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31 maggio 2014 6 31 /05 /maggio /2014 05:00

I situazionisti nella lotta di classe

Il movimento situazionista arricchisce la riflessione del movimento operaio rivoluzionario attraverso una critica della vita quotidiana. Ne risulta una concezione originale della lotta di classe.

 

Da Tiqqun alla Encyclopédie des Nuisances, da Philippe Sollers a Anselm Jappe, la maggior parte dei post-situazionisti respingono la lotta di classe. Ad immagine dei movimenti Dada e del Surrealismo, i situazionisti sembrano oggi inoffensivi. Di Guy Debord, gli ammiratori non ricordano che lo stile letterario. Tiqqun riproduce il tono superiore e sentenzioso dei professori di rivoluzione, e a volte l'umorismo nei suoi migliori testi, ma respinge del tutto l'analisi marxista e il comunismo dei consigli.

 

Sembra dunque importante descrivere l'attività teorica e pratica dei situazionisti nella lotta di classe. L'intervento situazionista fu breve ma intenso, per approdare sull'esplosione del Maggio 68.

 

Inversamente, gli studi storici sul Maggio 68 occultano il ruolo dell'Internazionale situazionista (IS). Anche la storiografia di estrema sinistra, rappresentata soprattutto da Kristin Ross, riduce Maggio 68 a una farandola di gruppi di estrema sinistra, maoisti in testa.

Pascal Dumontier descrive la storia dell'Internazionale situazionista per porla nel suo contesto politico e intellettuale.

[- Di cosa ti occupi esattamente?/ - Della reificazione/ -Capisco, è un lavoro molto serio, con dei grossi libri e molta carta su un grande tavolo/ - No, vado a spasso, sopratutto vado a spasso].

 

Rivoluzione sociale e critica della vita quotidiana

 

"Alla vigilia del 1968, l'Internazionale situazionista, da organizzazione artistica d'avanguardia è diventata un'organizzazione rivoluzionaria originale," sostiene Pascal Dumontier. L'IS si distingue dagli altri gruppi libertari per rinnovare il progetto rivoluzionario attraverso una critica più radicale e meno limitata. L'IS concilia la critica del capitalismo ereditata dal movimento operaio anti-burocratico e la critica della vita quotidiana derivata dalle avanguardie artistiche.

 

Potlatch_1954_1957_L8.jpgNel 1954, l'Internazionale lettrista crea la rivista Potlach. Questo movimento in rottura con i lettristi e i surrealisti, aspira a superare l'arte e l'estetica per trasformare la vita. Contro l'urbanesimo, l'Internazionale lettrista sviluppa dei comportamenti ludici per permettere un'emancipazione dei desideri e della vita. Questo movimento sviluppa anche una critica del cinema e diffonde la pratica del détournement [sviamento, dirottamento]. Insieme ai giovani lettristi, l'IS raggruppa anche il movimento Cobra e degli artisti in rottura con un surrealismo invecchiato. Contro l'arte borghese e professionale, Cobra lotta per un'arte popolare attraverso "un'espressione vitale, diretta e collettiva". Contro la cultura esistente, Cobra si fa riferimento all'arte creativa e alla sperimentazione. "Una libertà nuova nascerà per permettere agli uomini di soddisfare il loro desiderio di creare" sostiene questo movimento che fa riferimento ad una trasformazione radicale della società e della vita.

 

debord-societe-spectacle.jpg

Nel 1957, i suoi differenti movimenti si organizzano nell'Internazionale situazionista. Guy Debord sviluppa allora le sue riflessioni sul superamento dell'arte e la critica della vita quotidiana. "Ciò che caratterizza l'IS, è appunto il rifiuto di compromissione con il mondo moderno e quella volontà di rompere con la funzione d'artista, nel senso attuale del termine", evidenzia Pascal Dumontier. Ma gli artisti che respingono la rivoluzione sociale sono rapidamente esclusi dall'IS. La Critica della vita quotidiana sfocia su una riflessione globale sulla società, e l'IS aspira oramai a realizzare la teoria rivoluzionaria del suo tempo. 

Nel 1961, l'IS si avvicina a gruppi consiliaristi, soprattutto a "Socialisme et Barbarie". "La partecipazione e la creatività delle persone dipendono da un progetto collettivo che riguarda esplicitamente tutti gli aspetti del vissuto", sostiene l'IS. La critica della vita quotidiana si iscrive in una prospettiva rivoluzionaria. "Senza la critica della vita quotidiana, l'organizzazione rivoluzionaria è un ambiente separato, tanto convenzionale, ed alla fine passivo, quanto i villaggi di vacanza che sono il terreno specializzato dei suoi svaghi moderni", ricorda tuttavia l'IS. La rivoluzione deve soprattutto permettere di rendere la vita appassionante. Nel 1967 Guy Debord pubblica La société du spectacle [La società dello spettacolo] e Raoul Vaneigem presenta il suo Traité de savoir vivre à l’usage des jeunes générations [Trattato di saper vivere ad uso delle giovani generazioni]. Insieme ai movimenti dada e surrealisti, l'IS si riferisce al movimento operaio anti-autoritario, al pensiero di Marx e di Bakunin, a quello di Rosa Luxemburg e Henri Lefebvre ma soprattutto al comunismo dei consigli.

