicata 1913. Vi è stata molta confusione tra questo libro e la sua Anticritica, pubblicata per la prima volta nel 1919 e chiamata Accumulazione del capitale, ossia quello che gli epigoni han fatto della teoria di marx - una anticritica. Questo libro fu ripubblicato nel 1923 come Secondo volume del suo primo libro sull'Accumulazione. In questo articolo chiameremo Accumulazione il I Volume ed Anticritica il II. Il I volume citato è quello della russa di Dvoilatski, edita da Bukharin e pubblicato a Mosca nel 1921. L'Anticritica citata è l'edizione tedesca. Del 1923.

[2] Kalecki, Teoria della dinamica economica. Pag. 46.

[3] Capitale Vol. II pag. 548, Vol. III pag. 300 e Le teorie del plusvalore Vol. II, Part.II, pag. 161 (i riferimenti alle Teorie in questo articolo sono dell'edizione Russa).

[4] Capitale Vol. III, pag. 396.

(5) Quando in questo articolo la parola «realizzo» viene usata nel suo significato di sottoconsumo di vendita, verrà sempre messa tra virgolette.

(6) Lenin, Opere scelte Vol. II pag. 424 (Ed. Russa).

(7) Lenin, Opere scelte Vol. II pag. 32.

(8) Marx, Teorie del plusvalore Vol. II part. II pag. 170.

(9) Marx, Capitale Vol. II pag. 592.

(10) Vedi nota 8.

(11) La questione era complicata dal fatto che nella loro maggioranza i suoi critici erano riformisti. Essa d'altra parte attaccò indiscriminatamente sia i rivoluzionari che coloro che tradivano la rivoluzione, chiamando tutti i suoi critici «epigoni».

(12) Pag. 401.

(13) Teorie ecc. Vol. II pari. il pag. 161. Vedi pure Bukharim L'imperialismo e l'accumulazione di capitale, 1925 (in russo e tedesco).

(14) Accumulazione pag. 245 (sottolineato da me - F. F.).

(15) Accumulazione pag. 222.

(16) Idem pag. 297 (mia sottolineatura - F. F.).

(17) Idem pag. 247.

(18) Idem (mia sottolineatura - F.F.).

(19) Idem pag. 229.

(20) Accumulazione pag. 180.

(21) Idem pag. 244.

(22) Anticritica osa. 407-8.

(23) Capitale III pag. 62.

(24) Accumulazione pag. 86.

(25) Vedi la Parte I di questo articolo, relativo alla nota 10.

(26) Accumulazione pag. 245.

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9 dicembre 2023 6 09 /12 /dicembre /2023 09:00

La plebe. Degli infami e degli anonimi. Foucault libertario

Alain Brossat

   Al primo posto tra i numerosi incitamenti che ci sono venuti da Foucault, c'è quest'ultima: imparare a slegare la questione politica da quella dello Stato. Esercitarsi a vedere la politica prendere forma là dove si apre la breccia di un avvenimento, dove si compone una resistenza all'intollerabile, dove le macchine del potere si inceppano, dove si producono degli spostamenti, coinvolgendo delle soggettività e delle azioni, svelando il vuoto della situazione precedente. Foucault ci ha, tra l'altro, aiutato a capire sino a qual punto la doxa marxista aveva incatenato il nostro approccio alla politica a quello dello Stato - che si tratti della sua conquista, della sua colonizzazione o della sua distruzione. Ci ha incoraggiato nell'impresa di ricondizionamento della nostra comprensione politica, là dove importava di liberarsi dalla presa della politica alle condizioni della dialettica storica, del progressismo e dello storicismo, della feticizzazione del significante maggiore di tutta la politica marxista: il proletariato.

   Foucault non ci ha proposto una «teoria alternativa» dell'azione politica, ci ha semplicemente aperto la sua «cassetta degli attrezzi». Vi abbiamo trovato alcune parole chiave: plebe, intollerabile, resistenza, potere, evento. Ciò che ci interessa, con queste parole, è di due ordini: da una parte, la possibilità di affrontare una narrazione della storia delle società moderne in Occidente che sfugge alle costrizioni della falsa alternativa - storia dello Stato o storia dei buoni fini rivoluzionari; dall'altra, quella di un approccio dell'azione politica che si liberi quanto più radicalmente possibile dalle condizioni stabilite dalla sottomissione di ogni politica alle regole della rappresentanza, del parlamentarismo, del gioco dei partiti. Foucault è uno dei «luoghi» rari a partire dai quali si può intraprendere un rinnovamento o un salvataggio della politica al tempo del declino della democrazia parlamentare. Questo ricollocamento della politica non assume la forma, in questa prospettiva, della mitica «alternativa» vantata dai neomarxisti e dalle nebulose ad essa annesse («altermondialismo» , Attac, ecc.), ma piuttosto una resistenza infinita a tutti questi fatti compiuti che tessono il tessuto dell'insopportabile. Una resistenza che non indietreggia davanti a scoppi violenti, ma sa distinguere le biforcazioni maggiori o i momenti decisivi di queste presunte «lotte finali» che ci alleggerirebbero una volta per tutte dal peso della divisione. Non si tratta quindi qui di farsi fautori di una irreperibile politica foucaultiana, ma piuttosto di tentare di mostrare come una critica generale della politica contemporanea può derivare dalla prospettiva foucaultiana - quella che prende corpo soprattutto a partire dalla «terza topica» dell'opera, in cui si manifesta distintamente un interesse esplicito e intensificato per le questioni politiche (Sorvegliare e punire; La volontà di sapere, ecc.).

 

 

   Il primo degli «incitamenti» foucaultiani a ripensare la politica si fonde intorno alla nozione di plebe. Quest'ultima si presenterà come il primo degli operatori del reimpiego della comprensione politica in un contesto in cui la critica radicale dell'antipolitica statale (la gestione pastorale del gregge umano) non può più effettuarsi alle condizioni di una teoria della rivoluzione di tipo marxista. Ricordiamo brevemente le premesse di un'approccio foucaultiano della plebe: si tratta, da un punto dei vista risolutamente anti-sociologico, di accerchiare questo «qualcosa» che «nel corpo sociale, nelle classi, nei gruppi, negli individui stessi, sfugge in un certo modo alle relazioni del potere; qualcosa che non è affatto la materia prima più o meno docile o riluttante, ma che è il movimento centrifugo, l'energia inversa, la fuga. “La” plebe non esiste indubbiamente, ma vi è “della plebe”» [1].

   Queste osservazioni hanno senso soltanto se riferite al lavoro di Foucault sulla nozione di potere; al suo sforzo per ridefinire il potere affrontandolo innanzitutto in termini di diffusione, di strutture reticolari, di scambi, di circolazioni, di macchine e di dispositivi piuttosto che in termini di appropriazione, di forme separate e concentrate (la questione del potere ridotta a quella dello Stato). C'è «della plebe», degli effetti di plebe, potremmo anche dire, quando si producono dei movimenti di distacco, di resistenza, di fuga o di scontro, in reazione a «ogni avanzata del potere». Quando si profilano quelle crepe o quelle fratture di fuga che sospendono le logiche del potere, perturbano o sospendono l'efficacia delle «reti del potere». Vi è quell'elemento di irriducibilità ai giochi del potere e di cui la plebe è, se si vuole, il deittico, quanjdo dei detenuti di una prigione si ribellano, quando - per riprendere l'esempio di Foucault - migliaia di Algerini scendono nelle strade a Parigi per protestare contro il coprifuoco che è loro stato imposto, il 17 ottobre 1961, e diventano oggetto di una feroce repressione da parte della polizia parigina. Così definita, questa plebe sprovvista di tutta sostanza propria, storica o sociale, si presenta come il «rovescio» o «il limite» in rapporto al potere.

   Si può dunque assegnargli il posto di un soggetto storico la cui azione continua imprimerebbe il suo marchio sul corso delle cose. Essa sorge attraverso flussi irregolari e variabili, producendo, secondo le circostanze, degli effetti diversi di interruzione, di spostamento, di siderazione. I suoi volti così come le sue manifestazioni sono infinitamente variabili. Ciò che sarà sempre importante in primo luogo, infine, è la circostanza con la quale essa sarà designata come il residuo, l'inclassificabile, l'ininscrittibile o l'infame secondo le logiche dell'ordine. E' quanto poneva in risalto Foucault, nel 1972, a proposito della manifestazione degli Algerini su menzionata: «Nessuno o quasi parla più della manifestazione degli Algerini del 17 ottobre 1961. Quel giorno e i giorni seguenti, dei poliziotti hanno ucciso per le starde e gettato nella Senna per annegarli circa 200 Algerini. In compenso, si parla ogni giorno dei nove morti di Charonne dove terminò, l'8 febbraio, una manifestazione contro l'OAS» [2].

   Foucault attira qui la nostra attenzione sull'opposizione radicale che si è stabilita nelle società moderne tra una nozione politica del popolo e la condizione, ugualmente politica, della plebe. Il popolo è una sostanza politica e storica, perché ha accesso allla narrazione e alla memoria, esso è l'inscrittibile stesso. Delle commemorazioni, delle manifestazioni, dei libri, degli articoli, delle lastre di marmo costellano la narrazione, ininterrotta dal febbraio 1962, del crimine poliziesco di Charonne, essi perpetuano la memoria delle vittime, in quanto quest'ultime incarnano un popolo - comunista, anticolonialista, all'occorrenza. Dietro questi nove morti si profila tutto un popolo visibile e dicibile, strutturato dalle sue organizzazioni, rappresentato dai suoi dirigenti sindacali o politici, ma anche dai suoi martiri ed eroi di ieri e di oggi [3].

   Al contrario, la «massa» indistinta e anonima sulla quale si accanisce la polizia in quella notte d'ottobre del 1961, non lascia tracce. E' una «plebe» precisamente in tal senso, non essenzialmente perché è un gruppo-vittima, ma per quel che fa così come per quel che subisce, in quest'occasione, è votata a scomparire. Ancora oggi, i nomi delle vittime non compaiono su nessun monumento, il numero delle vittime resta oggetto di contestazioni, gli archivi della polizia riguardanti l'avvenimento poco accessibili, i testimoni rari; i corpi delle vittime sono stati spesso fatti sparire, così come sono spariti interi ripiani degli archivi della bridata fluviale della polizia che li aveva ripescati... [4].

   Il contrasto è dunque totale tra la capacità immediata di un raggruppamento plebeo di formarsi, di manifestare un'energia che resiste alla violenza di un potere (il coprifuoco discriminatorio imposto agli Algerini), di produrre un potente effetto d'interruzione delle logiche dell'ordine (gli Algerini delle bidonville della periferia convergono verso Parigi, sfidano le ingiunzioni poliziesche, non cedono all'intimidazione) e questa specie di caduta dell'avvenimento fuori dagli annali, il cui effetto non è sempre compensato quattro decenni dopo.

   La plebe ha, in questo senso, una parte legata all'avvenimento, per il fatto che, soprattutto, che essa manifesta la capacità di fermare e disfare le logiche poliziesche, sia che essa si presenti calma e disarmata, come il 17 ottobre 1961 o, al contrario, sediziosa, armata, furiosa, incendiaria o barricadiera, come accade spesso con le emozioni popolari del XVIII secolo o le sommosse del XIX. Non è che alle condizioni di una teleologia retrologica che il 14 luglio 1789 si trasfigura in primo passo di un popolo rivoluzionario che si mette in movimento; nella sua effettività immediata, non si tratta di nient'altro che di un violento disordine plebeo, con le sue figure familiari di domestiche e di artigiani «arrabbiati»; solo nella misura in cui questo avvenimento plebeo si collega a una successione interrotta d'altre (la notte del 4 agosto, ecc.) che subisce quella gloriosa metamorfosi che le permette di acquisire lo statuto storico sublime di momento inaugurale di una Rivoluzione e, congiuntamente, di festa nazionale di un popolo-nazione (di uno Stato). Per quanto un avvenimento si presenti come pura interruzione del corso del tempo, che è senza precedenti né antecedenti, sollevamento puro, è con la plebe molto più che con il popolo che esso presenta delle affinità.

   Il popolo è incatenato alla sua memoria, alle sue tradizioni, alle sue «acquisizioni» (acquis) e ai suoi statuti, alle sue organizzazioni, alle sue reti d'interdipendenza con lo Stato, ecc. La plebe, poiché è senza sostanza propria, è figlia dell'occasione, essa si aggrega in vista di farla finita con una situazione, un abuso, uno scandalo che suscita il suo furore, di abbattere un nemico esecrato, essa si disfa e si ricompone, sembre variabile, flusso di lotte e di resistenze, concrezione di affetti e di movimenti di soggettivazione intricati con delle azioni. L'energia popolare è captata da delle organizzazioni - partiti e sindacati, associazioni - la cui funzione è di dissociare popolo e avvenimenti. La plebe è una forza che si compone contro delle logiche di potere oppressive, poliziesche, e che produce dei movimenti di dissociazione così vivi da rivelare all'istamte l'inconsistenza, il desueto o l'infamia della situazione stabilita.

   Vi è in Foucauld quel che si potrebbe chiamare un circolo della plebe. In un certo senso, la plebe può essere designata come una produzione dell'ordine, un'invenzione della polizia dei poteri moderni. L'istituzione penitenziaria, ad esempio, è la creatrice di una «specie» specifica, gli irrecuperabili, oggi i «detenuti a rischio», e la presenza di questo «rifiuto» dell'ordine sociale servirà da giustificazione ai meccanismi di controllo e di repressione. Se non vi fosse questa costanza del crimine, l'illegalità, l'insicurezza, delle inciviltà, che rappresentano la natura stessa della plebe, non vi sarebbe bisogno di polizia: «Se accettiamo la presenza in mezzo a noi di questi uomini in uniforme che hanno il diritto esclusivo di portare delle armi, di esigere i nostri documenti [...] - come ciò sarebbe possibile se non vi fossero dei criminali? E se ogni giorno non vi fossero sui giornali degli articoliche ci raccontano quanto essi siano numerosi e pericolosi» [5].

   D'altra parte, sottolinea Foucault, la plebe occupa, nella società capitalista, un posto strategico perché permette ai dominanti di riattivare incessantemente una divisione all'interno del popolo o del proletariato, di dividere il popolo contro se stesso. Questa divisione mira all'indebolimento dell'energia popolare, in quanto quest'ultima è potenzialmente rivolta contro l'ordine, il dominio, la polizia.

   «In fondo», osserva Foucault, «ciò di cui il capitalismo ha paura, a torto o a ragione, dal 1789, dal 1848, dal 1870, è la sedizione, la sommossa: i ragazzi che scendono per le strade con i loro coltelli e i loro fucili, che sono pronti all'azione diretta e violenta» [6].

   L'incessante divisione rinnovata da un certo numero di operazioni poliziesche (quella, ad esempio, che consiste nell'opporre il «lavoratore onesto» al ladro o al delinquente oppure, oggi, il lavoratore in regola e il «clandestino» che lavora in nero) tra popolo (o proletariato) e plebe o malavita ha per fine di produrre delle associazioni peggiorative tra plebe e violenza e di condurre il popolo «sano» a adottare il puntop di vista dell'ordine su tutti i fenomeni di violenza, soprattutto di violenza politica, si sommossa o sediziosa.

   Non è il lungo discorso e la lunga pazienza della strategia rivoluzionaria e dei dei domani trionfanti - sempre rinviati al dopodomani - a spaventare la borghesia, è la capacità attuale della plebe di entrare in effervescenza oggi, domani, e di produrre così quella «fuga» fuori dai rapporti di potere che funge da apertura su quegli «altrovi», quegli «altrimenti» della politica e della vita in comune che le persone di Stato assimilano all'«anarchia» (che essi considerano stupidamente, come equivalente al caos). Ciò di cui ha paura la borghesia, è l'imprevedibilità delle sollevazioni e dei flussi insurrezionali plebei, di tutte quelle irragolarità ed eccessi che mettono a rischio le discipline, la produzione, le circolazioni regolamentate, ecc. E dunque, la classe dominante si sforzerà di suscitare, tra il proletariato rivoluzionario, una costante avversione nei confronti dei movimenti plebei, tenendogli questo linguaggio: «Queste persone che sono pronte a servire da punta di diamante alle vostre sedizioni, non è possibile, nel vostro interesse, che facciate alleanza con loro» [7].

   Legalizzazione della classe operaia, istituzionalizzazione del movimento operaio contro messa al bando e stigmatizzazione costante della plebe detta intrinsecamente violenta: «Tutta questa popolazione mobile, [...] sempre pronta a scendere nelle strade, a compiere sommosse, queste persone sono state in qualche modo esaltate a titolo di esempi negativi dal sistema penale. E tutta la svalutazione giuridica e morale fatta della violenza, del furto, ecc., tutta quell'educazione morale che l'istitutore compiva in termini positivi presso il proletariato, la giustizia lo fa in termini negativi. E' così che la scissura è stata incessantemente riprodotta e reintrodotta tra il proletariato e il mondo non proletarizzato perché si pensava che il contatto tra l'uno e l'altro era un pericoloso fermento di sommosse» [8].

   La prospettiva foucauldiana non è qui, soltanto analitica o constatativa; il punto di vista che essa addotta su questa divisione è quello di una defezione dei rapporti di potere, di una resistenza alle logiche e «astuzie» del dominio o dell'ordine. E' chiaro che, sotto quest'angolo, il proletariato è l'ingannato di quest'operazione che lo separa dalla plebe. Il riformismo e il contratto implicito che lo fonda (la «rispettabilità» del proletariato basata sul prezzo del deposito della sua riserva di violenza) è la tomba delle sue speranze (qui, Foucault si riallaccia all'ispirazione sorelliana). La questione strategica consisterebbe dunque nel sapere come la potenza (potentia) proletaria può reincantenarsi sull'energia e l'iniziativa plebea, piuttosto che deviarne: «Quando dicevo che il problema era precisamente mostrare al proletariato che il sistema di giustizia che gli si propone, che gli si impone è in realtà uno strumento di potere, era precisamente affinché l'alleanza con la plebe non sia semplicemente un'alleanza tattica di una giornata o di una sera, ma che effettivamente possa esserci, tra un proletariato che non ha assolutamente l'ideologia della plebe e una plebe che non ha assolutamente le pratiche sociali del proletariato, altra cosa che l'incontro di congiuntura» [9].

