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7 dicembre 2012 5 07 /12 /dicembre /2012 06:00

Cos'è la terziarizzazione?

uomo ricarica a molle

Prospettive del cambiamento sociale

 

di Robert Kurz


(Pubblicato in Avis aux Naufragés [Avviso ai naufragati], Lignes, 2004)

 

prezzo-ognuno.jpgPer una coscienza dominata dal mercato universale, la percezione, in tutti i campi della vita, si riduce oramai a dei fenomeni congiunturali. Ciò che è vero oggi rischia di non esserlo più domani; ma che importa il contenuto quando non si tratta più che di "vendere" il più velocemente possibile. E questo vale per le teorie così come per le automobili o le cravatte. A questo stadio, l'idea di "cambiamento sociale" non ha fondamentalmente più alcun senso. Perché, affinché abbia un senso quest'ultimo deve fare riferimento a un'evoluzione nel tempo che potremmo definire attraverso l'analisi, dunque a una storia delle strutture sociali. La coscienza postmoderna, completamente conforme alle esigenze del mercato, non conosce più nessuna evoluzione storica, non conosce che il carattere indifferente di tendenze incoerenti. La teoria critica della società si vede sempre più sostituita dall'analisi delle tendenze (trend research).

GRANDE-FRATELLO.jpgLa differenza tra strutture oggettive e percezione soggettiva diventando così non rappresentabile, si vede sparire allo stesso tempo la capacità di afferrare intellettualmente i nostri rapporti sociali. Anche un'ideologia puramente apologetica diventa allora impossibile, perché suppone anch'essa, l'idea di uno sviluppo oggettivo (anche se questa idea è falsa o non ha che una funzione legittimatrice). Tuttavia, poiché una società lacerata dalle sue proprie contraddizioni com'è la società del mercato totalitaria non può affatto privarsi di una ideologia legittimatrice, il pensiero postmoderno deve ricorrere sul piano economico-sociologico a delle teorie più antiche che pretendono ancora una certa oggettività, nel senso tradizionale del termine. Poco importa che ciò sia contraddittorio, perché ad ogni modo, per il pensiero postmoderno, essere contraddittori ha qualcosa di virtuoso.

uomo-corda.jpgBenché le teorie postmoderne ricusino ogni determinismo strutturale, le analisi di tendenza e il loro sotto-apparato concettuale si muovono sempre in un contesto determinato da teorie sociologiche che trattano del "cambiamento sociale" in termini di determinismo strutturale. Esplicitamente o implicitamente, le "mode" ideologiche postmoderne presuppongono, anch'esse, una certa visione oggettiva dello sviluppo sociale in rapporto ai tre settori fondamentali della riproduzione sociale (agricoltura, industria, servizi). È il ritratto fantomatico della "terziarizzazione", un tempo tanto vantata, che continua a segnare i discorsi sociologici, anche se i presupposti metodologici delle scienze sociali classiche che hanno fatto nascere al teorema di questa terziarizzazione sono negati. Si critica il metodo, mentre, in fondo, si intasca il risultato.

consumismo.jpgSecondo questa teoria oramai classica, la società passerebbe, nel corso dell'evoluzione storica, dal settore agricolo primario al settore industriale secondario per finire nel settore terziario: quello delle prestazioni di servizi. Si assisterebbe dunque a una ridistribuzione progressiva della forza lavoro "impiegata". Questo processo sarebbe, soprattutto ai suoi inizi, accompagnato da rotture strutturali dolorose, ma finirebbe con l'approdare su una nuova fase di "pieno impiego" e di prosperità eccezionale. Questa teoria socio-economica della terziarizzazione è oggi vecchia di alcuni decenni e si dovrebbe farne il bilancio, il che è impossibile con gli strumenti intellettuali del pensiero postmoderno. Da un punto di vista superficiale, questa tesi della terziarizzazione si è vista confermata dai fatti, ma in un modo del tutto frammentario e in ben altro modo di come non l'avevano lasciato supporre le ipotesi ottimiste di un tempo. Ciò che i fatti non hanno confermato, è la spinta eccezionale in materia d'impiego e di prosperità che ci si aspettava. Al contrario, sembra che la terziarizzazione reale si accompagni ad un processo di restringimento e di crisi economiche in tutto il pianeta.

money-revolverContribuisce anche ad oscurare il problema il fatto che il settore terziario, a differenza del settore agricolo e industriale, non può essere definito in modo omogeneo. La categoria di "servizi" può inglobare delle attività estremamente diverse, molto distanti le une dalle altre. Si distinguono due grandi gruppi. Da una parte, dei campi a qualificazione molto elevata, come la medicina, l'insegnamento, la formazione, la scienza, la cultura, ecc. Dall'altra, dei campi particolarmente non qualificati, composti dai domestici e ausiliari mal remunerati nelle imprese di servizio (ristorazione, pulizie, servizi personali, ecc.). Cucinare degli amburger, riempire i sacchi al supermercato, vendere lacci per scarpe per la strada o lavare i parabrezza ai semafori passano come attività del settore terziario come formare dei manager, educare dei bambini o organizzare dei viaggi di studio. La domestica e il custode dei parcheggi appartengono alla stessa categoria del medico e dell'artista.

money treeQuesta contraddizione sembrava segnare, per un periodo abbastanza lungo, anche la differenza sociale tra i paesi occidentali e il terzo mondo. Certo, nei paesi del Sud globale, l'agricoltura, nella misura in cui produce per il mercato mondiale, è stata resa del tutto scientifica e meccanizzata come in Occidente. Ma, al contrario che nei paesi del centro capitalista, il semplice passaggio dal settore primario dell'agricoltura al settore secondario dell'industria si è rivelato un fallimento nella maggior parte dei casi dove non è riuscito che in modo molto incompleto. È anche il fallimento della "industrializzazione di recupero" che ha fatto sorgere una situazione paradossale, dal punto di vista della teoria dei tre settori fondamentali. Da una parte, una parte della società si è vista portata allo stadio di una primitiva produzione agricola di sussistenza, vegetando accanto ad un'industria agroalimentare orientata secondo i bisogni del mercato mondiale; dall'altra, si è assistito a una consistente terziarizzazione di miseria nelle agglomerazioni urbane mostruosamente gonfiate.

servo-e-padroneIn compenso, nei centri occidentali, i pronostici ottimisti della terziarizzazione sono sembrati verificarsi in un primo tempo. In Occidente, il declino sociale verso la disoccupazione sociale di massa è certamente cominciato sin dagli anni 70. Ma questa evoluzione negativa doveva essere ammortizzata dal trattamento sociale del problema: ci si mise quasi a credere che si poteva doppiare ogni disoccupato con un lavoratore sociale. La "industria di controllo" per le persone uscite dal sistema sembrava promessa a diventare un fattore di crescita. Parallelamente a questa assistenza sociale, il sistema di cure mediche entrò in una fase di espansione. Allo stesso tempo, ci si mise a creare dei centri di attività ricreative, dei luoghi d'incontro, delle università sperimentali così come nuovi sistemi di qualificazione professionale. Formazione, società di attività ricreative, pedagogizzazione della vita: queste erano le fondamentali parole dello Spirito del tempo occidentale sino agli anni 80. In una misura nettamente minore, le stesse tendenze esistevano nel terzo mondo, ma soltanto sotto forma di una terziarizzazione di lusso per una minoranza, alla quale faceva fronte una terziarizzazione di miseria per la maggioranza. In Occidente, in compenso, sembrava trattarsi di un cambiamento "strutturale per tutti".

Ma questa forma di terziarizzazione comportava una difficoltà, e notevole. Era "non produttiva" nei termini capitalisti e non costituiva affatto una spinta di crescita commerciale, ma doveva essere alimentata da fondi pubblici e organizzata, per un'ampia parte, sotto forma di servizi pubblici. Tutto ciò quadrava male con la contrazione economica della crescita industriale. Per un certo tempo, si riuscì a mantenere a galla questa meravigliosa società della formazione, dell'educazione, del tempo libero e del trattamento sociale, ma soltanto attraverso un indebitamento pubblico che assunse delle dimensioni drammatiche. L'illusione finì per esplodere e ci si mise a smantellare i settori portatori della pretesa "società dei servizi".

Durante gli anni 90, il capitalismo diede nascita a due opzioni con le quali si pretendeva di affrontare la crisi. "Privatizzare" era la parola d'ordine e quest'ultima suggeriva che si sarebbe potuto trasformare i settori terziari (infrastrutture comprese) di cui lo Stato non poteva più assumere la riproduzione, in imprese private producenti dei benefici. Allo stesso tempo, la New Economy, in quanto versione commerciale high-tech del settore terziario (capitalismo Web), era ritenuta in grado di creare una crescita vantaggiosa e degli impieghi. Sappiamo che le due possibilità sono fallite. La New Economy si è rivelata una semplice "bolla speculativa", mentre l'impiego e la crescita reale di questo settore restavano quantità trascurabili. In quanto ai vecchi servizi pubblici privatizzati, non sono nemmeno essi vettori di crescita capitalista. Una medicina o un'educazione quotate in Borsa si riducono rapidamente a una clientela privata solvibile, mentre la maggior parte delle strutture di questi settori è smantellata. In numerose regioni del terzo mondo, si assiste anche al crollo di ogni infrastruttura della società. Una tendenza simile si profila, sotto una forma accentuata, nei paesi occidentali.

dore-slums.pngNon resta nulla delle antiche promesse di una terziarizzazione progressiva sotto forma di una società della formazione, della cultura, del trattamento sociale e del tempo libero. La crisi colpisce persino il turismo. Al suo posto abbiamo la terziarizzazione della miseria che conosciuta dal terzo mondo ad essere eretta come modello per i centri del mercato mondiale. Senza il minimo scrupolo, i discorsi politici e socio-economici occidentali puntano oramai su un'ultima opzione: l'esistenza di masse di servi a buon mercato come nei primi tempi del capitalismo. Possiamo immaginare una società high-tech planetaria con, da una parte, alcuni capitalisti finanzieri e manager transnazionali, e dall'altra miliardi di serve, autisti, valetti, cameriere, dame di compagnia, facchini, servitori, ecc.? Ciò somiglia piuttosto alla cattiva fantascienza. Se esiste nel terzo mondo una tradizione ereditata dall'epoca coloniale e fondata su rapporti paternalistici da padrone a servo (soprattutto là dove il colonialismo poggiava sulla schiavitù), le condizioni del mercato universale fanno che questi rapporti di dipendenza personali da padrone a schiavo, così come essi esistevano agli inizi del capitalismo come reliquie del mondo feudale, sono diventati impossibili su vasta scala. E non è nemmeno in quanto imprese commerciali impersonali, che i servizi di domestici possono trasformarsi in vettori di crescita, così come l'educazione o la medicina privatizzate. Per questo la domanda solvibile non è abbastanza grande perché, con la crisi scatenata dalla terza rivoluzione industriale, le classi medie stanno scomparendo anch'esse. I miliardi di individui che, ovunque nel mondo, precipitano nella terziarizzazione di miseria non sono in fondo niente di più che dei mendicanti "un po' meglio favoriti", degli "esclusi" ai quali il capitalismo non offre più prospettive.

Il disastro storico della terziarizzazione rinvia al problema tabù della forma sociale. Da un punto di vista puramente tecnico e materiale, la produttività generata dalla terza rivoluzione industriale permetterebbe realmente all'umanità di non dedicare più che una parte relativamente piccola alla produzione agricola o industriale per occuparsi soprattutto di formazione, educazione, cure, medicina, cultura, ecc. La prima parte di questo programma si realizza: sempre meno individui sono impiegati nei settori primari e secondari. Ma la seconda parte fallisce: il trasferimento delle risorse umane nel settore terziario non è traducibile in termini capitalistici. Ne abbiamo oggi la prova pratica.

La dottrina economica dello sviluppo dei tre settori ha sempre avuto il difetto di non aver comprensione storica di se stessa. Perché questa evoluzione non si svolge all'interno di strutture capitaliste "eterne". La società agraria premoderna non era fondata sulla valorizzazione di capitale-denaro. È per questo che lo spostamento del centro di gravità della riproduzione sociale del settore agricolo verso il settore industriale ha costituito una rottura con la forma dei rapporti di dipendenza personale che prevaleva sino ad allora e che fu sostituita dalla forma impersonale del capitale-denaro. Allo stesso modo, il passaggio dalla società di servizi rende ora necessario la rottura con il sistema moderno di produzione di mercato e l'avvento di un'ordine diverso, qualitativamente nuovo.

Kurz-avis-aux-naufrag-s.jpg

Questa rottura necessaria con la forma sociale fondamentale comporta anche una dimensione culturale e simbolica. La società agraria, dalla rivoluzione neolitica, aveva una visione organica del mondo in cui il metabolismo sociale e culturale, il "metabolismo con la natura" (Marx), si riferiva innanzitutto a delle piante e a degli animali. Questa visione del mondo non era affatto così dolce ed "ecologica" come l'insinuano oggi alcune ideologie regressive. Si trattava piuttosto di un rapporto di dominio che, sotto la forma della dipendenza personale (schiavismo e feudalesimo), riduceva l'uomo alla sua funzione organica, in quanto "animale dotato di parola".

Kurz vies et mort du capitalismeLa società industriale del moderno sistema di produzione di mercato aveva, all'opposto, una visione meccanica del mondo in cui il metabolismo sociale e culturale, il "metabolismo con la natura", era socioculturale e si riferiva innanzitutto a della materia morta e fisica (macchine e merci industriali). Attraverso la forma impersonale del denaro, questa visione del mondo riduceva l'uomo allo stato di robot compiente meccanicamente le sue funzioni.

Ancora sconosciuta, la società terziaria aldilà della modernità meccanica esige una visione sociale del mondo in cui, per la prima volta, il "metabolismo con la natura" si riferirebbe innanzitutto all'uomo stesso, trasformandosi dunque così in metabolismo della società stessa. "La radice dell'uomo, è l'uomo stesso" (Marx): è soltanto ora che questa verità tende ad assumere una forma sociale. Con la fisica quantistica, le scienze hanno da quel momento lasciato dietro di loro la visione meccanicistica del mondo, e non è un caso se la rivoluzione informatica, che poggia sulla fisica quantistica, dimostra l'assurdità del capitalismo. Se l'umanità non vuole inabissarsi, deve superare il riduzionismo organico e meccanicista e comportarsi in modo umano con se stessa. È soltanto così che essa potrà intrattenere dei rapporti umani con la natura biologica e fisica.

 


Robert Kurz

 

[Traduzione di Ario Libert]

 

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Qu'est-ce que la tertiarisation? Perspectives du changement social

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27 novembre 2012 2 27 /11 /novembre /2012 06:00

I lavoratori contro i bolscevichi

pirani.jpeg

 

Nota di lettura di Adam Buick in Socialist standard luglio 2008 del libro The Russian Revolution in Retrait, 1920-24. Soviet workers and the new communiste elite, di Simon Pirani. (Routledge, Londres, 2008).

Les-travailleurs-contre-les-bolcheviks.jpg

Una delle conseguenze della caduta del capitalismo di Stato in URSS all'inizio degli anni 90 è stata l'apertura degli archivi dell'antico regime, compresi quelli della sua polizia segreta. Questo libro è uno studio appassionante, basata sui resoconti delle riunioni dei soviet e dei consigli di fabbrica ed anche sui rapporti di polizia, della lotta condotta dai lavoratori nel periodo 1920-24 per difendere  i loro interessi sotto, e a volte contro, il governo bolscevico. Pirani descrive anche gli inizi dell'evoluzione dei membri del partito bolscevico come nuova classe privilegiata.

kronstadt1921.jpg

Nel 1920 e 1921, durante la guerra civile e le sue immediate ripercussioni, le condizioni di vita in Russia erano molto difficoltose. I lavoratori erano pagati in natura ma le loro razioni arrivavano spesso in ritardo e erano a volte ridotte. da qui le proteste e gli scioperi, che il governo bolscevico era pronto a tollerare purché fossero puramente economici  che essi non contestassero il suo potere. Il governo era particolarmente nervoso nel 1921, al tempo della rivolta di Kronstadt, le cui rivendicazioni per delle elezioni libere ai soviet e un rilassamento della proibizione del commercio privato riscuotevano le simpatie di numerosi lavoratori. Di fatto, durante le elezioni (che erano un po' libere) ai soviet quell'anno, i membri di altri partiti (menscevichi, socialrivoluzionari, anarchici) e dei militanti senza partito progredirono a spese dei bolscevichi. Pirani concentra la sua attenzione su questi "senza partito" che sembrano essere stati dei militanti di fabbrica che volevano dedicarsi alle questioni economiche, ma con una comprensione sottile del rapporti di forze e di ciò che poteva essere ottenuto dal governo.

Nel 1923 il governo soppresse le altre parti, con i loro militanti nelle fabbriche che non potevano più né presentarsi alle elezioni né agire apertamente. Pirani commenta: "nessuna organizzazione non comunista aveva ancora agito apertamente a Mosca prima della fine del periodo sovietico". I senza partito sopravvivessero qualche tempo mentre i bolscevichi tentavano di attirarli al loro partito. L'opposizione politica che sussisteva era limitata ai bolscevichi dissidenti, dentro e all'esterno del partito, qualcuno di loro adottò una posizione filo lavoratori per quel che concernevano i salari e le condizioni di lavoro, ma alla fine, anch'essi, furono perseguitati e sono andati a raggiungere i membri degli altri partiti politici nei campi di lavoro dell'Asia centrale e della Siberia.

La posizione di Lenin era tipica di quella che egli aveva adottato 20 anni prima nel suo celebre libello Che fare?: non ci si può affidare ai lavoratori per conoscere i loro propri interessi e la determinazione di questi interessi deve essere affidata ad una elite intellettuale d'avanguardia. Pirani riassume così una parte del discorso di Lenin al XI Congresso del Partito bolscevico nel 1921: "Lenin considerava che la classe operaia russa non poteva essere validamente considerata come proletaria. Spesso quando si dice'lavoratori', si pensa che ciò voglia dire proletario di fabbrica. Non è sicuramente il caso, egli diceva. Una classe operaia come Marx la descriveva non esisteva in Russia secondo Lenin. Ovunque si guardasse, i lavoratori delle fabbriche non erano dei proletari, ma diversi elementi di passaggio".

Pirani fa osservare che "la conseguenza pratica di questa posizione era che la presa di decisioni politiche dovrebbe essere concentrata tra le mani del partito". Questa distinzione tra la classe lavoratrice reale (nella quale non si può aver fiducia) e "il proletariato" (organizzato in un partito d'avanguardia cge sa meglio) è stata da allora trasmessa a tutti i gruppi leninisti ed è stata utilizzata allo scopo di giustificare la dittatura del partito sulla classe lavoratrice.

Il libro di Pirani merita di essere letto da tutti coloro che pensano, o che vogliono confutare, che lo Stato in Russia sotto i bolscevichi abbia potuto essere caratterizzato come "operaio". I lavoratori laggiù dovevano sempre tentare di difendere i loro salari e le loro condizioni di lavoro contro questo Stato, anche al tempo di Lenin e di Trotsky.

 


Adam Buick

 

 

[Traduzione di Ario Libert]


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Les travailleurs contre les Bolsceviks

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16 novembre 2012 5 16 /11 /novembre /2012 06:00

Poteri e potenze

nei mondi di Ursula Le Guin

 

René Fugler

 

Potere maschile, potere femminile

 

Il lettore convinto delle affinità libertarie di Le Guin cade qui in una perplessità giustificata. Senza dubbio, la figura del re rileva delle convenzioni di un genere che ci precipita in un universo pseudo-feudale. E il genere stesso confina con le storie fiabesche, in cui il re simbolizza solitamente l'equilibrio raggiunto e l'autonomia [23]. Più remotamente, il re come simbolo di concordia e di fertilità interviene nelle mitologie e leggende, celtiche soprattutto. Ciò non di meno troviamo attraverso l'opera, ciclo di Hain compreso, delle simpatie della scrittrice per le figure aristocratiche [24]. Si tratta d'altronde spesso di perdenti, di emarginati che resistono con dignità e coraggio all'avversità. Si può osservare che ciò accade più spesso nei romanzi d'esordio, e che tramite quest'immagine è avvertibile anche un'evoluzione. Il re dell'ultimo romanzo non si comporta affatto come un monarca.

Sullo sfondo, è avvertibile che il tema con un sinologo dell'equilibrio dei contrari, così ricorrente quanto quello della connessione, entra qui in gioco: anche a proposito di I reietti dell'altro pianeta, Hélène Escudié elabora l'ipotesi di un equilibrio tra sistemi "archici" e "anarchici". Un'ambiguità riguarda anche il pensiero che è una delle principali fonti delle idee della scrittrice sull'armonia e sulla complementarità dei contrari: il taoismo che lei cita come uno dei suoi riferimenti tra alcuni autori libertari [25]. Il principio del "non-agire", che orienta l'Ecumene nella sua politica di non-intervento, può rapportarsi alla stessa saggezza. Ursula Le Guin ha inoltre pubblicato lei stessa, in collaborazione con un sinologo, una traduzione del Tao Te Ching [26]. Le citazioni da questa raccolta di sentenze, sotto diversi appellativi, e anche delle citazioni o delle parafrasi, sono frequenti nei suoi libri.

Il problema è che passa per essere molto difficile da tradurre, dunque facile da interpretare... Alcuni vi vedono una prima espressione dell'anarchismo, sotto i tratti di un individualismo radicale che preconizza la volontà d'impotenza e respinge il potere con i suoi prestigi, le sue costrizioni, i suoi saperi. Altri lo considerano, a secondo della data che gli attribuiscono, come un testo destinato ai principi per insegnar loro "l'arte di governare senza che i sudditi sappiano che egli li tiranneggia" [27]. Senza dimenticare che sulla filosofia taoista originale è attecchita una religione ricca in superstizione e rituali magici. Non sarò io a darvene la soluzione.

L'evoluzione delle idee di Ursula Le Guin è particolarmente notevole per quel che concerne il ruolo delle donne.

Più di venti anni dopo La spiaggia più lontana, ritorna nell'arcipelago per quel che considera allora a torto come l'ultimo libro di Terramare [28] Tenar, la giovane sacerdotessa che ha fuggito il deserto di Atuan con Ged, si è installata sull'isola natale di quest'ultimo. Al tempo del racconto, essa vi ha già trascorso venticinque anni. Ged, prima di ripartire per altre imprese, l'aveva affidata al suo primo maestro, affinché le insegnasse a mettere in ordine e a sviluppare i poteri che essa traeva dalle Antiche Potenze. Lei vi ha rinunciato, non volendo più avere legami con le Tenebre. Sposata ad un fattore, ha avuto due figli, poi è diventata vedova.

È allora che ha salvato e adottato una bimba battuta e gettata nel fuoco dai suoi propri genitori, dei nomadi di passaggio. Cura il suo occhio ustionato e la sua mano atrofizzata. Ged, che ha perso tutti i suoi poteri nel suo sforzo di chiudere il varco tra il mondo dei vivi e quello dei morti, verrà a vivere con loro.

Un buon numero di pagine sono dedicate a dei dialoghi sui poteri comparati degli uomini e delle donne, con Ged - che pensa che quello di mago sia un mestiere da uomini - e le streghe Edera, la rigorosa, e Schiuma, la lunatica, che esalta i doni delle donne: "Ho delle radici, delle radici più profonde di quest'isola. Più profonde del mare, più antiche dell'emersione delle terre. Affondo nelle tenebre".

Bisogna qui, ancora e sempre, giocare il gioco della scrittrice nella trasposizione e la metafora. Non attenersi parola per parola per ritrovare l'eco e l'influenza dei dibattiti femministi degli anni 70 e 80. Se andava da sé, nelle convenzioni dei primi libri di Terramare, che la magia delle donne non poteva esercitarsi che in compiti subalterni, discreditate nell'opinione ("Debole come la magia femminile, velenoso come la magia femminile"), si passa ora ad una riconsiderazione, prima di saltare una nuova tappa, ancora simbolica. Se il fondamento della magia è il Linguaggio, quello dei veri nomi, è accessibile alle donne. Tenar già con il suo istruttore, riconosceva le parole antiche come se le avesse sempre pronunciate. Ed ecco che Therru, la bruciata, salva ora i suoi genitori adottivi, prigionieri di un allievo del mago malefico, chiamando il drago Kalessin. Quest'ultimo la riconosce e la saluta come sua figlia. Anche lei conosceva il Linguaggio.

 

Simbolica di una "femminizzazione"

 

Con questa "presa di parola", dice Hélène Escudié, questo romanzo traduce anche uno stato intermedio nel pensiero della Le Guin. "Le donne non hanno ancora raggiunto tutta la loro misura". Dieci anni più tardi, i sortilegi di Terramare trasportano sempre la scrittrice, che in due libri compie la "femminizzazione" del ciclo attraverso una vera revisione della storia dell'arcipelago [29]. In I venti di Earthsea, dove quattro donne sono al centro dell'azione, la giovane figlia bruciata, che si chiama oramai Tehanu secondo il "vero nome" che le ha rivelato il drago e che è anche un nome di stella, è sollecitata dal nuovo re ad intervenire contro un pericolo che si abbatte sulle isole: da un po' di tempo, dei draghi bruciano le messi e le fattorie e disperdono le greggi. Tehanu, ancora poco sicura dei suoi poteri, accetta di servire da interprete, più esattamente da intermediaria, tra gli umani e questi esseri temibili di cui lei condivide la natura. Essa ottiene innanzitutto una tregua, il tempo di scongiurare un altro pericolo che minaccia allo stesso tempo i draghi, gli uomini e l'equilibrio di tutte le cose, poi un patto di pace. Infine, ritroverà la sua propria integrità nello splendore di un corpo di drago e spiccherà il volo tra i venti di Earthsea.

I racconti di Terramare reinquadrano questa simbolica rivelandoci ciò che ignoriamo, o che non conosciamo che frammentariamente, delle storie e delle credenze dell'arcipelago. Ignoranza condivisa d'altronde dall'autrice, essa ci dice nella prefazione, e che la lasciano perplessa. "Il miglior mezzo per studiare un periodo storico che non esiste, è di raccontarlo e di scoprire ciò che è accaduto". Il primo dei racconti ci porta tre secoli in avanti rispetto al primo libro del ciclo, il secondo ci fa conoscere gli stregoni che hanno formato il maestro di Ged.

Un altro ci fa incontrare Ged al tempo in cui egli era Arcimago. L'ultimo narra i disordini esistenti alla scuola dei maghi - che non ammette che gli uomini - da Libellula, una futura donna drago: quella stessa che assisterà efficacemente Tehanu nelle sue trattative con i suoi fratelli (e sorelle) favolose. Il tutto termina con una descrizione di Terramare, studio politico, storico, linguistico e naturalmente etnologico. In cui veniamo a sapere che in origine non soltanto le donne erano anch'esse maghe, ma che sono loro in maggioranza che hanno fondato la scuola di Roke, per istituire un insegnamento etico della magia e un controllo etico del suo esercizio. Nell'età oscura in cui si affrontavano principi, piccole isole, città-Stato e signori della guerra, in cui i maghi stessi mettevano la loro scienza al servizio dei predatori quando non miravano essi stessi ad un proprio potere personale, esse avevano costituito, con degli uomini tuttavia, la Main, "una rete tenue ma solida di informazione, di comunicazione, di protezione e di sostegno".

Gli uomini, in seguito (dunque nei primi libri del ciclo...) riuscirono a eliminare le donne, come insegnanti e come allieve, della Scuola. Ma quest'ultima, e l'ordine che essa garantiva, non sopravviveranno, come narra I venti di Earthsea, che per l'intervento di due giovani donne, mediatrici tra il mondo della ragione e il mondo delle forze vitali.

Lascio l'ultima parola ai miei due commentatori. Per Hélène Escudié, la rappresentazione ossessiva, nell'opera di Ursula Le Guin, delle reti - al contempo "figura fondamentale dell'an-archia" e "forma privilegiata della socializzazione delle donne" - traduce una visione femminile del mondo e della letteratura. Gérard Klein giunge ad una conclusione simile, sostenendo che essa propone un mondo "senza sistema unificatore, senza dominazione, perché è una donna  che come tale l'affermazione ossessiva della potenza del fallo la riguarda meno". "Forse vuole suggerire indirettamente così ciò che potrebbe essere una cultura delle donne, acentrica, tollerante, staccata infine dal modello ripetitivamente conquistatore della cultura degli uomini".

 

René Fugler

 

[Traduzione di Ario Libert]

 

 

NOTE

 

[1] Robert Laffont, 1975; tr. it.: I reietti dell'altro pianeta, Editrice Nord, Milano, 1976. Vedere su questo libro in "Réfractions" il commento critico di Finn Bowring, "La liberté les mains dans les poches" [La libertà con le mani in tasca], n° 3, inverno 1998-99, p. 25-44) e la risposta di René Furth, "La liberté rien dans les poches" [La libertà niente nelle tasche], n° 5, primavera 2000, p. 129-131).

[2] Figlia del celebre antropologo Alfred Kroeber, si è aggiudicata cinque premi Hugo e sei premi Nebula, massimi riconoscimenti della letteratura fantastica.