Nulla manca alla comodità della noia

 

Reinventare la rivoluzione contro l'alienazione moderna

 

La teoria situazionista si dedica a criticare le nuove forme di alienazione scaturite dalla modernità mercificata. "La comprensione di questo mondo non può fondarsi che sulla contestazione. E questa contestazione non ha verità, e realismo, se non in quanto contestazione della totalità", afferma l'IS nel 1962. La critica della modernità attualizza le correnti calde del marxismo nel contesto della società dei consumi. La società spettacolare mercantile aggiunge l'alienazione ideologica all'alienazione economica. "La logica della merce regna sull'insieme del sistema sociale, in cui gli individui, sfruttati nel loro lavoro, reificati nella loro vita quotidiana, hanno perso ogni potere e ogni controllo sulla loro propria vita", scrive Pascal Dumontier per sintetizzare la critica dell'alienazione.

La burocrazia e gli Stati impongono un modo di lavoro, di svaghi, di consumo, pianifica lo spazio con l'urbanesimo, e il tempo con la separazione tra tempo di lavoro e "tempo libero". Raoul Vaneigem descrive un "mondo in cui la garanzia di non morire di fame si scambia contro il rischio di morire di noia". Lavoro, consumo, svaghi, cultura, spazio di vita: l'alienazione colonizza tutti gli aspetti della vita. La nozione di spettacolo permette di spiegare la passività della popolazione con lo sviluppo dell'industria del divertimento e della comunicazione che rafforzano l'integrazione della classe operaia nella modernità mercificata.

 

Ma i situazionisti sviluppano anche una critica dei pseudo pensieri contestatari. Psicologi, sociologi, filosofi e altri "divi dell'Inintelligenza" sono integrati al sistema che essi pretendono di contestare. Favoriscono l'integrazione della società dello spettacolo.  Da Jean-Paul Sartre a Henri Lefebvre, passando attraverso la rivista Arguments, tutti i contemporanei dei situazionisti ricevono le loro colorite ingiurie. Le diverse correnti rivoluzionarie sono criticate.

 

I situazionisti si rifanno all'esperienza dei consigli operai, e tutte le altre forme di organizzazioni devono essere criticate. I sindacati e i partiti devono essere criticati, essi permettono l'integrazione della classe operaia nella società mercificata. Guy Debord, in La società dello spettacolostende un bilancio critico del movimento operaio e sottolinea anche alcuni limiti nel pensiero di Marx. Il determinismo storico, l'economicismo, lo scientismo e la presa del potere dello Stato sono dei limiti del marxismo già evidenziate da Karl Korsch. L'anarchismo è criticato per la sua ideologia e il suo idealismo privo di senso pratico. Il marxismo-leninismo, il bolscevismo e lo stalinismo formano un'ideologia controrivoluzionaria che si dedica a disciplinare i proletari in un'organizzazione gerarchizzata. Nel 1917, i "proprietari del proletariato" e cioè i burocrati bolscevichi hanno restaurato l'economia capitalista minacciata dal movimento dei soviet. I situazionisti, che sostengono le lotte anticoloniali, criticano tuttavia le mitologie terzomondiste. Maoismo, Fanonismo, Castro-Guevarismo, Titoismo sono tutte ideologie che giustificano la comparsa di nuovi padroni per ristrutturare l'economia e ricomporre la società dello sfruttamento.

 

"La rivoluzione è da reinventare, ecco tutto", afferma l'IS sin dal 1961. Il proletariato rimane il soggetto rivoluzionario e si definisce come l'insieme di persone che non hanno alcun potere o controllo sull'impiego della loro vita. Il progetto dei situazionisti poggia sui Consiglio operai per permettere una autogestione "estesa a tutta la produzione e a tutti gli aspetti della vita sociale". Essi si riferiscono, tra l'altro, alle esperienze storiche della Comune di Parigi del 1871, dei consigli della Germania del 1919, della rivoluzione spagnola del 1936 e dell'insurrezione di Budapest del 1956.

 

Ma il consiliarismo dei situazionisti si arricchisce con la critica della vita quotidiana. "Chi parla di lotta di classe e di rivoluzione senza riferirsi esplicitamente alla vita quotidiana, senza capire ciò che vi è di sovversivo nell'amore e di positivo nel rifiuto dei contrari, quelli hanno in bocca un cadavere", taglia corto Raoul Vaneigem. L'arte, la poesia, la creatività, il gioco devono permettere di costruire una vita appassionata. "La rivoluzione, per i situazionisti, è innanzitutto la realizzazione di un'immensa festa in cui la trasformazione del mondo si accompagna a un cambiamento radicale e totale della vita, infine realmente vissuta", sostiene Pascal Dumontier. I situazionisti si distinguono dalle ideologie rivoluzionarie per attaccare la modernità e sviluppare il pensiero più radicale.

Un'organizzazione di teorici rivoluzionari

 

La questione dell’organizzazione rimane centrale per l'Internazionale situazionista, così come per tutti i movimenti rivoluzionari, allo scopo di legare in modo coerente teoria e prassi. L'IS, malgrado un pensiero radicalmente libertario, adotta un'organizzazione centralizzata. I gruppi locali possono avere un'azione autonoma, ma al di fuori dell'IS. Nel 1966, la sezione francese è la più numerosa, con dieci membri, per un'internazionale che non comprende più di quindici membri nel mondo. Ma l'IS privilegia la coerenza teorica sulla quantità dei membri. Il deviazionista o la semplice inattività sono sanzionate attraverso una inflessibile politica di esclusione. Nel 1962, l'IS preferisce limitare l'accesso all'organizzazione piuttosto di scatenare ondate di esclusioni.