   L'«alleanza» che Foucault si sforza di pensare qui non è equivalente a quella di un partito parlamentare con un altro, di una classe con un'altra - tattica o strategica, in vista di un obiettivo comune. Non si tratta tanto di suggellare l'incontro della sommossa e della rivoluzione quanto di prendere in considerazione il movimento globale di una migrazione della massa popolare, proletaria, fuori dalle dense reti del potere che la rendono prigioniera dello Stato e del suo discorso. Si tratta di spostarsi verso questo margine, questo «limite» o questo punto di fuga dei rapporti di potere esistenti, così come essi si producono da imponenti movimenti di defezione, di decentramento e di irriconciliazione in rapporto a ciò che, nelle nostre società, è costitutivo del controllo dei comportamenti (police des conduites) e dei discorsi e, a questo titolo, fattore di quel disastro senza fine che è il presente (Benjamin): «Vorrei porre una domanda: e se è la massa a marginalizzarsi? E cioè se è proprio il proletariato e i giovani proletari a rifiutare l'ideologia del proletariato? Allo stesso tempo che la massa si massifica, potrebbe anche darsi che la massa si marginalizza; contrariamente a ciò che ci aspettiamo, non vi sono così tanti disoccupati tra le persone che compaiono davanti ai tribunali. Sono dei giovani operai che si dicono: perché dovrei farmi sfruttare per tutta la vita per pochi soldi al mese quando invece... In quel momento, è la massa che si sta marginalizzando» [10].

   È chiaro che ciò che Foucault ennuncia qui non ha valore di programma (per una politica o una filosofia politica), ma piuttosto di stimolo in vista di stabilire nuove disposizioni nelle quali potrebbe essere pensata una politica radicale. Ciò che suggerisce Foucault, soprattutto, è che la politica deve essere pensata meno in termini di stoccaggio di forze, di accumulazione, di conquista che di capacità di distacco, di dissociazione, di decomposizione, di demolizione. anche, di spostamento verso questi «bordi» in cui i rapporti di potere trovano il loro limite.

   Naturalmente, Foucault sa meglio di chiunque altro che non esiste una posizione di pura e semplice esteriorità rispetto ai rapporti di potere: là dove si crea una forza che resiste a un'altra si stabiliscono nuove ralazioni e concrezioni di potere - è il paradigma di quelle organizzazioni rivoluzionarie che diventano temibili macchine per riciclare modelli autoritari; ma, ciò che un'organizzazione come il Groupe d'information sur les prisons (GIP) esemplifica a questo proposito è la volontà di spostare l'azione politica verso una prospettiva plebea, evitando le insidie del suo inserimento in formule stabilite in cui si ricompongono i tradizionali rapporti di potere. Il GIP si costituisce come un luogo di incontri, di dibattiti e di iniziative fondato in primo luogo sul rifiuto delle tutele politiche (le organizzazioni di estrema sinistra), culturali (gli intellettuali), ma anche di scelta che ricondurebbero la fatale distanza tra popolo e plebe.

   Nella misura in cui è emerso direttamente dal grande movimento del maggio 1968, il GIP potrebbe essere stato concepito come un mezzo per sostenere i militanti imprigionati a rivendicare per essi uno status politico, separando la loro condizione (onorevole) da quella dei detenuti comuni. Questo approccio dell'istituzione penitenziaria sarebbe stata in linea, ad esempio, con quello adottato dai comunisti durante la seconda guerra mondiale, che rifiutarono degli occupanti e dei collaborazionisti, che bollavano i resistenti come «banditi» o «terroristi» - in altre parole della plebe (sterminabile a questo titolo).

   Al contrario, affermando che il problema che preoccupa il GIP non era quello del «regime politico nelle carceri, ma quello del regime carcerario», Foucault mise in discussione la divisione tra popolo e plebe: tutti i detenuti, di ogni estrazione sociale, e le loro famiglie, sono inclusi nelle preoccupazioni del GIP. Questo spostamento del «punto di vista» da cui si determina un'azione politica si scontra naturalmente con l'incomprensione di tutti quei «progressisti» che hanno incluso la divisione tra popolo (proletariato) e plebe nel loro programma (nel senso informatico del termine, qui, oltre che in quello politico) - il PC, la CGT, le organizzazioni del movimento operaio tradizionale.

  Questa opposizione tra una politica «proletaria» e una politica «plebea» è altrettanto netta anche per quanto riguarda le forme e i mezzi d'azione: per Foucault, il GIP presenta un'altra politica possibile rifiutando le strutture gerarchiche, i giochi di notorietà, il mimetismo gregario: «Al GIP, ciò significa: nessuna organizzazione, nessun capo, facciamo di tutto affinché esso rimanga un movimento anonimo che non esiste che per le tre lettere del suo nome. Tutti possono parlare. Chiunque parla non lo fa perché ha un titolo o un nome, ma perché ha qualcosa da dire. L'unica parola d'ordine del GIP è: «Lasciate parlare i prigionieri!» [11].

   È il carattere stesso della plebe, informale, protoplasmatico, nomade, che si traspone nel quadro del luogo d'azione. Quando si chiedeva a Foucault sino a qual punto il GIP era un gruppo, se aveva una «costituzione organica», egli rispondeva con chiarezza: «No, nessuna. Era un luogo di riunione. Il gruppo non era costituito...». L'accento posto sul desiderio di anonimato (paradossale in un gruppo che riunisce alcune celebrità del mondo letterario e universitario) va nello stesso senso. È un tratto distintivo della plebe quello di presentare volti e nomi incerti, intercambiabili, evanescenti - in contrasto con il popolo formale, rigorosamente identificato con i suoi capi, i suoi eroi e i suoi martiri.

   Nel momento in cui Foucault si sforza così di definire i lineamenti di un'altra politica possibile, il modello leninista è ancora prospero nell'estrema sinistra - quello di una coorte politica di ferro, modellata sull'organizzazione militare, disciplinata, gerarchica, galvanizzata.

   È al contempo contro questo modello che impregna sia la cultura politica radicale degli anni 70 sia contro della politica parlamentare (che sottopone i partiti alle condizioni dello Stato e dello statalismo): che è concepito questo esperimento di ispirazione libertaria: antiautoritario («niente capi, nessun ordine impartito»), egualitario («la parola è a disposizione di tutti») e molecolare (nessuna organizzazione). Da quando Foucault ha lanciato questi «incitamenti», il modello leninista è crollato nell'estrema sinistra formale e quest'ultima è in via di rapida conversione, anche se ancora non ammessa, alle condizioni dell'apparato parlamentare della politica. Chi dovrebbe stupirsi, allora, che le suggestioni foucaultiane incontrano sempre più distintamente delle pratiche, dei gesti, degli attori e, più in generale, un nuovo tono di politica radicale che ha in comune di ricusare quei rituali della politica che, tutti, ci riconducono a un'istituzione parlamentare e a un significante maggiore (la democrazia) il cui declino storico è sotto gli occhi di tutti?

   Del resto, le questioni sulle quali si è cristallizzata in modo crescente la politica viva (extraparlamentare) nei paesi dell'Europa occidentale non sono precisamente quelle nel cuore delle quali compaiono degli attori e delle questioni plebee: i migranti senza documenti, i richiedenti asilo, i disoccupati di lunga durata, i giovani dei quartieri residenziali e delle periferie, i lavoratori occasionali dello spettacolo, i malati di AIDS, i disaffiliati e gli abbandonati, ecc.? Di colpo, il quadro della battaglia che imperversa cambia da cima a fondo: non più un fronte di lotta unico, una battaglia che contrappone meta-soggetti (proletariato contro borghesia, «rappresentati», dai rispettivi partiti), nella prospettiva di una finale resa dei conti, ma una moltitudine di teatri di scontro sparsi, di focolai decentrati, di resistenze frammentate, più o meno effimere o durature.

   Coloro che non vedono in queste proliferazioni soltanto dispersione e perdita di sostanza, anomia, scomparsa di ogni forza suscettibile di contrastare il dominio, non capiscono semplicemente che siamo nel mezzo di un cambiamento d'epoca; la posta in gioco di quest'ultimo è niente meno che il passaggio da un regime clausewitziano della politica (la guerra di classe che parodia la guerra tra Stati nazionali e culminante nella grande battaglia che decide di ogni cosa - ma che non giunge mai, almeno non alle nostre latitudini) a un regime di proliferazioni e intensità nel quale la divisione si perpetua e si attesta sotto forma di una moltitudine di scontri eterogenei - solo che tutti convergono nei fatti non verso la nozione di un «miglioramento» del sistema, ma di una defezione generalizzata.

   Ciò che richiede la lotta dei migranti senza documenti, non non è una «Fortezza Europa» un po' meno chiusa, dei ministri degli Interni un po' meno portati ai voli charter, ma un ritorno all'ospitalità; un ritorno che passa attraverso tanti movimenti di disconoscimento, tanti spostamenti violenti, tanta dimenticanza di noi stessi in quanto modellati dalla nostra condizione immunitaria e dalle nostre angosce di sicurezza, che un giorno arriveremmo a vedere «Sangatte» e i centri di accoglienza con la stessa disgustata incredulità con cui vediamo i roghi delle streghe e i combattimenti dei gladiatori [12].

   Il circolo della plebe è dunque questo ritorno inatteso, al centro del rinnovamento delle pratiche politiche e dell'intensificazione delle forme di defezione, di ciò che il calcolo dei dominatori aveva concepito come una macchina da guerra contro i disegni prometeici del proletariato (addirittura contro la semplice energia del popolo di Michelet e di Péguy). La plebe ritorna come agente di dissoluzione, fattore di irregolarità, ma anche come vettore di spostamento e di invenzione (il capitalismo essendo non ciò che dobbiamo distruggere e superare, ma ciò che dobbiamo disertare e dimenticare imparando a «fare le cose in modo diverso», facendo il «passo decisivo da parte, esimendoci», secondo la bella lezione di Paul Veyne sul passaggio dagli antichi modi di vita alla vita cristiana).

   I movimenti plebei, i modi plebei dell'azione politica, non si incatenano secondo un regime dialettico a ciò a cui dovrebbero sostituirsi, sostituendolo, precisamente (una possibile traduzione della famosa Aufhebung, madre di tutte le dialettiche), ma ponendo delle differenze, dice Foucault. il modo d'approccio plebeo alla politica è indissociabile da questo movimento di abbandono massiccio degli schemi hegeliani («non essere più hegeliani» - parola d'ordine di Foucaultiana). Lo spostamento o lo sradicamento violento a cui invita questo approccio passa attraverso la formidabile, dolorosa prova della defezione da tutta una serie di grandi significanti della politica contemporanea - l'uomo, certo, quello del discorso umanista e umanitario, ma anche il cittadino del discorso della post-democrazia consensuale, umanitaria, «giuridicista» - che si è avverato non essere altro che lo pseudonimo dell'uomo della classe media delle metropoli del «primo mondo».

   La plebe sta tornando in forze, in modo nient'affatto idilliaco, sulle rovine di questa versione (diventata obesa e dispotica) della speranza democratica, che aveva puntato tutto sull'istituzione repubblicana, il suffragio universale, la concorrenza dei partiti statali, il sistema parlamentare e il potere della stampa (generalmente confuso con la decorativa «libertà di opinione»).

   Sono dei casi Improbabili, delle imprevedibili esplosioni di violenza che ricordano al mondo la permanenza di questa polvere umana votata all'oblio e alle tenebre qual è appunto la plebe. Sono questi estratti dagli archivi dell'Hôpital Général e della Bastiglia che, contro ogni previsione, salvano qualcosa della vita infima di questi «uomini infami» del XVII e XVIII secolo (dementi, corrotti, religiosi apostati, ragazze di strada, ecc.), di queste esistenze oscure colpite un giorno dal fascio luminoso del potere; sono le lettere dei fanti della prima guerra mondiale morti al fronte che, a distanza di decenni, riappaiono in occasione di un anniversario o di una commemorazione; sono le memorie redatte in carcere dal parricida Pierre Rivière; sono le lettere e i diari sparsi di Richard Durn, il «pazzo assassino» di Nanterre, di cui la stampa fornisce dei frammenti... [13].

   Questi salvataggi non sono altro che degli scogli isolati in mezzo all'oceano dell'oblio in cui è immersa la totalità infinita degli avvenimenti plebei. Ma sono in numero sufficiente per attestare l'affinità costitutiva tra la plebe e l'avvenimento - quando quest'ultimo non è puro e semplice disastro (e ancora: Auschwitz e Hiroshima sono delle operazioni tanatocratiche la cui peculiarità è quella di ridurre alla condizione di plebe - sterminabile - una frazione dell'umanità).

   Ciò che mostra l'opera di Foucault, è quanto siamo costantemente attraversati, senza volerlo, da una moltitudine di avvenimenti plebei - così come siamo costantemente portati a cercare la Storia o il «fare epoca» dalla parte delle «cime», di quanto lascia delle tracce visibili, gloriose o disastrose, di ciò che costituisce un patrimonio, di ciò che attesta uno spostamento: «Il nostro inconscio è fatto dai quei milioni, da quei miliardi di piccoli avvenimenti che, a poco a poco, come gocce di pioggia, impregnano il nostro corpo, il nostro modo di pensare, e poi il caso fa sì che uno di questi micro-avvenimenti lascia delle tracce, e può diventare una specie di monumento, un libro, un film» [14].

   Definendosi come un uomo «amante della polvere», dichiarando l'ambizione di scrivere «delle storie» della «polvere», Foucault ci incita a ricondizionare la nostra percezione dell'avvenimento dalla parte dell'infinitesimale, dell'innominabile, dell'indicibile; a tentare di capire a quale titolo - ma a colpo sicuro - il «colpo di follia» di Richard Durn fa tanto evento ed epoca quanto una dozzina di rimpasti ministeriali; a vedere in Pierre Rivière meno uno sventurato alienato quanto il testimone di una storia di massacro scandita dalle guerre napoleoniche, le conquiste coloniali, le violenze sociali...

   Ciò che caratterizza nello specifico della plebe, quel gesto plebeo stridente e isolato o, al contrario, quel movimento o passaggio all'atto collettivo, è la sua capacità a sfregiare il presente, a sfigurarlo - il che è un altro modo di rendere sensibile, per un istante e, raramente, stabilmente, l'insostenibile bruttezza... Ciò vale per il «gesto» di Pierre Rivière che lacera l'ordine delle famiglie; per quello di Richard Durn che squarcia l'istituzione politica; per quello di Bin Laden che incide nell'ordine (imperiale) mondiale. L'avvenimento è là, dove lo scandalo di un gesto (come un grido) plebeo crea una nuova e insopportabile visibilità. L'effetto di trauma prodotto da tali atti tagliati fuori da ogni «logica» degli incatenamenti e dei discorsi è dovuto al fatto che essi emanano da invisibili, da senza potere o da vinti. E' dovuto al fatto del loro mancato collegamento con degli atti del linguaggio o degli sforzi di comunicazione. C'è questa inalterabile affinità della plebe con il silenzio, il deficit di parola, l'impossibilità di «ingranare» una frase (Lyotard), il grido o la voce dove il discorso fallisce. Foucault: «Sì, mi piacerebbe scrivere la storia dei vinti. È un bel sogno che molti condividono: dare finalmente la parola a coloro che finora non hanno potuto prenderla, a coloro che sono stati costretti al silenzio dalla storia, dalla violenza della storia, da tutti i sistemi di dominio e di sfruttamento» [15].

   Ciò di cui sono testimoni molti degli eventi plebei odierni, non visti o, al contrario, rilevati come l'innominabile stesso (Durn), è il crollo del «sogno» foucaultiano qui ennunciato: il nostro tempo è infatti quello in cui «logica condividono» innanzitutto il desiderio di seppellire la storia dei vinti sotto una spessa coltre di silenzio e di impedire, più che mai, che i vinti accedano alla parola. La televisione, tra l'altro, è quel dispositivo di potere (di monopolio della «comunicazione») la cui finalità primaria è di impedire qualsiasi tipo di espressione plebea - da qui l'importanza e la legittimità dell'irruzioni di intrattenitori dello spettacolo nelle trasmissioni di varietà e dei telegiornali.

   Ma, da un'altra parte, si dirà che è proprio perché la plebe non ha una lingua propria e perché sperimenta questo costante deficit di linguaggio, che la plebe è legata all'evento. I padroni della lingua (politici, ecclesiastici, giornalisti, sacerdoti, ecc.) hanno, da molto tempo, abbandonato questa configurazione in cui il discorso (dell'oratore, del libellista, del predicatore, ecc.) lega l'azione che trasforma. La loro capacità al discorso è legata allo stato delle cose, sospensiva dell'avvenimento, poliziesca - si considera come esorcismo di ogni violenza, qualunque essa sia, ma gli eventi fanno violenza, mortalmente, alle cose stabilite, all'ordine dei luoghi, alle regolarità e alle abitudini (routine) efficaci. Ciò che i colti e i governanti rilevano e definiscono abitualmente come «barbarie» dei movimenti o dei gesti plebei rinvia sempre, in un modo o nell'altro, a questa impossibilità di includerli nelle reti linguistiche e comunicative che sono i dispositivi più efficaci di neutralizzazione delle intensità violente. La plebe laconica o muta che non entra in comunicazione, non delibera, ma passa all'azione - ecco ciò che conserva intatta il segno orribile e terrificante dell'insopportabile.

   In altre termini, sosterremo: nella bocca dei politici, dei professori, degli uomini dello spettacolo televisivo e dei sacerdoti (ecc.), la lingua è ciò che ha come principale scopo impedire che la gente si sollevi. Ora ogni politica orientata verso l'emancipazione inizia non con una divina sorpresa elettorale, bensì con una rivolta. È quanto ci ricorda Foucault nella sua serie di articoli molto criticati - proprio per questa ragione e qualche altra ancora - sulla rivolta iraniana che, alla fine degli anni Settanta, provocò la caduta dello Scià: «Non sono d'accordo con chi dice: "È inutile che vi solleviate, sarà sempre la stessa cosa». Non si impone la legge a chi rischia la vita di fronte a un potere. Si ha ragione o no di rivoltarsi? Lasciamo la domanda aperta. Ci si solleva, questo è un fatto; ed è così che la soggettività (non quella dei grandi uomini, ma quella di chiunque) si introduce nella storia e le dà il suo respiro. Un delinquente valuta la sua vita rispetto a delle punizioni abusive; un pazzo è stanco di essere rinchiuso e degradato; un popolo rifiuta il regime che lo opprime. Tutto ciò non rende innocente il primo, non guarisce il secondo e non assicura al terzo il futuro promesso [...]. Nessuno è obbligato a pensare che queste voci confuse cantino meglio delle altre e dicano la verità. È sufficiente che esistano e che abbiano contro di loro tutto ciò che si accanisce a voler farle tacere, perché abbia senso ascoltarle e cercare ciò che esse vogliono dire. Una questione di morale? Forse [16].