[3] "Cronologia galattica" presa da Gérard Klein nella sua prefazione ad una raccolta di racconti: Ursula Le Guin, le livre d’or de la science-fiction, Presses Pocket, 1978, p. 12-13.

[4] Hélène Escudié, Ursula K. Le Guin, une Alchimie de l’Ailleurs [Ursula K. Le Guin, un'Alchimia dell'Altrove], tesi sostenuta a Strasburgo nel 2004 sotto la direzione di André Bleikasten, p. 38 (non edita).

[5] Prefazione alla raccolta di racconti Il compleanno del mondo, Robert Laffont, ailleurs & demain, 2006.

[6] Robert Laffont. 1971, p.153.

[7] Troviamo una replica ironica, se non cinica, e secondo Gérard Klein "post-moderna" dell'Ecumene e di Hain nell'universo creato dall'autore britannico Iain M. Banks: la Cultura è una società galattica, libertari, pacifista, edonista, attaccata a diffondere i suoi ideali attraverso i mondi, ma che, quando i suoi valori sono posti in causa o quando incontra nella sua espansione dei sistemi oppressivi e combattivi, non esita a far intervenire il suo servizio degli Affari Speciali che non retrocede davanti ad alcuna manipolazione o colpo gobbo... Con dei brillanti agenti divisi tra il piacere dell'azione e lo scrupolo morale. Pubblicato da Laffont, L'impero di Azad [The player of games]; Pensa a Fleba [Consider Phlebas]; La guerra di Zakalwe [Use of Weapons], ecc. sono stati ripresi in Livre de poche/science-fiction. Prefazione di Gérard Klein. A volte ineguale e complicato, è un ciclo nell'insieme molto eccitante.

[8] Ishi – Testamento dell'ultimo Indiano selvaggio dell'America del Nord, Plon, 1968, collezione Terre humaine, (2002).

[9] La nébuleuse du Crabe, la paramécie et Tolstoï, prefazione al volume delle edizioni Opta (1972) che raccoglie i tre primi romanzi (secondo l'ordine di pubblicazione) del ciclo di Hain: Il mondo di Rocannon, Pianeta dell'esilio, Città delle illusioni.

[10] Tesi citata, p. 169.

[11] Robert Laffont, 1979, riedito nel 2000 dopo La salvezza di Aka, con un saggio di Gérard Klein, Malaise dans la science-fiction américaine [Malessere nella fantascienza americana].

[12] Durante una discussione nel quadro del primo Simposio internazionale sull'anarchismo organizzato da Pietro Ferrua a Portland nella primavera el 1980 (L’Arc n° 91/92, "Anarchies", 2° trimestre 1984, p. 19: Ursula Le Guin, "L'anarchisme: idéal nécessaire" [L'Anarchismo: ideale necessario].

[13] Riedito in Livre de poche (science-fiction) nel 2003.

[14] La prima edizione di Always Coming Home [Sempre la valle] del 1985 era anche accompagnata da una cassetta in cui erano registrate le musiche, poesie e canti rituali di un popolo che si ritiene vivrà tra 20.000 anni fa (Escudié, p. 211). Traduzione francese presso Actes Sud, con il titolo La Vallée de l’éternel retour [La valle dell'eterno ritorno], 1994.

[15] Citazione ripresa (senza riferimento) nella presentazione del racconto "Alla vigilia della rivoluzione", scritta dopo I reietti dell'altro pianeta per spiegare le origini del pensiero che ispirava i creatori della società libertaria di Anarres (nella raccolta citata sopra del Livre d’or de la science-fiction, p. 333). Il racconto è inoltre dedicato a Paul Goodman. In un'altra trascrizione, di Marianne Enckell, del convegno organizzato al Symposium di Portland, cita anche Murray Bookchin per quel che riguarda la tecnologia dolce ("Science-fiction et anarchie" in Agora n° 2 (Tolosa, estate 1980).

[16] Città delle illusioni, tr. it. di City of illusions, Opta, 1972.

[17] Verso il 4370, per attenermi alla cronologia utilizzata da G. Klein.

[18] 2000, tradotto lo stesso anno per Laffont, in Italia tradotto da Arnoldo Mondadori nel 2002 nella collana "Strade Blu".

[19] 2002.

[20] Le Livre d’or de la science-fiction, op. cit., p. 14.

[21] Robert Laffont, ailleurs & demain, ha ripubblicato nel 2001 la trilogia che forma la sua prima parte: Lo Stregone di Earthsea (1968), le Tombe di Atuan (1971), La spiaggia più lontana (1973).

[22] Il cui prototipo rimane Il Signore degli anelli di Tolkien (1954-1955).

[23] René Fugler, "L’autonomie au bout du conte... de fées" [L'autonomia in fin del racconto... fiabesco], Réfractions n° 16, maggio 2006.

[24] In Il Mondo di Rocannon (1966) soprattutto. In La Mano sinistra delle tenebre, il re, poco simpatico..., è manifestamente pazzo.

[25] Paul Goodman, citato tra questi autori, si riferisce anche al taoismo. Vi tornerò sopra a proposito di due libri dedicati all'anarchico americano (1911-1972), riediti in un unico volume: Présent au monde: Paul Goodman di Bernard Vincent, l’Exprimerie, Bordeaux, 2003.

[26] Il Libro della via e della Virtù, il cui autore presunto è Lao-Tsu scritto anche Laozi, che secondo i commentatori è vissuto in Cina durante il VI oppure III secolo a. C. Una celebre traduzione italiana è quella della casa editrice milane Adelphi.

[27] Etiemble nella sua prefazione alla traduzione del Tao tö king di Liou Kia-hway, Gallimard, 1967.

[28] Tehanu (1990) tradotto dalla editrice Robert Laffont, ailleurs & demain, 1991, [2002].

[29] Pubblicato negli Stati Uniti nel 2001 in quest'ordine: I Racconti di Earthsea e Il vento d'altrove sono stati tradotti dall'editrice Robert Laffont, ailleurs & demain, il medesimo anno.

 

 

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15 novembre 2012 4 15 /11 /novembre /2012 06:00

Poteri e potenze

nei mondi di Ursula Le Guin

 

René Fugler

Dell'opera, ricca e in costante evoluzione, di Ursula Le Guin; i lettori che non sono particolarmente attratti dalla letteratura dell'immaginario hanno conservato soprattutto un romanzo, The Dispossessed [I Reietti dell'altro pianeta] [1]. Per interessante e ricca di idee che sia, questa storia di un uomo di scienza che intraprende le sue ricerche verso e contro tutto in una società anarchica che si sta sclerotizzando nel suo isolamento volontario non è forse l'ingresso più facile in un universo che offre molte altre attrazioni. E che, nella diversità dei racconti che ci fanno attraversare le società più sorprendenti, mette sempre in gioco il confronto di individui alla ricerca di libertà con dei poteri avidi di accrescersi pronti a precipitare un mondo intero nel caos. Ma non avrebbe senso leggere Le Guin alla ricerca di teorie politiche: la motivazione è innanzitutto nel piacere della lettura, nel piacere delle storie narrate. Se vi si ritrova materia su cui riflettere - e vi è materia su cui riflettere - è strada facendo, in una bella impresa di "decolonizzazione dell'immaginazione" e di apertura alla differenza.

Questo piacere della lettura deve molto al fatto che Ursula Le Guin è una vera scrittrice [2], anche se ha scelto di esprimersi in generi che essa stessa considera a volte come minori, la fantascienza in particolare. Essa costruisce delle trame che tengono con il fiato sospeso in una lingua semplice e chiara. Il suo gusto per i dettagli nella descrizione degli ambienti sociali o naturali si attiene a quanto vi è di più significativo. La costruzione dei suoi romanzi, che possono sembrare di fattura tradizionale, è molto concertata nei suoi cambiamenti di prospettiva tra personaggi e nelle sue rotture cronologiche. Una fine sensibilità colora discretamente le relazioni che essa tesse tra i suoi personaggi e anche le sue evocazioni della natura, che restano sempre legate alla tonalità del racconto o alle peripezie dell'intrigo.


Storie del futuro

I Reietti dell'altro pianeta (1974) è il romanzo che apre ciò che è chiamato il "ciclo di Hain", la grande saga di fantascienza di Ursula Le Guin. Questa "ambigua utopia"- secondo i termini dell'autrice- ne costituisce anche il primo episodio, secondo la cronologia interna del ciclo, anche se, nell'ordine delle pubblicazioni, quattro romanzi e dei racconti sono già narrati degli ulteriori episodi. Secondo la cronologia proposta da Gérard Klein secondo uno studio americano, I Reietti si collocherebbe verso l'anno 2.300, mentre un romanzo precedente, La Mano sinistra delle tenebre (1969) ci porta al 4.870 [3]. Un altro tentativo di cronologia, tuttavia, non separa le due storie che di quattordici secoli [4]. Ursula Le Guin stessa si diverte di questi tentativi di sistematizzazione: il filo cronologico del ciclo, dice, "somiglia ciò che un gattino trae fuori dal cestino dei ferri da ricamo, e la sua storia è soprattutto costituita" [5].

Il fatto è che la sua opera si sviluppa in modo... anarchico, acentrico secondo Gérard Klein. Le accade di partire da un racconto per sviluppare un tema in romanzo, di completare un romanzo con dei racconti che seguono o precedono la sua storia nel tempo. Con a volte delle discordanze, o anche una "riscrittura" della sua Storia-narrativa come lo si vedrà per il ciclo di Terramare, in funzione dell'evoluzione delle sue idee. Il che non guasta affatto il piacere del lettore scrupoloso o appassionato, felice di ritrovare i suoi i suoi personaggi o i suoi mondi in una "rete" che si amplifica incessantemente, e di scoprire nuovi chiarimenti, altre armoniche dei suoi temi.

Così in I reietti dell'altro pianeta, si vedrà il fisico Shevek inventare uno strumento di alta tecnologia, molto utile negli episodi pubblicati successivamente: "l'ansible" che permette la comunicazione istantanea tra sistemi stellari. È esso che renderà possibile in seguito la creazione della Lega di tutti i mondi, di cui I reietti dell'altro pianeta non presenta ancora che un abbozzo: Lo scambio di ambasciate tra la Terra, esaurita e sovrappopolata, il lussureggiante pianeta Urras – che i dissidenti anarchici hanno abbandonato per la sua "gemella" desertica Anarres - e Hain, che fu molto tempo fa la culla dell'umanità. La Lega si estenderà ad altri mondi prima di dislocarsi nei conflitti interni e e sotto le aggressioni di un nemico esterno.

Il pianeta Hain, che nessuna storia ci ha descritto sinora, non interviene nei romanzi che attraverso i suoi inviati o rappresentanti. Il suo ruolo non è per questo meno essenziale. Nel corso di più di un milione di anni, si è diffuso su un gran numero di mondi più o meno abitabili. Nella sua smisuratezza, si è dedicato a degli esperimenti biologici e sociologici che hanno moltiplicato le specie umane e le civiltà. Ha commesso degli abomini di cui non si possono dire grandi cose. Tranne che l'esperienza e il rimorso l'hanno portato ad una forma di saggezza che lo porta a tentare di stabilire nell'universo la pace e l'equilibrio, senza far ricorso alla forza. Dopo la dissoluzione della Lega, Hain sarà l'iniziatrice di una nuova forma di alleanza, l'Ecumene, i cui interventi, diretti o per influenza, si manifestano in seguito nel ciclo.

"È un popolo molto strano, quello degli Hainiani," dice a Shevek l'ambasciatrice di Terra. Più antico degli altri; infinitamente generoso. Sono altruisti. Agiscono a causa di un senso di colpa che non capiscono nemmeno, malgrado tutti i nostri crimini". Ritornando sul suo pianeta Anarres in una nave hainiana, Shevek avverte i membri dell'equipaggio come cortesi, premurosi, alquanto cupi. C'è poco spontaneità in essi. È anche un popolo che non si meraviglia di nulla. Istruiti da una storia così lunga, "essi non vedono nulla di nuovo sotto il sole, o non importa quale altro sole", secondo l'autrice stessa.

Hanno visto anche delle società anarchiche. In La mano sinistra delle tenebre (1969), quando l'Ecumene comprende 83 pianeti, il suo inviato sul pianeta glaciale Gethen, popolato da androgini, lo presenta così: "L'Ecumene non è essenzialmente un governo - nient'affatto. [...] È un'unità sociale che possiede, almeno in potenza, una civiltà. È un'organizzazione educatrice; per questo aspetto è una vasta scuola - vasta come l'universo. Ha vocazione nel favorire la comunicazione e la cooperazione [...] Come entità politica l'Ecumene coordina, non ordina. Non ci sono leggi da fare eseguire; le sue decisioni sono prese in consiglio, per mutuo consenso, e non all'unanimità o attraverso ordini autoritari" [6]. Nella sua prefazione a The Birthday of the World [L'anniversario del mondo] del 2002, la scrittrice relativizza con umorismo: l'Ecumene è "un raggruppamento di mondi non direttivi, che fa circolare le informazioni, e che, all'occasione, infrange la sua direttiva di essere non direttrice" [7].

Quando un nuovo mondo è scoperto o si manifesta, l'Ecumene invia degli osservatori (che restano discreti), poi un rappresentante provvisorio, un Mobile, incaricato di entrare in contatto con la popolazione o una delle sue società. Spesso, dei regimi differenti coesistono o si oppongono, e a volte delle specie umane o umanoidi diverse. Nessuno sbarco in forza, tutt'al più una nave che rimane distante. L'inviato è spesso un o una etnologo. Tutte le sue biografie precisano che Ursula Le Guin è la figlia dell'etnologo Alfred Kroeber, specialista delle lingue e usanze degli Indiani di California, e di Theodora Koebler che ha scritto due libri su Ishi, "l'ultimo indiano selvaggio", che ha avuto in Francia una certa popolarità [8]. Questa influenza familiare, e la sua frequentazione degli Indiani, la renderà sensibile alla differenza delle culture e alla necessità di rispettarle: è una delle fonti della sua opera.

 

L’etnofiction

L’etnologia diventa così il sostrato scientifico della sua fiction, completata dalla sua conoscenza di diverse mitologie e la sua riflessione sulla linguistica. Sembra inoltre più generalmente curiosa di informazioni scientifiche. Ciò che essa ammira soprattutto nella fantascienza, ha scritto, "è il tentativo di includere nell'arte - nella letteratura di immaginazione - un campo immenso, assolutamente e veramente nuovo, quello della scienza e della tecnologia moderna". Per le loro ripercussioni sull'umano, ovviamente.

"Abbiamo bisogno di capire, abbiamo bisogno di miti che ci appartengono... È per questo che difendo la fantascienza che edifica i miti del nostro nuovo mondo. Perché discerne già delle bellezze e i piaceri che le scoperte della scienza riservano all'artista: gli splendori estetici puri quanto una stella a neutroni, un'elica del DNA o il ciclo dei sogni di una notte d'uomo" [9].

Nella presa di contatto dell'Ecumene e con un nuovo mondo, l'etnologo non è soltanto un osservatore, svolge il ruolo dell'intermediario. I suoi poteri sono limitati, non dispone che della sua cultura, della sua capacità di comprensione e dei suoi talenti diplomatici. La sua vita può essere in gioco nell'avventura, non soltanto in seguito all'ostilità delle popolazioni autoctone, ma a volte per colpa della volontà di conquista e di dominio di altri membri della spedizione o i dirigenti di una colonia già installata. Succede così che il mediatore, o il partner che egli ha trovato nell'altra cultura, sia sacrificato, ciò che Hélène Escudié interpreta come "un superamento dell'individuo per il meglio collettivo" [10].

Il conflitto tra il riconoscimento dell'altro e il potere stabilito può rivelarsi particolarmente drammatico, come in Il mondo della foresta del 1972 [11]. L'azione può situarsi un secolo circa dopo I Reietti dell'altro pianeta. La Terra, che ha devastato la sua vegetazione e soffre per le carestie, ha impiantato su un pianeta ricoperto di foreste una colonia che la rifornisce di legno. Per la manodopera, i coloni hanno ridotto in schiavitù una parte della popolazione autoctona. Gli amministratori militari le nega ogni umanità a causa del suo aspetto fisico e della sua cultura che essi rifiutano di capire. Una parte del pianeta è già devastata, il che ha comportato anche la distruzione del popolo che la occupava e viveva in simbiosi con la foresta. Dagli studi dell'etnologo in missione, la gerarchia della colonia non considera che il carattere pacifico, dunque inoffensivo, degli indigeni, e i suoi rapporti sul loro maltrattamento sistematico non sono comunicati alla Terra. Lo può constatare quando un vascello terrestre arriva all'improvviso, con a bordo due rappresentanti della Lega di tutti i mondi, di cui la colonia ignorava la recente creazione (18 anni...) a causa dei divari di trasmissione e di spostamento interstellare, che permetteva anche alla colonia di vivere in autarchia. Il famoso, il trasmettitore istantaneo che fa parte anch'esso del viaggio, informerà i coloni delle nuove disposizioni prese per i pianeti occupati. Ma è troppo tardi. Grazie soprattutto ai legami di amicizia stabiliti tra l'etnologo e uno degli autoctoni asserviti, quest'ultimi si sono adattati alla cultura dei coloni: rispondono oramai alla violenza con la violenza, al massacro con il massacro. Il sacrificio del mediatore tuttavia non sarà stato inutile: la Lega decide di rimpatriare i Terriani e di non permettere un nuovo contatto prima di un secolo.

Secondo Ursula Le Guin stessa, questo romanzo nel modo della trasposizione e della metafora, è una reazione contro la guerra del Vietnam [12]. È senz'altro il suo libro più violento. In seguito, nel corso dei secoli, le leggi della Lega si faranno più restrittive per i coloni (la Lega era più autoritaria dell'Ecumene...). Quelli di Il Pianeta dell'esilio del 1966 [13], non sono autorizzati a utilizzare nelle loro relazioni con gli autoctoni una tecnologia superiore a quella di cui dispongono quest'ultimi... che non si sono dati ancora la pena di inventare la ruota. Seicento anni dopo il loro arrivo (essi vivono nell'anno 1465 della Lega), gli Oltre Terriani non formano più che una piccola città che si indebolisce, colpita dalla sterilità. Le popolazioni originarie evitano e disprezzano i "fuori-giunti" sospettati di stregoneria. Nessun vascello è venuto a portar loro nuove tecniche né informazioni; essi ignorano anche se la Lega esiste ancora (nel 1966, la scrittrice non ha ancora inventato l'ansible...). Un incontro amoroso susciterà infine gli indispensabili mediatori. Esso permetterà anche di constatare che, anche sul piano fisiologico, una felice evoluzione ha adattato i coloni al pianeta. Come l'amicizia, l'amore è presso la Le Guin un efficace fattore di comunicazione.

Torniamo all'etnologia, che fa sempre da trama nel tessuto dei suoi romanzi. Si tratta beninteso di etnologia fiction, di "etnofiction" fondata e sviluppata a partire dalle conoscenze effettive della scrittrice [14]. Ognuno dei suoi libri costituisce così una "esperienza di pensiero", in cui lei inventa con un evidente piacere e un'immaginazione sempre rinnovata delle istituzioni, delle strutture di parentela, dei modi di relazione amorosa, dei tipi di rapporti tra uomini e donne (gli uomini sono a volte il sesso dominato), delle tradizioni e delle mitologie, e anche delle lingue. Ricordando che immagina anche delle specie umane differenti... con le usanze sorprendenti che esse possono sviluppare.

Il racconto precisa a poco a poco questi dati, secondo il filo di avventure utilizzato. Le forme di potere politico sono sempre indicate, dal regime oligarchico o monarchico alla burocrazia, passando attraverso forme di democrazia o anche di anarchia. Esse si delineano nel corso della narrazione, determinando i comportamenti, i rischi corsi, le strategie da porre in opera. Le opposizioni e i conflitti, tra personaggi o gruppi sociali, si organizzano regolarmente tra due poli: la volontà di potere, la chiusura verso l'altro, l'ostinazione nell'isolamento da una parte, e dall'altra il desiderio di liberazione, il riconoscimento della differenza, la ricerca della connessione della cooperazione. Ma l'opposizione non resta schematica, ogni personaggio ha le sue ambiguità, ogni cultura il suo lato pericoloso o i suoi valori che meritano rispetto.

L'invenzione etnica

Non è senza ragione che Ursula Le Guin si riferisce a Kropotkin, e più generalmente all'anarchismo "così come esso è prefigurato nel pensiero taoista originario ed è stato sviluppato da Shelley e Kropotkin, Goldman e Goodman. Il bersaglio principale dell'anarchismo è lo Stato autoritario (capitalista o socialista); il suo tema principale, che rileva della morale applicata, è la cooperazione (solidarietà, assistenza reciproca). È la piùm idealista, e a mio avviso la più interessante, di tutte le teorie politiche" [15]. Il dominio, nel ciclo, prende raramente le forme brutali di Il mondo della foresta. È a volte più insidiosa, ma non meno mortale.

Città delle illusioni [16], si basa sulla manipolazione degli spiriti e la menzogna. Siamo in un futuro più remoto [17], la Terra è rimboscata! ma in un situazione più catastrofica che mai. È essa stessa colonizzata da dodici secoli dal Nemico esterno, il Nemico sconosciuto giunto non si sa da dove, gli Shing. La Lega è dislocata, i voli interstellari sembrano fermi, l'umanità terriana sopravvive in piccole tribù disperse che si evitano o si ignorano. I suoi archivi sono distrutti, i documenti che restano sono forse falsificati, la tecnologia di cui dispone è ridotta agli usi domestici. Non esiste più nessun mezzo di comunicazione a distanza. Delle tecniche "psichiche" che erano state sviluppate dal tempo della Lega rimane la telepatia, ma non è più affidabile: essa trasmette certo la confusione e l'errore, ma non la menzogna; gli Shing hanno spezzato questo limite, riescono a diffondere dei pensieri falsi. Riescono anche a far credere che essi non esistono. Impediscono ogni impresa di rilievo ed ogni raggruppamento, ma pretendono assicurare il benessere, la civiltà e la pace perché la loro legge suprema, "il rispetto della vita", proibisce l'assassinio. Essi utilizzano per se stessi una tecnologia molto sviluppata.

È da Il pianeta dell'esilio che verrà l'imprevisto: la nuova specie umana che vi prospera, ibrido dei Terriani abbandonati e degli indigeni, ha ritrovato le vie del progresso... nel quadro di una società strettamente gerarchizzata. Una dualità di cultura salverà il suo inviato, ed il pianeta stesso nella stessa occasione: la sua formazione d'origine unita all'esperienza trasmessa dai Terriani lo preserverà dalle manipolazioni "psicotecniche" degli Shing.

La distruzione della cultura e le difficoltà poste alla comunicazione (nel senso primario) così come la cooperazione ritornano regolarmente come metodi di dominio nell'opera di Le Guin. In La salvezza di Aka [18], il potere installato su un pianeta recentemente contattato dall'Ecumene ha intrapreso di sradicare la cultura che è stata da millenni quella delle società che esso governa. Per recuperare il ritardo scientifico e tecnico di questo mondo, la Corporazione che la dirige e che non si basa che sulla Scienza ha deciso di distruggere tutti i libri antichi, di sradicare tutte le narrazioni, leggende, poesie e musiche che costituivano la sua civiltà, compresa l'antica scrittura sotto tutte le sue forme. Un'Osservatrice dell'Ecumene, etnologa evidentemente, ha infine ricevuto l'autorizzazione di lasciare la capitale per recarsi in una remota regione montagnosa allo scopo di studiare la sua popolazione, nella quale si nasconderebbero gli ultimi praticanti di una religione proibita. È una terriana - un'Indiana formata in America - che la sua esperienza ha preparato a questa missione: la Terra è da poco uscita da un periodo in cui, in un fanatismo inverso a quello di Aka, degli integralisti religiosi si erano impadroniti del potere e avevano intrapreso di bruciare i libri. Il viaggio di studi non sarà senza pericoli, e anche qui un mediatore - dapprima poco collaborativo con i coloni poi innamorato - sarà spezzato dal conflitto delle culture. Una volta ancora, la resistenza contro il potere oppressivo e distruttore assume la forma della rete (che copre come una tela di ragno l'intero pianeta) e della cooperazione.

 

L'universo narrativo

Inventato da Ursula Le Guin, "incontrato per caso" dice lei, non la lascia mai in pace, e i suoi mondi - "piccoli mondi fatti di parole" - le inviano incessantemente messaggi, interrogativi, proposte. Prosegue così i suoi "esperimenti di pensiero" su delle usanze immaginabili e le forme di potere che esse implicano in raccolte di racconti. Sette su otto, in L'anniversario del mondo (The Birthday of the World) [19] si collegano al ciclo dell'Ecumene. La loro tematica è essenzialmente quella delle relazioni amorose, includente sia l'omosessualità sia un complesso matrimonio a quattro. La scrittrice torna qui "divertendosi" sulla vita sessuale degli androgini del pianeta Nivose (in La Mano sinistra delle tenebre) e le istituzioni che la regolamentano. È in questa raccolta che si esplora un mondo dominato dalle donne - gli uomini, dediti ai tornei sportivi e alla procreazione, sono esclusi dall'università e dai lavori intellettuali - e una società fondata sulla schiavitù.

La caratteristica essenziale della sua opera, secondo Gérard Klein, è che essa sceglie "di iscriversi in rottura e anche in contraddizione con il pessimismo acuto che impregna dalla metà degli anni sessanta la fantascienza anglosassone" [20]. Spesso devastata, lo abbiamo visto, la Terra rinasce sempre dalle sue ceneri, scopre altri mondi e crea alleanze con altre umanità non appena le riconosce in quanto tali e rinuncia a dominarle. L'universo della Le Guin non è l'universo della crisi, ma un universo in cui le crisi, costanti, sono superate. La molla della sua creazione sarebbe così l'invenzione etica, nella prospettiva di un umanesimo fondato sul riconoscimento della differenziazione dei gruppi umani e il progetto "di organizzare senza tregua dei sistemi di scambio tra unità differenziate".

 

La magia di Terramare

Potrà sembrare strano trovare un'invenzione etica che ci riguarda in un mondo in cui la magia occupa il posto della scienza... Nel ciclo di Terramare [21], siamo rinviato un orbita più lontani nell'ordine della trasposizione e ella metafora. Se la nostra immaginazione può essere stimolata da speculazioni che proiettano l'umanità in un avvenire lontano prolungando delle linee di evoluzione possibili della nostra società, il che fa spesso la fantascienza, come riconosceremo le nostre motivazioni e le nostre inquietudini in un mondo dai contorni medievali di cui tutte le coordinate sono immaginarie?

Di fatto, il lettore non è più disorientato che in un romanzo che prende come quadro il nostro XVII secolo o il Medioevo "reale". Una volta ammessi i postulati di partenza - in Le Guin, essi rimangono coerenti - i comportamenti dei personaggi, le loro emozioni e le loro motivazioni sono del tutto comprensibili e catturano facilmente la nostra adesione o la nostra riprovazione. E se le forme di potere prendono qui meno importanza, delle passioni come la volontà di potere e di dominio fanno parte degli elementi essenziali dell'intrigo.

In questo ciclo, che attiene dunque al genere chiamato fantasy [22], due forme di potere coesistono, in alleanza o in opposizione: quello dei Re, principi, tiranni, signori della guerra o anche capi di pirati, e quello dei Maghi, stregoni e altri elementi del genere. Il primo può essere fondato sul diritto e la tradizione, o sulla forza e la violenza. In un caso come nell'altro, può cercare di appoggiarsi sui poteri dei Maghi e consorti. Quando un potere è "di diritto" - esiste come un "diritto naturale" che è in accordo con gli elementi magici di cui partecipano l'uomo e la natura - contribuisce all'equilibrio del mondo.

Equilibrio sempre instabile, perché certi depositari dei poteri magici sono tentati di abusarne per dominare la loro società e anche accedere all'immortalità. Per di più, dietro e sotto le potenze che possono mobilitare i maghi, e più antiche di esse, sussistono le Potenze innominabili, forze di caos e di morte che non aspettano che l'occasione di scatenarsi non appena le si invochi o le si provochi.

Sulle innumerevoli isole che costituiscono l'arcipelago di Terramare, è dunque la magia ad occupare il posto della scienza e della tecnologia. Con delle forme e dei livelli di efficacia che mutano a secondo delle isole e la loro storia. Le sue applicazioni vanno dal semplice artigianato alla grande arte. Secondo i suoi doni - se non avete un talento innato, non sarete mai maghi - la sua formazione e la sua qualifica, lo stregone ripara o ritrova degli oggetti, conferisce impermeabilità alle navi e solidità alle mura, fa soffiare il vento nelle vele, si trasforma in sparviero, scatena o contiene i terremoti. Può guarire uomini e bestie; sono gli stregoni in generale che si occupano di questo compito, insieme ad altre attività "minori". Al più alto livello, queste scienze sono insegnate sull'isola di Roke da nove Maestri (un Arcimago è il loro capo eletto) in discipline ben specificate, secondo le conoscenze e le energie naturali mobilitate.