 

Per diventare situazionisti, si deve rifiutare ogni compromesso con i pensatori di Stato e accettare le condanne di personalità o correnti intellettuali contemporanee. I situazionisti criticano anche ogni forma di militanza. L'organizzazione deve favorire la partecipazione e la creatività di tutti i suoi membri. La separazione tra teoria e pratica è respinta. La specializzazione dei compiti è anche considerata come un embrione di burocrazia. Ma l'IS, che si propone di diventare "il più alto grado della coscienza rivoluzionaria", raggruppa soprattutto dei teorici e si considera come la sola vera organizzazione rivoluzionaria.

 

Dopo aver rotto con Henri Lefebvre e "Socialisme ou Barbarie", l'IS si avvicina ai gruppi rivoluzionari fuori dalla Francia come la Zengakuren in Giappone. Ma i situazionisti rifiutano di avere delle relazioni con gruppi dell'estrema sinistra che difendono il maoismo, il castrismo o praticano l'autogestione in Algeria e in Iugoslavia. Essi constatano la decadenza del movimento anarchico francese. Nel 1967, la Federazione anarchica denuncia un "complotto situazionista" al suo interno e deve allora far fronte a diverse scissioni.

L'IS si avvicina soprattutto ai gruppi consiliaristi come "Informations et correspondances ouvrières" (ICO). Malgrado delle divergenze con questo gruppo. I situazionisti sembrano influenti soprattutto attraverso la diffusione dei loro scritti. Lo sviamento (détournement) di film, di fumetti e anche di di manifesti pubblicitari permettono di diffondere le idee situazioniste. Ma, alla vigilia di Maggio 68, le numerose esclusioni hanno ridotto gli effettivi dell'IS che sembra allora limitata nella sua pratica.

Contestazione in ambiente studentesco

 

L'Internazionale situazionista vede nei movimenti studenteschi in Giappone, con i Zengakuren, e a Berkeley negli Stati Uniti, una contestazione globale della società. Le idee situazioniste si diffondono nelle università per partecipare allo scatenamento di Maggio 68. Nel 1966, degli studenti di Strasburgo stampano in gran numero, a spese dell'Unef, un sindacato studentesco, un opuscolo intitolato Della miseria in ambiente studentesco considerata sotto i suoi aspetti economico, politico, psicologico, sessuale e soprattutto intellettuale, e di alcuni mezzi per porvi rimedio [De la misère en milieu étudiant considérée sous ses aspects économique, politique, psychologique, sexuel et notamment intellectuel, et de quelques moyens pour y remédier]. Questo testo espone le idee situazioniste per denunciare l'alienazione degli studenti ridotti alla sottomissione e alla passività.

UNEF

"Lo schiavo stoico, lo studente si crede tanto più libero quanto più lo stringono le catene dell'autorità", afferma questo testo che denuncia lo Stato e la famiglia. L'Università fabbrica allora i futuri quadri della società capitalista e diffonde l'ideologia che le corrisponde. "Lo studente è un prodotto della società moderna, allo stesso titolo di Godard e Coca Cola. La sua estrema alienazione non può essere contestata che dalla contestazione dell'intera società", ironizza l'opuscolo.

 

Lo studente deve ribellarsi allo scopo di organizzarsi con le classi sfruttate per costruire un movimento rivoluzionario di critica globale della società capitalista. questo libello si iscrive in un clima in un clima di agitazione gioiosa che regna a Strasburgo. Dei corsi e delle conferenze sono disturbati con lanci di pomodori sui relatori.

 

Un fumetto deturnato, Le retour de la colonne Durruti [Il ritorno della colonna Durruti] espone in modo originale le idee situazioniste. "Le J.C.R. le inculo anch'io", proclama Lenin in questo fumetto per denunciare i giovani trotskysti. Due cow-boys a cavallo discutono della reificazione. "Cosa ti fa ridere di più a te, i fascisti, l’U.E.C., i gaullisti, le J.C.R. o gli anarchici di Monde Libertaire?" chiede uno spazzolino per denti. "Sì è vero tutte queste persone sono solidali di questo vecchio mondo contro il quale si deve ora intraprendere la lotta", risponde l'altro spazzolino per denti. I media, le autorità universitarie e delle organizzazioni politiche denunciano gli agitatori vicini ai situazionisti.

Gli Strasburghesi propongono la dissoluzione della Unef, per denunciare il suo avanguardismo, il suo sotto-riformismo e l'impostura del sindacalismo studentesco. Se la nozione è respinta, molti studenti condividono le idee situazioniste, soprattutto a Nantes, e il loro libello è di nuovo edito nel 1967. Uno studente è minacciato di esclusione dall'Università per un testo che insulta il rettore, ma raccoglie un ampio consenso anche da parte di intellettuali come Daniel Guérin. Questo studente si presenta alle elezioni della Mnef, mutua studentesca, per difendere la libertà sessuale e le idee di Wilhelm Reich. Perde le elezioni e subisce le critiche dell'IS che lo vede come un burocrate. Numerosi gruppi entrano in conflitto con l'IS ma fanno sempre riferimento alle idee dei situazionisti.