   La plebe è quel «chiunque» che manifesti una sostenuta capacità di sollevarsi; una capacità di produrre effetti che superi il «parlar chiaro» o il «dire la verità» a cui le nostre società accordano ogni privilegio. Nella loro stessa «confusione», le voci e le grida che accompagnano il sollevamento sono dotate di una forte capacità enunciativa: esse richiamano l'immemorabile, l'insopportabile - l'irriducibilità del «resto» plebeo alle discipline e ai regolamenti polizieschi. Ricordano che anche ciò che è destinato a un rigoroso regime di sparizione - la vita della plebe e la sua energia - ritorna senza fine, e che proprio questo che fa sì che la storia non sia una forma puramente vuota, un puro continuum senza contenuto: «Il movimento per cui un singolo uomo, un gruppo, una minoranza o un intero popolo dice: "non obbedisco più" e getta in faccia di un potere che ritiene ingiusto il rischio della sua vita - questo movimento mi sembra irriducibile. Perché nessun potere è in grado di renderlo assolutamente impossibile [...]. Tutti i disincanti della storia non serviranno a nulla: è perché ci sono tali voci che il tempo degli uomini non ha la forma dell'evoluzione, ma giustamente, quella della "storia" [17].

   La storia è - ma non lo sappiamo dai tempi di Nietzsche almeno, e Blanqui? - quella combinazione di ritorno dell'immemorabile (lo stesso) e dell'emergere dell'eterogeneo. Di questo doppio regime, la plebe è l'esatta incarnazione: quel «sempre lì» ricoperto dagli strati del disprezzo e dell'oblio, e quel «sempre nuovo» che si inventa nel corso delle sequenze e degli eventi sotto nuove vesti, in nuovi gesti. I mullah che predicano l'insubordinazione, di moschea in moschea, durante la rivolta iraniana, è il ritorno di Münster, di Savonarola, la vendetta degli sconfitti, intesa non come risentimento ma come l'affetto che mette in moto la pura energia che resiste al potere e lo smaschera.

 

 

Mais c’est tout autant l’inédit et le sans-précédent d’une situation inconcevable aux yeux de tous ces spécialistes qui diagnostiquaient l’irréversible « occidentalisation » de la société iranienne... a plèbe a donc partie liée avec l’histoire (le retour du disparu et la production des différences) pour autant qu’elle est cette contre-force qui entrave le pouvoir, le disperse, en brouille les effets - pour autant qu’elle est l’im-pouvoir, pourrait-on dire. Le pouvoir, en effet, loin de coïncider avec la composition d’une histoire, est ce qui vise à l’empêcher. Le propre d’une machine de pouvoir est de constituer de l’homogène, des régularités, de combattre l’imprévu, de densifier, d’identifier. Et le propre du pouvoir est de repousser toute limite. Les logiques du pouvoir sont, par définition, antipolitiques, car rigoureusement allergiques aux intervalles et à un régime de diversité et de division.

 

 

 

 

La plèbe est, précisément, ce qui résiste au pouvoir là où celui-ci est « par ses mécanismes », dit Foucault, porté à l’infini. La plèbe est donc ce qui fait revenir la politique dans le jeu du pouvoir, en l’entravant. Elle incarne ou donne corps à cette sorte de droit naturel à la résistance, à l’expansion mécanique du pouvoir, résistance sans laquelle nos sociétés ne sont que policières (ce qui ne veut pas dire exclusivement répressives). Un droit naturel, en tant que tel, ne se codifie pas, il se proclame, il se constate. La plèbe demeure infiniment sans « légitimité », n’étant que le corps ou la texture de ce jeu de forces antagoniques infini dont est faite « la vie » et dont la loi est : là où s’établit du pouvoir, survient une force qui y résiste et s’y oppose. Le passage - conditionnel - à la dimension morale va se jouer dans l’affirmation d’une inéluctabilité de la résistance de la plèbe à l’infinitude du pouvoir, quoi qu’il doive en coûter, quelque forme qu’elle prenne, par-delà le bien et le mal. S’il est une petite musique utopique qui accompagne cette phénoménologie de la plèbe, de ses cents visages et actions, elle tiendrait à cette définition : elle est ce qui, obstinément et sans fin, présente la limite de tout pouvoir et objecte à son expansion sans fin.

Une autre façon de le dire, qui rapprocherait Foucault de Pierre Clastres, serait : le pouvoir est ce qui ne va pas de soi. La figure de l’abus de pouvoir est incluse dans toute forme, la plus légitime fût-elle, d’institutionnalisation du pouvoir. D’où l’importance de penser le hors-champ (hors pouvoir) radical de ce « droit » qui fonde ces mouvements qui résistent au pouvoir ou l’infectent, mais qui, aussi bien, simultanément, réactivent la politique elle-même. Ce que Foucault nomme : « Être respectueux quand une singularité se soulève, intransigeant dès que le pouvoir enfreint l’universel. » Le « dès que » le dit suffisamment : il n’est pas de pouvoir que le philosophe puisse décréter substantiellement bon au point de s’y rallier. Ici, Foucault se sépare distinctement de ses amis maoïstes de l’époque, rejetant pêle-mêle la figure autoritaire du dirigeant omniscient, celle du tribunal « populaire » et celle de l’intellectuel fidélisé. [18] Sous le feu de sa critique, la logomachie des maos se dévoile comme un avatar de plus de la politique réduite aux conditions de l’État. S’efforçant de dessiner les contours d’une politique déplacée du côté de la plèbe, Foucault renouvelle la pensée libertaire de l’action.

Alain Brossat

 

 

LINK:

http://refractions.plusloin.org/spip.php?article86

 

NOTE

[1] «Enquête sur les prisons: brisons les barreaux du silence », Dits et Écrits (abbreviato in DeÉ), II, pp. 176 e seguenti.

[2] Ibidem.

[3] Non affronto qui la questione dell'indebolimento noto, al filo degli ultimi decenni, di questa narrazione. Parlo qui di un sistema di narrazione, indicizzato sulla relazione tra un gruppo costituito, la sua esperienza collettiva, la sua memoria e le tracce della sua esistenza duratura.

[4]

 

 

 

[4] À l’occasion du quarantième anniversaire de la manifestation du 17 octobre 1961, une plaque commémorative a été inaugurée sur le pont Saint-Michel, à l’initiative de la Mairie de Paris, elle-même sollicitée par de nombreuses associations. Mais le texte qui y est inscrit demeure vague, éludant notamment la responsabilité de la police parisienne et de l’autorité politique dans la perpétration de ce crime d’État.

[5] «Entretien sur la prison: le livre et sa méthode , DeÉ, II, pp. 740 sqq.

[6] «Table ronde», DeÉ, pp. 316 sqq.

[7] Ibidem

[8] Ibidem

[9] Ibidem

[10] Ibidem

[11] « Le grand enfermement », DeÉ, II, pp. 296 sqq.

[12] Voir à ce propos le dossier consacré aux zones d’attente par la revue Drôle d’époque ,n° 13, Nancy, novembre 2003

[13] Voir à ce propos : Arlette Farge et Michel Foucault : le Désordre des familles, lettres de cachet des archives de la Bastille, Archives Gallimard/Julliard, 1982 ; Moi, Pierre Rivière, ayant égorgé ma mère, ma sœur et mon frère... Un cas de parricide au xixe siècle présenté par Michel Foucault, Archives Gallimard/Julliard, 1973 ; « La vie des hommes infâmes », DeÉ, III, pp 237 sqq. À propos de la « tuerie de Nanterre », je me permets de renvoyer à mon article sur l’affaire Durn in le Passant ordinaire (Bègles), n° 40/41.

[14] « Le retour de Pierre Rivière », DeÉ, III, pp. 114 sqq.

[15] « La torture, c’est la raison », DeÉ, III, pp. 390 sqq.

[16] « Inutile de se soulever ? », DeÉ, III, pp. 790 sqq.

[17] Ibidem.

[18] Voir par exemple « Sur la justice populaire, débat avec les maos », DeÉ, II, pp. 340 sqq.

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29 dicembre 2022 4 29 /12 /dicembre /2022 21:00

Ciò che Marx deve a Bakunin, il critico accorto

Il rivoluzionario russo fu un avversario risoluto delle pratiche autoritarie di Marx all'interno della Prima Internazionale. Per il resto, egli condivise molte idee con lui, ma contestava l'applicazione troppo meccanicistica delle sue teorie.

Bakunin critica spesso Marx; le sue critiche vertono sulla strategia politica, ma anche sui fondamenti teorici della dottrina marxiana. Tuttavia, a ben osservare, ci accorgiamo che le analisi che i due uomini fanno quando essi affrontano delle questioni politiche sono spesso le stesse […]. Ciò che diverge sono le conclusioni alle quali essi giungono. [...]


Contro l'universalità del materialismo storico

Ad esempio Bakunin contestava le teoria marxiana della successione delle fasi storiche […]. Non che il rivoluzionario russo negasse questa teoria: ne contestava soltanto il carattere universale e affermava che non si applicava al mondo slavo; ne riconosceva la validità che per l'Europa occidentale. Ora curiosamente, Marx finirà con il dar ragione a Bakunin, almeno in due occasioni:

– Nel 1877, scrive a un corrispondente russo, Mikhaïlovski, che è un errore trasformare il suo “abbozzo della genesi del capitalismo nell'Europa occidentale in una teoria storico-filosofica dello sviluppo generale fatalmente imposto a tutti i popoli, qualunque siano le circostanze storiche in in cui essi si trovano posti” [1].

– Nel 1881, scrive a Vera Zasulich che la “fatalità storica” della genesi della produzione capitalista è espressamente ristretta ai paesi dell'Europa occidentale [2].

Altro punto di divergenza con Marx: Bakunin era sostenitore dell'emancipazione dei popoli slavi dell'Europa centrale dal dominio russo, turco, tedesco e austriaco.
 

[…] La modifica di prospettiva di Marx è indubbiamente la conseguenza dell'attenta lettura di Stato e Anarchia, di Bakunin. Sinmo ad allora, era mosso da una slavofilia galoppante [3]: ci si ricordi che nel 1848 lui e Engels si erano opposti all'indipendenza delle nazioni slave dell'Europa centrale, perché per loro la germanizzazione era ciò che poteva accadere di meglio. In quanto alla Russia, essa era all'origine di tutti gli intrighi che impedivano la democratizzazione della Germania e la sua unificazione [4].

Stato e anarchia era stato pubblicato nel 1873 e conteneva ampi sviluppi sulla situazione sociale della Russia, sulla sua dissoluzione interna così come sulle prospettive di evoluzione del movimento rivoluzionario. Marx aveva letto il libro, e le note e commenti che egli ha scritto in margine al testo di Bakunin costituiscono i soli […] elementi di confutazione teorica delle idee dell'anarchico […]. Ma si constata a partire da questa data, una netta modifica d'ottica in Marx e Engels sulla Russia […]. I testi in cui Engels si interessa alla situazione sociale della Russia sono posteriori alla pubblicazione del libro di Bakunin […].
 

Contro un determinismo economico assoluto

Altro punto: la questione del primato delle determinazioni economiche nella storia. Bakunin aderisce a questa teoria, ma emette delle riserve. Marx disconoscerebbe un fatto importante: se le rappresentazioni umane, collettive o individuali, non sono che i prodotti dei fatti reali (“sia materiali sia sociali”) esse finiscono tuttavia con l'influenzare a loro volta “i rapporti degli uomini nella società” (Dio e lo Stato). I fatti politici e ideologici, una volta dati, possono essere a loro volta delle “cause produttrici di effetti”.

È dunque meno il “materialismo storico” - termine sconosciuto da Bakunin – che è contestato quanto la ristrettezza di vedute con il quale gli sembra essere applicato.

Su questo punto ancora, Marx e Engels danno ragione a Bakunin. In una lettera a Joseph Bloch del 21 settembre 1890, e cioè molto dopo la morte di Bakunin, Engels scrive: “Secondo la concezione materialista della storia, la produzione e riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinate”. Engels dà anche anche all'”economia” una definizione una definizione estremamente ampia. “di più né io né Marx, abbiamo mai affermato altro. Se ora qualcuno distorce quell'affermazione in modo che il momento economico risulti l'unico determinate, trasforma quel principio in una frase fatta insignificante, astratta e assurda”. Engels prosegue dicendo: “Del fatto che da parte dei più giovani si attribuisca talvolta al lato economico più rilevanza di quanta convenga, siamo in parte responsabili anche Marx ed io. Di fronte agli avversari dovevamo accentuare il principio fondamentale, che essi negavano, e non sempre c'era il tempo, il luogo e l'occasione di riconoscere quel che spettava agli altri fattori che entrano nell'azione reciproca”.
 

Un riconoscimento tardivo

Era questo un riconoscimento totale delle riserve che Bakunin aveva formulato a proposito della teoria marxista. Ma questo riconoscimento era limitato alla corrispondenza di Marx e di Engels. […]

La relativizzazione del marxismo fatta da Bakunin è insopportabile per molti comunisti, precisamente perché restituisce il marxismo nella corrente delle idee dell'epoca, come una spiegazione del sociale tra le altre. Essa gli toglie il carattere quasi religioso che aveva nello spirito do molti comunisti per restituirgli il suo status di ipotesi scientifica, e cioè confutabile, modificabile, e che può essere completata.

René Berthier
 

[Traduzione di Ario Libert]

Questo articolo è tratto dal libro di René Berthier, Affinités non électives. Pour un dialogue sans langue de bois entre marxistes et anarchistes, [Affinità non elettive. Per un dialogo senza politichese tra marxisti e anarchici]; Éditions du Monde libertaire/Éditions libertaires, 2015

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26 dicembre 2022 1 26 /12 /dicembre /2022 14:00
Il conflitto fra Marx e Bakunin in un'opera di Franz Mehring
Pier Carlo Masini

In questo venticinquesimo anniversario dei tragico inverno berlinese dei 1919 bisogna ricordare che al proletariato rivoluzionario tedesco non vennero allora a mancare soltanto Karl Liebknect e Rosa Luxemburg, abbattuti dai mercenari di Noske, ma venne anche a mancare Franz Mehring, una mente tanto efficiente nell'organizzare i fatti quanto i cervelli dei suoi due grandi compagni erano stati efficienti nell'organizzare uomini e idee.

Lo storico Franz Mehring, autore, fra l'altro, della Storia della socialdemocrazia tedesca, della Leggenda di Lessing e di una Vita di Marx, testè tradotta per la prima volta in Italia, era stato con Liebknect, con la Luxemburg e con Clara Zetkin, uno dei più fermi oppositori della guerra imperialista, uno dei fondatori dello Spartakusbund prima e del Partito Comunista Tedesco dopo.

La vita di Marx fu dal Mehring scritta mentre infuriava la Prima Guerra Mondiale e la prefazione porta la data del marzo 1918 (nel gennaio si era sviluppato il grande sciopero generale dei lavoratori tedeschi per la pace). Poiché l'autore fissa la data del definitivo concepimento dell'opera posteriormente al 10 novembre 1913 non si comprende perché il curatore dell'edizione italiana avverta nell'introduzione che il libro debba considerarsi frutto di un tempo in cui, soprattutto in Germania, il movimento operaio si cullava nell'illusione della propria forza organizzativa e della propria sicurezza ideologica, e l'urgenza di certe chiarificazioni s'era attutita. A noi sembra invece che in ogni pagina di quest'opera spiri la passione rivoluzionaria che investe già, negli anni che vanno da Sarajevo a Zimmerwald, da Zimmerwald ai dieci giorni che sconvolsero il mondo, tutto il movimento operaio europeo (e forse il contributo dato al libro dalla Luxemburg con la stesura delle pagine dedicate all'analisi del secondo e terzo volume del «Capitale» non costituisce qualcosa di più di una collaborazione da specialista?).

Indipendentemente dal clima politico in cui fu elaborato, il libro fu di per sé un avvenimento rivoluzionario; in primo luogo perché fornì all'avanguardia rivoluzionaria che portava il nome di Spartaco, un eccellente strumento di informazione storica e di educazione politica, in secondo luogo perché l'impostazione dei problemi d'interpretazione storica affrontati nel corso della biografia è una impostazione nuova, rivoluzionaria, di rottura con la tradizione culturale socialdemocratica.

Mentre la storiografia socialdemocratica aveva abilmente ridotto, a forza di omissioni, di reticenze, di trucchi volgari, la figura di Marx al formato delle proprie esigenze di partito ed aveva quindi consolidato una menzogna sotto i drappeggi del mito, Mehring con i risultati delle sue ricerche viene a sconvolgere questo mito consacrato.

Ma non a caso contro questa impostazione critica si levarono «i due custodi del Sion del marxismo», cioè il Kautsky ed il Riazanoff che sulla Neue Zenit (dove erano apparsi alcuni appunti del Mehring che anticipavano giudizi espressi nella biografia) svilupparono una violenta campagna di «terrorismo spirituale» contro Mehring e contro le sue posizioni storiografiche che non portavano alcun rispetto ai pregiudizi correnti.

E non a caso i detrattori di Mehring rimproverarono soprattutto alla sua opera di avere rappresentato i rapporti fra Marx e Bakunin non già secondo gli schemi vigenti nella propaganda, ma secondo una coscienziosa indagine dei fatti e dei documenti.

Si sa quale fosse presso i filistei della socialdemocrazia tedesca l'opinione corrente su Bakunin e sull'anarchismo, mutuata dalla liberistica del periodo bismarkiano: Bakunin come un nemico cosciente della classe operaia, il movimento anarchico una infiltrazione estranea nel movimento operaio.

Mehring rifiuta questa opinione corrente come fantastica e assurda, la sgonfia facilmente opponendovi una sana concezione materialistica e vi sostituisce una valutazione obiettiva. Bakunin, secondo Mehring, interpretava determinate istanze del movimento operaio, e l'anarchismo costituiva la formulazione politica di queste istanze.

Proprio alla fonte di queste complicazioni, nella contesa ginevrina fra la fabrique e i gros métiers, si rivelavano i reali antagonisti. Qui un ceto operaio ben pagato, con diritti politici che gli consentivano di partecipare alla lotta parlamentare, ma che lo attiravano anche in ogni sorta di discutibili alleanze con partiti borghesi; là uno strato operaio mal pagato, privo di diritti politici, che poteva contare soltanto sulla sua nuda forza. Si trattava di questi antagonismi pratici e non, come suole raccontare la tradizione leggendaria, di un antagonismo teorico: qui la ragione, là la mancanza di ragione!
Le cose non erano così semplici, e non lo sono neppure oggi, come indica il sempre nuovo risorgere dell'anarchismo, ogni volta che è stato dato per morto e sepolto. Non significa davvero professarlo, se ci si guarda dal disconoscerne il significato proprio, come non significa rifiutare il dovuto riconoscimento all'attività politico-parlamentare, se non si disconosce che essa con le sue riforme, certo accettabili, può portare il movimento operaio a un punto morto, dove cessa il suo respiro rivoluzionario. Non era un caso che Bakunin contasse un certo numero di seguaci che si sono acquistati grandi meriti nella lotta di emancipazione del proletariato. Liebknecht non apparteneva certo al numero degli amici di Bakunin, ma al tempo del congresso di Basilea si pronunciò per l'astensione politica almeno con lo stesso fervore di Bakunin. Altri invece erano i più fervidi bakuninisti al tempo del Congresso di Basilea e anche per molto tempo dopo, come Jules Guesde in Francia, Carlo Cafiero in Italia, César De Paepe, Pavel Axelrod in Russia; se essi poi diventarono altrettanto fervidi marxisti, ciò accadde, come taluno di loro ha espressamente affermato, non perché essi si siano sbarazzati delle loro precedenti convinzioni, ma solo perché erano legati a ciò che Bakunin aveva in comune con Marx.
Gli uni e gli altri volevano un movimento proletario di massa, e vi era fra loro contrasto solo a proposito della strada maestra che tale movimento doveva prendere.