C'è, sotto tutte queste finzioni, una concezione poetica, simbolica, dell'universo, fondata su un accordo dell'uomo con gli elementi, la luce e le tenebre, le forze di vita e di morte.

È per questo, senza dubbio, che esse colpiscono il nostro immaginario oltre, o prima, del semplice racconto. C'è anche come economia, un'ecologia della magia: il vero mago non utilizza le energie se non per necessità, per non perturbare l'equilibrio del mondo. A fondamento di tutto agisce il Vero Linguaggio, l'Antico Linguaggio: per aver presa su un oggetto o un animale, bisogna conoscere il suo vero nome, per un umano, rivelare il proprio vero nome è dare presa su di sé. È anche la lingua parlata dai Draghi, che partecipano al contempo con le forze creatrici e le forze caotiche. "La loro bellezza era fatta di forza terribile e di ferocia totale, e anche dalla grazia della ragione".

I primi libri sono in senso preciso dei romanzi di formazione. Il giovane capraio Ged, il cui nome corrente è Sparviero (lo Stregone di Terramare), acquisisce il suo sapere attraverso una lunga serie di prove, di cui la peggiore sarà provocata dal suo orgoglio e la sua volontà di dominio. In una dimostrazione di potenza che supera le sue capacità, egli libera dalle tenebre la sua ombra che lo braccherà per distruggerlo finché non deciderà di affrontarla e di perseguitarla a sua volta.

Per giungere infine a vincerla nominandola con il suo proprio nome. Nelle tombe di Atuan, la piccola Tenar, rapita ai suoi genitori e allevata come la reincarnazione, attraverso i secoli, dalla Prima sacerdotessa delle Potenze Antiche della Terra, delle Potenze Innominabili, esercita innanzitutto con soddisfazione il suo diritto di morte su dei prigionieri. Adolescente, essa tenterà di catturare e di uccidere Ged smarrito nel labirinto di queste Tombe alla ricerca dell'anello che ristabilirà l'equilibrio e la pace nelle isole.

Tutto questo girovagare nei sotterranei, in mezzo alle forze pericolose che le difendono, mostra inoltre i talenti di evocazione della Le Guin e gli echi che essa può svegliare tra le tenebre del lettore...

 

[SEGUE]

 

[Traduzione di Ario Libert]

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15 novembre 2012 4 15 /11 /novembre /2012 06:00

Poteri e potenze

leguin3.jpg nei mondi di Ursula Le Guin

di René Fugler
 

Dell'opera, ricca e in costante evoluzione, di Ursula Le Guin; i lettori che non sono particolarmente attratti dalla letteratura dell'immaginario hanno conservato soprattutto un romanzo, The Dispossessed [I Reietti dell'altro pianeta] [1]. Per interessante e ricca di idee che sia, questa storia di un uomo di scienza che intraprende le sue ricerche verso e contro tutto in una società anarchica che si sta sclerotizzando nel suo isolamento volontario non è forse l'ingresso più facile in un universo che offre molte altre attrazioni. E che, nella diversità dei racconti che ci fanno attraversare le società più sorprendenti, mette sempre in gioco il confronto di individui alla ricerca di libertà con dei poteri avidi di accrescersi pronti a precipitare un mondo intero nel caos. Ma non avrebbe senso leggere Le Guin alla ricerca di teorie politiche: la motivazione è inanzitutto nel piacere della lettura, nel piacere delle storie narrate. Se vi si ritrova materia su cui riflettere - e vi è materia su cui riflettere - è strada facendo, in una bella impresa di "decolonizzazione dell'immaginazione" e di apertura alla differenza.


dispossessed.jpg

Questo piacere della lettura deve molto al fatto che Ursula Le Guin è una vera scrittrice [2], anche se ha scelto di esprimersi in generi che essa stessa considera a volte come minori, la fantascienza in particolare. Essa costruisce delle trame che tengono con il fiato sospeso in una lingua semplice e chiara. Il suo gusto per i dettagli nella descrizione degli ambienti sociali o naturali si atiene a qunto vi è di più significativo. La costruzione dei suoi romanzi, che possono sembrare di fattura tradizionale, è molto concertata nei suoi cambiamenti di prospettiva tra personaggi e nelle sue rotture cronologiche. Una fine sensibilità colora discretamente le relazioni che essa tesse tra i suoi personaggi e anche le sue evocazioni della natura, che restano sempre legate alla tonalità del racconto o alle peripezie dell'intrigo.


Storie del futuro

I Reietti dell'altro pianeta (1974) è il romanzo che apre ciò che è chiamato il "ciclo di Hain", la grande saga di fantascienza di Ursula Le Guin. Questa "ambigua utopia"- secondo i termini dell'autrice- ne costituisce anche il primo episodio, secondo la cronologia interna del ciclo, anche se, nell'ordine delle pubblicazioni, quattro romanzi e dei racconti sono già narrati degli ulteriori episodi. Secondo la cronologia proposta da Gérard Klein secondo uno studio americano, I Reietti si collocherebbe verso l'anno 2.300, mentre un romanzo precedente, La Mano sinistra delle tenebre (1969) ci porta al 4.870 [3]. Un altro tentativo di cronologia, tuttavia, non separa le due storie che di quattordici secoli [4]. Ursula Le Guin stessa si diverte di questi tentativi di sistematizzazione: il filo cronologico del ciclo, dice, "somiglia ciò che un gattino trae fuori dal cestino dei ferri da ricamo, e la sua storia è soprattutto costituita" [5].


reietti.jpg

Il fatto è che la sua opera si sviluppa in modo... anarchico, acentrico secondo Gérard Klein. Le accade di partire da un racconto per sviluppare un tema in romanzo, di completare un romanzo con dei racconti che seguono o precedono la sua storia nel tempo. Con a volte delle discordanze, o anche una "riscrittura" della sua Storia-narrativa come lo si vedrà per il ciclo di Terramare, in funzione dell'evoluzione delle sue idee. Il che non guasta affatto il piacere del lettore scrupoloso o appassionato, felice di ritrovare i suoi i suoi personaggi o i suoi mondi in una "rete" che si amplifica incessantemente, e di scoprire nuovi chiarimenti, altre armoniche dei suoi temi.

Così in I reietti dell'altro pianeta, si vedrà il fisico Shevek inventare uno strumento di alta tecnologia, molto utile negli episodi pubblicati successivamente: "l'ansible" che permette la comunicazione istantanea tra sistemi stellari. È esso che renderà possibile in seguito la creazione della Lega di tutti i mondi, di cui I reietti dell'altro pianeta non presenta ancora che un abbozzo: Lo scambio di ambasciate tra la Terra, esaurita e sovrapopolata, il lussureggiante pianeta Urras – che i dissidenti anarchici hanno abbandonato per la sua "gemella" desertica Anarres - e Hain, che fu molto tempo fa la culla dell'umanità. La Lega si estenderà ad altri mondi prima di disloccarsi nei conflitti interni e e sotto le aggressioni di un nemico esterno.

Il pianeta Hain, che nessuna storia ci ha descritto sinora, non interviene nei romanzi che attraverso i suoi inviati o rappresentanti. Il suo ruolo non è per questo meno essenziale. Nel corso di più di un milione di anni, si è diffuso su un gran numero di mondi più o meno abitabili. Nella sua smisuratezza, si è dedicato a degli esperimenti biologici e sociologici che hanno moltiplicato le specie umane e le civiltà. Ha commesso degli abominii di cui non si possono dire grandi cose. Tranne che l'esperienza e il rimorso l'hanno portato ad una forma di saggezza che lo porta a tentare di stabilire nell'universo la pace e l'equilibrio, senza far ricorso alla forza. Dopo la dissoluzione della Lega, Hain sarà l'iniziatrice di una nuova forma di alleanza, l'Ecumene, i cui interventi, diretti o per influenza, si manifestano in seguito nel ciclo.

"È un popolo molto strano, quello degli Hainiani," dice a Shevek l'ambasciatrice di Terra. Più antico degli altri; infinitamente generoso. Sono altruisti. Agiscono a causa di un senso di colpa che non capiscono nemmeno, malgrado tutti i nostri crimini". Ritornando sul suo pianeta Anarres in una nave hainiana, Shevek avverte i membri dell'equipaggio come cortesi, premurosi, alquanto cupi. C'è poco spontaneità in essi. È anche un popolo che non si meraviglia di nulla. Istruiti da una storia così lunga, "essi non vedono nulla di nuovo sotto il sole, o non importa quale altro sole", secondo l'autrice stessa.

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Hanno visto anche delle società anarchiche. In La mano sinistra delle tenebre (1969), quando l'Ecumene comprende 83 pianeti, il suo inviato sul pianeta glaciale Gethen, popolato da androgini, lo presenta così: "L'Ecumene non è essenzialmente un governo - nient'affatto. [...] È un'unità sociale che possiede, almeno in potenza, una civiltà. È un'organizzazione educatrice; per questo aspetto è una vasta scuola - vasta come l'universo. Ha vocazione nel favorire la comunicazione e la cooperazione [...] Come entità politica l'Ecumene coordina, non ordina. Non ci sono leggi da fare eseguire; le sue decisioni sono prese in consiglio, per mutuo consenso, e non all'unanimità o attraverso ordini autoritari" [6]. Nella sua prefazione a The Birthday of the World [L'anniversario del mondo] del 2002, la scrittrice relativizza con umorismo: l'Ecumene è "un raggruppamento di mondi non direttivi, che fa circolare le informazioni, e che, all'occasione, infrange la sua direttiva di essere non direttrice" [7].

 

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Quando un nuovo mondo è scoperto o si manifesta, l'Ecumene invia degli osservatori (che restano discreti), poi un rappresentante provvisorio, un Mobile, incaricato di entrare in contatto con la popolazione o una delle sue società. Spesso, dei regimi differenti coesistono o si oppongono, e a volte delle specie umane o umanoidi diverse. Nessuno sbarco in forza, tutt'al più una nave che rimane distante. L'inviato è spesso un o una etnologo. Tutte le sue biografie precisano che Ursula Le Guin è la figlia dell'etnologo Alfred Kroeber, specialista delle lingue e usanze degli Indiani di California, e di Theodora Koebler che ha scritto due libri su Ishi, "l'ultimo indiano selvaggio", che ha avuto in Francia una certa popolarità [8]. Questa influenza familiare, e la sua frequentazione degli Indiani, la renderà sensibile alla differenza delle culture e alla necessità di rispettarle: è una delle fonti della sua opera.

 

L’etnofiction

L’etnologia diventa così il sostrato scientifico della sua fiction, completata dalla sua conoscenza di diverse mitologie e la sua riflessione sulla linguistica. Sembra inoltre più generalmente curiosa di informazioni scientifiche. Ciò che essa ammira soprattutto nella fantascienza, ha scritto, "è il tentativo di includere nell'arte - nella letteratura di immaginazione - un campo immenso, assolutamente e veramente nuovo, quello della scienza e della tecnologia moderna". Per le loro ripercussioni sull'umano, ovviamente.

"Abbiamo bisogno di capire, abbiamo bisogno di miti che ci appartengono... È per questo che difendo la fantascienza che edifica i miti del nostro nuovo mondo. Perché discerne già delle bellezze e i piaceri che le scoperte della scienza riservano all'artista: gli splendori estetici puri quanto una stella al neutronio, un'elica del DNA o il ciclo dei sogni di una notte d'uomo" [9].

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Nella presa di contatto dell'Ecumene e con un nuovo mondo, l'etnologo non è soltanto un osservatore, svolge il ruolo dell'intermediario. I suoi poteri sono limitati, non dispone che della sua cultura, della sua capacità di comprensione e dei suoi talenti diplomatici. La sua vita può essere in gioco nell'avventura, non soltanto in seguito all'ostilità delle popolazioni autoctone, ma a volte per colpa della volontà di conquista e di dominio di altri membri della spedizione o i dirigenti di una colonia già installata. Succede così che il mediatore, o il partner che egli ha trovato nell'altra cultura, sia sacrificato, ciò che Hélène Escudié interpreta come "un superamento dell'individuo per il meglio collettivo" [10] .

Il conflitto tra il riconoscimento dell'altro e il potere stabilito può rivelarsi particolarmente drammatico, come in Il mondo della foresta del 1972 [11]. L'azione può situarsi un secolo circa dopo I Reietti dell'altro pianeta. La Terra, che ha devastato la sua vegetazione e soffre per le carestie, ha impiantato su un pianeta ricoperto di foreste una colonia che la rifornisce di legno. Per la manodopera, i coloni hanno ridotto in schiavitù una parte della popolazione autoctona. Gli amministratori militari le nega ogni umanità a causa del suo aspetto fisico e della sua cultura che essi rifiutano di capire. Una parte del pianeta è già devastata, il che ha comportato anche la distruzione del popolo che la occupava e viveva in simbiosi con la foresta. Dagli studi dell'etnologo in missione, la gerarchia della colonia non considera che il carattere pacifico, dunque inoffensivo, degli indigeni, e i suoi rapporti sul loro maltrattamento sistematico non sono comunicati alla Terra. Lo può constatare quando un vascello terrestre arriva all'improvviso, con a bordo  due rappresentanti della Lega di tutti i mondi, di cui la colonia ignorava la recente creazione (18 anni...) a causa dei divari di trasmissione e di spostamento interstellare, che permetteva anche alla colonia di vivere in autarchia. Il famoso, il trasmettitore istantaneo che fa parte anch'esso del viaggio, informerà i coloni delle nuove disposizioni prese per i pianeti occupati. Ma è troppo tardi. Grazie soprattutto ai legami di amicizia stabiliti tra l'etnologo e uno degli autoctoni asserviti, quest'ultimi si sono adattati alla cultura dei coloni: rispondono oramai alla violenza con la violenza, al massacro con il massacro. Il sacrificio del mediatore tuttavia non sarà stato inutile: la Lega decide di rimpatriare i Terriani e di non permettere un nuovo contatto prima di un secolo.

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Secondo Ursula Le Guin stessa, questo romanzo nel modo della trasposizione e della metafora, è una reazione contro la guerra del Vietnam [12]. È senz'altro il suo libro più violento. In seguito, nel corso dei secoli, le leggi della Lega si faranno più restrittive per i coloni (la Lega era più autoritaria dell'Ecumene...). Quelli di Il Pianeta dell'esilio del 1966 [13], non sono autorizzati a utilizzare nelle loro relazioni con gli autoctoni una tecnologia superiore a quella di cui dispongono quest'ultimi... che non si sono dati ancora la pena di inventare la ruota. Seicento anni dopo il loro arrivo (essi vivono nell'anno 1465 della Lega), gli Oltre Terriani non formano più che una piccola città che si indebolisce, colpita dalla sterilità. Le popolazioni originarie evitano e disprezzano i "fuori-giunti" sospettati di stregoneria. Nessun vascello è venuto a portar loro nuove tecniche né informazioni; essi ignorano anche se la Lega esiste ancora (nel 1966, la scrittrice non ha ancora inventato l'ansible...). Un incontro amoroso susciterà infine gli indispensabili mediatori. Esso permetterà anche di constatare che, anche sul piano fisiologico, una felice evoluzione ha adattato i coloni al pianeta. Come l'amicizia, l'amore è presso la Le guin un efficace fattore di comunicazione.

le-guin-pianeta.jpegTorniamo all'etnologia, che fa sempre da trama nel tessuto dei suoi romanzi. Si tratta beninteso di etnologia fiction, di "etnofiction" fondata e sviluppata a partire dalle conoscenze effettive della scrittrice [14]. Ognuno dei suoi libri costituisce così una "esperienza di pensiero", in cui lei inventa con un evidente piacere e un'immaginazione sempre rinnovata delle istituzioni, delle strutture di parentela, dei modi di relazione amorosa, dei tipi di rapporti tra uomini e donne (gli uomini sono a volte il sesso dominato), delle tradizioni e delle mitologie, e anche delle lingue. Ricordando che immagina anche delle specie umane differenti... con le usanze sorprendenti che esse possono sviluppare.

Il racconto precisa a poco a poco questi dati, secondo il filo di avventure utilizzato. Le forme di potere politico sono sempre indicate, dal regime oligarchico o monarchico alla burocrazia, passando attraverso forme di democrazia o anche di anarchia. Esse si delineano nel corso della narrazione, determinando i comportamenti, i rischi corsi, le strategie da porre in opera. Le opposizioni e i conflitti, tra personaggi o gruppi sociali, si organizzano regolarmente tra due poli: la volontà di potere, la chiusura verso l'altro, l'ostinazione nell'isolamento da una parte, e dall'altra il desiderio di liberazione, il riconoscimento della differenza, la ricerca della connessione della cooperazione. Ma l'opposizione non resta schematica, ogni personaggio ha le sue ambiguità, ogni cultura il suo lato pericoloso o i suoi valori che meritano rispetto.

 

L'invenzione etnica

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Non è senza ragione che Ursula Le Guin si riferisce a Kropotkin, e più generalmente all'anarchismo "così come esso è prefigurato nel pensiero taoista originario ed è stato sviluppato da Shelley e Kropotkin , Goldman e Goodman. Il bersaglio principale dell'anarchismo è lo Stato autoritario (capitalista o socialista); il suo tema principale, che rileva della morale applicata, è la cooperazione (solidarietà, assistenza reciproca). È la piùm idealista, e a mio avviso la più interessante, di tutte le teorie politiche" [15]. Il dominio, nel ciclo, prende raramente le forme brutali di Il mondo della foresta. È a volte più insidiosa, ma non meno mortale.

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Città delle illusioni [16], si basa sulla manipolazione degli spiriti e la menzogna. Siamo in un futuro più remoto [17], la Terra è rimboscata! ma in un situazione più catastrofica che mai. È essa stessa colonizzata da dodici secoli dal Nemico esterno, il Nemico sconosciuto giunto non si sa da dove, gli Shing. La Lega è dislocata, i voli interstellari sembrano fermi, l'umanità terriana sopravvive in piccole tribù disperse che si evitano o si ignorano. I suoi archivi sono distrutti, i documenti che restano sono forse falsificati, la tecnologia di cui dispone è ridotta agli usi domestici. Non esiste più nessun mezzo di comunicazione a distanza. Delle tecniche "psichiche" che erano state sviluppate dal tempo della Lega rimane la telepatia, ma non è più affidabile: essa trasmette certo la confusione e l'errore, ma non la menzogna; gli Shing hanno spezzato questo limite, riescono a diffondere dei pensieri falsi. Riescono anche a far credere che essi non esisitono. Impediscono ogni impresa di rilievo ed ogni raggruppamento, ma pretendono assicurare il benessere, la civiltà e la pace perche la lorolegge suprema, "il rispetto della vita", proibisce l'assassinio. Essi utilizzano per se stessi una tecnologia molto sviluppata.

È da Il pianeta dell'esilio che verrà l'imprevisto: la nuova specie umana che vi prospera, ibrido dei Terriani abbandonati e degli indigeni, ha ritrovato le vie del progresso... nel quadro di una società strettamente gerarchizzata. Una dualità di cultura salverà il suo inviato, ed il pianeta stesso nella stessa occasione: la sua formazione d'origine unita all'esperienza trasmessa dai Terriani lo preserverà dalle manipolazioni "psicotecniche" degli Shing.

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La distruzione della cultura e le difficoltà poste alla comunicazione (nel senso primario) così come la cooperazione ritornano regolarmente come metodi di dominio nell'opera di Le Guin. In La salvezza di Aka [18], il potere installato su un pianeta recentemente contattato dall'Ecumene ha intrapreso di sradicare la cultura che è stata da millenni quella delle società che esso governa. Per recuperare il ritardo scientifico e tecnico di questo mondo, la Corporazione che la dirige e che non si basa che sulla Scienza ha deciso di distruggere tutti i libri antichi, di sradicare tutte le narrazioni, leggende, poesie e musiche che costituivano la sua civiltà, compresa l'antica scrittura sotto tutte le sue forme. Un'Osservatrice dell'Ecumene, etnologa evidentemente, ha infine ricevuto l'autorizzazione di lasciare la capitale per recarsi in una remota regione montagnosa allo scopo di studiare la sua popolazione, nella quale si nasconderebbero gli ultimi praticanti di una religione proibita. È una terriana - un'Indiana formata in America - che la sua esperienza ha preparato a questa missione: la Terra è da poco uscita da un periodo in cui, in un fanatismo invrso a quello di Aka, degli integralisti religiosi si erano impadroniti del potere e avevano intrapreso di bruciare i libri. Il viaggio di studi non sarà senza pericoli, e anche qui un mediatore - dapprima poco collaboraticolonivo poi innamorato - sarà spezzato dal conflitto delle culture. Una volta ancora, la resistenza contro il potere oppressivo e distruttore assume la forma della rete (che copre come una tela di ragno l'intero pianeta) e della cooperazione.

 

L'universo narrativo

Inventato da Ursula Le Guin, "incontrato per caso" dice lei, non la lascia mai in pace, e i suoi mondi - "piccoli mondi fatti di parole" - le inviano incessantemente messaggi, interrogativi, proposte. Prosegue così i suoi "esperimenti di pensiero" su delle usanze immaginabili e le forme di potere che esse implicano in raccolte di racconti. Sette su otto, in L'anniversario del mondo (The Birthday of the World) [19] si collegano al ciclo dell'Ecumene. La loro tematica è essenzialmente quella delle relazioni amorose, includente sia l'omosessualità sia un complesso matrimonio a quattro. La scrittrice torna qui "divertendosi" sulla vita sessuale degli androgini del pianeta Nivose (in La Mano sinistra delle tenebre) e le istituzioni che la regolamentano. È in questa raccolta che si esplora un mondo dominato dalle donne - gli uomini, dediti ai tornei sportivi e alla procreazione, sono esclusi dall'università e dai lavori intellettuali - e una società fondata sulla schiavitù.

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La caratteristica essenziale della sua opera, secondo Gérard Klein, è che essa sceglie "di iscriversi in rottura e anche in contraddizione con il pessimismo acuto che impregna dalla metà degli anni sessanta la fantascienza anglosassone" [20]. Spesso devastata, lo abbiamo visto, la Terra rinasce sempre dalle sue ceneri, scopre altri mondi e crea alleanze con altre umanità non appena le riconosce in quanto tali e rinuncia a dominarle. L'universo della Le Guin non è l'universo della crisi, ma un universo in cui le crisi, costanti, sono superate. La molla della sua creazione sarebbe così l'invenzione etica, nella prospettiva di un umanesimo fondato sul riconoscimento della differenziazione dei gruppi umani e il progetto "di organizzare senza tregua dei sistemi di scambio tra unità differenziate".

 

La magia di Terramare

 

Potrà sembrare strano trovare un'invenzione etica che ci riguarda in un mondo in cui la magia occupa il posto della scienza... Nel ciclo di Terramare [21], siamo rinviato un orbita più lontani nell'ordine della trasposizione e ella metafora. Se la nostra immaginazione può esere stimolata da speculazioni che proiettano l'umanità in un avvenire lontano prolungando delle linee di evoluzione possibili della nostra società, il che fa spesso la fantascienza, come riconosceremo le nostre motivazioni e le nostre inquietudini in un mondo dai contorni medievali di cui tutte le coordinate sono immaginarie?

Di fatto, il lettore non è più disorientato che in un romanzo che prende come quadro il nostro XVII secolo o il Mediovo "reale". Una volta ammessi i postulati di partenza - in Le Guin, essi rimangono coerenti - i comportamenti dei personaggi, le loro emozioni ele loro motivazioni sono del tutto comprensibili e catturano facilmente la nostra adesione o la nostra riprovazione. E se le forme di potere prendono qui meno importanza, delle passioni come la volontà di potere e di dominio fanno parte degli elementi essenziali dell'intrigo.

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In questo ciclo, che attiene dunque al gener chiamato fantasy [22], due forme di potere coesistono, in alleanza o in opposizione: quello dei Re, principi, tiranni, signori della guerra o anche capi di pirati, e quello dei Maghi, stregoni e altri elementi del genere. Il primo può essere fondato sul diritto e la tradizione, o sulla forza e la violenza. In un caso come nell'altro, può cercare di appoggiarsi sui poteri dei Maghi e consorti. Quando un potere è "di diritto" - esiste come un "diritto naturale" che è in accordo con gli elementi magici di cui partecipano l'uomo e la natura - contribuisce all'equilibrio del mondo.

Equilibrio sempre instabile, perché certi depositari dei poteri magici sono tentati di abusarne per dominare la loro società e anche accedere all'immortalità. Per di più, dietro e sotto le potenze che possono mobilitare i maghi, e più antiche di esse, sussistono le Potenze innominabili, forze di caos e di morte che non aspettano che l'occasione di scatenarsi non appena le si invochi o le si provochi.

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Sulle innumerevoli isole che costituiscono l'arcipelago di Terramare, è dunque la magia ad occupare il posto della scienza e della tecnologia. Con delle forme e dei livelli di efficacità che mutano a secondo delle isole e la loro storia. Le sue applicazioni vanno dal semplice artigianato alla grande arte. Secondo i suoi doni - se non avete un talento innato, non sarete mai maghi - la sua formazione e la sua qualifica, lo stregone ripare o ritrova degli oggetti, conferisce impermeabilità alle navi e solidità alle mura, fa soffiare il vento nelle vele, si trasforma in sparviero, scatena o contiene i terremoti. Può guarire uomini e bestie; sono gli stregoni in generale che si occupano di questo compito, insieme ad altre attività "minori". Al più alto livello, queste scienze sono insegnate sull'isola di Roke da nove Maestri (un Arcimago è il loro capo eletto) in discipline ben specificate, secondo le conoscenze e le energie naturali mobilitate.

C'è, sotto tutte queste finzioni, una concezione poetica, simbolica, dell'universo, fondata su un accordo dell'uomo con gli elementi, la luce e le tenebre, le forze di vita e di morte.

È per questo, senza dubbio, che esse colpiscono il nostro immaginario oltre, o prima, del semplice racconto. C'è anche come economia, un'ecologia della magia: il vero mago non utilizza le energie se non per necessità, per non perturbare l'equilibrio del mondo. A fondamento di tutto agisce il Vero Linguaggio, l'Antico Linguaggio: per aver presa su un oggetto o un animale, bisogna conoscere il suo vero nome, per un umaqno, rivelare il proprio vero nome è dare presa su di sé. È anche la lingua parlata dai Draghi, che partecipano al contempo con le forze creatrici e le forze caotiche. "La loro bellezza era fatta di forza terribile e di ferocità totale, e anche dalla grazia della ragione".

I primi libri sono in senso preciso dei romanzi di formazione. Il giovane capraio Ged, il cui nome corrente è Sparviero (lo Stregone di Terramare), acquisisce il suo sapere attraverso una lunga serie di prove, di cui la peggiore sarà provocata dal suo orgoglio e la sua volontà di dominio. In una dimnostrazione di potenza che supera le sue capacità, egli libera dalle tenebre la sua ombra che lo bracherà per distruggerlo finché non deciderà di affrontarla e di perseguitarla a sua volta.

Per giungere infine a vincerla nominandola con il suo proprio nome. Nelle tombe di Atuan, la piccola Tenar, rapita ai suoi genitori e allevata come la reincarnazione, attraverso i secoli, dalla Prima sacerdotessa delle Potenze Antiche della Terra, delle Potenze Innominabili, esercita innanzitutto con soddisfazione il suo diritto di morte su dei prigionieri. Adolescente, essa tenterà di catturare e di uccidere Ged smarrito nel labirinto di queste Tombe alla ricerca dell'annello che ristabilirà l'equilibrio e la pace nelle isole.

Tutto questo girovagare nei sotteranei, in mezzo alle forze pericolose che le difendono, mostra inoltre i talenti di evocazione della Le Guin e gli echi che essa può svegliare tra le tenebre del lettore...

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È la formazione del giovane principe Arren che viene raccontata in La spiaggia più lontana [The Farthest Shore] del 1972. Egli è stato scelto come compagno di avventure da Ged, diventato arcimago ma sempre deciso a mettere in gioco i suoi poteri e la sua vita per affrontare le potenze malefiche. È alla ricerca questa volta di una forza sconosciuta che svuota a poco a poco l'arcipelago delle efficienze e anche dei saperi magici, così come dei canti e di ogni gioia di vivere. L'equilibrio, come scopriremo, è gravemente compromesso da un mago che, per imporre il suo dominio e accedere all'immortalità, ha aperto un varco tra il mondo dei morti e il mondo dei vivi.

È la formazione del giovane principe Arren che viene raccontata in La spiaggia più lontana [The Farthest Shore] del 1972. Egli è stato scelto come compagno di avventure da Ged, diventato arcimago ma sempre deciso a mettere in gioco i suoi poteri e la sua vita per affrontare le potenze malefiche. È alla ricerca questa volta di una forza sconosciuta che svuota a poco a poco l'arcipelago delle efficienze e anche dei saperi magici, così come dei canti e di ogni gioia di vivere. L'equilibrio, come scopriremo, è gravemente compromesso da un mago che, per imporre il suo dominio e accedere all'immortalità, ha aperto un varco tra il mondo dei morti e il mondo dei vivi. Alla fine di una lunga ricerca nei Lontani, sino alla contrada arida dove si trovano le città dei morti, il giovane principe tornerà a casa, provato e maturo, per essere consacrato Re delle Isole. Garante dell'armonia in un arcipelago che, privato del vero re da otto secoli, sprofondava nei disordini, la bramosia e la violenza.