A Nanterre, degli studenti intendono occupare le città universitarie il cui regolamento vieta la circolazione dei ragazzi negli edifici delle ragazze. Dietro lo schiamazzo giovanile, si esprime una contestazione globale. "E' già l'eco dello slogan situazionista 'Vivere senza tempi morti, godere senza impedimenti'", associato alle influenza delle idee di Fourier e di Reich", sottolinea Pascal Dumontier. A Nantes gli studenti sono influenzati dalle idee situazioniste, ma anche anarco-sindacaliste. Essi occupano le città universitarie e partecipano al movimento operaio locale. Le sue diverse forme di contestazione prefigurano il Maggio 68. Gli studenti partecipano alle manifestazioni operaie per cercare di occupare il rettorato e affrontare la polizia nella strada. La repressione alimenta la radicalizzazione politica a Nantes.

Il gruppo degli Enragés (arrabbiati) partecipano alla contestazione nell'università moderna di Nanterre. La critica delle condizioni di vita, sul campus e nelle residenze, si accompagna con una denuncia dell'insegnamento. I giovani anarchici di Nanterre aperti alle nuove idee di gruppi libertari e della IS, sono esclusi dalla Fédération anarchiste (FA) per marxismo e situazionismo.

Gli Enragés condividono le idee ma anche i modi d'azione dei situazionisti, come lo scandalo. Tentano di interrompere i corsi e disturbano anche una rappresentazione di giovani poeti, qualificati come "nuova razza di sbirri". Graffiti sui muri, distribuzione di volantini, parole d'ordine di boicottaggio degli esami: gli Enragés moltiplicano gli scandali virulenti.

 

"Il godimento è il nostro scopo: TRASFORMARE IL MONDO E' CAMBIARE LA VITA" afferma un volantino che sviluppa una critica radicale del mondo moderno. La polizia, chiamata dal decano per restaurare l'ordine sull'università, deve fuggire sotto il lancio di oggetti da parte degli Enragés e altri studenti. Gli Enragés diffondono dei manifesti, dei testi e dei fumetti che oppongono gli studenti più radicali a tutte le istituzioni come i sindacati, gli insegnanti e l'amministrazione. Gli Enragés lasciano in seguito Nanterre, e il movimento 22 marzo assume la direzione della contestazione. Ma lasciano degli slogan sui muri. "Professori, siete vecchi.... e anche la vostra cultura", "I sindacati sono dei bordelli. L'U.N.E.F. è una puttana", "Non lavorare mai", "Prendete i vostri desideri per realtà", "La noia è contro-rivoluzionaria" ("Les syndicat sont des bordels. L’ U.N.E.F. est une putain"», "Ne travaillez jamais", "Prenez vos désirs pour la réalité", "L’ennui est contre-révolutionnaire"): tutti i suoi graffiti diffondono il pensiero situazionista.Gli studenti permettono di articolare questa teoria con una pratica di lotta e di contestazione.

situ6.png

 

L'esplosione di Maggio 68

 

Gli studenti occupano le università e gli operai occupano i loro luoghi di lavoro. Maggio 68, movimento di sciopero generale, permette ai situazionisti di porre in pratica la loro teoria. Gli Enragés si distinguono dagli studenti di estrema sinistra perché on si accontentano di protestare contro le riforme universitarie ma si dedicano ad una contestazione più globale della società. I situazionisti partecipano attivamente alla notte delle barricate dal 10 all'11 maggio. Partecipano all'occupazione della Sorbona la sera del 13 maggio. "Occupazione delle fabbriche - Consigli operai - Comitato Enragés-Internazionale situazionista" (Occupation des usines - Conseils ouvriers - Comité Enragés-Internationale situationiste) indica uno striscione sul frontone della "sala Jules Bonnot".

I graffiti lirici e poetici danno la parola ai muri dell'università per distinguersi dagli slogan noiosi dell'estremismo fossilizzato. L'assemblea generale che si riunisce ogni giorno diventa il solo organo di decisione per designare un Comitato di Occupazione. Assemblea generale, libertà di espressione, responsabilità e revocabilità dei rappresentanti eletti disegnano una vera democrazia diretta.

Ma le manovre delle organizzazione politiche e sindacali perturbano questo funzionamento, con la creazione di commissioni auto-proclamate. Il Comitato di Occupazione sostiene le occupazioni di fabbriche e chiama alla formazione dei consigli operai. Dei telegrammi sono inviati agli uffici politici dei partiti comunisti dell'URSS e della Cina.. "Tremate burocrati. Il potere internazionale dei Consigli Operai vi spazzerà via ben presto. L'umanità non sarà felice se non il giorno in cui l'ultimo dei burocrati non sia impiccato con le budella dell'ultimo capitalista", avverte il telegramma. Ma i situazionisti abbandonano la Sorbona sin dal 16 maggio. Essi denunciano la passività degli studenti di fronte alle manovre degli estremisti. Soprattutto, il loro messaggio consiliarista trova poca eco nell'ambiente studentesco. Essi si rivolgono allora verso il movimento operaio.