Queste considerazioni troncano la testa alle qualifiche di «borghese» o «piccolo-borghese» affibbiate al movimento ispirato da Bakunin e collocano la divergenza fra Marx e Bakunin sul piano delle differenze materiali, obiettive che pesavano sullo sviluppo del movimento operaio di cento anni fa.

Ciò non significa che il Mehring trascuri l'influenza che alcuni elementi subbiettivi esercitarono nel determinare e nell'aggravare il conflitto (il temperamento, le prevenzioni di Marx verso i russi e di Bakunin verso i tedeschi, la diversa formazione teorica) oppure il peso di alcuni incresciosi equivoci in cui cadde il Marx, od ancora l'opera nefasta condotta presso Marx da alcuni provocatori di discordia come l'Hess, il Borkeim, l'Utin.

Il Mehring è anche molto severo verso i tre scritti polemicamente più duri di Marx contro Bakunin: la «comunicazione confidenziale» del 1870, «Le pretese scissioni nell'internazionale» del 1872, «L'Alleanza della Democrazia Socialista e l'Associazione Internazionale dei Lavoratori» del 1873.

Su quest'ultimo documento egli esprime il seguente giudizio:

«Piuttosto è un'altra considerazione che pone questo scritto al gradino più basso fra tutto ciò che Marx ed Engels hanno pubblicato... Questo non è un documento storico, ma un atto d'accusa unilaterale, la cui tendenziosità balza agli occhi in ogni pagina.»

Indubbiamente come la pubblicazione di questi pamphlets polemici non intaccò minimamente né affievolì né oscurò la grande e devota ammirazione che Bakunin nutriva per Marx (il Mehring cita alcune ma non tutte le testimonianze di questo leale atteggiamento di Bakunin, inalterato anche dopo la controversia col Marx), così il giudizio dello storico sulla inconsistenza delle accuse lanciate dal Marx contro Bakunin non sminuisce il valore complessivo del contributo dato dal fondatore del comunismo critico al movimento di liberazione della classe operaia.

D'altronde, la verità storica si è fatto strada da se stessa.

E, a distanza di mezzo secolo dalle vecchie polemiche, un marxista provveduto come il Mehring poteva concluderne la ricostruzione storica, dedicando a Bakunin questo giusto e sereno riconoscimento:

«Morì il 1 luglio 1876 a Berna. Avrebbe meritato una fine più felice e una fama migliore di quella che di lui è rimasta in molti ambienti della classe operaia, per la quale così coraggiosamente aveva lottato e tanto aveva sofferto. Nonostante tutti i suoi difetti e i suoi errori, la storia gli assicurerà un posto d'onore fra i combattenti d'avanguardia del proletariato internazionale, anche se questo posto gli sarà sempre contestato, fin tanto che su questa terra vi saranno dei filistei, sia che nascondano le lunghe orecchie sotto il berretto da poliziotto, sia che cerchino di coprire le loro ossa tremanti sotto la pelle di leone di un Marx».

Fra questi filistei non possiamo fare a meno di annoverare il presentatore della traduzione italiana, Mario Alighiero Manacorda, il quale con tre pagine di introduzione impastate di ignoranza, di livore e di trivialità presenta l'ultima edizione del perfetto filisteo travestito in divisa di poliziotto staliniano.

Pier Carlo Masini
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25 luglio 2022 1 25 /07 /luglio /2022 05:00

Compagno Benjamin Péret

"Condoglianze nazionali", "Morto per la Francia", "Partito dei fucilati", "Martiri di Chicago": i popoli, le sette, le tribù, i partiti hanno gusto per la necrologia. Sanno trarre il massimo di profitto dal più piccolo cadavere non appena possono incollargli l'appellativo di denominazione controllata "Francese", "P.C.F.", "Veterano del 121° fanteria"…

La stampa libertaria, in generale, non fa eccezione, ahimè! a questa ginnastica sentimental-politica, e il posto che essa dedica ai: "Possa il tuo sacrificio non essere stato vano, Albert..." e ai "Le giovani generazioni sapranno mostrasi degne del tuo esempio, Eugène…" a detrimento degli articoli e studi di propaganda e di educazione, testimonia più dell'invecchiamento della corrente anarchica che del suo dinamismo. Questo è, per lo meno, il nostro punto di vista sull'argomento.

Eppure un uomo è appena morto, che noi amavamo. I nostri lettori che non lo conoscevano devono sapere che hanno appena perso un compagno.

Benjamin Péret, poeta-militante rivoluzonario, è morto all'ospedale Boucicaut, a Parigi, il 18 settembre 1959.

Naturalmente, Péret è più conosciuto come poeta surrealista che come militante rivoluzionario, ma fu entrambe le cose - indissolubilmente.

Quelli tra di noi che attraverso il surrealismo hanno abbandonato le sponde borghesi per approdare all'Anarchia sanno chi era Péret poeta.

Il surrealismo, scoperto da Breton, Péret e qualcun altro rischiando un occhio nella breccia che la bomba Dada aveva fatto sul muro del conformismo borghese, è nato circa 40 anni fa.

Péret aveva 20 anni allora, 20 anni.

Dopo aver preso le distanze dal nichilismo, molto presto i surrealisti sono presenti nel movimento rivoluzionario.

"Aprite le prigioni! Licenziate l'esercito!" gridano sin dal 15 gennaio 1925 dal secondo numero di "La Révolution Surréaliste".

Péret è di quelli che, volendo un'applicazione concreta delle loro posizioni politiche, entrano nel 1927 nel Partito comunista.

E' anche insieme a Breton, di quelli, meno numerosi, la cui etica rivoluzionaria non può accomodarsi agli zigzag e compromessi del P.C.

Abbandonerà il partito, lasciandovi Eluard e Aragon che vi trarranno ottimi affari.

Péret, parallelamente ai suoi testi poetici, firma una gran numero di proclami del gruppo surrealista:

  • Contro l'Esposizione coloniale del 1931 quando viene arrestato un militante annamita.

  • Per la solidarietà operaia internazionale con la rivoluzione spagnola del 1931.

  • Contro la razionalizzazione del lavoro alle officine Renault.

  • Per l'unità d'azione contro il fascismo, il 6 febbraio 1934.

Sin dal 20 luglio 1936, Péret è tra coloro che apportano la loro adesione totale alla rivoluzione operaia spagnola, moltiplicando gli appelli alla formazione di milizie proletarie, denunciando il tradimento costituito dal "non-intervento".

Infine, Péret prenderà il suo posto nella Colonna Durruti, diventerà un miliziano della C.N.T.-F.A.I

Dopo la guerra, il gruppo surrealista collabora per un certo periodo con "Le Libertaire" della Federazione Anarchica. Congiuntamente a Breton, Schuster, Valorbe, Legrand, ecc., che ci portavano dei testi poetici o di critica artistica, Péret ci dava uno studio La Révolution et les Syndicats (n° 321 a 326 incluso), contributo importante alla comprensione dei problemi operai del dopoguerra.

Péret vi analizzava la funzione contro-rivoluzionaria dei sindacati degenerati, assorbiti dal capitalismo e opponeva loro quella, rivoluzionaria, dei consigli operai eletti sul luogo di lavoro e revocabili ad ogni momento.

Più recentemente, aveva tenuto a formularci le sue critiche  sul nostro n° 7-8 (Le Nationalisme), sollecito com'era per una collaborazione costruttiva delle diverse tendenze rivoluzionarie (vedere la sua lettera apparsa con le iniziali B.P. sul n° 9 dalle pagine 89 a 92).

Péret si richiamava alla tendenza marxista "comunista dei Consigli".

Ciò non può in alcun modo impedirci di considerarlo come uno dei nostri (che non ci si metta in bocca l'ingiuria di vedere in questo un tentativo di annessione!).

Dei nostri, non tanto perché aveva combattuto sotto la bandiera nera e rossa in Spagna, quanto perché tutta la sua vita, fu un militante della libertà, sapendo ad ogni momento in ogni campo, riconoscerla, combattere i suoi errori, denunciarle le sue mancanze.

Péret era il tipo stesso d'uomo di cui la rivoluzione ha maggior bisogno. Senza illusioni, lucido, credeva alla Vita, alla "vera vita", sfuggendo all'ottimismo dei fanatici così come alla disperazione dei nichilisti. Solido.

Parlare della rivoluzione con Péret, e il vostro pessimismo o il vostro entusiasmo si scioglieva, si cristallizzava in un lingotto di convinzione tranquilla ma intrattabile.

Se Rivoluzione e Poesia erano per lui indissolubilmente legate, è perché Benjamin Péret vedeva nella poesia "il vero soffio dell'uomo", "la fonte di ogni conoscenza e questa conoscenza stessa"; "Qui la chiamano amore, là libertà, altrove scienza" diceva, e infatti era grazie a questa concezione e al libero esercizio dl suo spirito, che in quanto vero poeta seppe con coerenza e senza fallo, darci l'immagine di un uomo in cui tutta la potenza creatrice e liberatrice ha saputo manifestarsi.

In un epoca in cui, per poco o molto denaro, degli artisti si mettono a disposizione delle mode correnti; in cui, per un po' d'"onore", dei militanti operai si siedono al tappeto verde delle comissioni paritarie; in cui, per un posto "permanente", dei rivoluzionari ingannano la Rivoluzione rimanendo nel Partito comunista, un ragazzo come Péret, è una ventata d'aria pura.

Perché se la sua modestia, la sua povertà, la sua dignità l'hanno privato di una grande risonanza, non per questo l'opera poetica resta una delle più belle che vi siano.

E se essa è ancora troppo poco nota, troppo poco riconosciuta, è perché la borghesia e la sua stampa lo circondarono con un muro di silenzio, sapendo che Péret non era dell ostesso legno di cui erano fatti gli Aragon e i Dalì...

Più vicino a noi, all'interno stesso del movimento libertario, alcune "personalità" "anarchiche" farebbero bene a meditare l'esempio di Péret. Lui aveva del genio, loro non hanno nemmeno del talento. Lui non coltivava l'"io" come una pianta preziosa. Lui era Operaio del Libro (eh sì!) mentre loro sono a volte padroncini o commercianti. Nelle assemblee di militanti operai lui ascoltava, lui, e quand interveniva, era fraternamente, con concisione e chiarezza, come un compagno... mentre i nostri piccoli "pensatori" coltivano il genere paternalistico, scelgono le loro parole nel vocabolario dei chierici dei noati, giocano all'"élite", si pavoneggiano...

Sì, Péret, che lezione, per tutta quella gente! Ma più ancora che fonte per noi dove andare a ritrovare, quando la speranza ci abbandona, con il gusto maturo della libertà, la forza di lottare per essa - sempre e ovunque.

In verità, vi diciamo, compagni che non avete avuto la fortuna di conoscere Péret: era davvero qualcuno l'autore di "Je ne mange pas de ce paiun-là" [Di quel pane non ne mangio].

Mai lo ha fatto.

[Traduzione di Ario Libert]

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23 luglio 2022 6 23 /07 /luglio /2022 06:46

Habermas e l'anarchismo, o la razionalità del quotidiano

Sharif Gemie

Ho scoperto, sei anni fa, il pensiero del filosofo e sociologo tedesco Jürgen Habermas. Stavo leggendo un saggio di Jean-Marc Lyotard, La condition post-moderne, che mi infastidiva. In questo saggio Lyotard propone una critica della razionalità. La razionalità, a suo avviso, era una forza fascistizzante, legata alle avventure totalitarie del Terzo Reich. Certo, Lyotard non è il primo scrittore a rinunciare alla razionalità: i grandi maestri della controrivoluzione - de Bonald, de Maistre e Taine - hanno, anch'essi, proposto il rifiuto di una ragione astratta, isolante, individualizzante, e rifiutato una razionalità giacobina e dittatoriale. Per loro l'alternativa alla razionalità era la piccola comunità rurale, gerarchica e intima. Ma Lyotard non è un controrivoluzionario, nel senso classico della parola. Per lui, il rifiuto del razionalismo porta a una cultura liberata da un peso restrittivo e tirannico, dalla ricerca del significato di un testo o di un'idea. Senza il razionalismo, secondo Lyotard, potremo entrare in un mondo libero, senza dogmatismo, senza censura: un mondo composto di culture con delle logiche e dei dibattiti, ma dove non si aspetta la soluzione, o la fine del dibattito.

In questo stesso saggio, Lyotard identifica Habermas come il più notevole filosofo difensore della causa della razionalità. La maggior parte dei miei colleghi considerano Lyotard come un liberatore che guarda al futuro, mentre Habermas fa la figura di una vecchia barba, risalente all'età dei Lumi. Poiché non ero affatto convinto delle argomentazioni di Lyotard, mi sono rivolto a Habermas. Lo scopo di questo saggio è quello di offrire un'interpretazione anarchica del pensiero di quest'ultimo.

La scrittura di Habermas è molto differente da quella di Lyotard. Le parole di Lyotard sono aspre, corte e vivaci. Il suo stile stupisce il lettore, evoca anche una sensazione di poesia. Si può dire che scrive con tutte le virtù di uno scrittore francese. Mentre Habermas... scrive con tutti i vizi di uno scrittore tedesco. Una scrittura pesante, lunga e senza fine. Per ogni punto, un capitolo; per ogni considerazione, un paragrafo. Ma c'è una ragione per questa scrittura: contro l'illusione lirica dei post-strutturalisti, Habermas vuole dimostrare, con chiarezza e acutezza, il peso delle sue argomentazioni. Ciascuno dei suoi libri è uno sforzo intellettuale, un bilancio di un mondo del pensiero. Ogni opera combina le considerazioni sulla filosofia, la politica, la linguistica, l'estetica, la psicoanalisi e la storia. È grazie a questa qualità di interdisciplinarietà o di sintesi che la scrittura di Habermas accumula i punti, gli argomenti ed i paragrafi.

Cominciamo con uno sguardo storico allo sviluppo del pensiero filosofico europeo.

Il pensiero cristiano propone un tipo di certezza filosofica basata sui valori della fede e della rivelazione. Per varie ragioni, troppo numerose e troppo complicate da considerare da considerare qui, questa certezza è perita durante i secoli XVII e XVIII. I filosofi dell'età dei lumi hanno creduto, a loro volta, di poter considerare la matematica come il modello di pensiero più certo; un modello più flessibile della fede. Una legge come "un triangolo possiede tre lati" è universale e transtorica. Per loro, era possibile trovare delle leggi politiche e sociali così esatte: i loro dibattiti erano uno sforzo collettivo per trovare quelle leggi.

Il nostro secolo ha offerto un altro modello di pensiero: la lingua. E su questo punto la filosofia ha spesso fatto una netta distinzione tra "la lingua" e la parola". Quest'ultima è costituita dalle parole quotidiane, le conversazioni delle persone: parole tratte dal gergo, senza una grammatica precisa, senza regole esatte. Secondo pensatori come Ferdinand Saussure, il vero modello non è questo questa parole molle, ma il duro rigore della lingua, con la sua grammatica e le sue regole. La lingua, è la base, la vera essenza; la parola non nient'altro che un riflesso approssimativo. La lingua costruisce le "strutture di base” delle regole.

Ma il linguaggio è diventato più che un modello di organizzazione del pensiero: per i pensatori strutturalisti, ad esempio Claude Lévi-Strauss o Roland Barthes, la differenza strutturale tra la lingua e la parola, la grammatica e il discorso, fornisce anche la chiave per comprendere tutta la vita umana. La vita, la cultura, è come una lingua, secondo questo modello della lingua essa contiene una regola interna che si deve scoprire per capirla. La specie umana è persino organizzata dalle capacità e dalle strutture della lingua.

Per la prima generazione di strutturalisti il ​​problema chiave era identificare queste strutture della vita. Questa nuova scuola rimane nella tradizione del pensiero razionalista: c'è ancora il senso del progresso della vita intellettuale verso una comprensione più sottile e profonda, che si può raggiungere grazie ai rituali del dibattito e del contro-dibattito. La lingua è ancora vista come uno strumento della ragione. Ma la seconda generazione dei post-strutturalisti pone nuove domande. Per lei la lingua è arbitraria: il suo potere di rappresentare o di evocare il mondo materiale è limitato: è una trappola per gli ingenui. La ragione è formata dalla lingua; non può sfuggire ai limiti e alle forme della lingua; soprattutto, non può scoprire un significato che sia al di fuori della lingua. Non c'è né significato né realtà al di là del testo. La pretesa liberatoria del pensiero post-strutturalista è di emancipare il lettore dal dovere di cercare una logica in un mondo che è senza logica. È qui che torniamo allo scambio tra Habermas e Lyotard. Possiamo dire che queste idee sono una sfida al mondo regolato dai testi e dalle leggi, e un rifiuto – infine – dell'età dell'Illuminismo.

Ritorniamo all'anarchismo. L'anarchismo è anch'esso radicato nel rifiuto dell'illuminismo? Lo Stato moderno è nato nell'età dell'Illuminismo e questa tradizione di razionalità nasconde, sotto la tolleranza, uno stile di politica autoritaria. Prima delle analisi di Foucault, vi erano già stati molti scrittori anarchici che, anche loro, avevano denunciato la scienza e la tradizione illuministe. Tuttavia, alcuni avevano accettato il necessario rapporto tra la tradizione razionalista e l'anarchismo. In verità, la tradizione illuministica è una tradizione plurale, che non ha un unico significato politico, ma diversi, che comprendono il liberalismo, il socialismo, il marxismo e l'anarchismo. Nel pensiero di Habermas, troviamo un'interpretazione della tradizione illuministica che è vicina a un'interpretazione anarchica.