Potre maschile, potere femminile

Il lettore convinto delle affinità libertarie di Le Guin cade qui in una perplessità giustificata. Senza dubbio, la figura del re rileva delle convenzioni di un genere che ci precipita in un universo pseudo-feudale. E il genere stesso confina cone le storie fiabesche, in cui il re simbolizza solitamente l'equilibrio raggiunto e l'autonomia [23]. Più remotamente, il re come simbolo di concordia e di fertilità interviene nelle mitologie e leggende, celtiche soprattutto. Ciò non di meno troviamo attraverso l'opera, ciclo di Hain compreso, delle simpatie della scrittrice per le figure aristocratiche [24]. Si tratta d'altronde spesso di perdenti, di emerginati che resistono con dignità e coraggio all'avversità. Si può osservare che ciò accade più spesso nei romanzi d'esordio, e che tramite quest'immagine è avvertibile anche un'evoluzione. Il re dell'ultimo romanzo non si comporta affatto come un monarca.

Sullo sfondo, è avvertibile che il tema con un sinologo dell'equilibrio dei contrari, così ricorrente quanto quello della connessione, entra qui in gioco: anche a proposito di I reietti dell'altro pianeta, Hélène Escudié elabora l'ipotesi di un equilibrio tra sistemi "archici" e "anarchici". Un'ambiguità riguarda anche il pensiero che è una delle principali fonti delle idee della scrittrice sull'armonia e sulla complementarità dei contrari: il taosimo che lei cita come uno dei suoi riferimenti tra alcuni autori libertari  [25]. Il principio del "non-agire", che orienta l'Ecumene nella sua politica di non-intervento, può rapportarsi alla stessa saggezza. Ursula Le Guin ha inoltre pubblicato lei stessa, in collaborazione con un sinologo, una traduzione del Tao Te Ching [26]. Le citazioni da questa raccolta di sentenze, sotto diversi appellativi, e anche delle citazioni o delle parafrasi, sono frequenti nei suoi libri.

laotzu-Tao-Te-Ching.jpgIl problema è che passa per essere molto difficile da tradurre, dunque facile da interpretare... Alcuni vi vedono una prima espressione dell'anarchismo, sotto i tratti di un individualismo radicale che preconizza la volontà d'impotenza e respinge il potere con i suoi prestigi, le sue costrizioni, i suoi saperi. Altri lo considerano, a secondo della data che gli attribuiscono, come un testo destinato ai principi per insegnar loro "l'arte di governare senza che i sudditi sappiano che egli li tiranneggia" [27]. Senza dimenticare che sulla filosofia taoista originale è attecchita una religione ricca in superstizione e rituali magici. Non sarò io a darvene la soluzione.

L'evoluzione delle idee di Ursula Le Guin è particolarmente notevole per quel che concerne il ruolo delle donne.

Più di venti anni dopo La spiaggia più lontana, ritorna nell'arcipelago per quel che considera allora a torto come l'ultimo libro di Terramare [28] Tenar, la giovane sacerdotessa che ha fuggito il deserto di Atuan con Ged, si è installata sull'isola natale di quest'ultimo. Al tempo del racconto, essa vi ha già trascorso venticinque anni. Ged, prima di ripartire per altre imprese, l'aveva affidata al suo primo maestro, affinché le insegnasse a nmettere in ordine e a sviluppare i poteri che essa traeva dalle Antiche Potenze. Lei vi ha rinunciato, non volendo più avere legami con le Tenebre. Sposata ad un fattore, ha avuto due figli, poi è diventata vedova.

È allora che ha salvato e adotatto una bimba battuta e gettata nel fuoco dai suoi propri genitori, dei nomadi di passaggio. Cura il suo occhio ustionato e la sua mano atrofizzata. Ged, che ha perso tutti i suoi poteri nel suo sforzo di chiudere il varco tra il mondo  dei vivi e quello dei morti, verrà a vivere con loro.

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Un buon numero di pagine sono dedicate a dei dialoghi sui poteri comparati degli uomini e delle donne, con Ged - che pensa che quello di mago sia un mestiere da uomini - e le streghe Edera, la rigorosa, e Schiuma, la lunatica, che esalta i doni delle donne: "Ho delle radici, delle radici più profonde di quest'isola. Più profonde del mare, più antiche dell'emersione delle terre. Affondo nelle tenebre".

Bisogna qui, ancora e sempre, giocare il gioco della scrittrice nella trasposizione e la metafora. Non attenersi parola per parola per ritrovare l'eco e l'influenza dei dibattiti femministi degli anni 70 e 80. Se andava da sé, nelle convenzioni dei primi libri di Terramare, che la magia delle donne non poteva esercitarsi che in compiti subalterni, discreditate nell'opinione ("Debole come la magia femminile, velenoso come la magia femminile"), si passa ora ad una riconsiderazione, prima di saltare una nuova tappa, ancora simbolica. Se il fondamento della magia è il Linguaggio, quello dei veri nomi, è accessibile alle donne. Tenar già con il suo istruttore, riconosceva le parole antiche come se le avesse sempre pronunciate. Ed ecco che Therru, la bruciata, salva ora i suoi genitori adottivi, prigionieri di un allievo del mago malefico, chiamando il drago Kalessin. Quest'ultimo la riconosce e la saluta come sua figlia. Anche lei conosceva il Linguaggio.

 

Simbolica di una "femminizzazione"

 

Con questa "presa di parola", dice Hélène Escudié, questo romanzo traduce anche uno stato intermedio nel pensiero della Le Guin. "Le donne non hanno ancora raggiunto tutta la loro misura". Dieci anni più tardi, i sortilegi di Terramare trasportano sempre la scrittrice, che in due libri compie la "femminizzazione" del ciclo attraverso una vera revisione della storia dell'arcipelago [29]. In I venti di Earthsea, dove quattro donne sono al centro dell'azione, la giovane figlia bruciata, che si chiama oramai Tehanu secondo il "vero nome" che le ha rivelato il drago e che è anche un nome di stella, è sollecitata dal nuovo re ad intervenire contro un pericolo che si abbatte sulle isole: da un po' di tempo, dei draghi bruciano le messi e le fattorie e disperdono le greggi. Tehanu, ancora poco sicura dei suoi poteri, accetta di servire da interpetre, più esattamente da intermediaria, tra gli umani e questi esseri temibili di cui lei condivide la natura. Essa ottiene innanzitutto una tregua, il tempo di scongiurare un altro pericolo che minaccia allo stesso tempo i draghi, gli uomini e l'equilibrio di tutte le cose, poi un patto di pace. Infine, ritroverà la sua propria integrità nello splendore di un corpo di drago e spiccherà il volo tra i venti di Earthsea.

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I racconti di Terramare reinquadrano questa simbolica rivelandoci ciò che ignoriamo, o che non conosciamo che frammentariamente, delle storie e delle credenze dell'arcipelago. Ignoranza condivisa d'altronde dall'autrice, essa ci dice nella prefazione, e che la lasciano perplessa. "Il miglior mezzo per studiare un periodo storico che non esiste, è di raccontarlo e di scoprire ciò che è accaduto". Il primo dei racconti ci porta tre secoli in avanti rispetto al primo libro del ciclo, il secondo ci fa conoscere gli stregoni che hanno formato il maestro di Ged.

Un altro ci fa incontrare Ged al tempo in cui egli era arcimago. L'ultimo narra i disordini esistenti alla scuola dei maghi - che non ammette che gli uomini - da Libellula, una futura donna drago: quella stessa che assisterà efficacemente Tehanu nelle sue trattative con i suoi fratelli (e sorelle) favolose. Il tutto termina con una descrizione di Terramare, studio politico, storico, linguistico e naturalmente etnologico. In cui veniamo a sapere che in origine non soltanto le donne erano anch'esse maghe, ma che sono loro in maggioranza che hanno fondato la scuola di Roke, per istituire un insegnamento etico della magia e un controllo etico del suo esercizio. Nell'età oscura in cui si affrontavano principi, piccole isole, città-Stato e signori della guerra, in cui i maghi stessi mettevano la loro scienza al servizio dei predatori quando non miravano essi stessi ad un proprio potere personale, esse avevano cotituito, con degli uomini tuttavia, la Main, "una rete tenua ma solida di informazione, di comunicazione, di protezione e di sostegno".

sempre-la-valle-Always-Coming-Home.jpgGli uomini, in seguito (dunque nei primi libri del ciclo...) riuscirono a eliminare le donne, come insegnanti e come allieve, della Scuola. Ma quest'ultima, e l'ordine che essa garantiva, non sopravviveranno, come narra I venti di Earthsea, che per l'intervento di due giovani donne, mediatrici tra il mondo della ragione e il mondo delle forze vitali.

Lascio l'ultima parola ai miei due commentatori. Per Hélène Escudié, la rappresentazione ossessiva, nell'opera di Ursula Le Guin, delle reti - al contempo "figura fondamentale dell'an-archia" e "forma privilegiata della socializzazione delle donne" - traduce una visione femminile del mondo e della letteratura. Gérard Klein giunge ad una conclusione simile, sostenendo che essa propone un mondo "senza sistema unificatore, senza dominazione, perché è una donna  che come tale l'affermazione ossessiva della potenza del fallo la riguarda meno". "Forse vuole suggerire indirettamente così ciò che potrebbe essere una cultura delle donne, acentrica, tollerante, staccata infine dal modello ripetitivamente conquistatore della cultura degli uomini".

 

René Fugler

 

 

[Traduzione di Ario Libert]

 

 

LINK al post originale:

Pouvoirs et puissances dans les mondes d'Ursula Le Guin

 

 

NOTE

 

[1] Robert Laffont, 1975; Tr. it.: I reietti dell'altro pianeta, Editrice Nord, Milano, 1976. Vedere su questo libro in "Réfractions" il commento critico di Finn Bowring, "La liberté les mains dans les poches" [La libertà con le mani in tasca], n° 3, inverno 1998-99, p. 25-44) e la risposta di René Furth, "La liberté rien dans les poches" [La libertà niente nelle tasche], n° 5, primavera 2000, p. 129-131). 

[2] Figlia del celebre antropologo Alfred Kroeber, si è aggiudicata cinque premi Hugo e sei premi Nebula, massimi riconoscimenti della letteratura fantastica. 

[3] "Cronologia galattica" presa da Gérard Klein nella sua prefazione ad una raccolta di racconti: Ursula Le Guin, le livre d’or de la science-fiction, Presses Pocket, 1978, p. 12-13.

[4] Hélène Escudié, Ursula K. Le Guin, une Alchimie de l’Ailleurs [Ursula K. Le Guin, un'Alchimia dell'Altrove], tesi sostenuta a Strasburgo nel 2004 sotto la direzione di André Bleikasten, p. 38 (non edita).

[5] Prefazione alla raccolta di racconti Il compleanno del mondo, Robert Laffont, ailleurs & demain, 2006.

[6] Robert Laffont. 1971, p.153.

[7] Troviamo una replica ironica, se non cinica, e secondo Gérard Klein "post-moderna" dell'Ecumene e di Hain nell'universo creato dall'autore britannico Iain M. Banks: la Cultura è una società galattica, libertari, pacifista, edonista, attaccata a diffondere i suoi ideali attravrso i mondi, ma che, quando i suoi valori sono posti in causa o uando incontra nella ua espanione dei sistemi oppressivi e combattivi, non esita a far intervenire il suo servizio degli Affari Speciali che non retrocede davanti ad alcuna manipolazione o colpo gobbo... Con dei brillanti agenti divisi tra il piacere dell'azione e lo scrupolo morale. Pubblicato da Laffont, L'impero di Azad [The plyer of games]; Pensa a Fleba [Consider Phlebas]; La guerra di Zakalwe [Use of Weapons], ecc. sono stati ripresi in Livre de poche/science-fiction. Prefazione di Gérard Klein. A volte ineguale e complicato, è un ciclo nell'insieme molto eccitante.

[8] Ishi – Testamento dell'ultimo Indiano selvaggio dell'America del Nord, Plon, 1968, collezione Terre humaine, (2002).

[9] La nébuleuse du Crabe, la paramécie et Tolstoï, prefazione al volume delle edizioni Opta (1972) che raccoglie i tre primi romanzi (secondo l'ordine di pubblicazione) del ciclo di Hain: Il mondo di Rocannon, Pianeta dell'esilio, Città delle illusioni.

[10] Tesi citata, p. 169.

[11] Robert Laffont, 1979, riedito nel 2000 dopo La salvezza di Aka, con un saggio di Gérard Klein, Malaise dans la science-fiction américaine [Malessere nella fantascienza americana].

[12] Durante una discussione nel quadro del primo Simposio internazionale sull'anarchismo organizzato da Pietro Ferrua a Portland nella primavera el 1980 (L’Arc n° 91/92, "Anarchies", 2° trimestre 1984, p. 19: Ursula Le Guin, "L'anarchisme: idéal nécessaire" [Anarchismo: ideale necessario].

[13] Riedito in Livre de poche (science-fiction) nel 2003.

[14] La prima edizione di Always Coming Home [Sempre la valle] del 1985 era anche accompagnata da una cassetta in cui erano registrate le musiche, poesie e canti rituali di un popolo che si ritiene vivrà tra 20.000 anni fa (Escudié, p. 211). Traduzione francese presso Actes Sud, con il titolo La Vallée de l’éternel retour [La valle dell'eterno ritorno], 1994.

[15] Citazione ripresa (senza riferimento) nella presentazione del racconto "Alla vigilia della rivoluzione", scritta dopo I reietti dell'altro pianeta per spiegare le origini del pensiero che ispirava i creatori della società libertaria di Anarres (nella raccolta citata sopra del Livre d’or de la science-fiction, p. 333). Il racconto è inoltre dedicato a Paul Goodman. In un'altra trascrizione, di Marianne Enckell, del convegno organizzato al Symposium di Portland, cita anche Murray Bookchin per quel che riguarda la tecnologia dolce ("Science-fiction et anarchie" in Agora n° 2 (Tolosa, estate 1980).

[16] Città delle illusioni, tr. it. di City of illusions, Opta, 1972.

[17] Verso il 4370, per attenermi alla cronologia utilizzata da G. Klein.

[18] 2000, tradotto lo stesso anno per Laffont, in Italia tradotto da Arnoldo Mondadori nel 2002 nella collana "Strade Blu".

[19] 2002.

[20] Le Livre d’or de la science-fiction, op. cit., p. 14.

[21] Robert Laffont, ailleurs & demain, ha ripubblicato nel 2001 la trilogia che forma la sua prima parte: Lo Stregone di Earthsea (1968), le Tombe di Atuan (1971), La spiaggia più lontana (1973).

 

[22] Il cui prototipo rimane Il Signore degli anelli di Tolkien (1954-1955).

[23] René Fugler, "L’autonomie au bout du conte... de fées" [L'autonomia in fin del racconto... fiabesco], Réfractions n° 16, maggio 2006.

[24] In Il Mondo di Rocannon (1966) soprattutto. In La Mano sinistra delle tenebre, il re, poco simpatico..., è manifestamente pazzo.

[25] Paul Goodman, citato tra questi autori, si riferisce anche al taoismo. Vi tornerò sopra a proposito di due libri dedicati all'anarchico americano (1911-1972), riediti in un unico volume: Présent au monde: Paul Goodman di Bernard Vincent, l’Exprimerie, Bordeaux, 2003.

[26] Il Libro della via e della Virtù, il cui autore presunto è Lao-Tsu scritto anche Laozi, che secondo i commentatori è vissuto in Cina durante il VI oppure III secolo a. C. Una celebre traduzione italiana è quella della casa editrice milane Adelphi.

[27] Etiemble nella sua prefazione alla traduzione del Tao tö king di Liou Kia-hway, Gallimard, 1967.

[28] Tehanu (1990) tradotto dalla editrice Robert Laffont, ailleurs & demain, 1991, [2002].

[29] Pubblicato negli Stati Uniti nel 2001 in quest'ordine: I Racconti di Earthsea e Il vento d'altrove sono stati tradotti dall'editrice Robert Laffont, ailleurs & demain, il medesimo anno.

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29 ottobre 2012 1 29 /10 /ottobre /2012 06:00

La "Lettera aperta al compagno Lenin"

di Herman Gorter: 1920.

GORTER-Offener-brief-an-den-genossen-Lenin1920

Dettagli e circostanze*

 

Serge Bricianer

 

otto-ruhleLa Rivoluzione d'ottobre travolse d'entusiasmo l'estrema sinistra tedesca (tra le altre), soprattutto i suoi elementi allora in via di rottura con le pratiche istituzionali. Certo, ad essa sembrava destinata al disastro se fosse rimasta isolata (Lenin di tanto in tanto lo diceva e ripeteva), ma essa confermava loro il carattere nefasto, per le azioni di massa, del "patto parlamentare con la borghesia)", e la necessità della costruzione di consigli - come indicava Otto Rühle nell'agosto del 1919 [1].

terza-InternazionaleEppure, due mesi più tardi, Rühle insorgeva contro le manovre scissioniste dei capi del KPD miranti, egli sosteneva, ad instaurare "una dittatura di partito (e non di "classe proletaria") come in Russia". All'origine di questo mutamento si trovava dunque una reazione a delle manipolazioni direttamente avvertite, piuttosto che ad una realtà remota e ancora poco nota. Un anno dopo, nel luglio del 1920, al suo ritorno da Mosca dove il KAPD lo aveva delegato per il II congresso dell'Internazionale Comunista, Rühle descriveva nel nuovo Stato russo, sorto da un "putsch pacifista", un "socialismo politico senza base economica" e sottoposto ad un "ipercentralismo di Partito", a una "burocrazia onnipotente", con "potere dei capi" e "culto della personalità" [2]. Secondo lui, questo primato del partitico era certamente giustificato nella Russia arretrata, ma non in Germania dove un proletariato più numeroso e più evoluto rendeva necessario "trasformare la nozione di partito in nozione di comunità federativa, nel senso dell'idea dei consigli" [3]. Questa era in quel momento, e tale rimase la tesi innanzitutto antistato e antipartito degli unitari dell'AAU-E.

Herman GorterLe analisi kapdiste dovevano in fin dei conti approdare a dei risultati analoghi, ma su basi notevolmente diverse. Infatti, queste analisi non mettevano affatto in causa il principio del partito, nucleo di militanti sperimentati, selezionati nell'azione, piccola formazione di élite, così come Gorter espone nella Lettera aperta. Questo principio, egli ricordava un po' più tardi, non era comune "sin dal 1903" a Lenin e alle sinistre olandesi, che rifiutavano di confondere le masse (che "inglobano sia i contadini sia i piccolo borghesi") e il "partito di classe proletario", accanendosi a mantenere la "purezza" di quest'ultimo? Al contrario, egli faceva valere, un'organizzazione che di colpo si vuole partito di massa si apre a non importa quali elementi, contratta per ampliare fatali alleanze e finisce con l'abbandonarsi al governo di burocrati [4].

1917petrogradsoviet assemblyNon è privo di interesse abbozzare la traiettoria seguita da queste analisi su due punti essenziali:

1) La questione russa [5] la tattica di alleanza delle classi, che dà l'ascendente alla classe il cui peso sociale è il più alto, aveva avuto come effetto, nelle condizioni russe, di fare dei "contadini poveri", dei piccoli proprietari terrieri, un "fattore decisivo". Giudizio che giunse poco dopo a confortare, agli occhi di Gorter, l'insurrezione di Kronstadt, a dominante piccolo-contadina, e l'eliminazione del "comunismo di guerra" a vantaggio del capitalismo privato a cui i bolscevichi consentirono con la NEP. La rivoluzione russa, sostenevano allora i rappresentanti teorici del KAPD, aveva assunto un doppio carattere [6]: proletario, nella misura in cui aveva avuto come punto d'appoggio i consigli operai, ma anche borghese, perché portata a prendere delle "misure capitaliste-democratiche", essa approdava ora alla preponderanza nella vita sociale degli elementi extra-proletari - i contadini, innanzitutto, ma anche gli affaristi e i burocrati. Ma soprattutto, aggiungeva l'internazionalista Gorter, la "miglior prova" che la rivoluzione russa, malgrado la sua duplice natura, era stata "fondamentalmente non proletaria", era anche il rifiuto opposto dai suoi dirigenti "all'aiuto dei proletari europei" [7].

NEP.JPGDurante gli anni successivi si rinnovò, con le circostanze, un'analisi che nella sua fase finale  poneva l'accento sulla "forma economica della Russia, il capitalismo di Stato, che è coinvolto nell'ingranaggio dell'imperialismo internazionale", in ragione dei patti e obbligazioni che esso contrae con gli altri paesi capitalisti" [8]. In quanto al potere di Stato, questo "apparato parassitario" si era "reso indipendente dalle classi che l'hanno sostenuto", reggeva una "forma di produzione statale" fondata sull'estorsione del plusvalore (Helmut Wagner, tesi 57). Oramai, precisava il G.I.C. olandese, la classe dominante si manteneva mettendo sotto pressione di volta in volta gli operai e i contadini; esercitava "la funzione di gestore dei mezzi di produzione, di acquirente della forza lavoro e di proprietario dei prodotti del lavoro".

1917petrogradsoviet assemblyQuesto lento lavoro di chiarificazione porta sicuramente il segno del suo tempo, di un'epoca in cui i grandi tratti del regime nato dalla devitalizzazione dei soviet operai, rimanevano fluidi pur irrigidendosi a poco a poco. Per quanto imperfetto abbia potuto essere, si distingue tuttavia delle teorie che insistono ai nostri giorni a ritenere l'URSS un "paese socialista" o uno "Stato operaio degenerato", o anche un "ritorno" alle categorie classiche del capitale. Se ne distingue non soltanto per i suoi risultati, ma anche e soprattutto per il metodo che parte dalla situazione dei produttori immediati, e non da postulati che hanno come effetto o di travestire o di rimuovere il reale stato delle cose;

KAP-Plakat (1919)2) La questione del partito. All'inizio, il KAPD si definisce in modo indipendente, ma anche senza contraddire espressamente la definizione che l'I.C. dà al Partito comunista ("frazione più avanzata, più cosciente, (...) forza organizzatrice e politica che dirige, indirizza verso la giusta via il proletariato e il semi-proletariato") [9]. Se ne allontana tuttavia in quanto esorta gli operai a prendere essi stessi in mano la gestione delle loro lotte, inoltre a rompere con la "politica dei capi", che ricercano consensi elettorali a non importa quale prezzo. Da qui la nozione di "autocoscientizzazione del proletariato", e cioè lo sviluppo di una coscienza propria attraverso lotte selvagge a ripetizione, andanti sino al sollevamento armato, e che ha come agente le organizzazioni di fabbrica raggruppate in unioni extrasindacali [10]. In seguito il KAPD si considera come l'apparato organizzatore, il "punto di cristalizzazione in cui si compie il processo di conversione della conoscenza storica in volere militante"; intende così "creare le premesse soggettive della presa del potere politico da parte del proletariato" [11].

In questa prospettiva, le organizzazioni unioniste erano concepite come dei focolai di agitazione sottoposti all'apparato di partito. Da qui le frizioni e scissioni già menzionate, ed il loro ultimo frutto, la KAU. Quest'ultima, allo stesso tempo in cui diceva di rompere con "la teoria della lotta finale che trovava la sua espressione nel fatto che l'Unione rimaneva a margine della lotta concreta", si pronunciava per un intervento al contempo politico ed economico nei conflitti salariali [12]. Al contrario, il KAPD rimasto proclamava "La rivoluzione russa è stata scatenata dal partito bolscevico, non dai consigli operai" [13]. Detto in altro modo, nelle condizioni del momento "Non sono più le fabbriche che costituiscono i punti centrali della lotta di classe, ma gli uffici di collocamento per i disoccupati, le mense popolari, gli asili notturni (...). Bisogna imparare l'arte dell'insurrezione e militarizzare i militanti" [14]. All'interno stesso della KAU, alcuni rimanevano sostenitori di una "organizzazione capace di colpire forte senza la quale non ci può essere situazione rivoluzionaria, come lo dimostra la rivoluzione russa del 1917 e, in senso opposto, la rivoluzione tedesca del 1918" [15]. Ma a coloro che volevano "seminare disordini tra la borghesia e mantenere l'insicurezza dei suoi mezzi di oppressione" [16], altri ricordavano la cosa evidente che "La borghesia può sempre garantire la sua sicurezza attraverso dei mercenari; non è veramente posta in pericolo che per via di movimenti di massa [17]. Queste discussioni, a cui punta a volte l'ideologia dei marginali, non ricorda al lettore qualcosa della fine degli anni 70?

 

I "gruppi di affinità"

GIKH-1930A ragione di una differenza di situazione storica, ma anche e soprattutto di orientamento, il gruppo olandese dei "comunisti internazionali" (in opposizione al "nazional-comunismo" più che per segnare una filiazione con gli IKP di un tempo), il G.I.C., ignorava questo genere di dibattito. Secondo esso, il vero realismo consisteva non nel polemizzare sui mezzi per provocare la rivoluzione, ma ad interrogarsi sui suoi scopi concepibili: l'assunzione da parte dei lavoratori stessi della gestione della produzione e della distribuzione in funzione di regole generali, base dell'associazione di produttori liberi ed eguali [18]. Inoltre, si faceva notare, gli indispensabili comitati d'azione non sorgevano su commando o grazie a qualche trucco ma dall'iniziativa stessa degli operai coinvolti, come diversi esempi recenti (1934) l'indicavano una volta di più. Questi movimenti, è vero, rimanevano "ancora troppo legati alle antiche organizzazioni"; da qui l'imperiosa necessità di "gruppi di discussione e di propaganda", dei "gruppi di lavoro" ideologicamente omogenei ma dediti verso il dibattito con altri gruppi dello stesso tipo e che, senza evitare lo "studio del movimento delle forze sociali", sfuggirebbero alla tutela dei capi, degli intellettuali. La loro missione era di servire da "organi generali di pensiero" alla classe operaia. Compito colossale in verità, e di cui il preambolo non poteva essere che delle azioni di massa in rottura tendenziale con le vecchie prassi e idee, delle azioni che avrebbero come effetto naturale di moltiplicare questi "punti di irraggiamento dell'idea di autonomia" [19].

Il G.I.C. - gruppo a maggioranza di operai autodidatti - doveva dispiegare un'attività intensa tra il 1926 e il 1940 (riviste teoriche, opuscoli di propaganda, bollettini di informazioni operaie), e dare il primo posto alla discussione, tanto nelle riunioni pubbliche, nei mercati, negli uffici di collocamento che con i diversi gruppi tedeschi antagonisti (e il piccolo gruppo americano degli IWW di Chicago, Mattick e i suoi compagni). Malgrado una notorietà apprezzabile all'epoca [20], rimase isolato.
 

"Feticismo delle masse?"

Da quanto precede, emerge che in nessun momento i comunisti dei consigli siano approdati in quel "feticismo delle masse" che, da Zinoviev [21], i leninisti, ufficiali o non, bene o male in arnese, che usavano delle procedure inqualificabili, si compiacevano di denunciare. E anche che malgrado dei segni di settarismo, evidenti nella pretesa di svolgere le avanguardie dell'insurrezione così come nella propensione a confondere intransigenza e intolleranza, essi hanno saputo evolversi senza abbandonare il grande principio di base, proveniente dalla critica pratico-teorica del vecchio movimento operaio, e orientato in primissimo luogo sulla chiarificazione delle coscienze.

Questo sviluppo - per non parlare del corso generale della storia - rende sicuramente caduco ciò che, nella Lettera aperta di Gorter, riguarda e la questione russa e la questione del partito [22]. Bisogna anche sottolineare, a proposito di quest'ultima, che la problematica della "doppia organizzazione" può molto bene risorgere come tale (durante un'eventuale fase di disgregazione dello Stato e dei valori ricevuti, nel quadro di tensioni sociali esacerbate: non è inconcepibile in questo caso che interi settori dell'edificio sindacale passino, in un paese o in un altro, a un "unionismo" di nuovo genere.

Comunque sia, un punto essenziale rimane: "gli operai dovranno fare la rivoluzione da se stessi", "non hanno nulla da aspettarsi dalle altre classi", "più l'importanza della classe aumenta, più quella dei capi diminuisce", e altre formule che Gorter non si stanca di ripetere, nel corso della sua Lettera aperta.