Il 17 maggio 1968 i situazionisti e quelli che condividono le loro idee fondano il Comitato per il mantenimento delle occupazioni (CMDO). Questa organizzazione consigliare tenta di creare dei legami tra i diversi luoghi di lavoro occupati. Il CMDO difende il programma di una democrazia diretta totale fondata sul potere assoluto dei Consigli Operai. Il CMDO pubblica dei testi e dei manifesti ma si distingue dagli altri gruppi consigliari che, malgrado la loro critica dei sindacati, restano tolleranti nei confronti dell'estrema sinistra. Soprattutto, il CMDO insiste sulla critica della vita quotidiana e lotta per un'autogestione generalizzata di tutti gli aspetti della vita. La trasformazione del mondo deve accompagnarsi ad un cambiamento dell avita. Il CMDO traduce i suoi testi e inscrive il Maggio 68 non soltanto in una filiazione storica ma anche nella prospettiva di una rivoluzione su scala internazionale. I situazionisti si mettono a criticare tutte le burocrazie, sindacali o politiche, staliniste o estremiste, che lungi dal "tradire" il movimento appaiono come "un meccanismo d'integrazione alla società capitalista". La firma degli accordi di Grenelle da parte della CGT per far appello alla ripresa del lavoro conferma le sue analisi. I situazionisti intervengono in questo movimento di lotta per radicalizzarlo al massimo.

 

situ7.png

Un'influenza teorica

 

Le idee situazioniste irrigano la rivolta di Maggio 68. A Strasburgo, volantini e scritte murali animano un movimento ostile ai militanti ma che sembra ristretto all'università. A Nantes, la rivolta sembra particolarmente violenta e radicale. Gli Enragés di Nantes partecipano attivamente alle azioni con gli operai in sciopero. Questa città annuncia i precedenti di una giunzione tra il movimento studentesco e il movimento operaio. Ma dei gruppi influenzati dai situazionisti esistono in molte città di Francia, come Bordeaux o Tolosa. Soprattutto, la critica della vita quotidiana e gli assi di lotta portate dall'Internazionale situazionista irradiano l'insieme del movimento di Maggio 68. L'aspirazione a vivere pienamente, senza tempi morti e senza intralci, la festa rivoluzionaria, l'importanza accordata alla creatività, al desiderio, al piacere: tutte le sue idee presenti nel Maggio 68 si inscrivono in una filiazione situazionista.

Di fronte al recupero della contestazione da parte dell'economia mercificata, i situazionisti rifiutano ogni forma di distinzione e di partecipazione a dei circoli letterari e artistici. Essi praticano l'insulto, strampalato e poetico, per rispondere a tali inviti. Ma il "situazionismo" diventa rapidamente una merce come un'altra, assimilata alla cultura pop. I situazionisti rifiutano lo spontaneismo e l'assenza di riflessione dei gruppi consiliari. Rimangono sostenitori di un'organizzazione politica c che lotta per il comunismo dei consigli.

Dei gruppi autonomi, influenzati

 

 

 

 

Des groupes autonomes, influencés par les idées de l’IS, maintiennent une agitation dans les facs et les lycées. L’émeute et la guérilla urbaine deviennent un jeu. « C’est à tous les moments de notre VIE QUOTIDIENNE que nous devons et nous pouvons nous LIBERER de tout ce qui nous opprime », affirme l’éditorial du numéro 1 du journal Vivre sans temps mort, jouir sans entraves. Grèves sauvages et auto-réductions deviennent des pratiquesqui se répandent. Mais divers groupes pro-situs prolifèrent, avec le style littéraire de l’IS dégénérescente qui perdure encore aujourd’hui. L’Internationale situationniste se désagrège jusqu’à sa dissolution en 1972.

Les idées situationnistes expriment une critique radicale du monde moderne, et le courant le plus extrémiste et révolutionnaire de la contestation généralisée en Mai 68. De nouvelles formes d’expression, artistiques ou politiques, permettent de diffuser ses idées. La révolution apparaît comme une fête. Surtout, ils participent activement à la radicalisation du mouvement de mai 68.

Mais l’Internationale situationniste demeure une organisation de théoriciens qui reste élitiste. Pourtant, tous les êtres humains doivent pouvoir s’exprimer, à travers des idées ou une sensibilité critique, dans une perspective de libération des désirs et des passions.

Le jeu, l’utopie créatrice, la révolution comme fête doivent permettre de rompre avec l’aliénation dans la vie quotidienne. Avec les situationnistes, la théorie et la pratique révolutionnaire sortent des vieilles idéologies. Ils expriment le désir de transformer le monde pour changer la vie, radicalement.

 

[Traduzione di Ario Libert]

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2 maggio 2014 5 02 /05 /maggio /2014 07:07

LA FESTA DELL'ALIENAZIONE!

alienazione-festa-dell-.jpg

Parigi 1° maggio 1977, ore 16:05

 

Un'idea paralizza per 25 minuti 500 burocrati e 100.000 coglioni

 

La polizia sindacale è una volta di più messa in scacco dalla verità. Mentre il sinistro convoglio s'incamminava come ogni anni da 40 anni verso un tetro destino e che i kapo mafiosi si trovavano all'altezza dell'hôtel Sully, in rue Saint Antoine, uno striscione di 15 metri, grazie a un ingegnoso meccanismo, si dispiegava istantaneamente e maestosamente 12 metri sopra la testa dei ricattatori sindacali e della loro clientela. Stormiva fieramente al vento e colpisce di stupore i grugni avvinazzati dei gorilla del servizio d'ordine.