L'opera di Habermas rappresenta una volontà di ripensare l'illuminismo, con tutte le considerazioni e le esigenze del pensiero politico e filosofico della nostra fine del secolo. Per Habermas, i pensatori post-strutturalisti non sono che dei "neo-conservatori". Invece di un rifiuto del potere della ragione, Habermas propone un'analisi approfondita della natura della ragione e della razionalità. Habermas era uno studente di Adorno, che - nella sua Dialettica dell'Illuminismo - aveva formulato un'analisi molto critica della razionalità. Per Adorno, la razionalità incoraggia un tipo di pensiero strumentale, orientato verso uno scopo, e distruttrice della natura esterna (la terra) così come della natura interna (la psicologia umana). Nella sua opera, Habermas ammette che vi sia una razionalità strumentale, come nell'analisi di Adorno, ma argomenta che esistono anche altri tipi di ragionamento, in particolare il ragionamento comunicativo. In questo modello, la ragione non è una cosa che si può possedere, ma una qualità presente nella conversazione tra partecipanti che hanno accettato alcune convenzioni psicolinguistiche. Delle circostanze esterne possono aumentare o diminuire la qualità del ragionamento, soprattutto l'uguaglianza dei partecipanti che ne è forse la più importante.

C'è un aspetto dell'analisi linguistica di Habermas che è molto particolare: Habermas analizza la parola delle persone, non la lingua. Benché la sua scrittura sia iper-accademica, il suo soggetto e il suo modello filosofico sono costituiti dalla vita quotidiana. Questa forma di razionalità comunicativa è una qualità sia delle conversazioni banali che, ad esempio, dei discorsi filosofici. Quest'aspetto del pensiero habermasiano non è "anarchico" in un senso semplicistico e chiuso, ma è una qualità che evoca l'enfasi anarchica sulla capacità politica della gente comune per l'autogestione della propria vita.

 

Tutti i tipi di pensiero anarchico sono fondati su modelli di "controcomunità": ogni filosofia anarchica ha fatto riferimento a una collettività che pratica un ideale etico, anche se spesso in modo rudimentale. Per gli anarcosindacalisti, la collettività significativa è quella degli operai delle fabbriche e delle officine. Il proletariato non è semplicemente un gruppo sfruttato – come osservano i filosofi – né semplicemente un gruppo con potere rivoluzionario – come dicono i marxisti; il proletariato è una collettività sociale che pratica il mutuo sostegno e la solidarietà. C'è nella vita proletaria già un senso di libertà che somiglia alla società anarchica del futuro. Kropotkin, nel suo libro Il mutuo appoggio, ha identificato e analizzato la capacità politica delle diverse comunità. Ma il proletariato non è l'unica contro-comunità di anarchici: si è pensato agli artigiani, ai contadini e anche alle reti degli artisti d'avanguardia. Anche gli anarchici più individualisti - Stirner e Godwin - concepiscono un soggetto collettivo capace di agire.

È su questo punto che possiamo vedere una somiglianza tra il pensiero filosofico di Habermas e il pensiero politico degli anarchici. Nei suoi scritti, Habermas non dice quasi nulla sull'anarchismo: vi sono appena alcuni riferimenti. Nel suo libro sullo sviluppo della sfera pubblica, rileva - in una frase - la possibilità di una sfera pubblica anarchica piuttosto che liberale. Al contrario, il suo libro sull'identità della modernità identifica l'anarchismo con una semplice volontà di distruzione. Ma nel contenuto del suo pensiero c'è una profonda somiglianza. Le due tradizioni attirano l'attenzione su dei tratti della vita quotidiana odierna che fungono da punti di appoggio a una società più giusta. Entrambe negano la capacità delle élite di potere o della comunicazione di parlare a nome in nome della maggioranza della popolazione. Entrambe le tradizioni condividono una visione utopica, attraverso la quale gli aspetti della vita quotidiana sono sintetizzati per costruire un modo di giudicare o valutare la società attuale.

 

Certamente, la “contro-comunità” abbozzata nel pensiero habermasiano è molto vaga. ma anche quelli di Godwin, Stirner e Proudhon lo sono. Il significato principale dei libri di Habermas sta nel rifiuto del modello "produttivista" dei marxisti classici. Al suo posto, propone un'analisi delle forme comunicative: quindi, per lui l'Illuminismo non è soltanto un momento nello sviluppo del pensiero razionalista, ma anche della costruzione della sfera pubblica, dominio delle istituzioni informali, così come i caffè, i giornali e i saloni. A partire da queste reti, si è partecipato alla creazione della “modernità”: una razionalità basata sulla comunicazione liberata dal potere regio o clericale. È evidente che i “momenti” dei successi anarchici erano radicati in reti simili: non semplicemente delle organizzazioni politiche o sociali, ma gli ambienti dei militanti e simpatizzanti.

Le tecniche classiche del liberalismo per realizzare il progresso sociale - il mercato capitalista e il governo rappresentativo - hanno fallito. Gli stati moderni, capitalisti o socialisti, mancano di "legittimità"; le loro popolazioni sono senza identità chiara o stabile; i loro problemi sociali non sono risolti dalle organizzazioni civili, perché sono diventate autonome dal popolo al quale esse si rivolgono. Per Habermas la modernità è “un progetto incompleto” che deve essere completato con altri mezzi. Quali altri mezzi? Qui, il pensiero di Habermas non è chiaro: forse un'altra forma di socialismo; forse un tipo di liberalismo che sia razionalista in un altro senso... Si può anche pensare che forse le tradizioni e le pratiche anarchiche sono, anch'esse, degli strumenti per la costruzione di una modernità più umana e più libertaria.

Sharif Gemie

University of Glamorgan

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20 luglio 2022 3 20 /07 /luglio /2022 15:00

L’idea di rivoluzione in Castoriadis

 
Daniel Blanchard
 
Castoriadis ci ha lasciati, tace eppure non posso impedirmi di riprendere la conversazione con lui. A volte, però, realizzo che non è più qui; allora è come salisse di numerose il suono di tutti i walkman nella metropolitana, di tutti i televisori dei vicini, come se il frastuono urlante dell'autostrada si avvicinasse al mio cranio. Nel vuoto lasciato da questa voce, che era la sola delle voci per così dire pubbliche, ad affermarsi ancora, e questo sino all'ultimo momento, quella di un rivoluzionario, è come se si serrasse un po' più su di noi l'informe discorso pieno di rumore e di furore, di una società idiota e cieca, votata alla sua sola riproduzione ripetitiva, al funzionamento del dominio.
Radicalmente estraneo al puro funzionamento o alla ripetizione sarà stato il lavoro di Castoriadis. E la sua opera, malgrado la sua ampiezza, mai si erigeva in monumento. E' una traiettoria, sovreccitata, lo si può dire, e mi piacerebbe mostrare qui la corrente che l'alimenta da un capo all'altro il suo slancio instancabile di comprensione del "socio-storico", è l'idea di rivoluzione. Avendo incontrato mediante il marxismo l'idea rivoluzionaria, questa "immensa voce che beve" la storia, tutto il reale, l'intelligenza, le passioni degli uomini per riconverti in energia creatrice, non si accontenta di aderirvi: la fa sua. E attraverso una serie di esperienze e di rotture, da vero rivoluzionario rivoluziona l'idea di rivoluzione.
Rottura con lo stalinismo, innanzitutto, la gioventù comunista illegale, alle quali aderisce a quindici anni, poi, per poco tempo, il PC greco. Il che lo illumina sullo stalinismo, è al contempo la sua personale esperienza e la testimonianza dei militanti, che, dopo aver partecipato alla rivoluzione, sono stati vittime del terrore bolscevico: Souvarin, Ciliga, Barmine, Serge... Rottura con il trotskismo successivamente: "la critica del trotskysmo e la mia personale concezione hanno preso forma definitiva durante il primo tentativo del colpo di Stato ad Atene nel dicembre 1944. Diventava infatti chiaro che il PC non era un "partito riformista" alleato della borghesia..., ma che mirava ad impadronirsi del potere per instaurare un regime dello stesso genere di quello esistente in Russia". (Les Carrefours du labyrinthe, IV, p. 83).

Rottura che sancisce, nel 1949, la creazione, insieme a Lefort e alcuni altri militanti, del gruppo Socialisme et Barbarie e della rivista dallo stesso nome. La III guerra mondiale sembra imminente. Il compito dei rivoluzionari è di trasformarla in una lotta dei lavoratori armati, al contempo contro la borghesia e contro la burocrazia che pretende di rappresentarli, per instaurare il socialismo, offrendo così all'umanità la sola alternativa alla barbarie...

Queste prime rotture si effettuano in nome del marxismo, benché occorra stiracchiare un po' i concetti per farvi rientrare la definizione della burocrazia come classe e la nozione di capitalismo burocratico. La rottura è categorica in compenso con il leninismo. Non è più ad essere il portatore del progetto rivoluzionario ma il proletariato stesso, votato dunque a darsi delle forme di organizzazione autonome. E il gruppo si assegna anche come compito di aiutarlo in ciò.

Negli anni successivi, il gruppo approfondisce la sua analisi dell'URSS e applica le sue nuove idee alla Iugoslavia, alla Germania orientale, alla Cina. Ma la rivista rende conto anche dei movimenti sociali che si svolgono in Occidente. Essa denuncia il ruolo dei PC e delle organizzazioni sindacali che le utilizzano per i loro propri obiettivi di potere. Si dedica anche a porre in rilievo l'importanza della lotta dei lavoratori contro la gerarchia nel lavoro stesso e la loro tendenza all'autorganizzazione informale, forma embrionale e conflittuale di una gestione operaia del processo di gestione.

E' questo uno dei contributi essenziali dei membri del gruppo che lavorano nelle imprese, come Mothé o Simon, e anche dei compagni di Correspondence a Detroit e di Solidarity in Inghilterra, più legati al mondo della produzione moderna. Questo equivale a dire l'importanza dell'elaborazione collettiva in questo gruppo che non era affatto un qualunque comitato di redazione di rivista, come si è troppo spesso detto per molto tempo, dove avrebbero compiuto le loro prime battaglie alcuni giovani intellettuali ulteriormente votati alla gloria (Castoriadis, Lefort, Lyotard, Debord per poco tempo...). Equivale a dire anche che malgrado il rigoroso isolamento che gli imponeva il ricatto ideologico esercitato su tutta la società francese di allora da parte del PC e dei suoi compagni di strada, tra cui Sartre, il gruppo non si trovava affatto tagliato fuori dalla realtà. Al contrario, era una specie di Nautilus, di osservatorio e di laboratorio immerso nei grandi fondali che rilevavano le correnti profonde che stavano facendo la storia.

E' talmente così poco tagliato dalla realtà che i fatti vengono a confermare le sue analisi, dapprima nel 1953 con la rivolta degli operai di Berlino Est. ma, durante l'autunno del 1956, accade davvero l'apparizione del pianeta Nettuno nel luogo e al momento previsti da Le Verrier. Alcune delle concezioni allora in circolazione sui paesi dell'Est non comportava la condizione di possibilità di un'insurrezione contro la burocrazia, di operai che si organizzavano in consigli - tranne quella di Castoriadis e dei suoi compagni. Momento straordinario per questo pugno di proscritti ideologici: fierezza di ricevere l'adesione della Storia alle loro idee, entusiasmo di fronte all'eroismo e la creatività degli insorti ungheresi, emozione di fronte al tragico esito del sollevamento. Eccesso di emozione, di cui Castoriadis se libera in lunghe improvvisazioni al piano.

Per Castoriadis, la prospettiva rivoluzionaria si trova rifondata. Elabora un testo programmatico che fonde in un insieme di audacia e di immaginazione a mio avviso ammirevoli, tutte le esperienze di lotta più significative dell'epoca: la rivoluzione ungherese, la contestazione dell'ordine capitalista nel lavoro, ma anche le lotte per l'emancipazione dei colonizzati, delle minoranze, delle donne, dei giovani... In un primo contributo della rivista (Socialisme ou Barbarie n° 22) in Sur le contenu du socialisme, estrapolando a partire dalle creazioni  più avanzate del movimento operaio e riprendendo sistematizzandole e amplificandole le proposte di Pannekoek e dei comunisti dei consigli, costruisce un modello coerente del progetto socialista sul principio dell'autogestione generalizzata. In un altro contributo, rovescia in qualche modo la prospettiva e, servendosi di questo progetto come di un rivelatore, rileva nella società capitalista la radice profonda del suo sistema di dominio, la sua irrazionalità, la sua crisi essenziale. "Ovunque la struttura capitalista consiste nell'organizzare la vita degli uomini dall'esterno, in assenza degli interessati e contro le loro tendenze e i loro interessi". (n° 22, p. 4). "Di fatto, il capitalismo è obbligato ad appoggiarsi sulla capacità di autorganizzazione dei gruppi umani, sulla creatività individuale e collettiva dei produttori, senza la quale non potrebbe sussistere un giorno (Ibid., p. 4). "Il proletariato fa vivere il capitalismo contro le norme del capitalismo... E' per questo che il capitalismo è una società pregna di prospettiva rivoluzionaria" (Ibid., p. 6).

Rottura, di nuovo, rottura con il marxismo questa volta, su un punto cruciale. Non vi sono "leggi" della Storia, né contraddizioni oggettive essenzialmente economiche che determinano l'ineluttabile rovina del capitalismo e l'avvento non meno ineluttabile del socialismo. E' la lotta degli uomini per la padronanza della loro propria vita (l'autonomia, comincia a dire Castoriadia) che mette in crisi il capitalismo, che apre la possibilità di una società libera e che gli dà un senso e un contenuto concreto.

Il Movimento rivoluzionario sotto il capitalismo moderno e Marxismo e teoria consumano l'abbandono del marxismo e in particolare l'idea che la lotta di classe costituisce il motore essenziale della dinamica rivoluzionaria. Nella società capitalista burocratizzata, a quasi tutti i livelli della piramide, i suoi membri sono sottoposti all'alienazione definita dall'alto. Tanto che la distinzione politicamente pertinente separa oramai coloro che accettano il sistema da coloro che lo combattono. La soggettività diventa decisiva, e in L'istituzione immaginaria della società, Castoriadis enumera tutti i desideri che lo portano all'impegno rivoluzionario e che potrebbero essere quelli di tutti.

In questo momento del suo percorso, vediamo che Castoriadis si ritrova molto vicino, ma senza mai riconoscerlo, da ciò che è sempre stato, mi sembra, la concezione anarchica e che pone in risonanza, e anche in sinergia, la rivolta dell'individuo e il movimento sociale. Non rinnegherà mai questo impegno ma l'analisi della "privatizzazione" lo porta, verso il 1965, ad allontanarsi dall'attività politica e a porre come in sospensione la prospettiva rivoluzionaria. Ma non l'idea di rivoluzione. Ci torneremo su.

E' questa constatazione della privatizzazione ad essere decisiva in quest'evoluzione e non l'abbandono del marxismo, come hanno affermato, ignorando l'esperienza anarchica, i compagni di Socialisme ou Barbarie che si sono separati da Castoriadis nel 1963. Questa constatazione risale alla fine degli anni cinquanta ma non smette di confermarsi, in termini sempre più severi, nel corso degli anni. Le persone si allontanano dalla sfera pubblica; non pongono che dei problemi parziali o categoriali e mai quello del sistema in quanto tale; si ripiegano sulla sfera privata del consumo e degli svaghi.

Ora, questo atteggiamento che è "l’inverso rigoroso della burocratizzazione", priva l’intellettuale rivoluzionario, innanzitutto, degli strumenti della sua critica, poiché, come abbiamo visto, sono le lotte concrete dei membri della società che devono fornirgliele. Lo priva anche evidentemente dell'alleato naturale della sua azione. In politica, rischierebbe di dire non importa cosa e di parlare a vuoto. E' per così dire votato alla filosofia.

Da parte mia, piuttosto che di "constatazione" penso che si tratta di una "disillusione illusoria". Disillusione, perché si direbbe che il realismo da lui invocato contro l'ideologia mistificante del marxismo gli rappresenta come insignificanti dei movimenti che un tempo gli sembravano portatori di un senso critico, gli impediscono - e tutto il gruppo con lui - di rilevare i prodromi dell'esplosione di maggio 1968, gli fa anche denunciare delle lotte come quella che ha mobilitato 300.000 Tedeschi contro l'installazione di missili Pershing nella Repubblica Federale Tedesca: "Siamo disposti a manifestare contro i pericoli biologici della guerra o contro la distruzione di un bosco; siamo però disinteressati alle questioni politiche e umane legate alla situazione mondiale contemporanea. " (Les Carrefours du labyrinthe, IV, p. 17).

Illusoria perché, per un buon secolo e mezzo, tutte le lotte, siano esse state condotte dai lavoratori, le donne, i giovani, ecc. sono state scatenate da delle rivendicazioni parziali, e il loro eventuale significato universale è rimasto essenzialmente implicito, tranne quando è stata portata sul piano politico globale da rari movimenti rivoluzionari o quasi tali - o dall'impostura burocratica. In realtà, dietro questa "osservazione", sento una negazione che cerca di nascondere l'esigenza personale, teorica indubbiamente, di dedicarsi alla filosofia. Ma in questo approccio, malgrado ciò che essa mi sembra avere di equivoco, Castoriadis non "tradisce" né la rivoluzione né se stesso. Proiettandosi sul piano della filosofia, resta fedele sia al contenuto delle sue idee sia al fondamento che dà loro.

Questo fondamento non è metafisico, è creazione degli uomi. Così come non esiste prospettiva rivoluzionaria se i soggetti umani non la tracciano nelle loro idee e nella loro pratica, così il concetto di autonomia può essere concepito soltanto perché, dalla città greca sino ai consigli operai, alcune invenzioni della storia europea lo hanno istituito come significato politico. In compenso, è la comparsa di questo significato che rivela nell'essere e nel tempo questo tratto essenziale del consistere in creazione.

Sul piano dei contenuti, Castoriadis non ha smesso di affermare il suo attaccamento al progetto di società definito in Sur le contenu du socialisme e basato sull'autogestione generalizzata, la democrazia diretta e l'uguaglianza. Nell'intervista rilasciata poco prima della sua morte a "Le Monde Diplomatique", sostenne che ai suoi occhi il dilemma "socialismo o barbarie", enunciato nel 1949, rimaneva perfettamente pertinente. Infine, e forse soprattutto, la rivoluzione, anche  tagliata fuori dalla prospettiva storica attuale, resta al centro della sua visione: è il momento inaugurale dell'autonomia, che non è uno stato ma una rottura, che non è che un momento inaugurale. La rivoluzione è l'autonomia in campo politico. A proposito dell'impresa di Castoriadis, Axel Honneth parla di "salvaguardia ontologica della rivoluzione". È anche un potente fondamento filosofico-ontologico, antropologico, epistemologico... - dell'idea libertaria.

Approccio, dunque, essenzialmente di rottura, quello di Castoriadis - e, tuttavia, si combina con dei movimenti di chiusura. Come se, una volta posta l'autonomia nell'orizzonte dell'umano in tutti i suoi aspetti, una volta posto il vuoto della determinazione nel cuore dell'essere e il tempo come creazione pura, questo pensiero, ogni volta che si collega a degli oggetti particolari del campo "socio-storico", avesse tendenza a irrigidirsi, a chiudere questo oggetto su una razionalità esaustiva e anche su una funzionalità.