Non si tratta qui di "operaismo": Gorter non esita a qualificare le masse operaie come schivi politici. In piena guerra, aveva già mostrato come "per sopravvivere" l'operaio, "finché non è veramente socialista", lega il suo destino a quello del "suo nemico, il capitale nazionale, che lo nutre, gli dà da mangiare", come arriva a credere che "l'interesse del capitale nazionale è il suo" e a battersi per esso. Come infine, in periodo di prosperità, il bisogno di riforma per una classe operaia ancora debole, ignorante e esposta a tutti i colpi della sorte, aveva comportato la continua crescita di una burocrazia incaricata di rappresentare e dirigere una massa ridotta alla passività anche su questo piano. "I capi," dice Gorter, "non facevano che rafforzare il desiderio di guadagni crescenti - non di rivoluzione -, i soli allora ad animare le masse, (...). Gli operai di tutti i paesi avevano la testa piena dei belli piani che i riformisti preparavano per essi. Assicurazioni sociali, imposta sulla ricchezza, riforme elettorali, pensioni, che essi vantavano di poter ottenere con il sostegno dei liberali. Anche se non si arrivava a tutto ciò, si ottenevano comunque dei piccoli progressi... e ora, l'eguaglianza, la democrazia, sì, si avevano, ma nella morte sui fronti di guerra" [23].

Questa analisi lucida, Gorter la riprese più tardi, ricordando allora che i proletari si erano trovati per anni armati sino ai denti senza pensare tuttavia a sollevarsi contro i loro padroni e che "quando nel 1918 il proletariato ebbe come mai prima la possibilità di sollevarsi, si mise in movimento ma soltanto per restituire il potere alla borghesia" [24].

E tuttavia, senza proletariato, nessuna sovversione sociale. E niente società comunista anche, perché quest'ultima suppone la regolazione generale della produzione e della distribuzione del prodotto sociale totale da parte dei lavoratori stessi. Non, come nei paesi dell'Est, un sistema in cui l'operaismo ufficiale consiste, almeno in un primo tempo, a riservare l'accesso alle funzioni dirigenti a degli operai o figli di operai, e a formare così una nuova élite del potere, ma l'abolizione di queste funzioni. E meno ancora, come fu il recente caso della Cambogia, l'abolizione del salariato e del denaro ai quali gli alti quadri del Partito-Stato sostituiscono la ripartizione dispotica di razioni alimentari (un "comunismo di guerra" 100% rurale, votato ad essere tanto provvisorio quanto il suo predecessore storico), ma la creazione di modalità di ripartizioni "non più arbitrariamente fissate e sulle quali i lavoratori non possono nulla", ma al contrario determinate da essi con l'aiuto soprattutto dello strumento contabile appropriato" [25].

Questa è già la visione egualitaria - benché ancora concepita in termini di potere politico esclusivamente, e dunque troppo improntata di centralismo - da cui parte il Gorter di Lettera aperta quando combatte la nozione di dittatura di partito. Ecco che implica l'emergenza e l'espansione continua di una presa di coscienza dei nuovi mezzi da impiegare. È per questo che Gorter, alla fine della sua Lettera, contesta la tesi oggettivista secondo la quale la crisi economica basterebbe da sola a scatenare una rivoluzione. Quest'ultima esige molto più di la trasformazione radicale dello "spirito, la mentalità delle masse", inconcepibile senza forme di organizzazione che lasciano agli interessati stessi la possibilità di sviluppare la loro iniziativa propria e di cui prima di tutto resta una rottura categorica con le condizioni del capitale e dunque con la tattica democratica borghese, parlamentare e sindacale, che ne deriva.

Il conflitto che mette allora alle prese con Mosca una minoranza di comunisti est-europei prende certamente la sua origine nella volontà di indipendenza di quest'ultimi (e dunque nel loro rifiuto di una fusione con l'apparato dell'USPD - deputati, direttori di giornali e altri bonzi). In questo senso, lo si può accostare con le differenza odierne tra gli eurocomunisti e i PC al potere. Ma nel 1920 si trattava di optare per un principio di base contro un altro, non di abbandonare dei frammenti di ideologia (stalinista) diventati obsoleti nell'era dell'economia mista, per meglio preservare il principio di base, il principio del dialogo tra le classi e tutto il resto.
 

I rapporti KAPD - III Internazionale

La storia di questi rapporti si trova posta sotto il doppio segno del disprezzo e della manipolazione. Disprezzo del KAPD dove si faceva propria la linea strettamente extra-istituzionale alla quale, si pensava, il partito bolscevico si era tenuto nel 1917, e dove si prendevano sul serio le tirate bolsceviche contro il Parlamento, i sindacati e l'USPD così come la costituzione detta Sovietica della Russia. Ma anche manipolazione nella misura in cui, malgrado un disincanto crescente, si cercava di beneficiare dell'immagine di prestigio dell'Ottobre rosso e, forse, dei sussidi della Terza Internazionale [27].

Disprezzo anche a Mosca dove non si riusciva a credere seriamente a un rifiuto durevole dell'uso elle possibilità legali [28], e dove, viste da lontano, le due linee avendo coabitato all'interno del KPD-S sembravano essere abbastanza vicine. Ma anche e ancor più manipolazioni nella misura in cui il KAPD e le sue azioni offensive permettevano di disporre di un mezzo di pressione utile nel quadro dei trattati tedeschi-russi (iniziati sin dal 1919 da Radek) sempre rafforzando in Russia anche l'immagine della rivoluzione mondiale in marcia.

Considerato retrospettivamente, il giudizio che ognuno dei campi presenti pronunciò sull'altro si è in fin dei conti rivelato fondato. "Ritorno puro e semplice alle pratiche socialdemocratiche" [29] dei PC nazionali burocratizzati e immobilisti; in Russia, crescita di un sistema nuovo di oppressione e di sfruttamento, rigorosa sottomissione delle sezioni della III Internazionale, agli interessi di Stato di questo sistema, si prediceva da una parte. Riduzione delle formazioni "estremiste" allo stato di sette politiche (nel senso di gruppuscoli "senza influenza"), e di cui la maggior parte dell'effettivo sarebbe stato recuperato presto o tardi, si diceva dall'altra. Sì, il pragmatico Lenin, come piegava uno storico (ex bonzo indipendente, poi KPD), "preferiva perdere i 50.000 operai del KAP piuttosto di accordarsi con esso e perdere così i 5 milioni di sostenitori dell'USPD" [30]. Ma, questi milioni, per farne cosa? Ahimè, ahimè! Delle pecore votate a sparire passivamente sotto il rullo compressore del nazismo.

Lo stato maggiore russo dell'I.C., l'Esecutivo di Mosca (e Karl Radek, suo missi dominici in Germania) aveva senz'altro favorito sottobanco le manovre scissioniste della cricca di Paul Levi (il capo del KPD-S), ma senza giungere sino ad approvarle pubblicamente. Meglio ancora, aveva senza reagire lasciato installarsi un "ufficio" (o "commissione") detta di Amsterdam, a maggioranza "estremiste", incaricato di coordinare le attività dei comunisti europei occidentali, un centro più virtuale che reale del resto, in ragione delle sue divisioni interne così come per la mancanza di risorse finanziarie.

Tuttavia, il putsch abortito del marzo del 1920, precipitò le cose: dopo diversi indugi, (a direzione del KPD-S garantita, in cambio di una promessa di "democratizzare la vita pubblica", una "opposizione leale" ad un "governo operaio", dichiarò di rinunciare con ciò "a ogni preparativo in vista di un'azione di forza" - mentre era in atto l'insurrezione dei minatori della Ruhr. Di colpo, le sezioni di città e i gruppi espulsi del partito in date diverse tennero un congresso si costituirono in KAPD (aprile 1920).

2intern-congrQuesta volta, L'Esecutivo reagisce tanto più vivamente in quanto la data fissata per il congresso dell'Internazionale, nel luglio del 1920, si avvicinava. La sua "Lettera aperta ai membri del KAP", pur lamentando le offerte legali della Lega di Spartaco (nome corrente all'epoca del KPD-S, pone i kapisti a diffidare di "sottomettersi senza discussioni, come va da sé, nelle risoluzioni del II Congresso". Alle unioni viene rimproverato di spingere "gli operai d'avanguardia" ad abbandonare i sindacati in via di radicalizzazione accelerata (e come prova, si porta, l'accesso a posti dirigenziali di indipendenti e di comunisti, e di disprezzare le elezioni ai comitati di impresa istituiti dalla legge (contro l'adozione della quale il KPD aveva chiamato inoltre ad una manifestazione repressa in un bagno di sangue). Che gli unionisti rientrino nei sindacati! È inoltre riaffermato la necessità del parlamentarismo, perché "la nuova epoca, quella della rivoluzione proletaria, formerà dei parlamentari di nuovo tipo". E le campagne elettorali mettono in grado i militanti in grado di "propagandare le loro idee" e di conquistare con le municipalità rurali, "una grande influenza tra la classe dei piccoli e medi contadini" [31]

Sin dal mese di aprile, l'Esecutivo aveva dichiarato: "Il mandato dell'ufficio olandese ha perso la sua validità", e ritirato "i poteri affidati ai compagni olandesi". È in questa occasione, tra l'altro, che Pannekoek redasse il testo [32] di cui Gorter riproduce nella sua Lettera aperta i passaggi fondamentali. Allo stesso tempo, Lenin in persona entrava in lizza con il suo sin troppo famoso opuscolo L'Estremisno, malattia infantile del comunismo, destinato a diventare sin dal quel momento la bibbia dei PC. Come faceva notare Pannekoek, L'Estremismo" non apportava grandi novità", i suoi argomenti essendo "perfettamente identici a quelli che altri utilizzavano da molto tempo". (Senza dubbio si sbagliava un bel po' quando aggiungeva "La novità, è che ora Lenin li mette sul suo conto" [33]. Non si trattava in definitiva dell'ideologia delle sinistre della III Internazionale di cui l'Olandese era stato, anch'egli, a modo suo, un rappresentante teorico?

 

La lettera aperta di Gorter

Il grande rimprovero che Lenin faceva agli "estremisti" del 1920 era di "negare la legittimità del compromesso". Per illustrarne la necessità, non contento di delineare la storia del Partito russo al rango di pietra di paragone politica universale, mobilitava anche la sua.

Una domenica di gennaio del 1919, la vettura nella quale circolava il nuovo padrone della Russia era stata fermata, nei dintorni di Mosca da dei banditi che fuggirono con l'auto dopo essersi impadroniti, del denaro e dei documenti dei suoi occupanti. "Questa è bella!" esclamò Lenin dopo l'incidente. Incredibile, degli uomini armati che si lasciano rubare la loro vettura. Che vergogna. Ma il suo autista, che raccontò in seguito la storia [34], gli fece osservare, per discolparsi, che uno scambio di armi da fuoco sarebbe stato troppo rischioso, e non tardò a convincerlo della bontà del proprio parere.

Quindici mesi più tardi, il padre fondatore del bolscevismo traeva argomento da questo compromesso molto particolare, legato a un rapporto di forze per natura contingente, per proclamare la necessità dei compromessi in generale) - dei "buoni" compromessi negoziati da istanze centrali, va da sé, nel quadro del dispositivo politico borghese [35].

Gorter procede in tutt'altro modo quando evoca anch'egli un ricordo personale per illustrare la sua visione della politica operaia. Questa volta, ci si trova non in un'automobile, ma ad un congresso del PS olandese. E Gorter testimonia quanto "persuasivo e logico" gli sembrava allora il leader del partito, Pieter Troelstra, mentre celebrava i meriti di compromessi e di alleanze destinate a sfruttare i dissensi interni del campo borghese, e anche quanto lui, Gorter, ne era stato disorientato prima di chiedersi se una simile politica era adatta a consolidare la coscienza di classe presso gli operai, e di rispondere negativamente. Argomenti semplici e diretti, ma tanto rivelatori quanto le asserzioni di Lenin.

Dopo tutto, quest'ultimo non faceva a modo suo quanto Bernstein aveva già fatto aveva fatto [36]: esprimere in termini cinici - "usare, in caso di necessità, ogni stratagemma, ricorrere all'astuzia, alle procedure d'azione clandestine, tacere, nascondere la verità" [37] - una linea di condotta seguita da lunga data - "in caso di necessità", e cioè sempre - dai capi socialpatrioti ma accuratamente ricoperta da declamazioni demagogiche?

Redatta in una lingua senza affettazione, calorosa  concreta, benché non esente da un trionfalismo ancora concepibile all'epoca, la Lettera aperta di Gorter era senza alcun dubbio in ritiro su alcune posizioni del KAPD (il KAP-Olanda non si costituì d'altronde ufficialmente che nel settembre del 1921). Apparve comunque a puntate nell'organo berlinese del giovane partito nell'agosto-settembre 1920 [38], ed in opuscolo durante il mese di novembre, dunque dopo il II congresso dell'I.C. Quest'ultimo aveva sottoposto l'ammissione dei partiti nell'Internazionale a ventuno condizioni che erigevano a principio l'entrismo nei sindacati, l'azione parlamentare e il centralismo democratico [39]. Aprendosi al contempo verso delle formazioni sino ad allora qualificate come opportuniste, al primo posto dei quali stavano gli Indipendentisti di Germania, il congresso diceva credere "possibile e desiderabile l'adesione all'I.C. "di organizzazioni come il KAPD, gli IWW nord americani e i comitati di base britannici (Shop Stewards Committees) che, per "inesperienza politica", non aderivano anora ai suoi principi [40] argomento burocratico per eccellenza [41], costantemente ripreso in seguito. Questo è il contesto immediato della Lettera aperta di Gorter.
 

Dopo la lettera aperta

 

Nel novembre del 1920, una missiva dell'Esecutivo venne una volta di più a mettere il KAPD nelle condizioni di dover aderire al KPD. Una delegazione Kapdista - Gorter, Schröder e Rasch (tesoriere dell'organizzazione) - parte per Mosca per spiegarsi davanti all'istanza suprema della III Internazionale.

Trotsky, incaricato di rispondere all'intervento di Gorter, che non è stato pubblicato, lo fa con il suo solito brio [42], in cui la canzonatura si coniuga al sofisma. Ostentando di non prendere in considerazione che la persona di Gorter, e non le concezioni del partito di cui quest'ultimo non era che un rappresentante, senz'altro il più prestigioso, gli rimprovera un "aristocratismo rivoluzionario" da "poeta" al quale "si trova immancabilmente associato il pessimismo" che lo conducevano a giudicare "imborghesite" le masse operaie d'Occidente. E anche ad adottare un punto di vista "geografico" che distingue tra colonizzati e coloni,senza tener conto del carattere universale della grande rivoluzione in corso, di dimenticare "il legame della rivoluzione proletaria all'Ovest con la rivoluzione nazional-agraria all'Est. Ora i kapisti, come si è visto, non contestavano affatto, al contrario, la necessità di questo "legame"; per essi, la "rivoluzione nazional-agraria" passava anche forzatamente attraverso lo stadio della dittatura di partito. Ciò che essi rifiutavano di ammettere, era l'estensione a Ovest industrializzato di questo modello, la creazione di una tattica democratico-borghese chiamata a sfociare un giorno su questa dittatura. Ai loro occhi, importava soprattutto il fattore della coscienza, della "emancipazione degli spiriti" (Gorter) sia per l'azione diretta che per la critica frontale dell'antico movimento operaio. E poiché le lotte di classi non si concepiscono senza forme d'organizzazione e di rappresentazione adattate al loro stadio di sviluppo storico, essi preconizzavano delle forme in rottura categorica con le antiche, dunque con il parlamentarismo, "strumento del primato dei capi", tattica inevitabile, sosteneva Pannekoek, finché "le masse si rivelano incapaci di decidere da se stesse", ma che "le bloccano nella passività, le vecchie abitudini di pensiero e le vecchie debolezze", un colossale fattore di integrazione all'universo borghese.

Trotsky si atteggiava anch'egli come critico acerrimo del parlamentarismo, ma per altre ragioni. Gli operai, accordava a Gorter, sopravvalutano il Parlamento, questo mezzo per ingannare le masse e farle addormentare, di propagare i pregiudizi, di rafforzare le illusioni della democrazia politica, ecc., ecc. Ma il parlamento è il solo rispetto a questo caso? I giornali, soprattutto quelli dei socialdemocratici, non distillano un veleno piccolo borghese? Dovremmo forse rinunciare alla stampa in quanto strumento dell'azione comunista sulle masse?". Strano ragionamento, si converrà, in bocca di qualcuno che, oltretutto, non cessava di burlarsi dell'insistenza di Gorter e dei suoi amici sulla necessità dell'azione di propaganda, la loro scelta risoluta a favore di un piccolo partito di agitatori selezionati che, Trotsky dixit, "lungi dal dedicarsi a dei compiti così volgari come le elezioni o la partecipazione alla vita sindacale, 'educherebbero' le masse a forza di discorsi e di articoli impeccabili". Aspettando la rivoluzione proletaria nell'Europa dell'Ovest, si doveva utilizzare la tribuna parlamentare per vincere "la superstizione degli operai verso il parlamentarismo e la democrazia borghese". Ma Gorter vi si rifiutava per un "timore delle masse" comparabile alla "loro paura di un personaggio virtuoso che non mettesse il naso fuori, nel timore di esporre la sua virtù a qualche sollecitazione". È con l'aiuto di un'immagine così del tutto traballante che egli rimproverava il suo avversario di "non vedere il nucleo del proletariato nascosto sotto la scorza del vertice burocratico privilegiato".

Pioggia di metafore che non rispondevano affatto alla questione di sapere se la riproduzione delle forme e comportamenti tradizionali, ma con una fraseologia da avanguardia, non induceva anch'essa un tipo di "educazione" determinata, in cui i "discorsi e articoli impeccabili" avevano del resto il loro posto ma anche il parlamentarismo e tutto ciò che genera di apatia  di sottomissione, tanto quanto la conversione delle organizzazioni in pedine del gioco politico istituzionale. L'argomento schiacciante di Trotsky era tuttavia che Gorter "parla a nome di un gruppo molto piccolo e sprovvisto di influenza" [43]. Linguaggio da arrivista della politica...

La delegazione ottiene tuttavia, con grande furore dei capi del KPD-S, l'"ammissione provvisoria" del KAPD nella III Internazionale, in "qualità di partito simpatizzante con voto consultivo" - e invito reiterato a entrare nel KPD-S. L'idea era di isolare dalla base kapdista i dirigenti che si era data.

Nel racconto che fece più tardi del loro viaggio comune, Schröder annota l'emozione dell'"Olandese" che camminava nella terra del comunismo, "Piangeva e non lo nascondeva". Ma, al momento di lasciare la Russia, il "vecchio" che "non ha ancora sessanta anni ne dimostrava ora ottanta" [44]. Come dire la profondità del trauma subito da quest'uomo di cuore e non soltanto di testa! Di ritorno a Berlino, Gorter scriveva a una delle sue compagne di partito "Sono rimasto stupito nel vedere che Lenin non aveva in testa che la Russia e considerava tutto il resto esclusivamente dal punto di vista russa. Non è ciò che mi sembrava un tempo cosa ovvia il leader della rivoluzione mondiale. È il Washington della Russia [45]".

Questo Gorter l'aveva già evidenziato nella sua Lettera aperta, ma la constatazione teorica, per definizione, non potrebbe avere lo spessore umano del contatto diretto.
 

"L'azione di marzo".
 

Il grande patronato così come le autorità socialdemocratiche si applicarono, dopo gli avvenimenti di marzo 1920, a perfezionare il "ritorno alla normalità". Le reti di informatori furono rafforzate, le disposizioni legali antisovversione completate, un corpo di soldataglia semi legale (l'Orgesch) fu distaccato su intere regioni. La polizia era instancabile; così le "organizzazioni di lotta" kapdiste, e i loro depositi di armi, furono smantellate a Berlino (autunno 1920), nella Ruhr (inizio marzo 1921). Al KAPD, colpito da arresti a catena, ci si dedicava ad un lavoro di agitazione intensa, spesso nel quadro di scioperi selvaggi, mentre degli elementi assimilati al KAPD si costituivano in "bande armate" [46], o anche si dedicavano nel far saltare in aria con la dinamite monumenti e edifici pubblici. Da una parte e dall'altra ci si aspettava una prova di forza.

Quest'ultima ebbe luogo nella Germania centrale, nei distretti rossi di Mansfeld et de Halle-Merseburg (bastioni elettorali del VKPD, scaturito dalla fusione USPD- KPD), dove la durezza delle condizioni di vita e delle esazioni dei servizi di sicurezza padronali raggiungevano delle proporzioni senza precedenti, aventi come effetti naturali sabotaggi, appropriazione di materiale e scioperi selvaggi a ripetizione. Tensioni accumulate che l'ingresso di brigate speciali di polizia (sotto autorità socialdemocratica), incaricate di "ristabilire l'ordine", avrebbero portato al punto di esplosione.

Il movimento ha come epicentro le fabbriche Leuna (22.000 lavoratori, unioniste al 40%). Il 21 marzo, un'assemblea generale a maggioranza unionista costituisce un comitato di sciopero (selvaggio) paritario KAPD-VKPD. Il giorno seguente, diciasette centurie composte da giovani operai armati occupano i luoghi, disarmano e espellono la milizia padronale (200 uomini); le unità di polizia locale non si muovono, nell'attesa di rinforzi che arrivano presto (23 centurie di polizia e una batteria da campagna). Coscienti di andare ad un massacro, la maggior parte degli operai evacuano le officine con il favore della notte. Ignorano che un importante distaccamento operaio arriva da Lipsia alla riscossa. Alcune ore appena dopo la loro partenza, questi uomini riescono a forzare i cordoni di polizia e a prendere posizione all'interno del complesso industriale. Il 29, dopo bombardamento d'artiglieria, le forze di polizia danno l'assalto e riprendono possesso di Leuna. Le operazioni di sostegno lanciate nella regione ("presa di potere" locale, interventi di bande armate) soffriranno anch'esse della mancanza di mezzi di trasmissioni affidabili. (Secondo una fonte "ben informata", vi saranno nel complesso della regione 145 vittime tra i civili e 35 tra la polizia; 3.470 persone incarcerate e 1.346 fucili sequestrati) [47].

Il 24, nel momento in cui a Leuna il movimento era al suo apogeo, il VKPD, seguendo un piano la cui esecuzione era prevista per più tardi, lanciava in accordo con il KAPD un appello allo sciopero generale, poco seguito a ragione del veto sindacale (tranne nei cantieri navali di Amburgo e nella Ruhr dove ebbero luogo degli scontri sanguinosi). Il 31, eliminava le sue consegne di sciopero e di azione nelle strade.
 

Le conseguenze dell'azione di marzo

La repressione giudiziaria che seguì aggravò il declino accelerato dall'estate precedente delle diverse organizzazioni kapidiste, unioniste e anarco-sindacaliste. (Benché più di un leader di queste ultime avessero condannato un sollevamento che essi dicevano ispirato dal governo sovietico). Non c'è affatto bisogno di spiegare per spiegare questo declino di invocare un "esercito di agenti pagati dai bolscevichi" [48]. In verità, il ritorno alla normalità della primavera 1920 era dovuto soprattutto alla rapida sparizione di formazioni che, rifiutando per principio le pratiche parlamentari e sindacali, non potevano aspettarsi una ripresa in quanto forze sociali reali che da un rovesciamento della situazione, che non si verificò, malgrado gli sforzi dei kapidisti e assimilati.

Per contro, come appare retrospettivamente, la forma di organizzazione tradizionale del VKPD, aureolata dall'investitura di Mosca ma radicata sulle istituzioni legali, trovava nella vita quotidiana e nell'arena elettorale di che alimentare un'attività che erigeva a regola il minimo sforzo nella lotta e agiva come fattore supplementare d'integrazione mentale degli operai al sistema vigente. Non senza per giunta un adattamento del partito a questo stesso sistema che, tuttavia, lo teneva a margine a al quale serviva utilmente da spauracchio. Più di qualunque altra dello stesso genere, l'Azione di marzo doveva infatti iniettare al mito del "complotto comunista internazionale" la dose di realtà di cui aveva bisogno per funzionare.

Il 16 marzo, il ministro dell'Interno, proclamava lo stato d'assedio "non militarizzato" nella Germania centrale, dichiarava anche di vedere nelle agitazioni la mano non del PC in quanto tale, ma di "criminali internazionali, forse anche di spie e di provocatori che si fanno passare per dei comunisti" [49], (tesi ripresa oggi mutatis mutandis nella Repubblica Democratica Tedesca i cui ricercatori di Stato incriminano i "putschisti settari del KAP", "operai momentaneamente ingannati" o "provocatori prezzolati"). Sul posto, alla base, il VKPD rimase nell'insieme passivo. Ma al vertice, era tutt'altra cosa. L'Esecutivo dell'I.C., benché diviso su questo soggetto, non per questo non appoggiava a fondo i "preparativi pianificati" d'insurrezione. Non avevano forse inviato in Germania tre "tecnici" di alto livello? Moltiplicato istruzioni, incoraggiamenti, spedizione di fondi? Approvato la campagna che toccava il suo culmine nella stampa del VKPD dall'inizio di febbraio? La sua responsabilità nel disastro, la sua volontà di rilanciare il movimento in Germania per far deviare le tensioni che investivano allora il regime, cioè di pesare sul corso delle trattative tedesche-russe, sono cose verificate.

Avevano trovato dei sostegni nei circoli dirigenti del VKPD, tra gli adepti della "teoria dell'offensiva". Una frazione del vertice, ma non la maggior parte della base e dei quadri intermedi. Il che Gorter spiegava così "Quando un partito che opta per il Parlamento e per i sindacati invece di erigere il proletariato in forza rivoluzionaria, e in tal modo mina questo e indebolisce quell'altro, poi (dopo questi bei preparativi!) passa di colpo all'attacco e decide una grande azione offensiva di quel proletariato, che ha egli stesso indebolito, è di un putsch bell'e buono che si tratta sin dall'inizio

Detto in altro modo, da una azione decretata dall'alto in basso, che non è scaturita dalle masse stesse, e votata sin dall'inizio alla sconfitta [51].

Ben diversa, sottolineavano i suoi rappresentanti, era la tattica del KAPD. Per essi, la lotta in fabbrica mirava a "creare il clima necessario allo scatenamento di azioni di massa". Quest'ultime a loro volta dovevano portare all'occupazione dei luoghi di lavoro e, poi, sfociare in insurrezione armata. "Che il corso delle lotte si conformi esattamente a questo schema, è dubbio. Ma è sicuro che senza lotta diretta per le fabbriche, la rivoluzione non vincerà in Germania". La direzione del VKPD (tranne Levi e la sua banda) aveva visto nel sollevamento operaio "l'occasione di montare un'azione ad ogni costo", un "tentativo fittizio" di conquistare il potere politico. L'influenza del SPD e dei sindacati aveva mantenuto le "grandi masse" nella neutralità, persino ostili, verso "l'avanguardia militante". Ma era "vano volere spezzare questa influenza sul suo proprio terreno, quello delle azioni bidone parlamentari sindacali; Una lotta efficace non è possibile che alla radice del male, sul terreno delle fabbriche [52]. Questa era la tattica che Gorter (e i kapidisti) [53] intendevano con le parole "propaganda" e "educazione" [54] non gli esercizi di teorico solitario da camera ai quali Trotsky (e tutti quanti) si sforzava di ridurlo.

Naturalmente, i vertici burocratici dell'Internazionale, una volta verificatasi la sconfitta, ne diedero la responsabilità al capo (Paul Levi) del VKPD e alla sua banda), eppure avversario frenetico dell'Azione di marzo. Conformemente alla linea che gli fissava già una "lettera aperta" dell'Esecutivo (gennaio 1921), il che non ne costituì mai una contraddizione, il partito unificato tornò alla tattica di preparazione di un fronte unito con gli elementi del SPD che vi si mostravano disposti. Delle aperture in questo senso furono allora tentate ma invano, a livelli regionali. (Esse non diedero frutti che nel 1923 con gli effimeri uffici unitari di Sassonia e di Turingia).

Scrive a tal proposito Pannekoek, "così i comunisti del parlamento tedesco si apprestano a cooperare con i partiti socialisti. Così come la fusione della lega di Spartaco con gli Indipendenti ha necessitato di un adattamento al programma di quest'ultimi, allo stesso modo la cooperazione in corso di preparazione con i socialdemocratici acquisiti esigerà un adattamento e uno slittamento a destra [55]".

Come è ben noto, le cose andarono proprio in tal modo. Anche se l'SPD integrato a tutti i livelli dell'apparato di Stato declinò con costanza e disprezzo ognuno delle offerte di alleanza dei suoi rivali comunisti, anche se le concessioni fatte da quest'ultimi comportavano delle ondate di siluramenti e di espulsioni, sino al giorno in cui il KPD si trovò senza anima né energia, integralmente stalinizzato. Storia sinistra, storia destinata a ripetersi mutatis mutandis un po' ovunque nelle sezioni dell'Europa occidentale della III Internazionale.
 

Il III Congresso dell'Internazionale comunista
 

Il III congresso doveva porre fine al dialogo da sordi, iniziato dal 1919. All'improvviso, infatti, Zinoviev, pontefice supremo dell'l.C., fece sapere che l'Internazionale non tollerava l'esistenza di due partiti comunisti in un solo paese. Inoltre, equiparò i kapdisti e gli indipendentisti perché non allineati al VKPD. Gli altri portavoce bolscevichi abbondarono nello stesso senso, ma nel disordine dei "semi-anarchici" diceva Lenin (trattato come tale un tempo dai menscevichi), dei "menscevichi" rincaravano la dose su Trotsky (trattato come tale un tempo dai bolscevichi), ecc. ecc. Il tutto in mezzo ad un'ilarità comandata presso i congressisti e con grande uso di manipolazioni dell'ordine del giorno o di tante parole e altri vecchi trucchi. In queste condizioni, gli interventi appassionati ma sobri dei delegati kapdisti [56] apparivano soprattutto come un tentativo disperato.