 Reca semplicemente, in lettere alte un metro, perfettamente leggibili dalle 100.000 persone ammassate da piazza St Paul a piazza della Bastiglia, la verità di questo assembramento subumano: FESTA DELL'ALIENAZIONE!

 Là dove il nemico si credeva, indubbiamente, ridiventato invincibile, abbiamo trovato il punto derisoriamente debole: i gorilla CGTisti si sono rivelati totalmente impotenti di fronte all'onnipotenza dell'idea. Un'idea trionfa impunemente con sobrietà ed eleganza (per 800 franchi alcolici compresi). Immobilizza per 25 minuti [1] il ridicolo corteo e genera un fantastico sventolio dando così al nemico modo di assaporare la sua prossima sconfitta. Succedendo agli strepiti derisori dei programmi comuni, sbraitando i loro abituali slogan, uno stupefacente silenzio di 1000 metri di lunghezza si abbatte sulla grottesca coorte. Le majorette s'immobilizzano una coscia all'aria, sperdute. Ma soprattutto, grazie all'ingegnoso meccanismo [2] di collocamento che non richiedeva che l'intervento di una sola persona, abbiamo potuto assaporare, in mezzo al pubblico e alle carogne stesse, la disfatta stupefatta, smorta e rabbiosa, delle nostre vittime. Alcuni di noi avevano spinto persino la preoccupazione all'anonimato sino ad indossare infamanti tesserini identificativi C.G.T.

 Abbiamo dunque potuto constatare e apprezzare un franco movimento di simpatia, di approvazione e di liete discussioni tra il pubblico situato sul marciapiede e che la baldracca sindacale non riuscì a soffocare. Una buona cinquantina di fotografi amatori dotati di magnifici apparecchi giapponesi hanno mitragliato per tutto il tempo l'infamia che sovrastava tutto questo disordine.

 Abbiamo riso molto. A dir poco. Noi soltanto sapevamo perché eravamo lì. Non abbiamo subito nessuna perdita, non un solo graffio, e tutte le foto sono venute bene. Grazie. Burocrati l'avete presa nel culo e lo prenderete ancora,

 

SOWETO. LISBONA. DAKAR. ROMA. PARIGI... 


Alla prossima occasione!



[1] Abbiamo dunque immobilizzato la merda sindacale 25 volte più a lungo della valvola di sicurezza della piattaforma Ecofisk non immobilizzasse la merda nera.

 

[2] Non era tuttavia ancora il sapere assoluto: se, oltre alla solida catena con tanto di lucchetto che terminava il cavo e che ha dato del filo da torcere all'acrobata sindacale, avessimo messo del sapone nero sul palo della luce, lo striscione avrebbe retto 30 minuti di più e oltre alle truppe regolari della burocrazia, è tutta la feccia sinistroide e dei piccoli sindacati della vita quotidiana che sarebbe passata sotto il nostro giogo.

 

[Traduzione di Ario Libert]

 

LINK al post originale:

La fête de lìaliénation!

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1 maggio 2014 4 01 /05 /maggio /2014 05:00

Utopia come alternativaotto-ruhle

Otto Rühle e la sua utopia antiautoritaria 

 

di Henry Jacoby

 

I precursori

Otto RUHLE, libro
Lungo l'arco della storia del mondo occidentale si muove una corrente d'opposizione diretta contro l'autorità come tale. Il lungo processo in cui l'autorità si organizza come stato e fa dell'uomo libero un suddito soggetto al pagamento di imposte, viene continuamente interrotto dalla sollevazione contro l'autorità. Alle idee di ordine e di stato si contrappongono ripetutamente le speranze d'un ritorno ad un mondo senza autorità. Queste speranze giocarono un ruolo attivo nei movimenti millenaristici del tardo Medioevo e all'inizio dell'evo moderno in Germania, nelle Fiandre e in Boemia, nella Jacquerie francese e nelle rivolte contadine in Inghilterra. Le troviamo presso i Taboriti e gli Adamiti della rivoluzione ussita, negli anabbatisti, nei lollardi e in altri movimenti. Queste speranze si esprimono in idee che fanno la loro comparsa insieme con i movimenti dei contadini e degli artigiani nei grandi rivolgimenti del XV e XVI secolo e che vengono contrapposte dagli intellettuali dell'epoca al mondo maligno e alla sua corrotta autorità. "Tutti questi pensieri, nostalgie, intenzioni e decisioni di stampo agrario e adamitico a sfondo mistico sono 'romanticismo'. Esso sono sorti in spiriti ricercatori, estranei ai campi e ai contadini, sono le uscite di sicurezza dei 'dotti' atterriti di quegli anni" [1].

Dal tempo della rivoluzione degli Ussiti in Boemia, che depose il re ma distrusse anche la "sinistra" millenaristica, Tabor e gli Adamiti, sono continuamente riaffiorati nei periodi di transizione movimenti che non soltanto volevano soppiantare l'autorità esistente, ma aspiravano ad un ordine senza autorità costituita o almeno al superamento della scissione tra autorità e società.