E', io credo, il caso della teoria del capitalismo moderno che retrospettivamente può apparire una concettualizzazione abusiva nella misura in cui non contiene nemmeno in germe la possibilità del rovesciamento catastrofico del rapporto di forze che si è prodotto nelle società capitalistiche a partire dalla metà degli anni 70 e della restaurazione che ha portato alla "utopia del mercato autoregolatore" (la "grande trasformazione" di Polanyi, ma al contrario), nonostante la sua "assurdità" più che dimostrata.

Questo è anche il caso della burocrazia e della tendenza alla burocratizzazione. Nelle "strutture di potere, nell'economia e persino nella cultura... è chiaro che il problema è la burocrazia e non il 'capitale' nel senso di Marx", dichiara nel 1983 (Les Carrefours du labtrinthe, II, p. 84). Alla sua visione della burocratizzazione come una tendenza irreversibile del capitalismo, si possono obiettare gli sforzi attualmente condotti dalle imprese per deburocratizzarsi attraverso il "nuovo management", la "esternalizzazione", ecc.

Si può soprattutto, a mio avviso, dispiacersi che questa burocratizzazione oblitera totalmente il ruolo del rapporto mercantile, di cui il capitalismo si accanisce a fare l'unico modo di scambio tra gli uomini e che consiste nella negazione e, nei fatti, una distruzione del rapporto sociale e di ogni scambio simbolico, cosicché il capitalismo è essenzialmente desocializzazione e non  sopravvive se non divorando rapporti sociali sia ereditati, sia secreti suo malgrado. Non parlerò della "stratocrazia", che il crollo del regime sovietico ha rapidamente dimostrato di non essere altro che un artefatto inutile. Vorrei tornare alla privatizzazione. Alla sua apparizione, questo concetto descrive il ripiegamento delle persone nella disperazione, sulla sfera privata; resta dunque collegato al movimento sociale. Finisce per tradurre il fatto che la società attuale non produce più il tipo antropologico che gli sarebbe necessario per assicurare la sua sopravvivenza, ma un tipo - cinico, gaudente, irresponsabile, eccetera - che conviene alle esigenze a breve termine del suo funzionamento. La nozione si pietrifica allora in una funzionalità astratta.

Ma questa privatizzazione tradisce anche una chiusura sul piano della pratica del pensiero, per così dire. In un certo senso, l'universale della filosofia costituisce la sfera privata del filosofo. Ho l'impressione che Castoriadis si "ripieghi" in essa, si chiuda al balbettio irrazionale del dominato, che anneghi i suoi profili concreti, la sua singolarità di soggetto nel tutto di una società smontabile come un motore, con i suoi "significati immaginari", ecc. e che di colpo dimentichi che l'essenza stessa di questa società è il dominio e che l'ultima ratio della sua razionalizzazione è ancora il dominio, foss'anche a costo di mostruose "assurdità".

Chiunque abbia grequentato Castoriadis ha potuto rimanere colpito dal paradosso di un pensiero così radicalmente libertario nel suo contenuto e così reticente ad aprirsi al pensiero degli altri nella sua pratica. Al di là delle considerazioni psicologiche, vorrei cercare di individuare il senso di questo contrasto e mi permetterò di invocare la mia esperienza personale.

Dopo che gli oppositori di Castoriadis si sono separati dai suoi sostenitori, di cui io facevo parte, si può dire che il gruppo ha cominciato a parlare con una sola voce, quella di Castoriadis. Una voce certamente forte e appassionata, "voce immensa che beve, che beve", che beveva il mondo, la Storia, ma anche ogni altra voce, che assorbiva in sé tutto ciò che l'uno o l'altro poteva dire, così che il gruppo non era altro che la sua cassa di risonanza. Letteralmente, non ci si sentiva più parlare, non ci si sentiva più pensare. E' allora che ho lasciato il gruppo, per una sorta di riflesso psichico di sopravvivenza, incapace di esprimere il minimo disaccordo. E il gruppo stesso ha dichiarato la propria dissoluzione poco più di un anno dopo.

 

La posta in gioco in questa crisi, è l'essenza stessa del linguaggio che vuole che la relazione che intratiene con la realtà, che la "costituisce", la "sveli" o altro, non si effettui che in un processo che è sempre singolare, che è interminabile e che non può avere altro luogo che la molteplicità degli esseri parlanti. Per ogni membro del gruppo, un esercizio così autonomo del linguaggio era incompatibile con il fatto che ogni parola, ogni pensiero individuale, si trovasse istantaneamente, sin dal suo sorgere, catturato, digerito e assimilato in un grande insieme che sembrava essere sempre stato presente.

Come ho detto una volta a Castoriadis pensando a questo episodio, se è vero che l'uomo è una chimera di scimmia e di vuoto, questo vuoto, spetta a ciascuno di noi esaminarlo e trarne quell'inesauribile potenziale di creazione che costituisce l'essere stesso - altrimenti si resta o si torna ad essere scimmie. Ora, questa esperienza dell'alterità degli altri nel linguaggio è allo stesso tempo quella dell'irriducibile parte in ombra del reale. Quella parte, precisamente, che il pensiero di Castoriadis risparmia in questi "magmi" di significati inafferrabili con la sola logica "insiemista-identitaria".

Questa stessa parte davanti alla quale, tuttavia, questo stesso pensiero, nel suo vissuto, si irrigidisce, mi sembra, si stringa, si chiuda, o forse che non abbia smesso di fuggire in un discorso sperdutamente perentorio, votato all'affermazione costruttiva o alla negazione polemica, e ignorando la congettura, nella ricerca di una sognata coerenza circolare, chiusa. Quando egli stesso sapeva benissimo che, chiusa, non poteva essere, perché la coerenza stessa è creazione.

Questo vuoto dell'essere, questa indeterminatezza dell'umano davanti al quale mi sembra che il pensiero di Castoriadis indietreggi spaventato, non è forse quello che sta al fondo della domanda che ha posto l'affondamento sotto i colpi del nichilismo capitalista della certezza di essere umani, la folle domanda di sapere "se questo è un uomo", così come l'ha formulata Primo Levi? Non vi è qui un "significato immaginario" centrale della società moderna? E come si concilia con la ricerca dell'autonomia? Saremo in grado di conviverci, trasformare quest'angoscia in godimento della libertà? Ecco a cosa pensavo negli ultimi tempi di discutere con Castoriadis.

Ma per la prima volta forse, la sua parola è rimasta sospesa. Il suo lavoro, per quanto colossale sia, lascia aperta un'infinità di domande. Indubbiamente lui stesso sarebbe d'accordo sul fatto che, incompiuta, la sua opera rimane ancora più fedele all'impulso allo slancio che l'ha sostenuta.

[Traduzione di Ario Libert]

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17 luglio 2022 7 17 /07 /luglio /2022 05:07

Il pensiero anarchico

crapouillot-Serge

Victor Serge

Le origini: la rivoluzione industriale del XIX secolo

La più profonda rivoluzione dei tempi moderni, compiuta in Europa nella prima metà del XIX secolo, passa quasi inavvertita dagli storici. La rivoluzione francese le ha spianato la strada, i rovesciamenti politici che si succedono nel mondo, tra il 1800 ed il 1850, contribuiscono, per la maggior parte, ad evitarla. Il senso dello sviluppo storico di quest'epoca è nettamente discernibile: un nuovo modo di produzione si stabilisce, provvisto di una nuova tecnica. La rivoluzione industriale inizia a dir il vero durante il primo Impero, con le prime macchine a vapore. La locomotiva è del 1830. Già i lavori di tessitura, apparsi all'inizio del secolo, hanno formato, in centri come Lione, un proletariato industriale. In alcune decine di anni, la borghesia, armata del macchinismo, trasforma, spesso nel senso letterale del termine, la superficie del globo. Le fabbriche si aggiungono alle officine ed alle manifatture, mutando la fisionomia delle città, procurando loro a volte una crescita senza precedenti. Le ferrovie ed i battelli a vapore modificano le nozioni stesse di tempo e di spazio rimaste stabili dall'antichità.

Canuts--Lione--1831.jpg

La rivolta dei Canut di Lione del 1831

 

Vediamo evidenziarsi, con una forte nettezza, i profili di nuove classi sociali e che dopo lotte si uniscono. Il "Vivere lavorando o morire combattendo" dei canuti (canuts) di Lione significa per il mondo l'apparizione del Quarto Stato, nato nella disperazione. Meno di vent'anni dopo, due giovani pensatori, appena noti in alcuni circoli di rivoluzionari, affermeranno, come un tempo Sièyes per la borghesia, che, non essendo nulla, il proletariato doveva essere tutto: perché tale era il senso del Manifesto comunista che Karl Marx ed Engels redigono, nel 1847, a Parigi e Bruxelles, in miserabili camere d'albergo...

Alexander_I_of_Russia-2.pngL’Europa si appresta alle tormente del 1848. Questo mondo, ricco di esperienze, sordamente e violentemente provato dalle conseguenze della rivoluzione borghese (1789-1793-1800...) nel suo statuto politico, sconvolto dal macchinismo e le modificazioni di struttura sociale che esso accelera, vive su dei conflitti di idee che fanno pensare ad una lotta di Titani. La Germania, l'Italia, l'Europa centrale, spezzettate in piccoli Stati semi feudali, non fanno che entrare nella via dell'unità nazionale, di modo che le aspirazioni sociali si complicano con l'idealismo nazionale giovane-italiano, giovane-tedesco, giovane-ceco... La Russia, entrata nella via europea dalle guerre del primo Impero, che hanno portato Alessandro I ed i suoi cosacchi a Parigi, rimane una monarchia assoluta, fondata sulla servitù; l'Inghilterra, per contro, dove inizia la rivoluzione industriale, è una specie di repubblica coronata, nella quale i borghesi milionari non hanno meno sovranità dei landlords; le tradizioni del 89-93 non cessano di animare in Francia dei movimenti che fanno di questo paese il vero laboratorio delle rivoluzioni. Bisogna tener conto della complessità e del dinamismo, di molteplici aspetti di quel tempo per vedervi nascere le idee del nostro.

Marx.jpgKarl Marx e Engels, giunti dalla Germania a Parigi, cercano di realizzare la sintesi della filosofia tedesca, dell'esperienza rivoluzionaria della Francia e dei progressi industriali dell'Inghilterra. Essi gettano anche le basi del socialismo scientifico. Hanno dovuto, per pervenirvi, rifiutare l'affermazione individualista di un altro giovane hegeliano, che essi hanno conosciuto a Berlino, Max Stirner, l'autore di L'Unico e la sua proprietà, cioè di un trattato, ragionato a fondo, dell'individualismo anarchico. Nessuno ha meglio eretto, in tutta la sua fragile altezza, l'uomo solo, l'Unico, nel prendere coscienza di se stesso, per resistere a tutta la macchina sociale, di Max Stirner, che visse e morì oscuramente, in una campagna della Prussia, coltivando il suo campo, solo, incompreso anche dalla sua moglie. La sua opera aiuta, per opposizione, Marx et Engels, che la criticano nell'Ideologia tedesca, a porre il problema dell'uomo sociale. Essi incontrano a Parigi due altri fondatori dell'anarchismo, Proudhon e Bakunin. Essi trovano anche, e non dobbiamo stupircene, che i creatori di tutto il pensiero rivoluzionario moderno hanno maturato nelle stesse lotte, si sono formati attraverso le stesse aspettative, a volte contraddittorie, si sono sostenuti, stimati, chiariti gli uni con gli altri, prima di dividersi, ognuno obbedendo alla sua legge interiore - riflesso di altri leggi più generali - per compiere la propria missione.
stirner-rosso.JPGSin da allora, le idee sono fissate. La dottrina individualista di Stirner, se ha pochi adepti, non sembra, dopo ottanta anni, suscettibile di essere rivista o emendata: essa è definitiva, in astratto. La dottrina del Manifesto comunista rimane oggi la base del socialismo. La gestazione dell'anarchismo sarà più lunga, poiché non approda alle sue forme contemporanee che con Kropotkin, Élisée Reclus e Malatesta, molto più tardi, dopo il 1870 e la fine del bakuninismo propriamente detto; ma le linee essenziali ne sono date sin dalla metà del XIX secolo. Come non vedere in questo frammento di una lettera di Proudhon a Karl Marx, datata da Lione il 17 maggio 1846, una delle prime affermazioni dello spirito libertario nella sua marcia verso il socialismo:

Proudhon, di Courbet, 1853"Cerchiamo insieme, se volete, le leggi della società, il modo in cui queste leggi si realizzano, il progresso seguendo il quale giungiamo a scoprirle; ma per Dio! dopo aver demolito tutti i dogmatismi a priori, non pensiamo a nostra volta, a indottrinare il popolo; non cadiamo nella tradizione del vostro compatriota Martin Lutero, che, dopo aver rovesciato la teologia cattolica, si mise subito con grande profusione di scomuniche e anatemi, a fondare una teologia protestante. Da tre secoli, la Germania è occupata nel distruggere i rattoppi di Martin Lutero; non carichiamo il genere umano con il compito di  creare nuova malta. Plaudo di tutto cuore al vostro pensiero di produrre un giorno tutte le opinioni; facciamoci una buona e leale polemica; diamo al mondo l'esempio di una tolleranza saggia e previdente, ma perché siamo alla testa del movimento, non facciamoci i capi di una nuova intolleranza, non atteggiamoci in apostoli di una nuova religione; questa religione fosse pure la religione della logica, la religione della ragione. Accogliamo, incoraggiamo tutte le proteste; facciamo appassire tutte le esclusioni, tutti i misticismi; non consideriamo mai una questione  come esaurita, e quando avremo usato sino al nostro ultimo argomento, ricominciamo se c'è bisogno, con l'eloquenza e l'ironia. A questa condizione, entrerei con piacere nella vostra associazione, altrimenti, no!" [1].

Proudhon, Bakunin, Marx

kropotkin gr Cos'è la proprietà? di Proudhon è del 1840; la Filosofia della miseria del 1846. (Marx risponderà con Miseria della filosofia). Spirito giuridico, spirito anche pratico, di piccolo artigiano francese, Proudhon definisce la proprietà attraverso il furto, constata in termini di una chiarezza perfetta l'antagonismo dei possidenti e dei salariati sfruttati, ne deduce la necessità di una rivoluzione sociale, ma si rifugia presto nel mutualismo. Marx dirà di lui che "il piccolo borghese è la contraddizione vivente" e Blanqui che "Proudhon non è socialista che per l'illegittimità dell'interesse" [2]. Kropotkin lo giustificherà in questi termini: "Nel suo sistema mutualistico, cosa cercava, se non di rendere il capitale meno offensivo, malgrado il mantenimento della proprietà individuale, che egli detestava con tutto il cuore, ma che credeva necessario come garanzia per l'individuo contro lo Stato?" [3]. "La rivoluzione che resta da fare, consiste nel sostituire il regime economico o industriale al regime governativo, feudale e militare... Allora la bandiera rossa sarà proclamata stendardo federale del genere umano".

marx karl, LevineLa maggior parte degli argomenti che alimentarono la polemica tra Marx e Proudhon si ritrovano ancora nell'arsenale attuale dei marxisti e degli anarchici. L'avversione degli anarchici per l'azione politica, concepita come superflua in rapporto all'azione economica, la sola valida, data da Proudhon. Come molti sindacalisti oggi, che hanno cominciato con l'essere libertari e rivoluzionari, prima di abbrutirsi nel riformismo, Proudhon, nel sistema che prefigura, sfocia in un insieme di riforme destinate a garantire i diritti dell'individuo-produttore e dedotte, non dallo studio del divenire sociale, ma da principi astratti, a base di sentimenti e moralità. Il grande moralista rivoluzionario si muta così, malgrado lui, in conservatore. "Dopo aver scosso il sistema sociale e proclamato l'imminenza della rivoluzione, finiva con il salvaguardare il meccanismo sociale attuale sotto una forma più o meno attenuata. Se lo si pone accanto ai socialisti per la sua critica, rimane un conservatore piccolo borghese nel campo della pratica" [4] Il padre dell'anarchismo è anche quello del riformismo.

medium Stirner2Marx ha, sin dall'inizio della sua carriera, rifiutato Stirner, poi combattuto Proudhon; gli ultimi anni della sua vita, in seno alla I Internazionale, li userà in gran parte a combattere Bakunin, altra incarnazione - del tutto indomita - dello spirito anarchico. Appartenente alla piccola nobiltà russa, ufficiale nell'esercito dello zar Nicola I, nutrito di dispotismo a tal punto da non poter più vivere che per la rivoluzione, combattente del '48 a Dresda e a Praga, incatenato al muro della sua segreta di Olmütz, consegnato allo zar, rinchiuso nelle fortezze di Pietro e Paolo e di Schlüsselbourg, egli ha scritto là, in una casamatta, una Confessione, indirizzata a Nicola I, in cui formicolano i passaggi profetici, deportato in Siberia, evaso, riprendee ad Occidente la sua vita di rivoluzionario, discepolo e traduttore di Marx, avversario inconciliabile di Marx, fondatore di una internazionale segreta nella prima Internazionale dei lavoratori, rispunta, aspramente combattuto, a volte diffamato, rivoltoso, nei suoi ultimi anni, a Lione e cospiratore a Bologna, non rinunciò all'azione che all'ultimo momento della sua vita, per morire. Compì molte variazioni, con una potente fedeltà a se stesso. La sua definizione dell'anarchia, eccola, così come egli la dà in Dio e lo Stato: "Respingiamo ogni legislazione, ogni autorità e ogni influenza privilegiata, patentata, ufficiale e legale, anche tratta dal suffragio universale, convinti che non potrebbe tornare che a profitto della minoranza dominante e sfruttatrice, contro gli interessi dell'immensa maggioranza asservita".

BakuninCitiamo qui i suoi giudizi, poco noti, su Marx e Proudhon. Bakunin scrive a Marx, nel dicembre del 1868: "Mio caro amico! Capisco ora più che mai  quanto tu abbia ragione di seguire la grande via della rivoluzione economica e di invitarci a prendervi parte, disprezzando le persone che errano per le strade laterali dei branchi sia nazionali, sia politici. Faccio ora ciò che tu fai già da vent'anni... La mia patria è oramai l'Internazionale di cui tu sei uno dei fondatori. Così, mio caro amico, sono tuo discepolo e fiero di esserlo".