Essi non ebbero più successo in quanto all'altro oggetto della loro presenza al congresso: "Il raggruppamento delle tendenze dell'opposizione all'interno dell'internazionale". I delegati della CNT spagnola e quelli dell'IWW nord americani trovavano che c'era c'erano a casa loro troppi partiti e non abbastanza sindacati. E i diversi gruppi dell'Opposizione operaia russa non si preoccupavano affatto, senz'altro, di fare causa comune con degli appestati, numericamente deboli per giunta. Da parte della KAP, la maggioranza dei militanti ritenevano che i contatti con le persone dell'Opposizione avevano dovuto aver luogo in segreto, nel cuore della notte: "Ecco", si diceva, "ciò che dà un'idea della sua forza reale" quando "la disciplina carceraria che regna in Russia" [57]. Così ci persuademmo che l'Opposizione operaia non poteva fare di meglio della "burocrazia bolscevica", visto "il rapporto di forze tra una enorme massa contadina e un debole proletariato", anche se si approvava di esigere l'attivazione delle masse" [58]. E poi come non infrangere quel principio della non-ingerenza che si chiedeva al partito russo di rispettare nell'Europa occidentale?

Vana discrezione, lo abbiamo visto. Nell'ottobre 1921, per l'ultima volta, il Comitato esecutivo allargato dell'I.C. esortava i kapdisti a rinunciare al loro "settarismo, causa di dispersione delle forze" e gli unionisti a raggiungere i sindacati per "sottrarli all'influenza dei socialdemocratici". Terminava proclamando che era falso vedere, alla maniera dei "teorici del KAPD, teste infantili in politica [nell'Internazionale] uno strumento della politica dei Soviet". E l'Esecutivo rilanciava a proposito: "La Russia è il più potente degli avamposti dell'l.C." [59]. La famosa ideologia dell'"internazionalismo proletario, di già.

Da parte sua, il Comitato centrale del KAPD, nelle mani degli "intellettuali" del partito, decideva sin da luglio di rompere con l'I.C. (decisione ratificata dal congresso successivo di settembre) e lanciava la parola d'ordine di costituzione di una "Internazionale operaia comunista" (KAI). Quest'ultima era chiamata a "svilupparsi in modo graduale e organico, come ha fatto il KAPD"; sarebbe stata una "creazione della base", non del vertice [60]. Cosa contestata dalla maggior parte dei kapdisti, il futuro KAP-Berlino. In una situazione che non era realmente rivoluzionaria, essi sostenevano, i pochi gruppuscoli - bulgari, olandesi, inglesi - che essi erano in grado di riunire e che avrebbero formato una "Internazionale delle illusioni, non dell'azione"; sarebbe stata una "Internazionale dei capi", di "politicanti rapaci" preoccupati di abbellire l'immagine del loro marchio [61]. Denigrazione ad oltranza, molto in sintonia nelle polemiche dell'epoca, molto spesso più feroci verso i propri simili che nei confronti di nemici dichiarati. Ma anche la nuova "Internazionale" non visse in fin dei conti che sulla carta e finì con il corrispondere soltanto con l'indirizzo di una libreria di Amsterdam...

Gli unionisti, in quanto ad essi, e contrariamente agli anarco-sindacalisti, non ebbero mai dei contatti diretti con il Consiglio internazionale delle associazioni di mestiere e delle industrie, la cui costituzione (Mosca, estate 1920) fu il preludio a quella dell'Internazionale sindacale rossa (Mosca, luglio 1921). Vide la la loro opposizione di principio alla Zellentaktik, la formazione di "frazioni sindacali" interamente subordinate al Partito, ma vie anche una situazione fluttuante all'estremo, di numerose unioni e associazioni industriale variante nella loro affiliazione a questa o quella centrale (le più forti finirono tuttavia con l'allinearsi a Mosca).
 

A mo' di conclusione

A cosa serve epilogare - forse si dirà - sugli avvenimenti sopra schematicamente evocati? La prima - e la sola ancora sino ad oggi - convulsione rivoluzionaria proletaria in un paese sviluppato non è stata quasi subito svuotata della sua sostanza dagli sforzi congiunti del Capitale in armi e del Lavoro organizzato, le grandi masse rimanendo nel mezzo in riserbo, nel peggiore dei casi attivamente ostili? E i suoi sviluppi, per forza di cose più teorici che pratici, non sono scomparsi nelle nebbie della storia?

Ma, d'altronde, quella storia, la storia contemporanea non ha dimostrato anche che l'azione parlamentare e/o sindacale, per inerente che essa sia al capitalismo di mercato, era per matura fuori dalla possibilità di realizzare nei paesi sviluppati il suo progetto iniziale, la sua versione specifica del socialismo: l'abolizione della proprietà privata dei grandi mezzi di produzione e di scambio? E anche altrettanto chiaramente che, nei paesi meno sviluppati, questa stessa abolizione si accompagnava con la creazione di un nuovo sistema di oppressione e di sfruttamento non appena l'attività propria delle masse veniva ad essere soffocata con le buone o le cattive.

Sin da allora, e finché non si può adattarsi al mondo così come va ed alle sue istituzioni, non è meglio impegnarsi in cause più limitate senz'altro rispetto al progetto dei consigli operai, ma anche più realisti di esso? Più realisti, parliamone! Per limitarsi a questo, la lotta anti-imperialista extraparlamentare nelle metropoli non è sfociata, nella stretta misura in cui affrettò la fine delle guerre coloniali, ad un recupero finale da parte dei poteri di Stato coinvolti? Così come d'altronde ad un disinteressamento, ad un'indifferenza passiva, una volta acquisito il risultato almeno apparentemente?

È la stessa cosa, secondo modalità diverse, per altre cause prese in sé ma anch'esse fondate sin dall'inizio - le donne, i diritti democratici, la difesa dell'ambiente, ecc. Ed accade la stessa cosa, lo abbiamo visto, per la causa del Lavoro, finquando assume dei canali analoghi, le vie del dialogo interclassista. Non senza evidenti differenze quantitative e qualitative, la più piccola di quest'ultime non è altro che la lotta operaia racchiusa nel suo interno di ben altre virtualità. Non ha essa come spazio naturale il luogo di produzione, base stessa della vita sociale, e, per questo motivo, base della sua eventuale ricostruzione?

Anche piccole, le lotte operaie, che aprono delle nuove prospettive non sorgono che in quei rari momenti in cui i lavoratori, superando i loro vecchi riflessi di passività e di timore, si ribellano alla cieca contro se stessi, e cioè contro le organizzazioni, contro i capi che essi si sono dati, per prendere in mano, in modo certamente frammentario e provvisorio, la gestione dello sforzo comune, unitario. Allo stesso modo, ad una scala altrimenti più elevata, le fasi di affondamento parziale dei poteri esistenti, così come lo hanno rivelato più di una volta nel corso di questo secolo delle azioni din forza massicce e spontanee, approdano in forme di organizzazione e di rappresentazione di natura da permettere, nella loro tendenza, l'autodterminazione operaia, condizione necessaria dell'istituzione di un mondo infine retto da regole di produzion e di distribuzione egualitarie.

Qualunque esse siano, queste lotte dette autonome non avvengono, per lo meno prima del ritorno alla normalità, senza distaccare le masse dai valori di sottomissione e di rassegnazione che i movimenti del capitale e le pressioni dei suoi agenti coscienti o non, hanno come effetto di interiorizzare in esse. Allora, è un germogliare di iniziative, di confronti di idee, d'inventiva organizzativa. Uno stadio che è stato già più di una volta raggiunto, in piccolo così come in grande. Però mai superato e di cui nessuno, seriamente, non potrebbe pretendere che lo sarà un giorno.

Nessuna potenza al mondo potrebbe creare, con qualsiasi mezzo, "lo spirito generalizzatore e la passione rivoluzionaria" di cui Marx faceva già dei componenti indispensabili della "rivoluzione sociale" nei paesi sviluppati [62] - è capace di generarli soltanto una lotta accanita senza tener conto di nulla, diffusa in tutto un periodo storico, così come lo testimonia lo sviluppo di tutte le grandi rivoluzioni del passato.

Quindi, l'attesa passiva, fosse anche sotto l'aspetto positivista di testimonianze vissute o di descrizioni formali, non porta che alla sottomissione al reale immediato. Allo stesso modo, in certe condizioni, l'intervento pratico delle masse diventa una virtualità di sviluppo - anche se, nel caso in cui esso si concretizzasse, i suoi risultati rimanessero imprevedibili. E l'intervento teorico ne è indissociabile, se si vuole cosciente, pur situandosi fatalmente, in una provvisorietà che dura, a monte della pratica. Il che Gorter esprimeva nel seguente modo: "Non possiamo contare sulle condizioni materiali: dobbiamo stimolare l'autocoscientizzazione del proletariato. Per le cause materiali non possiamo fare molto, nemmeno attraverso il sabotaggio. Ma per le cause psicologiche, possiamo fare molto" [63]. Giudizio non troppo ottimista, il futuro doveva dimostrarlo, ma senza invalidarne la validità generale.

"L'uomo in generale è innanzitutto un essere pratico e finché può sopravvivere per mezzo di soluzioni pratiche, non ha bisogno di teorie sovversive per il futuro. Quando le lotte sono molto dure e restano malgrado tutto infruttuose, si è portati a ricercare le cause della sconfitta, il carattere degli ostacoli. Si fanno delle teorie" [64], diceva Canne Meijer, che a volte è stato chiamato "l'anima" del G.I.C. Ora il lungo periodo di crescita continua delle forze produttive e del progresso capitalisti, che sta volgendo al termine, era per definizione inadatto al necessario rinnovamento della teoria operaia, che analizza e generalizza delle pratiche, non sempre immediate senz'altro, prima di venire a sua volta a stimolare, orientare gli spiriti. Dato questo vuoto, e senza dimenticare il primato naturale del presente, conviene confrontarsi alle grandi azioni operaie del passato.

Certo, sarebbe assurdo voler restaurare la tradizione del comunismo dei consigli, morta con il periodo che l'ha generato. Ma alcune delle nozioni elaborate da questo movimento conservano malgrado tutto un potere di chiarimento tanto più prezioso in quanto la possibilità di rivedere uno scontro di grandi proporzioni tra il nuovo e il vecchio non è affatto escluso nel periodo storico che si apre ai nostri giorni. In questo senso, e anche se i mezzi di diffondere queste nozioni rimangono irrisori, la Lettera aperta di Gorter, i suoi dettagli e le sue circostanze, permettono di gettare uno sguardo diverso sulle modalità e finalità concepibili di lotte operaie che lascerebbero infine il terreno della difensiva, inerente alle condizioni del Capitale, per occupare quello dell'offensiva.

 

Nota sul movimento "di base" in Gran Bretagna

 

All'origine dell'interesse per il movimento inglese provato dal Lenin di L'Estremismo, malattia infantile del comunismo dal Gorter di Lettera aperta al compagno Lenin, si trova non l'importanza pratica di questo movimento, ma il carattere chiave che allora si prestava all'Impero britannico e alla sua potenza industriale. Durante la guerra, soprattutto negli arsenali scozzesi e nelle miniere gallesi,si era sviluppato un movimento "di base", il Rank-and-File Movement, le cui forme organizzative - comitati di delegati di officina (Shop Stewards Committees), comitati di fabbrica (Shop Committees), comitati operai ed altri - erano di un tipo vicino alle organizzazioni di fabbrica, cari agli unionisti tedeschi. Altra parentela dei basiti inglesi, eretti contro le pratiche laburiste, intendevano "pensare da se stessi, sfuggire alle regole dell'obbedienza passiva, per riattivare il movimento operaio". Ma, nel loro spirito, i comitati dovevano essere "innanzitutto degli organi di lotta  di controllo sulle condizioni quotidiane del lavoro" [65], e dunque perseguire gli obiettivi grosso modo cogestionari, centrati sulle questioni di salari, norme, assunzioni, ecc... in vista di superare le carenze dei sindacati di mestiere (e di Unione sacra). Finita la guerra, il Movimento deperisce rapidamente, insieme alle circostanze che l'avevano fatto nascere. Caduto sotto l'influenza del PC, sostenitore dell'entrismo nei sindacati, sparisce sin dal 1922.

Infatti di PC inglesi, ve ne furono due in origine. Il primo, investito da Mosca, proveniva soprattutto da un gruppuscolo socialista di sinistra (il BSP), vicino per linea politica e per ideologia agli indipendenti tedeschi; insieme ad alcuni altri gruppi, si costituì in PC il 1° agosto 1920 e si pronunciò allora, malgrado le esortazioni dell'Ufficio di Amsterdam (marzo 1920), per il parlamentarismo e per una domanda di affiliazione al partito laburista. L'altro partito, fondato il 9 giugno precedente (e di cui Gorter esalta qui sopra la creazione), combatteva a fondo questa linea; detto anche "PC oppositore", proveniva da un piccolissimo gruppo di suffragette, per la maggior parte dalle operaie dell'East End londinese [66]. Sosteneva delle lotte di quartiere e di officina e, inoltre, si trovava in contatto con Gorter e il KAPD.

La sua figura preminente era quella di Sylvia Pankhurst (1882-1960), ardente femminista a cui il suo attivismo durante la guerra e dopo aveva valso più di una condanna per "incitamento alla rivolta". Avendo incontrato Lenin a Mosca, nel luglio del 1920, si allineò alle sue concezioni e raggiunse con il suo gruppo il PC ufficiale [67]. Ma avendo rifiutato di sottoporre il suo giornale alla censura del comitato centrale, "che pretende," diceva lei, "di essere la dittatura del proletariato, mentre esso non ha alcun potere e che il proletariato rimane indifferente", fu esclusa dal partito. Senza per questo scoraggiarsi, Sylvia Pankhurst militò in comitati di disoccupati, mentre il suo gruppo, ancora ridotto, serviva da sezione fantasma alla KAI, prima di sparire del tutto allo stesso tempo del suo organo di stampa nel 1924 [68].

 

 

Serge Bricianer

 

* Herman Gorter, Réponse à Lenin. Lettre ouverte au camarade Lénin, Introduzione di Serge Bricianer, Spartacus René Lefeuvre, Paris, 1979.

 

[Traduzione di Ario Libert]

 

 

NOTE

 

[1] Citato da G. Mergner, Arbeiterbewegung und Intelligenz, Starnberg, 1973, p. 133-134

[2] Ibid. p. 145.

[3] Ibid. p.154-156.

[4] Cfr. Herman Gorter "Partei, Klasse und Masse", Proletarier, 4, febbraio-marzo, 1921.

[5] Documenti tradotti in francese: Herman Gorter: L'internationale ouvrière communiste (1922), Invariance, VII, 5, 1974; H. Wagner:  Thèses sur le bolchevisme  (1934), in: Korsch, Mattick et al.: La Contre-révolution bureaucratique [La controrivoluzione burocratica], coll. 10/18, n° 760, 1973; Position du G.I.C.l'internationale, IV, 27 et 28, aprile e maggio 1937; A. Pannekoek: Lénine Philosophe  (1938), collezione Spartacus, série B, n° 34, giugno 1970, e antologia citata, III parte.

[6] Otto Rühle sosteneva, in quanto a lui ( Von der bürgerlichen zur proletarischen Revolution, Dresda 1924, p. 17), che "viste le sue condizioni storiche, la rivoluzione russa non poteva essere sin dall'inizio che una rivoluzione borghese". Da ciò la tendenza anche di alcuni settori dell'AAU-E a vedere nei consigli operai lo strumento della rivoluzione borghese. Non rimaneva che aspettare... lo "scatenamento delle energie assopite di tutti gli sfruttati" (Die Revolution, Heidenau, 4, 1926).

[7] Hermann Gorter: Die Internationale und die WeltrevolutionDie Aktion, XIV, 12, 1924, p. 324-325.

[8] Cfr.  Sowjetrussland, die Wirtschaftkrise und die RevolutionProletarier (Amsterdam), I, 1, febbraio 1933.

[9] Cfr. Risoluzione del II congresso dell'I. C. sul ruolo dei PC, in: Thèses, manifestes et résolutions de l'I.C., Parigi, 1934.

[10] Programme du KAPD [Programma del KAPD], (1920), in: La Gauche allemande, p. 6 e seguenti.

[11] Programm und Organisations-Statut der KAPD, Berlin, 1924, p. 19 e 13), "Conoscenza storica" designa qui, in primo luogo la teoria della "crisi mortale" imminente del sistema capitalista.

[12] Citato da H. M. Bock: Geschichte des "linken Radikalismus", in: Deutschland, Suhrkamp Verlag, n° 645, p. 145.

[13] Citato da Pannekoek in un articolo (maggio 1932) in cui, affermando ancora una volta che la presa del potere da parte di un PC (e la "dittatura dei grossi papaveri" che ne conseguiva) era concepibile in un paese a borghesia e proletariato deboli, non nell'Occidente industrializzato, riprendeva la nozione di "gruppi d'opinione"; Anton Pannekoek Partij raden, revolutie (J. Kloostermann), Amsterdam, 1970, p. 56 seg.

[14] Cfr. Desarmes (uno pseudonimo espressivo) "Unser Kampf gestern und heute", Proletarier (Berlin; ciclostilato clandestinamnt), 1, 1933.

[15] Cfr. Rätekorrespondenz (id. 2, nov. 1932).

[16] Zur Frage des individuellen Terrors; ibid.

[17] Ibid., 2.

[18] Cfr. H. Canne Meijer, Fondements de l'économie communiste, nel numero già citato di Informations Correspondance Ouvrières.

[19] Cfr. H. Canne Meijer: "Das Werden einer neuen Arbeiterbewegung" (1935), raccolta Mergner, p. 139-167, p. 160 seguenti. Per un'altra versione, più astratta di queste concezioni, cfr. Anton Pannekoek "Parti et classe ouvrière" (1936), antologia citata, p. 259 seguenti. Per i gruppi americani, vedere P. Mattick: "Les groupes communistes de conseils" (1939), in Intégration capitaliste et rupture ouvrière, EDI, Paris, 1972, p. 63 seguenti.

[20] Nel fantasma borghese, il gruppo dei radencommunisten appariva sia come una banda di utopisti litigiosi alla maniera di Marx (cfr. F. Kool Die Linke gegen die Parteiherrschaft, Friburgo, 1970), sia come un covo di terroristi (cfr. H. Schulze Wilde, in l'Express, 27-2-1958).

[21] Parlando dell'opuscolo di Pannekoek (1920), Zinoviev dichiarava "Vi troverete le masse erette in un feticcio che si tenta di opporre al partito in quanto tale" (cfr. Il Congrès de la III Int. comm., Pétrograd, 1921, p. 67).

[22] Si lascerà da parte qui la tesi troppo superficiale del "capitale finanziario" come agente unificatore del capitale che Gorter, seguendo Hilferding, professa al pari di Lenin (e di Kautsky).

[23] Vedere il capitolo "Le cause del nazionalismo all'interno del proletariato", in H. Gorter, Der Imperialismus, der Weltkrieg und die Sozialdemokratie, Amsterdam, 1915, p. 54-72.

[24] Hermann Gorter (discorso al congresso del KAPD), in Kommunistiche Arbeiter-Zeitung, n° 232 (24-9-1921).

[25] Su questa discussione, che non ha nulla di nuovo, vedere soprattutto H. Canne Meyer: "Le mouvement pour les conseils...", op. cit., p. 21 e seguenti.

[26] Cfr. P. Mattick "Interview à Lotta continua", Spartacus, 11, ottobre 1978, p. 4, e "PCF et dictature", nel mio articolo, ibid., 6 juin 1977, p. 23.

[27] Secondo un rapporto di polizia riguardante il periodo di gennaio-marzo 1921, e citato (c0on le riserve d'uso) da H. M. Bock Syndikalismus und Linkskommunismus von 1918-1923 (tesi), Meisenheim/Glan, 1969, p. 259.

[28] Lénine (10-10-1919), in Oeuvres, t. 30, p. 51, aggiungendo tra parentesi questo riferimento significativo sulle condizioni della Russia zarista: "Come si esprimevano i bolscevichi nel 1910-1913".

[29] Cfr. Collectif KAPD, Der Weg des Dr Levi, der Weg der KPD, s.l.n.d. (1921), p. 26-28.

[30] Arthur Rosenberg Histoire du bolchevisme Paris, 1936, p. 190; [Tr. it.: Storia del bolscevismo, Leonardo, Roma, 1932].

[31] Cfr. la lettera dell'Esecutivo del 2 giugno 1920, in l'internationale communiste, 11 (juin 1920), p. 1909-1921.

[32] Cfr. Anton Pannekoek, Révolution mondiale et tactique communiste, (marzo-aprile 1920).

[33] Ibid, p. 200.

[34] Cfr. S.K. Guil, in Lénine tel qu'il fut, t. II, Mosca, 1959, p. 241-242.

[35] Cfr. Lenin, La Maladie infantile du communisme, le "gauchisme", Paris, 1968, p. 23-24; [Tr. it.: L'Estremismo, malattia infantile del comunismo, Opere scelte, vol. VI, Editori Riuniti, Roma-Mosca, 1975].

[36] Cfr. a proposito Kark Korsch, "L'orthodoxie marxiste", Marxisme et contre-révolution... (S. Bricianer éd.), Paris, 1975, p. 130-132.

(37) Lenin, op. cit.

[38] Kommunistische Arbeiter-Zeitung, n° 121 e seguenti In quel momento (inzi d'agosto), l'armata rossa, avendo cacciato i Polacchi dall'Ucraina, raggiunse la Vistola (prima di dover ripiegare in mancanza di mezzi logistici e di rinforzi). Il KAPD aveva tentato di sostenerla preparando una campagna di propaganda e d'azione (sabotaggi e operazioni di commando) che denunciata dall'USPD et le KPD dovevafermarsi bruscamente.

[39] Cfr. Thèses et manifestes de l'l.C., op. cit., p. 39 e seguenti.

[40] Ibid., p. 47

[41] Al V congresso dei sindacati tedeschi (1905), ad esempio, i propagandisti dello "sciopero generale" si facevano trattare come "anarchici e gente senza la minima esperienza".

[42] Cfr. Leone Trotsky: "Sur la politique du KAPD", l'internationale communiste, 17 (mai 1921). Traduco dall'edizione tedesca, pp. 4211-4224; Tr. it.: Trotsky, Risposta a Gorter, in: Dibattito sull'estremismo, Samona e Savelli, Roma, 1976.

[43] Di fatto, Trotsky designava così il picolo partito socialdemocratico olandese (costituito come PC sin dal 1918, nato dalla scissione del 1909, la cui causa immediata era stata la "questione agraria", e a quella di Lenin (cfr. Collected Works, t. 16, p. 140-144) era stata all'epoca applaudita sonoramente (contrariamente a Rosa Luxemburg, preoccupata a non "perdere il contatto con le masse").

[44] K. Schröder: Die Geschichte Jan Beeks, Berlino, 1929, p. 163 e 166.

[45] Citato da J. Clinge Doorenbos: Wisselend Getij, Amsterdam, 1964, p. 52.

[46] Vedere Allegato I, notizia "Plättner" e "Prenzlow".

[47] Cfr. Drobnig: Der mitteldeutsche Aufstand 1921, Lubecca, 1929.

[48] Cfr. Otto Rülhe: Fascisme brun, Fascisme rouge (1939), Ed. Spartacus 1975, pp. 36-37.

[49] Citato da H.M. Mayer: Die politischen Hintergründe des Mitteldeutschen Aufstandes von 1921, Berlino, 1935, p. 64.

[50] Vedere ad esempio: Kämpfendes Leuna (1915-1945), t. I, Berlino-Est, 1961, p. 242 e seguenti.

[51] H. Gorter: "Les leçons de l'Action de mars. Postface à la "Lettre ouverte à Lénine", in D. Authier et J. Barrot: op. cit. p. 323.

[52] Collettivo KAPD: op. cit., p. 31-32, 18 (note) e 25.

[53] "Ciò che diciamo," dichiarava al III Congresso dell'I. C., il kapidista Appel rispondendo alle affermazioni di Radek, "non è nato in Olanda, nel cervello e nell'alambicco del compagno Gorter, ma attraverso le esperienze della lotta che abbiamo condotto dal 1919", (cfr. raccolta Authier, p. 32; e così lo stesso Schwab rispondendo a Bucharin, ibid., p. 521.

[54] Assegnandosi come ruolo "un lavoro di educazione rivoluzionario su vasta scala", il KAPD si rifiutava a "rendere le masse operaie più limitate di quanto già non fossero" riprendendo per loro conto, così come sono, delle rivendicazioni parziali. Lungi da ciò, esso intendeva "allargare dei movimenti di questo genere con degli appelli alla solidarietà e esacerbarli di modo a far loro assumere delle forme rivoluzionarie e se possibile politiche" (cfr. le "Tesi 10 e 11 sul ruolo del Partito...," sottoposte al III Congresso, in Invariance, n° 8).

[55] A. Pannekoek, in De Nieuwe Tijd, 1921, p. 441; cfr. anche l'antologia citata, p. 219 seguenti.

[56] Si troveranno questi interventi nella raccolta Authier, La Gauche allemande, op. cit.; cfr. anche Invariance, 7 e 8.

[57] Cfr. l'unionista Wülfrath, in Ausserordentlicher offentlicher Parteitag des KAPD (11-13 sett. 1921); il comitato centrale del KAPD, che aveva le sue ragioni, vedeva al contrario nella Opposizione operaia un movimento di massa (cfr. Invariance, 7, p. 98, e soprattutto Adolf Dethmann ampiamente citato (senza nome dell'autore) in Soep : "Une IV Internationale ou une réplique de la III?" [Una IV Internazionale o una replica della III?], Bilan, giugno 1934).

 

 

 

 

 

(58) Collectif KAPD : "Vier Führer", Proletarier, I, 8, août 1921. Ce texte de réflexion sur le congrès focalise de manière caractéristique sur le point suivant : "Le discours des chefs russes ne traitait que des forces matérielles, économiques, mais passait sous silence les forces vivantes", "l'esprit et le coeur des ouvriers paralysés par leurs organisations, partis et syndicats".

(59) Cfr. An die Mitglieder der KAPD, Offener Brief der EKKI, Hambourg, 1921.

(60) Voir les extraits d'un manifeste de la KAI, in Invariance, 7, p. 95-101 (ici p. 101).

(61) Cfr. Die KAI. Räte-Internationale oder Führer-Internationale?, Berlin, 1922.

(62) K. Marx, Circulaire du Conseil général de l'AIT (janv. 1870).

(63) H. Gorter; discours cité plus haut, note 24.

(64) H. Canne Meijer: "Le problème du socialisme", Internationalisme (Paris, 40, déc. 1948, p. 41.)

(65) Cfr. J.T. Murphy: The Workers' Committee, Sheffield, 1918.

(66) Cfr. J. Klugmann : History of the CP of G.B., Londres, 1964, t. 1.

(67) D'où la note navrée que Gorter consacre à l'affaire dans la Lettre ouverte.

(68) Voir l'émouvante biographie qu'en a donné David Mitchell: Les Pankhurst. L'ascension du féminisme, Genève, 1971.

 

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25 ottobre 2012 4 25 /10 /ottobre /2012 13:00

Traiettorie del capitalismo decrescita07

Dal "soggetto automata" all'automazione della produzione 

 

 

di Anselm Jappe 

 

Conferenza pronunciata il 30 novembre 2011 alla École nationale supérieure d’architecture Paris-Malaquais al colloquio "Politique computationnelle et architecture: De la Digital philosophy à la fin du travail" [Politica computazionale e architettura: dalla Digital Philosophy alla fine del lavoro].

  

È una banalità dire che viviamo in un'epoca di grandi cambiamenti nel campo delle tecnologie, e che si sta progredendo sempre più verso la miniaturizzazione e la rapidità. Ma ciò che distingue un'epoca storica dall'altra, non sono soltanto le sue tecnologie, ma soprattutto i suoi rapporti sociali. E da questo punto di vista, siamo pressappoco nella stessa situazione del XIX secolo, quando Karl Marx elaborò la sua critica del capitalismo.

Soprattutto, se non intendiamo i rapporti sociali soltanto nel senso del dominio manifesto di una classe di persone - i proprietari dei mezzi di produzione - sugli altri gruppi sociali costretti a vendere la loro forza lavoro, ma, intendiamo con rapporto sociale, anche e soprattutto le categorie di base della società capitalista: il lavoro e il valore, la merce e il denaro. Esse sono delle forme storicamente specifiche che considerano l'attività produttiva umana. Esse non sono naturali e non si trovano in tutte le forme di società, tutt'altro. Dopo una lunga gestazione a partire dalle loro forme embrionali, il lavoro e il valore, la merce e il denaro, il survalore (o plusvalore) e il capitale si sono imposti al centro della vita sociale con la Rivoluzione industriale, e da più di 250 anni queste categorie continuano a estendersi in campi sempre più ampi della vita umana, sia in senso geografico sia all'interno delle società capitaliste, sino allo stadio contemporaneo, in cui non vi è più nessun aspetto della vita che non sia determinato dal lavoro, il valore, la merce, il denaro o le loro forme derivate.