"Dal tempo degli Ussiti la caduta dei signori ereditari e l'eliminazione dei millenaristi costituiscono i due tratti caratteristici essenziali di tutte le grandi rivoluzioni europee sino al XX secolo. Tutte queste rivoluzioni, in fondo, non hanno portato la sollevazione radicale bramata dai millenaristi, l'equiparazione degli umili coi potenti, ma alla fin fine sempre e soltanto la sostituzione del ceto superiore dominante con quello immediatamente seguente, e niente di più" [2].

Accanto alle grandi rivoluzioni europee che hanno condotto ad un reale mutamento della struttura sociale, si è dato il caso, specialmente nelle zone agrarie arretrate e più povere, di numerose e spontanee "rivolte senza domani" di cui parla Eric J. Hobsbawm nella sua storia dei ribelli primitivi; rivolte avvenute sotto l'influsso di profetiche figure di capi che proclamavano la fede in un improvviso mutamento dell'esistenza divenuta ormai intollerabile e nell'avvento imminente del giorno della completa libertà [3].

Successivamente, in quelle terre povere e a stento toccate dall'industrializzazione  capitalistica, in cui le rivolte primitive erano scoppiate e scomparse a somiglianza d'un uragano, l'anarchismo poté riallacciarsi a quei sentimenti che costituivano l'anima delle rivolte e che divennero il fondamento di idee e d'organizzazioni politiche.

 

otto-Ruhle-ritratto-di-Diego-Rivera1940

Otto Rühle, ritratto da Diego Rivera, 1940.


woodcockCome constatò George Woodcock nella sua Storia dell'anarchismo, "l'anarchismo ha sempre esercitato maggiormente la sua forza d'attrazione proprio su quelle classi che rimasero fuori della grande corrente del mondo industrializzato" [4].  

tolstoi coloriI principali teorici dell'anarchismo provenivano dall'alta nobiltà russa - Bakunin, Kropotkin, Cerkezov, Tolstoi - che, resa politicamente impotente dallo stato autocratico e dalla sua burocrazia, nutriva sentimenti antistatali. In Russia le teorie dell'anarchismo si riallacciavano alla tradizione di rivolte contro lo strapotente apparato statale, di fronte al quale non c'era altra alternativa che la sottomissione o la rivolta [5].

In Russia, dove non poteva formarsi alcuna borghesia liberale, all'opposizione intellettuale contro l'autocrazia che uccideva ogni parvenza di vita spirituale non rimaneva altro che la fede nella "gente semplice" e, poiché questa gente rimaneva sottomessa, la speranza si trasferì agli esclusi, ai bandoti, ai reietti. Masaryk trovava che "per la Russia Bakunin crede nei masnadieri alla Pugacev e alla Rasin, per l'Europa ha fiducia nel Lumpenproletariat. Il suo anarchismo è la libertà dei cosacchi russi" [6].
 
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Nell'Europa occidentale "l'anarchismo organizzato del XIX e XX secolo era un movimento di ribellione piuttosto che di rivoluzione. Esso era l'espressione di una protesta e s'era votato all'opposizione contro quella tendenza alla centralizzazione politica ed economica che predominava sin dalla metà del XVIII secolo, e contro tutto quello che questa tendenza comportava d'oppressione dei valori personali e di subordinazione dell'individuo allo Stato" [7]. Come movimento di protesta così configurato, l'anarchismo non ha sviluppato alcuna vera e propria teoria del superamento dell'ordine sociale esistente, proprio perché si situava al di fuori delle tendenze realmente operanti in esso. Agli inizi dell'industrializzazione in Francia Proudhon, che esercitò una certa influenza sugli anarchici come Bakunin, col suo monito a guardarsi dall'autorità centralizzata gerarchicamente con i suoi piani d'un ordine sociale basato in larga misura sulla piccola proprietà e costruito su un sistema di credito organizzato, rimase prigioniero nelle sfere d'una fantasticheria lontana dal reale. Quando più tardi le sue idee cominciarono ad orientarsi maggiormente verso la realtà e l'esistenza della classe operaia, si professò a favore d'uno stato- anche se non burocratico e a carattere federativo- e di un equilibrio fra libertà e autorità.

Agli anarchiBakunin Nadarci mancava però la risposta alla domanda su che cosa sarebbe successo all'"indomani della rivoluzione". Bakunin non poté sottrarsi del tutto a questa domanda. Nella sua Confessione scrisse: "Io credo che in Russia più che altrove sarà indispensabile un forte potere dittatoriale, un potere che si occupi esclusivamente dell'educazione e dell'istruzione delle masse, un potere libero nelle sue aspirazioni e nel suo spirito, ma senza forme parlamentari; che pubblichi libri di contenuto libertario, ma senza libertà di stampa; un potere circondato da compagni di lotta, da essi consigliato e rafforzato dalla loro libera opera di collaborazione, ma non limitato da niente e da nessuno. Mi son detto che tutta la differenza tra questa dittatura e il potere monarchico dovrebbe consistere nel fatto che essa, conseguentemente allo spirito dei suoi principi, deve tendere a rendersi superflua, dal momento che non dovrebbe avere alcuna altra mèta che la libertà, l'indipendenza e la maturità del popolo" [8].