Franz MehringFranz Mehring, nella sua biografia di Marx, cita anche i seguenti testi, di Bakunin: "Marx è un pensatore economista serio e profondo. La sua immensa superiorità rispetto a Proudhon è dovuta al suo essere un autentico materialista.  Proudhon malgrado tutti gli sforzi fatti per staccarsi dalle tradizioni dell'idealismo classico, è tuttavia rimasto per tutta la vita un idealista impenitente, cadeva di volta in volta sotto l'influenza della Bibbia o del diritto romano, come gli ho detto due mesi prima della morte, ed era sempre un metafisico sino alla cima dei capelli... Marx, come pensatore è sulla buona strada. Egli ha stabilito - è la sua tesi essenziale - che tutti i fenomeni religiosi, politici e giuridici della storia sono non le cause ma le conseguenze dello sviluppo economico... D'altra parte, Proudhon capiva e sentiva molto meglio la libertà di Marx; Proudhon aveva l'istinto di un vero rivoluzionario quando non si lasciava sedurre dalle teorie e le fantasie. Adorava Satana e predicava l'anarchia. È possibile che Marx giunga ad elevarsi ad un sistema di libertà più ragionevole ancora di quello di Proudhon, ma non ha la potenza spontanea di quest'ultimo" [5].

Bakunin stesso, è stato chiamato dai suoi contemporanei "l'incarnazione di Satana". I dissensi, gli intrighi, le polemiche, i complotti in cui nessuno, veramente, svolge la parte principale, portano alla sua perdita l'Internazionale dei lavoratori, poco prima e poco dopo la sconfitta della Comune di Parigi, l'idea e le opinioni anarchiche si precisano. L'influenza di Bakunin finisce con il prevalere su quella di Marx in Spagna, In Italia, in Russia, nella Svizzera romanza e parzialmente in Belgio. Al "socialismo autoritario" di Marx, Bakunin oppone infaticabilmente, con delle organizzazioni segrete, il suo "socialismo antiautoritario" che prepara una rivoluzione sociale, immediata e diretta. "Rifiutiamo di associarci ad ogni movimento politico che non avrebbe come sopo immediato e diretto l'emancipazione completa dei lavoratori". Si tratta anche della diatriba del romanticismo rivoluzionario e del movimento operaio nascente [6].

Mentre Marx e Engels cercano di edificare una vasta organizzazione internazionale degli operai, chiamata a progredire un po' alla volta, per diventare lo strumento sempre più efficace della lotta di classe, intervenire nella vita politica, incamminarsi infine, con una potenza irresistibile, verso la conquista del potere, istituire la dittatura del proletariato (dittatura contro le classi possidenti vinte e, sotto la sua altra faccia essenziale, ampia democrazia dei lavoratori), i bakuninisti intendono provocare a breve termine il rovesciamento del capitalismo con il semplice scatenamento delle forze popolari; essi credono al contempo ad una spontaneità rivoluzionaria delle masse arretrate, e cioè non organizzate, e all'azione energica di minoranze; essi condannano l'azione politica, di cui denunciano l'inganno, opponendole l'azione insurrezionale; denunciano allo stesso modo il capitale, lo Stato e il principio d'autorità da cui procede.

Alla centralizzazione statale egli oppone il federalismo (non senza centralizzare d'altronde la loro organizzazione). Infine, Bakunin, che sembra non aver mai capito Marx a fondo, conserva per certi aspetti  delle idee specificamente russe, sul ruolo, nella rivoluzione futura, della malavita, dei declassati, dei fuorilegge, dei banditi: attribuisce loro una funzione utile e importante. Il banditismo fu spesso, infatti, nella vasta Russia contadina, consegnata al dispotismo, una forma sporadica della protesta rivoluzionaria delle masse; e i declassati, nobili e piccolo borghesi passati alla causa popolare cominciavano a formare una intelligentsia rivoluzionaria. Marx per contro, istruito dall'esperienza dei paesi industriali, sapeva che il "lumpen-prolétariat" o "sotto-proletariato straccione" che costituisce la plebaglia delle grandi città, lungi dall'essere per la sua stessa natura, un fattore rivoluzionario, è infinitamente corruttibile e instabile, e cioè incline a servire la reazione; è sulle masse operaie organizzate che egli fondava la sua speranza e non sullo scatenamento della plebaglia. In Stato e anarchia, Bakunin si indigna del fatto che "la plebaglia contadina che... non gode della simpatia dei marxisti e si trova al gradino più basso della cultura" debba essere, secondo lo schema della rivoluzione di Marx, "probabilmente governata dal proletariato delle città e delle fabbriche".

Nella Russia assolutista e semi-feudale, la classe contadina più povera è, infatti, un fattore di rivoluzione - di cui Bakunin non fa che sopravalutare le capacità; e poiché non vi era affatto proletariato, si è portati a comprendere l'errore teorico dell'anarchico. Marx, al contrario, commentando queste righe, osserva con ragione che in Europa occidentale, i piccoli proprietari rurali "fanno fallire ogni rivoluzione operaia come hanno fatto già sino ad ora in Francia" – ed imporranno loro in futuro tutta una politica governativa. "Bakunin vorrebbe", egli fa osservare, "che la rivoluzione sociale europea, fondata sulla produzione capitalista, si compisse a livello dell'agricoltura dei popoli pastori russi e slavi!" [7].

Osserveremo che l'anarchismo bakuninista non si radicò che nei paesi agricoli, dove non vi era quasi un vero e proprio proletariato: Russia, Spagna, Italia. Fu anche influente su alcuni punti in cui, congiungendosi alla tradizione libertaria e mutualistica di Proudhon, divenne l'ideologia di piccoli artigiani: a Parigi, nella Svizzera francofona, in Belgio. Finché lo sviluppo industriale non si accentuerà in questi stessi paesi, l'anarchismo non cederà la preminenza, nel movimento rivoluzionario, al socialismo operaio, marxista.

Kropotkin, Reclus, Malatesta

Bakunin muore nel 1876. Le tre teste che ripenseranno il problema da capo sono già pronte a prendere la sua successione. Il principe Piotr Kropotkin, ufficiale, viaggiatore e geografo, si è legato ai circoli rivoluzionari di Russia, ha subito l'influenza bakuninista, studiato Fourier, Saint-Simon, Černyševskij. Evade dalla fortezza di Pietro e Paolo dove va a finire per forza di cosa durante l'Impero poliziesco degli zar ogni pensiero disinteressato. Élisée Reclus, giovane ricercatore appassionato della conoscenza del pianeta Terra, è passato attraverso i battaglioni della Comune, visto fucilare Duval, marciato, come prigioniero dalla faccia polverosa, sulla strada per Versailles. Enrico Malatesta è un operaio italiano. Con essi il comunismo anarchico raggiunge alla fine del secolo una formidabile chiarezza intellettuale, una illuminante altezza morale. Il movimento operaio si appesantisce di scorie e si impantana all'interno di una società capitalista in pieno vigore. Vaste organizzazioni sindacali, potenti partiti di massa di cui la socialdemocrazia tedesca è l'esempio, si incorporano in realtà al regime che essi affermano di combattere. Il socialismo si imborghesisce, sin nel pensiero che respinge deliberatamente le previsioni rivoluzionarie di Marx; si inserisce nella prosperità capitalista all'epoca benedetta in cui, la spartizione del mondo, e cioè dei paesi produttori di materie prime e dei mercati, non essendo terminata, l'industria, il commercio e la finanza possono credersi votate ad incessanti progressi. Le aristocrazie operaie e le burocrazie politiche e sindacali danno il tono alla rivendicazione proletaria sfumata o ridotta a un rivoluzionarismo puramente verbale. Non è che opportunismo, parlamentarismo, riformismo, revisione del socialismo con Bernstein, ministerialismo con Millerand, intrighi politici. La generosa intelligenza di un Jaurès non gli impedisce di accettare la presenza, in un governo Waldeck-Rousseau, del socialista Millerand, a fianco del fucilatore della Comune generale marchese de Galliffet. L'intransigenza dottrinale, quando si manifesta, con un Kautsky, un Guesde, non riescono a risalire la corrente; essa rimane teorica. Per di più, sgradevole, perché la vita profonda mancava alle sue formule. Considerare le conseguenze di questo stato di cose nella vita personale: questo conta di più di quanto non si pensi comunemente. Il militante ha ceduto il passo al funzionario e al politico; il politico non è spesso che un politicante. Questo socialismo che ha perso la sua anima rivoluzionaria - più di una volta avendola venduta per un piatto di lenticchie ben servite in un piatto colmo di burro - può soddisfare tutta la classe operaia?

Il proletariato comprende degli strati di operai mal pagati, attività e professioni sfavorite (si abbozzerà anche su questo argomento una teoria dei mestieri maggiori e dei mestieri minori), degli immigrati giunti da paesi industrialmente arretrati, dei declassati, degli artigiani colti minacciati di proletarizzazione: in breve molti irrequieti, insoddisfatti, per i quali non vi è prosperità capitalista, per i quali sin da allora sussiste, in tutta la loro durezza, il problema della rivoluzione e, con esso, quello della vita dei rivoluzionari. Kropotkin, Élisée Reclus, Malatesta (e presto Jean Grave, Sébastien Faure, Luigi Fabbri, Max Nettlau...) apportano loro un'ideologia virile, il cui merito notevole è di essere inseparabile dalla vita personale. L'anarchismo, pur essendo una dottrina d'emancipazione sociale, è una regola di comportamento. Vi vediamo una reazione profondamente sana contro la corruzione del socialismo alla fine del XX secolo.

Così come essa non potrebbe essere considerata in sé, come distaccata dal suo contenuto sociale, un'ideologia non può essere distaccata dal suo contenuto morale, da ciò che oggi chiameremmo la sua mistica. La teoria del comunismo anarchico, benché Kropotkin e Reclus abbiano avuto cura di collegarla alla scienza, procede meno dalla conoscenza, dallo spirito scientifico di un'aspirazione idealista. È un utopismo armato di conoscenza, e di una conoscenza del meccanismo del mondo moderno meno obiettiva, meno scientifica di quella del marxismo. È anche un ottimismo da declassati disperati: le bombe di Ravachol e di Émile Henry lo attestano.

Dalla constatazione dell'iniquità sociale e dalla tendenza, che egli osserva, verso forme collettive di proprietà, Kropotkin (La Conquista del pane, Pagine di un ribelle) deduce la necessità della rivoluzione. Quest'ultima deve essere fatta contro il capitale e contro lo Stato. La società di domani sarà comunista e federalista: una federazione di liberi comuni, formati a loro volta da molte associazioni di lavoratori liberi. In Il mutuo appoggio, uno dei suoi libri più notevoli, Kropotkin si dedica a dimostrare che la solidarietà è stata in ogni tempo la base stessa della vita sociale. I comuni della bella epoca del medioevo, che facevano a meno dello Stato, gli sembravano prefigurare le comuni future di una società decentralizzata, senza Stato. Come lavorare per la rivoluzione? Il comunismo anarchico rifiuta l'azione politica e non ammetterà, che dopo molti anni di lotte interne, l'azione sindacale. Fa appello, più che alle classi sociali, agli uomini di buona volontà, alla coscienza più che agli interessi economici delle masse. Vivendo secondo il loro ideale di uomini liberi e disinteressati, gli anarchici risveglieranno lo spirito di rivolta e di solidarietà delle masse; susciteranno in esse una nuova coscienza; scateneranno le loro forze creatrici - e la rivoluzione si farà il giorno in cui le masse avranno capito...

Idealismo

Gli scritti procurano una singolare impressione di intelligenza ingenua, di energia morale, di fede e, diciamolo pure, di accecamento: "Per risolvere il problema sociale a vantaggio di tutti non vi è che un mezzo: espellere rivoluzionariamente il governo; espropriare rivoluzionariamente i detentori della ricchezza sociale; mettere tutto a disposizione di tutti e fare in modo che tutte le forze, tutte le capacità, tutte le buone volontà esistenti tra gli uomini agiscano per provvedere ai bisogni di tutti" (Errico Malatesta, L'Anarchia).

Non ritaglio arbitrariamente un testo: non vi è alcun contesto. Le affermazioni di questo genere abbondano nelle pubblicazioni anarchiche. Sul "come farlo", non una parola di spiegazione. Scorriamo la Encyclopédie anarchiste pubblicata a Parigi pochi anni fa. Prima pagina: "Benessere per tutti! Libertà per tutti! Nulla per la costrizione: tutto per la libera intesa! Questo è l'ideale degli anarchici. Non esiste nulla di più preciso, di più umano, di più elevato".

La sociologia di Sébastien Faure procede semplicemente da simili constatazioni:

1° L'individuo ricerca la felicità:

2° La società ha per scopo di procurargliela;

3° La miglior forma di società è quella che si avvicina di più a questo scopo... [1].

Da ciò si deduce, per il semplice meccanismo del ragionamento logico, la dottrina dell'intesa universale. Grotius, Bossuet, Mably, Helvetius, Diderot, Morelly, Stuart Mill, Bentham, Buchner sono citati per finire con Benoît Malon: "La più grande felicità del maggior numero, attraverso la scienza, la giustizia, la bontà, il perfezionamento morale: Non si potrebbe trovare il più vasto e più umano motivo etico".

Senz'altro, senz'altro, saremmo tentati di obiettare, se non ci si sentisse disarmati da questa passione del bene pubblico accanita a trarre da se stessa tutto un edificio di ragionamenti dietro ai quali sparisce la realtà, ma, ancora una volta, come fare?

La conclusione di Sébastien Faure è di tono profetico: "Ovunque, ovunque lo Spirito di Rivolta si sostituisce allo Spirito di sottomissione; il soffio vivificante e puro della Libertà si è sollevato; è in marcia; niente lo fermerà; l'ora si avvicina in cui, violento, impetuoso, terribile, si trasformerà in uragano e rovescerà, come un covone di paglia, tutte le istituzioni autoritarie. E' in questo senso che si compie l'Evoluzione. E' verso l'anarchia che essa guida l'Umanità".

Il vecchio militante scrive queste righe al termine di una lunga vita di lotte, nel momento in cui i regimi totalitari s'impongono al contempo attraverso la controrivoluzione e attraverso la rivoluzione socialista; dove non è più che questione di piani, di economia diretta, di dittatura democratica e di democrazia autoritaria.

"... Nei fatti come in teoria, l'anarchico è antireligioso, anticapitalista (il capitalismo è la fase presentemente storica della proprietà) e antistatalista. Conduce frontalmente la tripla lotta contro l'Autorità. Non risparmia i suoi colpi né allo Stato, né alla Proprietà, né alla Religione. Vuole sopprimerli tutti e tre... Non vogliamo abolire soltanto tutte le forme dell'Autorità, vogliamo anche distruggerle tutte simultaneamente e proclamiamo che questa distruzione totale e simultanea è indispensabile" [9].

Dal punto di vista scientifico, questa dottrina di agitazione è in regressione molto netta sulle sintesi ottimiste di Kropotkin e di Elisée Reclus, che approda a un'etica e a un socialismo libertario realmente fondati sulla conoscenza dell'evoluzione storica. (L'ottimismo filosofico, oltre tutto, non ha bisogno di essere giustificato; è un'idea forza e ben radicata in noi). Assistiamo a un declino dell'anarchismo che, dopo la guerra mondiale, non ha più prodotto un solo ideologo comparabile a quelli della vecchia generazione. I militanti di reputazione di oggi - Rudolph Rocker, Emma Goldman, Luigi Bertoni, Sébastien Faure, E. Armand, Max Nettlau, Volin, Vladimir Barnach, Aaron Baron [10] sono degli uomini dell'avanguerra. Gli uomini d'azione sono andati al sindacalismo.

NOTE

1 Proudhon : Lettres (Grasset, 1929).

2 Paul Louis : Hist. du socialisme en France (Rivière).

3 Kropotkine : Le salariat.

4 Paul Louis : Hist. du socialisme en France (Rivière).

5 Franz Mehring : Karl Marx, p. 327, d’après l’édition russe de 1920, mise au pilon en U.R.S.S.

6 Voir le ch. XVIII (Michel Bakounine) du Karl Marx de B. Nikolaievsky et O. Menchen-Helfen (Gallimard).

7 Note su l’État et l’anarchie dans Contre l’anarchisme (K. Marx et F. Engels) (Bureau d’éditions).

8 Encyclopédie anarchiste, t. I, p. 59, Anarchie.

9 Sébastien Faure : Op. cit., p. 84.

10 Aaron Baron est emprisonné en U.R.S.S. depuis dix-neuf ans. Les délégations de la C.N.T.-F.A.I. envoyées à Moscou ont-elles songé a s’enquérir du sort de ces hommes ?

 

[SEGUE]

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10 aprile 2021 6 10 /04 /aprile /2021 18:06
Le bande nere del cinema surrealista

Isabelle Marinone

Cinema surrealista e anarchismo, dei temi comuni

L'attrazione dei surrealisti per il cinema parte dal loro gusto per la contraddizione per le norme stabilite e le convenzioni sociali [25]. Infatti, all'inizio degli anni 20, il cinema è lungi dall'essere considerato come un'arte, privato di valore da parte della borghesia, è trattato come uno spettacolo popolare, volgare, in opposizione al teatro. Il movimento surrealista si riferisce dunque a questo nuovo mezzo di espressione ignorato dalla buona società. I dadaisti come Picabia, Duchamp [26], Man Ray, Raoul Hausmann e anche Richter, hanno già cominciato il loro lavoro di stravolgimento delle regole cinematografiche prima dei surrealisti e dopo gli Incohérant. E' il caso di Man Ray [27] con il suo cortometraggio "Retour à la raison" del 1923. Dada disloca, rompe, smonta il quadro classico. Decostruisce le immagini, sia annichilendole (sostituendo i motivi figurativi con dei motivi astratti), sia trasformandoli (deformando gli oggetti). Il cinema dadaista fa tabula rasa di un gran numero di codici, lasciando così il posto al surrealismo. Quest'ultimo costruirà su questo terreno vergine da ogni regola un nuovo universo. Quest'universo riprende il principio i principi di rovesciamento del movimento Incohérent, intrecciandoli con delle esigenze simboliste ed ermetiche, il tutto realizzato con delle forme classiche. Quest'interesse, lo si ritrova ad esempio in Antonin Artaud, quando parla del suo progetto "La Coquille et le Clergyman" (1928) [28].

"Questo scenario ricerca l'oscura verità dello spirito. [...] Non racconta una storia. Vuole cercare nella nascita occulta e negli errori dell'opinione e del pensiero le ragioni profonde, gli slanci attivi e velati dei nostri atti detti lucidi, vuole restituire il lavoro puro del pensiero".