 

Qual è l'aspetto più importante dell'analisi della merce proposto da Marx?

 

Nella società moderna basata sulla produzione di merci, il lavoro ha un doppio aspetto: è allo stesso tempo lavoro astratto e lavoro concreto. Tuttavia, essi non sono due tipi diversi di lavoro, e il lavoro astratto non ha nulla a che vedere con il lavoro immateriale: è una confusione terminologica sistematicamente mantenuta da alcuni autori. Ogni lavoro, indipendentemente dal suo contenuto, ha un lato astratto, e cioè costituisce un dispendio di energia umana misurata dal tempo. Il valore di una merce, come ha dimostrato Marx, non dipende dalla sua utilità, né dal desiderio che essa suscita, ma dalla quantità di lavoro indifferenziato, da lavoro astratto da essa rappresentato. Attraverso gli scambi delle merci, questo valore trova la sua espressione in una merce particolare: il denaro. Nella società capitalista, la produzione dei beni d'uso non è che un fattore certo indispensabile, ma sempre subordinato alla produzione della merce che è la sola finalità di tutto il processo produttivo: il denaro. Ben prima della questione della distribuzione del plusvalore tra i diversi attori della produzione, la società di mercato si caratterizza attraverso questo processo anonimo e automatico di trasformazione di ogni attività concreta in una qualità di valore e denaro.

 

Siamo attualmente in grado di uscire dalla società del lavoro, a causa della tecnologia e dell'automazione che riducono il lavoro a delle parti sempre più ridotte?

 

La risposta è sì e no. Sì sul piano tecnico, no sul piano sociale. Il capitalismo è indissociabile dalla rivoluzione industriale. Dai suoi inizi, si è sostituito il lavoro vivo  con le tecnologie, le macchine. È il meccanismo della concorrenza che spinge, sotto pena dell'eliminazione, i proprietari di capitale a far lavorare i loro operai su delle macchine sempre più efficienti, in modo da poter vendere i prodotti  al prezzi competitivi. Da una parte, questo rinnovamento tecnologico incessante non avvantaggia i lavoratori e la società nel suo insieme. Il filosofo inglese John Stuart Mill, generalmente considerato come un cantore del capitalismo, ammette già, verso la metà del XIX secolo, che nessuna invenzione fatta per risparmiare del lavoro, ha mai permesso a nessuno di lavorare meno - ma soltanto di produrre di produrre di più nella stessa unità di tempo. Anche la riduzione del tempo di lavoro durante gli ultimi due secoli non ha costituito una riduzione del lavoro effettivo, perché si accompagnava generalmente con una intensificazione del lavoro - Henry Ford aveva introdotto per primo la giornata di otto ore nella sua fabbrica, verso il 1914, ma soltanto dopo che gli studi dell'ingegnere Taylor gli ebbero dimostrato che con l'organizzazione scientifica del lavoro si poteva far lavorare di più gli operai in otto ore che in precedenza con dieci.

Ma, in un modo abbastanza paradossale, questa diminuzione del lavoro necessario alla produzione di ogni merce grazie alla tecnologia, se è stata il grande motore dello sviluppo del capitalismo e l'arma con la quale quest'ultimo ha conquistato in estensione e in profondità, è stata anche, sin dall'inizio, il fattore che lo mette più in crisi. Infatti, non è che il lavoro vivo che crea valore. Le macchine non fanno che trasmettere il loro valore, determinato dal tempo necessario alla loro costruzione. La tecnologia non crea nuovo valore. Ogni capitalista, impiegando nuove tecnologie, realizza un profitto supplementare per se stesso, ma contribuisce a far diminuire la massa di valore globale, e dunque a minare il sistema capitalista in quanto tale. È vero che l'aumento della quantità della produzione, così come altri fattori, hanno potuto compensare questa caduta della massa (e non soltanto dei tassi) di valore e di plusvalore; ma la tendenza continua ad operare e i meccanismi di compensazione funzionano sempre più difficilmente. Secondo la scienza economica borghese, il lavoro si disloca semplicemente, e la diminuzione del lavoro nell'industria sarebbe compensata dall'enorme aumento del lavoro nei servizi. Tuttavia, non tutto il lavoro è produttivo, nel senso di contribuire a riprodurre il capitale investito. Seguendo le indicazioni di Marx, si può dimostrare che una gran parte dei servizi, come l'educazione e la sanità, e in generale i servizi pubblici e le attività dello Stato, inclusa la creazione e la manutenzione delle infrastrutture, non aumentano la massa del valore globale, anche se degli attori economici privati possono trarvi del profitto. Questa diminuzione del valore (e del plusvalore) globale non è una semplice deduzione teorica, ma costituisce anche la sola spiegazione possibile del decollo dei mercati finanziari e del credito a partire dal anni 70 del XX secolo, quando la simulazione e il consumo anticipato dei guadagni futuri previsti ha sostituito un'accumulazione reale sempre più assente.


Non è un caso che gli anni '70 abbiano anche visto l'inizio dello sviluppo della microelettronica e della "terza rivoluzione industriale", basata sull'informatizzazione. Allo stesso modo, la riduzione del lavoro vivo su scala globale ha conosciuto un'accelerazione notevole; in molte merci, come i software riproducibili quasi senza sforzo in un numero quasi illimitato di esemplari, la quantità di lavoro "contenuto" è scesa a dosi "omeopatiche". L'affermazione secondo cui il settore terziario sarebbe stato in grado di assorbire la forza lavoro "razionalizzata," diventata superflua nei settori industriali e materiali, è confutata ogni giorno dai tagli massicci dei servizi da parte delle politiche di austerità neoliberali, e più in generale da un tasso di disoccupazione "reale" intorno al 20%. La riduzione del lavoro causata dalla microelettronica non è stata affatto compensata da nuovi prodotti la cui produzione richieda lavoro vivo (come fu il caso dell'industria automobilistica).

Se stiamo assistendo dunque ad un'uscita dalla società del lavoro, questa non è affatto un'uscita pacifica, ma piuttosto un dramma. Eppure l'idea era bella: le macchine avrebbero lavorato al nostro posto. Nella realtà, la forza lavoro è diventata una merce estremamente difficile da collocare sul mercato, ed è ancora più difficile ottenere per essa un prezzo conveniente. E allo stesso tempo, il successo di questa vendita rimane una condizione preliminare per essere un vero membro della società, per essere altro dall'oggetto di una carità pubblica che d'altronde sempre più ristretta. Tocchiamo qui il problema di fondo: nella società capitalistica, il lavoro, indipendentemente dal suo ruolo reale nella produzione, rimane la "mediazione sociale" principale. Il lavoro è ciò che unisce gli individui che, altrimenti sono separati, e definisce il posto di ognuno nella società. Così, la costante diminuzione del lavoro necessario necessario alla produzione di ciò che serve alla vita individuale e collettiva, diminuzione che potrebbe essere una buona notizia, getta invece nella crisi e nel caos il capitalismo, ma sfortunatamente, vi getta con essa anche tutti gli esseri umani che vivono sul pianeta interamente modellato dalla dinamica cieca, distruttrice e autodistruttiva del capitale.

 

Quali conseguenze trarne? 


Non è più possibile, oggi, immaginare una ribellione dal punto di vista del lavoro vivo e dei suoi portatori, nemmeno sostituendo il proletariato classico, dalle mani callose, con il lavoratore informatico o immateriale. In verità, è sempre stato paradossale fare una critica del capitalismo dal punto di vista del lavoro, perché il lavoro è una parte integrante di questo sistema, e non esiste se non là dove esistono il valore e la merce. Presso lo stesso Marx, la critica del lavoro e la critica dal punto di vista del lavoro coesistono in un certo modo, e non senza contraddizioni. Naturalmente, occorre un'attività umana per ottenere dalla natura ciò che è necessario all'uomo, o ciò che egli desidera. Ma nelle società precapitaliste, non esisteva una separazione generalizzata tra ciò che chiamiamo lavoro e le altre attività, come il gioco, il rituale, l'affermazione della comunità. Anche la parola non esisteva. E soprattutto, ogni attività era peculiare al suo scopo. Non è che nella società moderna, capitalista e industriale, che tutte le attività sono considerate senza considerazione per il loro contenuto, per misurarne soltanto il tempo necessario alla loro produzione, e che si vede dunque in un giocattolo e in una bomba soltanto due diverse quantità della stessa sostanza indifferenziata: la sostanza-lavoro che dà il valore. 

 Ciò che è diverso nella società capitalista, è il ruolo sociale del lavoro: esso non è più sottoposto, in quanto mezzo, alle decisioni prese in altre sfere sociali, come il potere politico o la tradizione. È il lavoro stesso a diventare la mediazione sociale universale. Ciò è visibile nel ruolo dell'economia: quest'ultima si emancipa dalla società in seno al quale è nata come sua serva, per mettere, al contrario, tutta la società al suo servizio.

L'antropologo Karl Polanyi ha chiamato questo processo lo "sradicamento" (disembedding) dell'economia. Ciò che noi vediamo attualmente- gli Stati e le popolazioni che guardano ansiosamente le "reazioni dei mercati finanziari", come i segni di collera di una divinità capricciosa ed esigente - non è il risultato di una cospirazione di avidi banchieri che agiscono in collusione con i politici corrotti, ma costituisce lo stadio più o meno finale di questo sradicamento dell'economia di mercato. Uno sradicamento che è tuttavia consustanziale, coestensivo all'economia di mercato stessa e non può essere opposto ad un improbabile "ritorno alla politica" che sarebbe capace di imporre "una maggiore regolamentazione". La politica contemporanea è totalmente impotente se essa non ha dei mezzi finanziari a sua disposizione. Si può immaginare una rottura con l'economia di mercato stessa, ma non si può immaginare di darle una forma molto diversa da quella attuale. Il suo attuale carattere estremamente predatorio, sino all'autodistruzione, deriva dal fatto che essa ha già esaurito tutte le sue altre possibilità di funzionamento.

Difendere il punto di vista del lavoro non significa dunque nient'altro che prendere partito, per quanto concerne la lotta intorno alla distribuzione dei frutti della produzione di valore, per una delle parti che contribuiscono alla creazione di valore. Questa causa può essere moralmente giustificata, perché coloro che vivono della vendita della loro forza lavoro sono in generale più numerosi, e perché traggono un vantaggio minore dalla loro partecipazione a questa creazione. Ma questo conflitto, conosciuto nelle sue forme più antagoniste con il nome di lotta di classe, non conduce, in quanto tale, oltre il sistema basato sul lavoro astratto e valore, merce e denaro, ed ha anche costituito spesso uno dei motori del suo sviluppo.

Si assiste, da almeno due decenni, ad un forte sviluppo di diverse forme di una critica del lavoro. Per molto tempo, promossa soltanto da piccoli gruppi, soprattutto in ambienti artistici, ma odiata da tutti i marxismi tradizionali, ed anche dagli anarchici e dall'estrema sinistra, la critica del lavoro si è diffusa mentre allo stesso tempo si sviluppava in strati sempre più ampi della popolazione, l'opinione di essere diventati veramente "superflui", dal punto di vista dell'economia capitalista. Si possono distinguere due tendenze principali all'interno della critica del lavoro [1].

La prima tendenza mette l'accento soprattutto sul carattere sgradevole della grande maggioranza dei lavori che si è obbligati ad effettuare oggi e afferma che le tecnologie potrebbero liberarci. Si tratta spesso di una specie di elogio della pigrizia o dell'ozio. Si presenta allora frequentemente il ricorso allo Stato sociale come alternativa individuale al lavoro, ad esempio il film Attention, danger travail di Pierre Carles. La valorizzazione morale del lavoro - la sua vera santificazione - ha accompagnato tutta la storia del capitalismo, a partire dall'"etica protestante" e dall'opposizione dei borghesi alle classi oziose degli aristocratici e dei sacerdoti. Ed era spesso portata al suo colmo dal "movimento operaio". La dissoluzione della tradizionale morale del lavoro ha fatto dei progressi stupefacenti negli ultimi anni, presso un vasto pubblico, come dimostra, ad esempio, il successo di un libro come Bonjour paresse [2]. Anche la difesa delle 35 ore e della pensione a 60 anni indica che numerose persone pensano che si può fare di mglio nella vita che lavorare! Più specificamente, nell'universovariegato degli hacker è molto diffusa l'idea che grazie alla tecnologia digitale e alla riproducibilità quasi infinita dei prodotti informatici, si possa accedere ad un'epoca di abbondanza; se questa possibilità non è stata ancora tradotto in realtà, sostengono, ciò è dovuto al dominio politico dei proprietari del capitale - che allora in verità non sarebbero che dei percettori di rendita improduttivi.

In questi ambienti, si ama evocare, riferendosi a un passaggio dei Grundrisse di Marx, un "general intellect", che si troverebbe già oltre la logica del mercato sul piano tecnico e che non aspetterebbe che un intervento politico per emanciparsi dallo strato "parassita" costituito dai proprietari dei mezzi di produzione. Malgrado tutte le sue arie iper-moderne, questa concezione non fa che riprendere gli schemi del marxismo degli inizi del secolo scorso [3]. Vi si trova sempre la stessa fiducia nei benefici del progresso dell'evoluzione delle forze produttive - una fiducia che lascia perplessi. Quanto gli esseri umani non sono più in grado di fare - e cioè, giungere ad un'organizzazione consciente della vita sociale - lo si vuole affidare alle macchine. La rivoluzione digitale è giudicata come in grado di condurre gli uomini verso l'uscita dal capitalismo. In verità, essa ha spinto all'estremo la logica del capitalismo e, soprattutto, ha potentemente posto in crisi la produzione di valore e l'accumulazione di capitale. Ma la crisi non è identica all'emancipazione sociale, e il mondo digitale non costituisce, in quanto tale, un oltre della logica capitalista. Il computer, come strumento tecnico, sostiene tanto poco l'emancipazione sociale quanto la ruota o la stampa. Non è possibile superare il capitalismo in un solo settore, definito dalla sua tecnologia.

Le speranze riposte nella rivoluzione digitale spesso fanno ricorso al concetto di "appropriazione", a cui si associa da un po' di tempo il concetto di "commons", di "bene comune". È vero che tutta la storia, e preistoria, del capitalismo è stata la storia della privatizzazione delle risorse che in precedenza erano comuni, con il caso esemplare delle "enclosures" (recinzioni) in Inghilterra. Secondo una prospettiva ampiamente diffusa, almeno negli ambienti informatici stessi, la lotta per la gratuità, l'accesso illimitato alle risorse digitali è una battaglia che ha la stessa importanza storica - ed essa sarebbe, dopo secoli, la prima battaglia vinta dai sostenitori del la gratuità e dell'uso comune delle risorse.

Tuttavia, questo ragionamento presenta diversi difetti. Innanzitutto, i beni digitali non sono mai dei beni essenziali. Disporre sempre gratuitamente dell'ultima musica o videoclip può essere simpatico - ma il cibo, il riscaldamento e l'alloggio non sono scaricabili, e sono al contrario soggetti a diventare rari e ad una commercializzazione sempre più crescente. Il file-sharing può sembrare una pratica interessante, esso costituisce non di meno che un epifenomeno in relazione alla scarsità dell'acqua potabile nel mondo o al riscaldamento climatico. Si rimane alla fin fine nel quadro di un progetto tecnocratico, paragonabile al ruolo positivo, persino emancipatore che alcuni volevano attribuire negli anni '60 alla cibernetica in quanto pretesa regolatrice dei sistemi sociali, con la promessa di liberarci così dal dominio e dall'arbitrio umani. La proposta di rimettere la regolamentazione dei problemi sociali direttamente alle macchine contiene almeno questa verità involontaria: rende evidente il carattere sistemico e anonimo del dominio nella società di mercato. Una borsa in cui gli scambi sarebbero completamente decisi dai software, e i traders con le loro braccia alzate per aria sarebbero ridotti al livello di accessori folcloristici, e con tutte le catastrofi per gli uomini reali che deriverebbero da queste decisioni automatiche, sarebbe anche l'immagine perfetta del "soggetto automatico" di cui parla Marx per descrivere il valore di mercato.

Per quanto si spingano i limiti scientifici all'espansione del capitalismo sino agli estremi (ad esempio, con gli scambi in borsa alla velocità della luce), si finisce con il cozzare sempre contro dei vecchi limiti: le stesse strutture "metafisiche" della merce, il "feticismo della merce" di cui parla Marx e che fa sì che abbiamo proiettato le nostre forze sociali su degli oggetti da noi prodotti, ma da cui crediamo di dipendere.

L'altra forma di critica del lavoro pone soprattutto il problema del suo ruolo nella società. Non si tratta tanto di sostituire il lavoro vivo con la tecnologia per permetterci di passare il nostro tempo a controllare le macchine ed i computer. Il ruolo stesso della tecnologia nella società non dipende soltanto dalla struttura tecnologica stessa, ma anche dalla società che la crea. Finché esiste la duplice natura del lavoro - concreto e astratto - si lavorerà sempre non per produrre delle cose utili o desiderabili, ma soltanto per aumentare la massa di valore. Si continuerà dunque a produrre non importa cosa, non importa come, come non importa con quali conseguenze, purché ciò possa trasformarsi sul mercato in una somma di denaro. E si lavorerà necessariamente sempre troppo. Mentre è sicuro che le nuove tecnologie possono servire notevolmente per difendere il sistema capitalista contro le conseguenze di anomia che esso stesso produce - basta pensare al rapporto tra le nanotecnologie e la sorveglianza -, nessuna tecnologia può dispensarci dal compito di organizzare in modo diverso la nostra vita sociale.

Non si vuole battere il capitalismo sul terreno della tecnologia. Il filosofo tedesco Günther Anders aveva già parlato, più di mezzo secolo fa, di "obsolescenza dell'uomo": l'immaginazione dell'uomo e la sua capacità di capire le conseguenze delle sue invenzioni non possono evolversi alla stessa velocità degli apparati da esso creati. Anders non aveva ancora visto niente. Ora abbiamo a che fare con delle tecnologie che superano infinitamente la nostra capacità di immaginare concretamente il loro funzionamento e le loro conseguenze. Forse sarebbe meglio lasciar perdere gli apparati che evidentemte non possiamo mai padroneggiare. In compenso, il nostro modo di vivere insieme, di produrre e di distribuire i prodotti, è qualcosa che è del tutto alla nostra portata - ma sembra stranamente essere più lontano dal nostro potere del nanosecondo o il superamento della velocità della luce...

 

 

 

Anselme Jappe

 

 

 

[Traduzione di Massimo Cardellini]

 

 


 

NOTE

 

[1] Le Manifeste contre le travail, publicato la prima volta nel 1999 in tedesco dal gruppo Krisis,

 

 

 

 

 

 

en en traduction française en 2002 (Lignes & Manifestes, ensuite en collection 10/18), se trouvait, d’une certaine manière, à la lisière des deux approches. La scission ultérieure du groupe a, d’une certaine manière, approfondi les contradictions déjà contenues dans ce pamphlet.


[2] Corinne Maier : Bonjour paresse. De l’art et de la nécessité d’en faire le moins possible en entreprise, Michalon 2004.


[3] Anselm Jappe / Robert Kurz : Les Habits neufs de l’Empire. Remarques sur Negri, Hardt et Rufin, Lignes & Manifestes 2003.  

 

 

 

 

LINK al post originale:

Trajectoires du capitalisme: du "sujet automate" à l’automation de la production

 

 

LINK a numerosi saggi pertinenti alla tematica trattata:

Marxismo critico. Wertkritik

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21 ottobre 2012 7 21 /10 /ottobre /2012 19:00

Si può leggere nell'ultimo numero di Grognard  [1] un colloquio tra il vostro servitore e Henri Viltard a proposito del disegnatore Jossot, così come un magnifico testo di Jossot: "En dehors du troupeau" [Al di fuori del gregge]. Henri ha lavorato su Jossot per la sua tesi [2 ] e gli dedica un sito internet ben fatto: Goutte à Goutte.

Questo colloquio è stato realizzato un po' di tempo fa e lo avevo destinato all'inzio per il blog. Vi si parla poco di Jossot disegnatore, ma piuttosto della dimensione filosofica del personaggio. Jossot ha potuto essere considerato come anarchico, nella misura in cui i suoi disegni prendevano vivamente come bersaglio la borghesia, la polizia, la chiesa, l'esercito, ecc. Tuttavia, un po' come Ryner, non ha mai rivendicato quest'etichetta.

 

 

 

peu comme Ryner, il n'a jamais vraiment revendiqué cette étiquette. Plus déroutant, il va se convertir à l'islam, peut-être autant par anticolonialisme (il habitait en Tunisie) que par recherche mystique. Il semble cependant que cet épisode musulman ait été plutôt éphémère. Mais vous lirez tout cela dans Le Grognard (ou sur ce blog quand je mettrai le texte en ligne, ce qui arrivera bien un jour ou l'autre).

On peut quand même donner tout de suite quelques informations sur les relations entre Jossot et Han Ryner, d'autant que nous disposons depuis peu d'éléments nouveaux.

*

Il y a des convergences indéniables entre les deux hommes : ce sont tous les deux des individualistes, des « en-dehors » ; aucun des deux n'est tombé pendant la guerre dans le piège de l'« union sacrée » ; tous deux sont antidogmatiques y compris par rapport à d'éventuels dogmes révolutionnaires ; tous deux sont anticléricaux tout en restant attirés par la quête métaphysique, le mystère au sens spirituel... Et ils ont été collègues de plume au moins dans deux périodiques, Le Bonnet rouge et Le Journal du Peuple.

On ne sait pas s'ils se sont rencontrés, mais ils ont correspondu, au moins épisodiquement, à la fin des années 20, début des années 30.

Le point de départ de leurs échanges a probablement été l'envoi par Jossot à Ryner de sa brochure Le Sentier d'Allah, publiée à compte d'auteur en 1927 et dans laquelle il raconte sa conversion à l'islam et son initiation au soufisme. Henri Viltard a en effet retrouvé un exemplaire de l'ouvrage dédicacé ainsi à Ryner :

A Han Ryner / dont la pensée, malgré les apparences, / est sœur de la mienne. / Abdou-l'-Karim Jossot.
Document aimablement communiqué par Henri Viltard

Cet envoi devait être accompagné d'une lettre dans laquelle Jossot évoquait son intention de publier un nouveau texte, L'Evangile de l'inaction.

Ryner lui a alors proposé de parler de ce texte à José Almira, le directeur des éditions Radot (3). Nous en avons l'assurance par une lettre de Jossot à Ryner, dénichée par Henri (voir ici) et datée du 4 avril 1927. Jossot écrit :

Pardon de vous assommer avec ma prose, mais l'offre que vous me faites de parler de mon évangile de l'inaction à monsieur Almira est trop aimable pour que je ne vous en remercie pas.

Il précise :

Cette brochure, toute différente du Sentier d’Allah, peut sembler un ramassis de paradoxes ; en mon esprit elle est une protestation contre l’agitation moderne.

Notons que la même lettre se termine par ces mots :

Encore une fois tous mes remerciements et mes regrets de ne pas être entré en relation avec vous plus tôt, alors que j'habitais encore Paris.

Tout cela nous conforte dans l'idée que l'envoi du Sentier d'Allah marque le début des relations entre Jossot et Ryner.

Au dos de la lettre, figure quelques notes fort peu lisibles de la main de Ryner, desquelles il ressort qu'il a effectivement dû proposer à Almira le texte de Jossot, ainsi que d'autres manuscrits d'amis (Louis Prat et Ludovic Réhault). Ces démarches ont sans doute été suivies d'effets pour Prat et Réhault que l'on retrouve au catalogue de Radot, mais ce ne fut pas le cas pour le texte de Jossot (4).

« L'Evangile de l'inaction », bientôt rebaptisé « L'Evangile de la paresse », figurera finalement dans Le Fœtus récalcitrant, édité lui aussi à compte d'auteur, en 1939 seulement.

La lettre du 4 avril 1927 apporte des précisions concernant ce texte:

En notre époque où l’on ne songe qu’à gagner de l’argent elle sera considérée comme l’élucubration d’un vieux fou. Tant mieux : lorsque les agités nous décernent un brevet de folie c’est que nous sommes près de la sagesse. Nous vivons en une époque où les penseurs sont obligés de se replier sur eux-mêmes et où ceux qui aiment l’Humanité ne savent pas si leur amour est plus fort que leur dégoût.

Dans l'entretien du Grognard, Henri nous donne un extrait de l'opuscule :

Quelle folie que l’agitation ! Quelle erreur de la considérer comme la Panacée qui guérira le monde ! Toujours et partout nous nous heurtons à cette horripilante manie ; elle nous interdit de vivre la vie naturelle, le doux état primitif où l’on avait qu’à cueillir les fruits pour se nourrir.

Il est vrai que ce geste constitue un effort ; mais ce n’est pas un effort pénible, non plus que construire une cabane pour s’abriter ou tisser des étoffes pour se vêtir.

Ces « travaux » si tu tiens à les dénommer ainsi, feraient partie intégrante de notre existence : ils seraient une distraction, un repos pour l’esprit. Avec joie, avec amour nous les accomplirions ; mais nous laisser abrutir par des besognes fastidieuses, inutiles, avilissantes, malsaines ou dangereuses, cela c’est le mal : nous devons nous y soustraire.

Ce n’est pas facile, je le reconnais, en la charmante civilisation dont nous jouissons ; mais plus on se détache des besoins qu’elle nous a créés, plus on peut se passer d’argent.

Les mets succulents, les vêtements à la dernière mode, les autos confortables, les appartements luxueux ne constituent pas une richesse : en les possédant tu restes un pauvre bougre, tandis que si tu limites tes besoins au strict nécessaire, tu deviens plus riche que Crésus.

On voit bien la convergence avec la sagesse épicuro-stoïcienne exposée par Ryner, dans le Petit manuel individualiste notamment :

Quand nous serons capables de mépriser pratiquement tout ce qui n'est pas nécessaire à la vie ; quand nous dédaignerons le luxe et le confortable ; quand nous savourerons la volupté physique qui sort des nourritures et des boissons simples ; quand notre corps saura aussi bien que notre âme la bonté du pain et de l'eau : nous pourrons avancer davantage [vers le bonheur].

On retrouve d'ailleurs dans un article de Jossot récemment mis en ligne par Henri des formulations extrêmement proches de celles qu'utilise Ryner dans le Petit manuel :

Elle nous dicte certains devoirs, entr’autres celui d’aimer tous les êtres vivants : elle nous apprend aussi à supporter les horreurs de la civilisation avec stoïcisme et indifférence, car ces horreurs appartiennent au-dehors et ne doivent pas affecter notre raison.

L’individualisme nous montre que l’humanité ne progresse pas moralement et que les progrès matériels qu’elle a réalisés n’ont servi jusqu’ici qu’à nous rendre l’existence plus difficile en nous créant des besoins nouveaux.

[...]

Le sage n’attache aucune importance aux formes gouvernementales et ne fait point appel au pouvoir pour obtenir des adoucissements à sa vie non plus qu’à celle de ses semblables : il sait que l’injustice sociale est indestructible ; mais il s’efforce, autant que cela lui est possible, de réparer les injustices particulières.

S’il constate son impuissance devant la tyrannie, il s’interdit, du moins, d’être un tyran et refuse d’exercer certaines fonctions rétribuées par le gouvernement et qui l’obligeraient à emprisonner, à condamner ou à tuer.

L'article date de 1930, et on a vraiment l'impression d'une paraphrase ou d'un résumé, peut-être un peu brutal, du Petit manuel. Je pense qu'il y a au moins chez Jossot réminiscence.

En tout cas, l'on comprend bien pourquoi Jossot écrit encore à Ryner dans la lettre du 4 avril 1927 :

Etre compris par vous seul me dédommagerait amplement d’être vilipendé par la foule.

*

Tout ce que je viens d'exposer, nous le savions au moment où l'entretien a été réalisé. En revanche nous ignorions si la correspondance entre Ryner et Jossot s'était arrêtée là, ou avait pu se poursuivre.

Daniel Lérault et moi avons pu retrouver récemment deux nouvelles lettres de Jossot, datant de 1930.

La première est datée du 15 décembre 1930. Elle commence par « Cher ami », alors que l'épistole du 4 avril 1927 débutait par « Cher monsieur ». On peut donc supposer que les relations Jossot/Ryner n'ont pas été nulles pendant les quelques années qui séparent les deux envois, et qu'au contraire elles se sont approfondies.

Jossot propose à Ryner de collaborer à une revue nommée L'Appel au cœur qu'il compte créer. J'ai demandé à Henri s'il avait des informations sur cette revue, mais il en ignorait jusqu'à présent l'existence. Sur ce projet, réalisé ou non, voici donc ce que Jossot en dit lui-même 

Je veux essayer d'élever les individus au-dessus de la haine en leur montrant le Beau, le Bon, le Vrai. Utopie, n'est-ce pas ? mais ça vaut mieux qu'aller au dancing. En tout cas cet essai de compréhension et de fraternisation est à tenter en ce pays où sévissent, plus que partout ailleurs, la haine et la discorde. (haine de races, conflits d'intérêts, etc. etc.)