Questa definizione della sceneggiatura di Artaud potrebbe applicarsi del tutto alla totalità delle sceneggiature del movimento surrealista. Nella sua opera, le forze nere, e il lavoro alchemico e occulto, si legano alle preoccupazioni erotiche, temi da avvicinare al simbolismo [29]. Il lavoro puro del pensiero che gli è caro, si collega a delle tematiche come l'esercito, la Chiesa, la borghesia. E' il caso nel film di Germaine Dulac precedentemente citato in una sceneggiatura di Artaud, in cui i tre personaggi principali sono un colonnello, un curato e una borghese. Il curato appariva nei primi piani del film, come una specie  di alchimista illuminato, che corre dietro una borghese reclamando un po' d'amore, correndo, trascinandosi a quattro zampe dietro di lei. Il clergyman di Artaud assume comportamenti canini quando perseguita il suo amante, un ufficiale dell'esercito, anche lui innamorato della stessa donna. Le due forme autoritarie della spada e dell'aspersorio ridicolizzati, si sbranano tra di loro per ottenere i favori della giovane donna. Il desiderio del curato per la borghesia lo spinge a sbarazzarsi del suo concorrente. Nella sua rabbia, vede il volto dell'amata in modo deformato, rasentante l'oscenità. Questa anamorfosi seguita da un primo piano del curato che mostra la lingua non è senza ironia... I rappresentanti di Dio in terra visti come dei servitori viziosi, che perseguitano le borghesi, illustrano una società regolata su codici morali ipocriti. La vera ricerca del sacerdote è evidentemente l'amore, amore che non può fiorire che a condizione di annientare ogni ostacolo morale e sociale, ogni forma autoritaria restrittiva. E' quanto è espresso nella filosofia epicurea dell'anarchico Sébastien Faure [30]: "Per sopprimere la miseria, l'oppressione, il dolore, si deve arrivare all'eliminazione completa del principio di autorità da una parte, all'affermazione integrale del principio di libertà dall'altra, eccolo l'Ideale".

Questa stessa idea dell'amore come contrario all'autorità, si ritrova in altri film surrealisti come "L'âge d'or" di Luis Bunuel (1930). Il regista spagnolo ha fatto sobbalzare numerose volte i guardiani dell'ordine morale, i suoi attacchi, quasi sistematici contro la Chiesa cattolica e i religioso in generale, confermano la sua posizione. Il cristianesimo è una regressione sociale perché si pone come reggitore delle coscienze. E' l'ostacolo maggiore alla trasformazione dell'uomo. Così, nella sequenza del parco di "L'age d'or), il montaggio del piano degli amanti che si guardano languidamente alterna con il piano di un vescovo che si appresta a saltare da una finestra. Questo messaggio molto chiaro preconizza la defenestrazione degli ecclesiastici affinché gli esseri umani infine possano amarsi liberamente. La sequenza dei Maiorchini che sbarcano dopo aver inviato degli arcivescovi a convertire gli abitanti pagani, segna la distruzione delle convenzioni sociali. Il piano d'insieme sui notabili giungenti sulla loro nuova terra pone in rilievo i dirigenti, curati e militari presenti per salutare i cadaveri della Chiesa rimasti appesi alla scogliera. Indifferente alla cerimonia del governatore, una coppia avvinghiata per terra lancia grida d'amore che coprono il discorso inaugurale. Durante la totalità del film, quest'amore distrugge i pregiudizi, le costrizioni e le leggi sociali. Il passaggio dall'amore alla rivolta si compie senza urti per gli amanti, perché l'amore in sé rivoluzionario, uccide i benpensanti. La società indignata e terrorizzata da questo comportamento gli oppone gli alti funzionari, i curati, le famiglie, i borghesi, con tutti i discorsi moralisti che vanno di pari passo. Gli amanti separati dalla società, non potranno fare altro che combattere le leggi stabilite. La rivolta assunta qui come una necessità, si avvicina evidentemente alle teorie anarchiche secondo cui la lotta costante per il benessere è primordiale. Tutta l'opera filmica di Bunuel è infarcita di anticlericalismo, di antimilitarismo, di antifascismo. La provocazione e l'humour nero vi si ricollegano in modo troppo evidente perché le sue immagini possano appartenere a un'ideologia comunista. D'altronde, lo stesso Bunuel ammette le sue simpatie per gli anarchici nel suo libro Mon dernier soupir [31].

"Parlo della banda Bonnot, che ho adorato, di Ascaso e di Durruti, che sceglievano molto accuratamente le loro vittime, degli anarchici francesi della fine del XIX secolo, di tutti coloro che hanno voluto far saltare, saltando insieme ad esso, un mondo che sembrava loro indegno di sopravvivere. Li capisco, li ho spesso ammirati".

 

Il suo altro film "Las Hurdes" (1932) è stato d'altronde prodotto da un anarchico spagnolo, Ramon Acin, semplice professore di disegno. Bunuel racconta [32]: "Ho potuto filmare 'Las Hurdes' grazie a Ramon Acin, un anarchico di Huesca, professore di disegno che, un giorno, in un caffè di Saragozza mi disse: 'Luis, se un giorno vinco alla lotteria, ti pagherò un film". Guadagnò centomila peseta alla lotteria e me ne diede ventimila per fare il film".

Oltre ad Artaud e Bunuel, Jacques Bernard Brunius realizza anch'egli alcuni film in quanto surrealista [33], e soprattutto "Records" e "Autour d'une évasion" [34].

Quest'ultima produzione filmica, uscita nel 1934, reca anch'essa una tematica anarchica, quella di Dieudonné l'ergastolano al bagno penale. Accusato di appartenere alla banda Bonnot, e a essere condannato a morte insieme ad essa nel febbraio 1913. La sua colpevolezza non essendo stata stabilita, la pena è commutata ai lavori forzati perpetui alla Caienna.

La regia del film per cui è tenuto in conto il figlio di Almereyda [35] durante l'estate del 1933, non vedrà la luce in mancanza di un produttore. E' allora Brunius che, in compagnia di Cesare Silvagni, riprende la sceneggiatura, e lo gira con il titolo "Autour d'une évasion" con Dieudonné che interpreta la sua parte [36]. Molti altri esempi potrebbero essere dati che propongono tematiche comuni ai libertari e ai surrealisti.

 

Una forma comune: la rottura

I film di quest'ultimi si situano tutto nella rottura, rottura delle forme, rottura narrativa, rottura con la realtà... Quando lo spettatore è di fronte alla prima sequenza di "Un cane andaluso", si ritrova di fronte a un mondo violento e onirico, che distrugge l'asse classico di visione. L'occhio tagliato dalla lama di rasoio, è anche l'occhio dello spettatore. Bunuel e Dalì annunciano un cambiamento radicale [37], una rottura non soltanto con il film tradizionale, ma anche con il pubblico. Quella scrittura automatica di modo visuale si interessa all'uomo nel suo immaginario, nel suo inconscio, e cioè nella sua intimità, nella sua individualità peculiare. Il cinema surreale passa dall'uomo visto nella sua esteriorità, all'uomo visto nella sua interiorità. Appare allora un universo totalmente sconosciuto, che sembra seguire una logica una sua propria logica, e indipendente da ogni ordine, da ogni legge conosciuta [38].

Ogni film propone delle combinazioni di oggetti insoliti inclusi in quadri in movimento, un piano fa da supporto ad un asino, e il tutto è tirato da un uomo nel primo film di Bunuel, un raggruppamento ufficiale si raccoglie davanti a tre cadaveri di vescovi posti su di uno scoglio in "L'Age d'or", un curato immerge la sua testa in un boccale in "La Coquille et le Clergyman", dei colletti sospesi in aria in "L'Etoile de mer", gli esempi sono molti. Il cinema surrealista, utilizzando la trasformazione e la mobilità degli oggetti, degli attori, è del tutto aperto, così come l'uomo, l'individuo. Esso metamorfizza le forme e gli spiriti, ciò che tende a fare, attraverso le idee, l'anarchismo [39].

Questa rottura disimpara all'individuo a non concepire che una sola forma d'immagine, di riflessione sul mondo. Il film surreale non rivoluziona, sovverte, il che significa che esso non rovescia le immagini classiche, le spezza per installarne di nuove. Nella pratica, ciò si vede nel montaggio.

"L'age d'or" ad esempio, mostra un piano di una cerimonia ufficiale sull'isola, che è subito interrotto sul piano seguente, quello degli amanti sdraiati in terra. Non vi è né dissolvenza incatenata né sovrimpressione, per introdurre la sequenza seguente. Bunuel preferisce spezzare e eliminare la prima immagine, legata all'autorità, per imporne un'altra, quella dell'amore. Il cinema apporta il movimento, si muove, si trasforma incessantemente, non accetta nessuna permanenza. Per avanzare nello svolgimento della pellicola e la lettura dell'immagine, fonda sia le sequenze le une nelle altre (tecnica della sovrimpressione) sia le giustappone (dissolvenza al nero o al bianco). I surrealisti hanno scelto la maggior parte delle volte quest'ultima struttura del film, in montaggio alternato. Questa scelta accompagna con precisione i valori contestati e rimessi in discussione da essi [40].

L'inconscio, l'onirico, il magico di questo tipo di produzione, si unisce all'idea di Elie Faure, che vedeva nel cinema, un'architettura in movimento che poteva trasformare lo spirito profondo dell'uomo. Il film surrealista, l'inconscio di un creatore o di molti, proiettato su uno schermo, decostruisce le sue proprie immagini moralizzatrici, e lascia sorgere le sue visioni primordiali, archetipiche. Trasformare, sviluppare l'individuo, è la maggior preoccupazione degli anarchici, molto prima del cambiamento della società. Secondo loro, "la culture di sé" resta la ricerca primordiale, richiamando così gli interessi alchemici dei surrealisti. Il nichilismo portato dall'estetica dadaista è stato sostituito dall'anarchismo dall'estetica surreale che, al di là della rottura delle forme e delle convenzioni, instaura una nuova concezione dell'immagine, e attraverso essa, del mondo.

Un cinema libero

Nell'assoluto, surrealisti e anarchici condividono l'idea seguente: la soddisfazione dei bisogni interiori dell'uomo è oggetto di una lotta tanto imperativa quanto la trasformazione delle strutture sociali e, contrariamente ai marxisti, la ricerca attiva della seconda non deve accompagnarsi al sacrificio della prima. L'individuo primeggia in rapporto al collettivo. Artaud come Bunuel pensano la rivoluzione in quanto rivoluzione, in primo luogo, della cultura. Come dice Artaud: "Per me, non vi è rivoluzione senza rivoluzione nella cultura, vale a dire nel nostro modo universale, nel nostro modo, di noi tutti, di capire la vita e di porre il problema della vita. Espropriare coloro che possiedono è bene, ma mi sembra meglio togliere a ogni uomo il gusto della proprietà. [...] Per far maturare la cultura si dovrebbero chiudere le scuole, bruciare i musei, distruggere i libri" [41].

I film surrealisti benché poco numerosi, distruggono tutti i miti sociali ammessi dall'intera società. Nulla regge di fronte a queste immagini oniriche che si permettono tutto poiché appartengono al campo dell'irreale. Pretesto ideale per far passare le idee più estreme. La legge, la civiltà, il capitalismo, il patriarcato si disgregano per essere sostituiti dal disordine, l'arcaico, l'associazione, il sogno. Tutto quanto appartiene al campo dell'uomo primordiale e dell'amore. Il film non porta allo spettatore nessun aggancio narrativo chiaro, esiste al di fuori del racconto, non è che successione di immagini incoerenti che disegnano un pensiero, un montaggio di idee. E' il lavoro puro sul pensiero di Artaud. Un cervello in marcia posto sullo schermo. Lo spettatore è trascinato in sentieri di libertà deliranti, in cui tutto è permesso. Questa immediata libertà ha sconcertato molto pubblico ai suoi tempi, e ancora attualmente è classificato nell'avanguardia, la sperimentazione. La libertà che l'anarchia propone, classificata come utopica, fa paura anch'essa, perché è totale, ribaltante tutto al suo passaggio. Il cinema surrealista a saputo impiegare, dalla sua creazione sino ad oggi, questa anarchica libertà. Ado Kyrou, Jacques-Bernard Brunius, Jean-Louis Bédouin, Michel Zimbacca, Eva e Jan Svankmayer, tra altri registi surreal-anarchici, proseguiranno questa procedura nei loro film. I due mezzi di conoscenza del surrealismo, la libertà e l'amore, improntano la poesia dell'immagine filmica per aprire altri possibili agli occhi del mondo, si ritrovano nel testo manifesto di Aurélien Dauquet.

"Tutto resta da conquistare per la liberazione dell'uomo in tutti i piani della sua vita economica, sociale, individuale, affettiva e sensibile. Il cinema è per noi uno degli innumerevoli mezzi, che permettono questo completo ritorno di se stessi, questo meraviglioso viaggio attraverso notti soleggiate della poesia, dell'amore e della libertà per raggiungere l'alba rossa e nerra della surrealtà" [42].

Oltre a quest'ultimo e ad alcuni elementi negli articoli della rivista "L'Age du cinéma", il surrealismo non ha prodotto alcun scritto, noto, riguardante il legame diretto tra l'anarchismo ed esso stesso, all'interno del cinema. Indubbiamente non considera che la cosa sia utile da precisare, poiché era già percepibile nel quadro letterario [43]. Basta vedere i loro film per capire che non vi è alcun rapporto tra essi e la concezione comunista del cinema. Il realismo della scuola russa [44+ e quello, in Francia, di un Renoir o di un Carné, non corrispondono in nulla alla follia delle immagini, alla provocazione senza limiti del movimento, che non ha mai cessato di vivere.

Il surrealismo, come il dadaismo e il movimento Incohérent prima di lui, avrà fatto sorgere, al di là del mistero onirico dei fotogrammi, una luce "nera" nello spazio cinematografico.

Isabelle Marinone

 

NOTE

[25] Alain e Odette Virmaux, Les Surréalistes et le cinéma, Paris, Seghers, 1976, p. 13: «La curiosità degli schermi si situava [...] nel filo dritto del dandysmo, nella misura esatta in cui il cinema era disprezzato dalla gente di gusto».

[26] Nel 1919, Marcel Duchamp adorna di barba e baffi il viso della Gioconda. Ma non dimentichiamo che questa provocazione era già stata fatta dagli «incohérents» su un'altra opera di vaglia. Infatti,  Alfred Ko-S’Inn-Hus aveva esposto nel 1886, sotto i tratti di un barbuto venerabile e monco, il Marito della Venere di Milo, detto Demi-lot, in Emile Goudeau, «L’incohérence», Revue illustrée, le 15 mars 1887.

[27] Facciamo notare che Man Ray e Hans Richter provengono dalla «scuola moderna» anarchia di New York. Questa formazione libertaria non ha mancato di influenzare successivamente, nelle loro creazioni , i due artisti. Così ne rende testimonianza Man Ray, nell'opera di Anne Guérin, Man Ray, autoportrait, Paris, Robert Laffont, 1964, p. 29: «Il centro era stato fondato in ricordo dell'esecuzione dell'anarchico spagnolo Francisco Ferrer, da parte dei simpatizzanti di quest'ultimo [...]. Tutti i corsi erano gratuiti, alcuni scrittori e pittori noti servivano gratuitamente da professori. Di fatto, tutto era libero [...], si disapprovava la maggior parte delle convenzioni imposte dalla società».

 

 

 

 

 

[28] Antonin Artaud, Œuvres complètes, tome III, Paris, Gallimard, 1961, p. 366 (texte du 1er novembre 1927).

[29] Le symbolisme a lui aussi été imprégné d’anarchisme, puisque certains poètes furent liés au mouvement anarchiste vers 1890. « On était symboliste en littérature et anarchiste en politique », note l’historien Jean Maitron, dans son Histoire du mouvement anarchiste en France, 1880-1914, Paris, Gallimard, 1951, p. 140). Ainsi lorsque la police saisit en 1894, la liste des abonnés de la Révolte (journal anarchiste), elle y découvre les noms de Mallarmé, Leconte de Lisle, Remy de Gourmont, Pissaro, Signac, Huysmans, Daudet, etc.

[30] Sébastien Faure, l’Encyclopédie anarchiste, tome IV, Paris, La Librairie internationale, 1932, p. 2497.

[31] Luis Bunuel, Mon dernier soupir, Paris, Robert Laffont, 1994, p. 152.

[32] Tomas Perez Turrent et José De La Colina, « Conversations avec Luis Bunuel », Paris, Cahiers du cinéma, 1993.

[33] Jean-Pierre Pagliano, Brunius, Lausanne, L’âge d’homme, 1987, p. 29 : « Leur révolte était la mienne. [...] Le surréalisme m’a aidé à cristalliser et à formuler ma propre conception du monde et ma conduite dans la vie. »

[34] Jean-Pierre Pagliano, Brunius, Lausanne, L’âge d’homme, 1987, p. 43 : « Un certain marquis de Silvagni, ancien légionnaire parti au Venezuela, rapporte à Paris les éléments d’un documentaire sur les bagnes de Guyane. Incapable d’en assumer lui-même le montage, il livre la pellicule à Jacques Bernard Brunius. De ce matériau informe, Brunius fait un curieux film, Autour d’une évasion. »

[35] Jean Vigo, faut-il le préciser, est le fils de Miguel Almereyda et d’Emilie Clero, tous deux militants anarchistes, in Jean Vigo, Œuvre de cinéma, Paris, Lherminier, 1985, p. 25.

[36] Jean Vigo, Œuvre de cinéma, Paris, Lherminier, 1985, pp. 195-196.

[37] Antonin Artaud, Œuvres complètes, tome III, Paris, Gallimard, 1961, p. 79 : « Le cinéma implique un renversement total des valeurs, un bouleversement complet de l’optique, de la perspective, de la logique. »

[38] Georges Ribemont-Dessaignes, Man Ray, Nice, Centre national des arts plastiques, 1984, p. 26 : « Vive Man Ray qui a toujours songé à tuer la plastique pour créer un univers régi par ses lois propres, ou mieux encore par des lois à transformation, ce qui revient à nier l’existence même de toute loi. »

[39] Gérard de Lacaze-Duthiers, Du tournant de la route, regards sur la société, Paris, Librairie Félix Alcan, 1914, p. 180 : « L’anarchie exige des esprits complètement transformés. »

[40] Gérard de Lacaze-Duthiers, Du tournant de la route, regards sur la société, Paris, Librairie Félix Alcan, 1914, p. 180 : « L’anarchie exige des esprits complètement transformés. »

[41] Antonin Artaud, Messages révolutionnaires, Paris, Gallimard, 1971, pp. 27 et 131. :

[42] Aurélien Dauguet, « La lanterne magique », Ciné-club L’âge d’or, 1968 (manifeste inaugural du ciné-club).

[43] Référence aux écrits symbolistes de Lautréamont, à la poésie libertaire de Rimbaud, au théâtre incohérent de Jarry, etc., mais aussi, bien sûr, aux écrits de Breton comme Arcane.

[44] Elle a produit des cinéastes comme Eisenstein et Dziga Vertov, entres autres réalisateurs majeurs.

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