De ma revue seront rigoureusement bannis les sujets qui divisent les hommes (politique, religion, etc.) mais les articles de philosophie, sociologie, littérature, etc. seront accueillis avec gratitude surtout s'ils sont imprégnés de bonté et de fraternité.

Coll. Archives des Amis de Han Ryner

Par la seconde lettre, datée du 25 décembre 1930, on apprend que Ryner a décliné l'offre mais autorise la reprise de ses textes :

Je regrette que vos travaux ne vous permettent pas de collaborer à « l'appel au cœur ». Je compte profiter de votre autorisation pour donner quelques coups de ciseaux dans votre œuvre.

Je ne me fais aucune illusion en entreprenant mon apostolat : je sais que les brutes ne sont pas transformables ; mais quelques consciences sont égarées parmi elles et c'est à ces consciences que je m'adresserai.

Jossot remercie également Ryner pour l'envoi de son dernier ouvrage, Crépuscules, et témoigne de son admiration pour Elisée Reclus, qui est l'un des personnages dont Ryner romance la mort dans ce livre. Il indique enfin qu'il a lu des ouvrages de Louis Prat.

Au sujet de Crépuscules, il écrit 

j'y ai retrouvé votre philosophie souriante que devraient posséder tous ceux qui, comme nous, approchent du trou-terminus.

On retrouve l'emploi de ce terme de « trou-terminus » par Jossot dans l'extrait de ses mémoires, Goutte à Goutte, que l'on peut lire sur le site d'Henri. Jossot, né en 1866, arriva au trou-terminus en 1951. Ryner le précéda de 13 ans, mais nous ne savons pas quelles ont pu être leurs relations entre 1930 et 1938.

*

En dehors de la reproduction de la lettre du 15 décembre 1930 et de la dédicace du Sentier d'Allah, les autres images sont reprises du site d'Henri Viltard, dont je vous recommande à nouveau la visite.

Henri a préparé une édition annotée de la correspondance de Jossot, édition qui n'attend... qu'un éditeur. En attendant, on peut en lire quelques extraits ici.

En revanche, un ouvrage sur Jossot (signé Henri Viltard, of course) devrait être publié en 2010, et la même année nous pourrons visiter une exposition à lui consacrée !

 

 

Notes

(1) Ce numéro du Grognard contient par ailleurs et entre autres un conte féroce et jouissif de Fabrice Petit ("Dessus, Dessous") et un article de Guyseika qui m'a bien plu : "Vive la mort !" — rien à voir avec le délicat slogan franquiste, heureusement, il s'agit là d'une réflexion autour des promesses biotechnologiques de prolonger radicalement la durée de la vie des individus.

(2) Jossot et l’Epure décorative (1866-1951). Caricature entre anarchisme et islam, thèse d'Histoire de l'art, soutenue à l'EHESS le 10 décembre 2005) — cf. ici.

(3) La Vie éternelle et L'Amour plural ont été édités chez Radot. Et Ryner a préfacé un livre de José Almira : Rires de marbre.

(4) En consultant le catalogue de la BNF, on s'aperçoit que l'activité des éditions Radot est presque toute entière concentrée sur les années 1926-1928. Peut-être la publication du texte de Jossot a-t-elle été envisagée, mais n'a pu aboutir du fait des difficultés de l'éditeur.

 

 

LINK al post originale:

http://hanryner.over-blog.fr/article-jossot-et-han-ryner-37927653.html

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10 ottobre 2012 3 10 /10 /ottobre /2012 05:00
Storia della bandiera rossa
bandiera-rossa.jpg

di Pierre Souyri


Maurice DOMMANGET, Histoire du drapeau rouge des origines à la guerre de 1939 [Storia della bandiera rossa dalle origini alla guerra del 1939], Parigi, 1967, Librairie de l’Étoile, 502 pp.


Il libro di Dommanget è il risultato di molto lavoro; perché non era un piccolo compito quello di rintracciare, attraverso migliaia di manifestazioni e di scioperi, la storia dell'adozione dello stendardo rosso da parte del movimento operaio. Esistevano su questo argomento degli studi parziali, di cui alcuni sono dovuti allo stesso Dommanget, ma non anche degli studi sistematici e generali; e Dommanget avrà l'occasione di rettificare non pochi errori di dettaglio commessi dai suoi predecessori.

Dommanget non si è limitato di fare, con molta erudizione, un vasto censimento degli episodi e degli eventi nel corso dei quali la bandiera rossa compare e a mostrare che quest'ultimo, nel corso delle fasi di radicalizzazione del movimento operaio, tende a far scomparire le bandiere nazionali che riappaiono, al contrario, nelle manifestazioni operaie, quando gli antagonismi sociali si affievoliscono. Ha mostrato - ed è senz'altro l'aspetto più interessante del suo libro - che lo stesso significato della bandiera rossa ha una storia.

È inutile tentare di far risalire l'origine della bandiera rossa all'insurrezione di Spartaco o alle sollevazioni contadine (jacqueries) del XIV secolo. È nella Rivoluzione francese che si trovano le sue vere origini: un drappo rosso è allora issato dalle autorità municipali - in applicazione di una legge del 21 ottobre 1789 - per ingiungere ai raggruppamenti popolari di dover disperdersi quando l'ordine sociale è giudicato minacciato. Lo stendardo rosso che è allora odiato dagli strati popolari come il simbolo della repressione borghese, comincia a cambiare di campo dopo il 10 agosto 1792: in certi ambienti rivoluzionari l'idea appare, per un momento, di aborrirla come segno di repressione delle misure contro-rivoluzionarie. Ma è soltanto più tardi che, lentamente, tra il 1830 e il 1848, è adottata dalle società rivoluzionarie e le classi lavoratrici, non più per significare una volontà di terrorizzare l'avversario e di tornare al 1793, come crede la borghesia, ma come segno della potenza popolare e delle aspirazioni alla giustizia sociale e alla riconciliazione dei popoli. Lo sviluppo del movimento operaio in Europa poi negli altri continenti, la formazione delle internazionali socialiste e le prime rivoluzioni nproletarie ne faranno altro che precisare la simbolica dello stendardo rosso, di cui l'essenziale era già stabilito nel 1848. 

A mano a mano che si è popolarizzata, la bandiera rossa, si è tuttavia caricata di un'enorme potenza emotiva. Suscita presso la borghesia, che non smetterà mai di vedervi un simbolo sinistro di sangue e di caos, dei sentimenti di orrore e di odio, e occorreranno innumerevoli polemiche affinché i manifestanti operai possano assicurarsi il diritto di dispiegarla senza esporsi a delle persecuzioni giudiziarie. All'opposto, lo stendardo rosso, e il colore rosso stesso, suscitano presso i militanti socialisti dei sentimenti che vanno a volte sino ad una adorazione feticistica. Non esistono soltanto le pagine ditirambiche, di Vallès e di Gorki ad esempio, sulla bandiera rossa e degli inni che le sono state dedicate in alcuni paesi, e di cui Dommanget fornisce la traduzione in appendice al suo libro... l'idolatria del rosso ha assunto a volte degli aspetti sbalorditivi, come testimoniano alcuni banchetti in cui erano rossi anche la tovaglia, i tovaglioli, i piatti, i boccali di vino, i pomodori, i gamberi, i filetti al sangue, ecc. È evidente che il movimento operaio ha spesso assorbito delle mentalità e dei comportamenti ripresi dal campo religioso e dai nazionalismi: lo stile delle cerimonie organizzate dallo Stato sovietico lo mostra chiaramente.

Ma come mai in fin dei conti, il proletariato ha adotatto la bandiera rossa preferendola ad ogni altra e soprattutto alla bandiera nera che, sin dalla monarchia di luglio, è apparsa nella regione di Reims, poi a Lione, come emblema della rivolta operaia, per non più essistere infine che unita al rosso negli stendardi dell'anarco-sindacalismo spagnolo, e non del P.O.U.M. come sostiene, erroneamente, Dommanget? La simbolica dei colori fornisce i primi elementi di una risposta: il colore dei lutti e delal disperazione, il nero, non poteva senz'altro non espriemere tanto quanto il rosso ciò che il movimento operaio teso all'avvenire portava in sé di ottimismo e di volontà costruttiva. Ma si dovrebbe anche, per conseguire una vera spiegazione, riuscire a render conto di questa simbolica dei colori stessa e per questo, come suggerisce Dommanget, procedere ad una esplorazione, che resta da intraprendere, dell'inconscio collettivo delel masse popolari.

 

 

Pierre Souyri

 

 

[Traduzione di Ario Libert] 

 

 

LINK al post originale:

Histoire du drapeau rouge

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5 ottobre 2012 5 05 /10 /ottobre /2012 09:00

Valentin Gonzalez "El Campesino"

campesino1.jpgL'uomo che vinse la morte in Spagna e in URSS


Introduzione di Julian Gorkin a La Vie et la mort en U.R.S.S. [La vita e la morte in URSS], Parigi, 1950. Il libro è disponibile in rete in formato PDF in inglese.

 

Un uomo, uno Spagnolo da leggenda, è riuscito in questa doppia impresa: sopravvivere alle peggiori persecuzioni nella Russia stalinista e evadere, dopo un primo tentativo senza risultato, da ciò che egli ha chiamato "la più vasta e infernale prigione totalitaria del mondo". Quest'uomo è Valentin Gonzalez, conosciuto con il nome di El Campesino, primo commandante comunista durante la guerra di Spagna.


Immagino che tutti coloro nel mondo intero - in primo luogo i comunisti e i vecchi combattenti delle Brigate internazionali - che lo credono morto e sepolto da molto tempo, saranno sorpresi nell'apprendere che egli è ancora in vita. Soltanto un uomo come lui, di una resistenza fisica e morale a tutta prova, di una risoluzione indomabile, poteva riuscire in quest'impresa. Soltanto l'uomo che, per due volte, seppe vincere la morte in Spagna, morte annunciata ufficialmente due volte, poteva vincerla una terza volta in URSS in condizioni ancora più difficili. Io che conosco oggi tutti i dettagli di quell'evasione, posso affermare che è questo un caso unico in un'epoca eppure così ricca di vite prodigiosamente drammatiche.

Avrei potuto annunciare la notizia di quest'evasione alcuni mesi fa, ma ho aspettato a farlo che egli fosse al sicuro. Coloro che conoscono i mezzi di cui dispone e i metodi impiegati dalla sinistra GPU- ieri N.K.V.D., oggi M.V.D. – per sbarazzarsi dei suoi avversari di rilievo (ci si ricordi come essa soppresse Ignace Reiss, Krivitsky e Trotsky) capiranno le precauzioni che occorreva prendere.

Prima di lasciargli la parola, credo necessario abbozzare rapidamente la sua biografia. Ne circolano numerose, piene di inesattezze: una dello scrittore americano Hemingway e un'altra, del tutto fantasiosa e adatta alle necessità della propaganda comunista, di Ilya Ehrenburg, senza contare quelle scritte dai franchisti, di cui era la bestia nera. Non si tratta per me, che fui suo avversario e rischiai di essere anche sua vittima [1], di discolparlo dai suoi errori passati, cosa che egli d'altronde non accetterebbe, ma di presentarlo così come è: una delle figure più bizzarre della nostra epoca.

campesino.jpg


L'eterno ribelle

 

L'Estremadura è una delle regioni più arretrate della Spagna; votata quasi del tutto all'agricoltura e all'allevamento; essa conta quasi il 65% di analfabeti. Comprende vasti terreni e territori incolti, dove vivono masse di contadini senza terra e a volte anche senza pane, il che spiega il loro tradizionale spirito di ribellione. La dura lotta lotta quotidiana contro una terra ingrata, di cui una gran parte è occupata da montagne brulle, semi selvagge, creata da uomini rudi, energici, risoluti e ostinati. I contadini dell'Estremadura non sanno né leggere né scrivere, ma possiedono in generale una forte personalità. Hernán Cortés, che conquistò il Messico, era originario dell'Estremadura, così come Pizarro, il conquistatore del Perù. Ed è ancora nell'Estremadura che è nato Valentin Gonzalez, in un villaggio sperduto e da una famiglia molto umile. Al tempo della conquista, sarebbe stato senza alcun dubbio un capitano avventuroso, capace di grandi imprese. Nato nel primo decennio di questo secolo, è stato un grande ribelle e uno dei più audaci comandanti della geurra civile. Uomo senza grande cultura, possiede tuttavia una viva intelligenza naturale, una memoria stupefacente, uno spirito di decisione e un'astuzia straordinaria. Senza questi doni eccezionali, una tale vita sarebbe stata inconcepibile.

Suo padre, di origine contadina, lavorò alla costruzione di strade e, più tardi, nelle miniere di Peñarroya. Più per convinzione dottrinale o filosofica, era anarchico per istinto; era in realtà un ribelle nato. Questo tipo di anarchico abbonda in Spagna, soprattutto negli ambienti operai della Catalogna e tra i contadini dell'Andalusia e dell'Estremadura. Tipo primario e anche primitivo, avido d'azione diretta, ma animato da un ardente desiderio di giustizia e da uno spirito di sacrificio e di solidarietà a tutta prova. Durante l aguerra civile, doveva essere uno dei capi dei guerriglieri dell'Estremadura. Fatto prigioniero con una delle sue figlie, i falangisti li impiccano senza processo. Per un'intera settimana i loro cadaveri rimasero l'uno accanto all'altro con dei cartelli che li segnalavano come il padre e la sorella di El Campesino.

È all'età di quindici anni che Valentin Gonzalez comminciò la sua attività sindacale. Arrestato per aver preso, durante il corso di uno sciopero, la difesa dei contadini, la polizia lo soprannominò El Campesino, che significa "il contadino". Non è esatto, come è stato detto, che questo soprannome gli fu dato dagli agenti russi all'inizio della guerra civile allo scopo di guadagnargli la simpatia dei contadini. Nel 1925, all'età di 16 anni, durante uno sciopero dei minatori a Peñarroya, lanciò una bomba su una stazione della polizia, uccidendo quattro guardie civili. Bisogna conoscere il profondo odio del popolo spagnolo nei confronti di questa istituzione poliziesca per spiegarsi un fatto del genere. Suo padre gli aveva detto: "Se un giorno ti dovrai nascondere, va in montagna. Il denaro, la civiltà, le donne ti tradiranno, la montagna mai". È sulla montagna che un tempo si nascondevano i banditi d'onore. È sulla montagna che andò a nascondersi Valentin Gonzalez in compagnia di un altro giovane terrorista; essi vi vissero come dei banditi per alcuni mesi. Arrestati durante una loro discesa a valle e sottoposti ad atroci torture, il suo compagno perì, ma lui, più forte e più risoluto, sopravvisse. Per alcuni mesi, rimase incarcerato alla prigione di Fuenteojuna, il villaggio immortalato da Lope de Vega. Gli anarchici detenuti con lui contribuirono alla sua formazione politica, mentre i contadini della regione gli portavano dei viveri in prigione. Quando ne uscì, andò a vivere illegalmente a Peñarroya, come capo di un gruppo di pistoleros.

El_Campesino02.jpg

El Campesino alla guida delle sue truppe alla battaglia di Brunete


Il popolo spagnolo, che doveva lottare durante i trentadue mesi della guerra civile contro la reazione interna sostenuta dal nazi-fascismo europeo, era violentemente ostile all'esercito della monarchia, ed è per questo, che sin dall'inizio della guerra el Marocco, esso adottò nei suoi confronti un atteggiamento di opposizione. Giunto in età di servizio militare, non è strano che El Campesino manifestasse lui stesso le sue opinioni antimilitariste. Appena arruolato,disertò. Arrestato e condotto a Siviglia in compagnia di altri disertori, evase di nuovo. Ripreso, fu imbarcato, manette alle mani, per Ceuta, da cui fu condotto a Larache. Un sergente che lo aveva schiaffeggiato davanti agli altri soldati, quest'ufficiale, noto per la sua brutalità, fu ritrovato morto alcuni giorni dopo. A Larache, fece conoscenza con un soldato comunista che lo convertì alle sue idee. Si mise sin da allora a rubare dei prodotti all'intendenza, la cui vendita gli servì per sostenere la pubblicazione di un foglio antimilitarista. Disertò una terza volta e visse tra i Berberi fin quando un'amnistia gli permise di tornare a Madrid, dove, nel 1929, aderì ufficialmente al partito comunista.

 

La morte nelle mani

 

È a Mosca che Lister e Modesto, gli altri due principali comandanti comunisti della guerra civile, avevano fatto la loro formazione politica e militare. El Campesino, lui, era una creazione diretta del popolo spagnolo: si comportò più come un capo guerrigliero che come un militare disciplinato. Sin dall'inizio della guerra civile, organizzò di sua propria iniziativa un battaglione di miliziani, i cui effettivi crebbero rapidamente sino a formare una brigada, poi una divisione, la famosa 46a divisione d'urto, che doveva portare durante tutta la guerra il nome del suo creatore. Quando Mosca decise, due mesi dopo lo scatenamento delle ostilità, di intervenire negli affari della Spagna, i suoi agenti e i suoi esperti militari, consci del valore di questo guerrigliero e dell'influenza che egli esercitava sui suoi uomini, lo riconobbero come uno dei principali capi militari, malgrado il suo carattere anarchico e i suoi ripetuti atti di indisciplina. Essi vedevano in lui lo Ciapaiev della guerra civile spagnola. Se fosse vissuto in Messico, all'epoca della rivoluzione anti-porfirista, avrebbe svolto il ruolo di un Zapata o di un Pancho Villa. Ha, infatti, con questi ultimi molti più punti comuni che con il famoso capo dei partigiani russi. Ma, desiderosi di di nascondere l'aiuto generoso e disinteressato del Messico e di combattere i sentimenti di amicizia che provava il popolo spagnolo per quest'ultimo paese, gli agenti di Mosca crearono intorno a lui la leggenda di uno Ciapaiev spagnolo.

Se si dovesse fare eccezione del fronte del Nord, El Campesino combatté su tutti i fronti della guerra civile. Lo si vedeva comparire dappertutto dove c'era da realizzare un'operazione difficile o ristabilire una situazione disperata. Dava l'impressione di un pazzo eroico; si salvava dai peggiori pericoli quasi per miracolo, senza lasciarsi fermare da nulla e senza esitare sul prezzo da pagare. Acquistò così una fama quasi sinistra, non soltanto presso il nemico, ma tra i settori del campo repubblicano ostili allo stalinismo. E mi spiega oggi con un gesto d'amarezza: "L'Ufficio politico e gli agenti di Mosca che controllavano del tutto il famoso Quinto reggimento, commisero e fecero commettere le peggiori atrocità, di cui in seguito facevano ricadere su di me la responsabilità. Si voleva circondarmi di un aureola di terrore, non soltanto sul fronte, ma anche dietro. Sapevano che avevo spalle forti e che potevo sopportare di tutto".

È esatto. Non è meno vero che trascinato dalla sua passione e dal suo fanatismo, commise egli stesso numerosi eccessi. Tutti coloro che hanno assistito o partecipato ad una guerra civile sanno quanto sia facile uccidere e farsi uccidere durante queste epoche in cui la passione collettiva - una specie di follia demoniaca che non conosce freni - domina tutto. Fu il caso della Spagna  forse come in nessun altra parte. Lo Spagnolo è per natura allegro, cordiale, generoso, ospitale, e tuttavia ha in se stesso, come nessun altro popolo, il sentimento tragico della vita e il disprezzo della morte. Si scambia ciò per una fanfaronata, ma è qualcosa di molto più profondo. Questo popolo ha abitudine di dare tutto, di rischiare tutto, di sacrificare tutto con una generosità e un disinteresse assoluto. Quando la sua passione si scatena, è capace di tutto. El Campesino è il prototipo per eccellenza di questo popolo. Per tutta la guerra civile, portò letteralmente la morte tra le sue mani. In tali epoche si direbbe che sono le mani stesse che, senza l'intervento della coscienza, prendono l'abitudine di uccidere. El Campesino era il solo in questo caso? Ve n'erano altri come lui, che, in tempi normali non sarebbero stati capaci di uccidere nemmeno una mosca. A vederlo, ci si meraviglia quasi che abbia potuto svolgere un ruolo sanguinario. Egli è infatti semplice, bonario, e dà anche a volte l'impressione di un timido. I responsabili del grande dramma non furono coloro che scatenarono la tormenta contro la legge e la giustizia? I crimini da loro commessi non superarono in orrore tutto quanto fu fatto in campo repubblicano? I crimini del franchismo non possono essere paragonati che a quelli commessi dallo stalinismo in nome di una politica estranea agli interessi e aspirazioni del popolo spagnolo. È questo che capì più tardi, in URSS, El Campesino. E è questo ora il suo grande dramma personale.

Le imprese militari di El Campesino sono legate alle principali operazioni della guerra civile. Conquistò il famoso Cerro de los Angeles, il che impedì al nemico di conquistare Madrid. La stampa comunista attribuì questa impresa a Lister. Ma quest'ultimo, in realtà, perse la posizione e si ritirò a Perales de Tajuna, dove si consolò della sua sconfitta con un'orgia. El Campesino combatté a Somosierra, a Segovia, a Caravita, a Guadalajara, in Andalusia, in Estremadura, sul fronte di Levante, in Aragona, sull'Ebro, in Catalogna... Fu a Madrid quando Miaja credeva che tutto era perso. Dormìn al palazzo d'Oriente nel letto di Alfonso XIII. Installò il suo posto di comando all'Escorial, poi al Pardo, la residenza attuale di Franco. Con un piccolo gruppo di fanatici, si impegno in un colpo di mano audace su Lerida, dove fece prigioniero un colonnello franchista e il suo stato maggiore. Fu ferito undici volte e più di una volta gravemente. Dopo al presa, poi la perdita di Teruel, vi rimase chiuso per cinque giorni. Poiché i soldati franchisti gridavano ai soldati repubblicani che El Campesino era stato ucciso, egli accorse immediatamente sulla linea di fuoco, salì in cima ad una casa in rovina e, a corpo scoperto, gridò ai soldati di Franco che potevano sincerarsi da sé che era ancora ben in vita. Essi lo guardarono ipnotizzati, e nessuno di loro ebbe la prontezza di spirito di sparargli. Infine, riuscì a sfuggire, non senza perdere il suo aiutante in campo e più di mille uomini, dopo un corpo a corpo accanito che durò più di cinque ore. Tutti lo credevano perso. Franco annunciò che lo teneva prigioniero e presentò ai giornalisti il suo mantello coperto di sangue. Era in realtà quello del suo aiutante in campo, mortalmente ferito, che egli aveva portato sulle sue spalle nella speranza di salvarlo. Il governo repubblicano inviò un telegramma a sua moglia in cui le annunciava ufficialmente la morte di suo marito... Quando in piena notte, El Campesino chiamò per telefono Prieto, allora ministro ella Difesa nazionale, quest'ultimo poté a malapena credere alle sue orecchie.

Come sempre, al dramma si unì un elemento comico. El Campesino e il suo amico, il colonnello Francisco Galan, avevano giurato durante i primi giorni della guerra civile che non avrebbero rimosso un solo pelo della loro barba sino al giorno del loro ingresso a Burgos, capitale dei franchisti. Vedendo quest'evento rinculare in una prospettiva sempre più lontana, Galan decise infine di radersi. El Campesino vollel imitarlo. Egli fu però convocato all'Ufficio politico del partito comunista spagnolo, dove, in presenza dei delegati di Mosca, glielo si impedì formalmente. Era una barba leggendaria, gli dissero; è con questo ornamento che lo si conosceva in Spagna e nel mondo intero; toglierla sarebbe stato tradire. Uno dei delegati russi gli disse anche: "Questa barba non ti appartiene; essa appartiene al popolo spagnolo, alla rivoluzione e all'Internazionale comunista. Tu devi conservarla per disciplina". E per disciplina egli la conservò. Si voleva manifestamente far nascere la credenza che la sua forza risiedeva nella sua barba, come quella di Sansone nella sua capigliatura.

Fu l'ultimo a lasciare la Spagna, quando era già, dopo la sconfitta del fronte del Centro, interamente nelle mani dei franchisti. Tutti i capi comunisti erano fuggiti con gli aerei tenuti pronti per l'evenienza. Gli aiutanti di campo di El Campesino, che si trovavano con lui  a Valencia, capirono che tutto era perso e che la resistenza alla quale voleva impegnarsi il loro capo non sarebbe stato che un eroico ma vano suicidio. Essi si gettarono su di lui, lo legarono ad una poltrono e gli tagliarono la barba, che essi nascosero sotto un tetto promettendo do tornare a cercarla un giorno. Armati sino ai denti, essi riuscirono ad uscire da Valencia in una potente automobile e ad attraversare tutte le province del Levante e una parte della Spagna del Sud, sino a un piccolo porto di pesca situato tra Almeria e Malaga, non senza lasciare sul loro passaggio alcuni cadaveri di falangisti.

Sia a causa della sua poca importanza, sia in seguito alla confuzione che regnava allora, il villaggio era ancora amministrato da un commissario socialista che si chiamava Benavente. Quest'ultimo li nascose in casa sua. La notte stessa che seguì il loro arrivo, i franchisti presero possesso del villaggio e della casa dove si tenevano nascosti i fuggischi. Non potevano sospettare che, in una stanza attigua alla loro, si trovavano il famoso El Campesino e i suoi intendenti di campo. Tuttavia la loro presenza nella regione era segnalata dalla radio franchista, che inviava senza sosta degli ordini affinché fossero catturati ad ogni costo. Questi ordini giungevano alle orecchie dei fuggiaschi, così come i commenti del commissario franchista 

 

 

 


du commissaire franquiste, de sa femme et de ses collaborateurs. À un moment donné, ils sortirent de leur cachette, tuèrent tous ceux qui se trouvaient dans l’appartement et gagnèrent le port, où ils s’emparèrent du meilleur canot automobile. Au cours de cette fuite, la femme de Benavente fut tuée. Plusieurs canots furent lancés à la poursuite des fugitifs, qui se sauvèrent en direction de Melilla; en cours de route, ils rencontrèrent une barque de pêche, dont ils réquisitionnèrent le combustible, et, longeant la côte de l’Afrique du Nord, parvinrent jusqu’à Oran. Pour la deuxième fois, El Campesino échappait à une mort déjà annoncée dans le monde entier.

«J’ai défié la mort à chaque pas, d’abord en Espagne, puis en U. R. S. S. C’est sans doute à cela que je dois le miracle de vivre et celui, plus extraordinaire encore, de m’être évadé de l’enfer soviétique. »

Il a dit cela avec orgueil, avec énergie. J’ai rarement vu des yeux comme les siens: aussi lumineux, aussi acérés et pleins de résolution. Ses cheveux sont noirs, crépus, et ses sourcils touffus lui donnent un air d’obstination. Ses traits, typiquement espagnols, accusent son origine arabe. Il est de taille normale, plutôt au-dessous de la moyenne. Son corps n’est pas vigoureux, mais bien proportionné, et il semble avoir dés nerfs d’acier. Quelle extraordinaire vitalité que la sienne! C’est une vraie force de la nature, un produit typique dé la terre espagnole. J’ai fait un long-voyage pour passer quinze jours avec lui. Quand il s’évada, il était faible et amaigri, mais sa vitalité a repris le dessus et il s’est rétabli rapidement. Les trois premiers jours, je l’ai laissé parler presque sans l’interrompre; il y avait si longtemps qu’il n’avait pu s’exprimer dans sa langue maternelle, se confier à quelqu’un ! Il ne peut presque pas tenir en place ; il va et vient nerveusement, gesticule et explose en imprécations indignées; on dirait qu’il a besoin de casser quelque chose.

Enfin il se rassied et poursuit: "J’ai payé terriblement cher ma liberté : mon père et ma sœur pendus quelques mois après le commencement de la guerre civile; mon frère cadet, qui s’était battu comme un lion, fusillé à la fin de la guerre. Je ne comprends pas comment, étant mon frère, il a pu se laisser prendre vivant. Ma compagne et mes trois fils perdus dans l’Espagne de Franco. Ma nouvelle compagne et une fille perdus maintenant dans la Russie de Staline. Qu’on ne croie pas cependant que je vais abandonner la lutte. Je me sens aujourd’hui plus fort que jamais. Mourir eût été pour moi le plus facile; si j’ai mis une telle obstination à vivre, malgré tout, c’est que je voulais faire connaître au monde la vérité sur l’enfer soviétique et continuer la lutte pour la liberté des hommes et des peuples. »

 

JULIAN GORKIN

 

[Traduzione di Ario Libert]


NOTE

[1] Emprisonné à Madrid par la N.K.V.D., c’était El Campesino qui devait me faire fusiller. Pour mon bonheur, il était retenu sur le front d’Estremadure, et le gouvernement républicain me fit transférer en toute hâte et sous bonne escorte à Valence (nota di Julien Gorkin).

 

 

LINK al post originale:
"El Campesino": l'homme qui vainquit la mort en Espagne et en U.R.S.S.

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