E nello stesso scritto
  dice anche, connettlau1 riferimento alla rivoluzione di Praga, cui Bakunin aveva avuto un'attiva parte direttiva: "A Praga doveva esserci la sede del governo rivoluzionario, d'un governo provvisto d'illimitati poteri dittatoriali... Si sarebbe fatta finita con tutti i circoli, tutti i giornali, tutte le manifestazioni di un'anarchia chiacchierona. Tutto avrebbe dovuto essere sottoposto ad un potere dittatoriale" [9].

Max Nettlau, seguace e biografo di BakDzerzhinsky1919unin, osservò a questo proposito che era una leggenda che Bakunin volesse la dittatura. Persone senza preconcetti dovrebbero riconoscere che qui si tratta più di una misura puramente tecnica, della dittatura tecnica del lustrascarpe, del sapone e dello scopo... [10]. Il problema però è proprio costituito dal fatto che nelle dittature rivoluzionarie, si tratta sempre di misure "tecniche" di pulizia. Quando Lenin affidò la GPU a Dzierzinski come al più puro di tutti gli uomini, seguiva proprio una tale idea di pulizia.

Lenin KarpovNettlau aveva completamente ragione di ritenere che Bakunin non avesse voluto la dittatura [11], ma quando a questi capitò di pensare all'indomani della rivoluzione, si fece strada in lui l'idea della "dittatura tecnica", e quando più tardi parlò d'uno stato maggiore rivoluzionario, era anche questo un organo dittatoriale al pari del comitato centrale leninista.

Ha corrisposto pienamente al carattere d'un movimento di protesta il fatto che l'anarchismo si sia frantumato sempre in molte direzioni (che si combattevano l'un l'altra): alcune che vedevano nella violenza un mezzo essenziale dell'azione politica, altre che proclamavano la non violenza come la sola a corrispondere al fine dell'anarchia; alcune che ponevano l'accento sull'individualismo, altre sul collettivismo. In un mondo in cui tutto spingeva alla centralizzazione, essi volevano tenere in piedi i principi del federalismo, in un mondo in cui tutti gli interessi erano rappresentati in potenti organizzazioni burocratiche, essi cercavano di permanere in un contesto libero da ogni legame [12]. In un mondo in cui si pretendeva  tutto dallo stato, essi propagandavano la sua soppressione. Ma la classe operaia cui essi si rivolgevano era nella sua grande maggioranza meno interessata ad una lotta eroica contro lo Stato che non alle richieste sociali che essi stessi gli ponevano [13].

Nella seconda metà del XX secolo quindi anche la Storia dell'anarchismo di Woodcock poteva riferire nella conclusione soltanto che "ci sono ancora migliaia di anarchici sparsi minutamente in molti paesi del mondo. Ci sono ancora gruppi anarchici, riviste, scuole e comuni. Essi sono il fantasma del defunto movimento anarchico storico, un fantasma che non è in grado di risvegliare né la paura nei governi né la speranza nel popolo".

Anche sulla Germania il movimento anarchico aveva gettato solo una debole ombra. L'anarchismo tuttavia non era soltanto un movimento, ma anche una critica assoluta delle forme e dei contenuti sociali. Se il movimento anarchico nuotò contro la corrente della storia cui non seppe imprimere un nuovo corso, il suo occhio critico vide però molte cose più acutamente di quanto non fecero le forze che lottavano per la società esistente. La critica anarchica della crescente centralizzazione, della direzione burocratica e della perdita della spontaneità toccò l'autentica problematica della società moderna. Il movimento operaio tedesco, che si sentiva movimento d'opposizione contro l'ordine sociale esistente e che come tale veniva considerato, si dimostrò esso stesso compenetrato dalle tendenze di quest'ordine sociale. Certo, Marx ed Engels, nei loro lavori teorici, avevano sottoposto anche queste tendenze ad un'analisi critica; ma la socialdemocrazia tedesca si creò un marxismo che, come constatò Otto Rühle, corrispondeva più al proprio spirito che a quello dell'opera di Marx [14]. Inoltre Marx ed Engels al tempo in cui, nell'Internazionale, furono coinvolti in una lotta per il potere coi bakuniniani, rividero alcune loro concezioni teoriche e le abbandonarono. Per certuni che avevano creduto profondamente alle speranze e alle promesse contenute nel socialismo e nel movimento socialista, e si erano impegnati attivamente in loro favore, la critica antiautoritaria, in seguito alla politica di guerra del partito e del sindacato tedesco (e non soltanto tedesco) nel 1914, si rivestì d'una nuova e particolare attualità.

 

Una nuova concezione

La Rivoluzione Russa sembrò dimostrare ai socialisti tedeschi più decisi che l'apparato autoritario dello stato poteva esser sostituito da un apparato di autogestione, il sistema dei consigli, che poggiava sulla classe operaia. La nascita dei consigli degli operai e dei soldati in Germania sembrò aver messo anche qui all'ordine del giorno la realizzazione di questa possibilità [15]. Da questo angolo visuale, le istituzioni del movimento operaio tedesco che si erano opposte a tale realizzazione o perlomeno non servivano a questo scopo, avevano fatto il loro tempo. Quando il 30 dicembre 1918 si riunì il congresso di fondazione del Partito Comunista Tedesco (KPD), i delegati si sentirono i creatori di qualcosa di completamente nuovo. La maggioranza di essi voleva una rottura completa col passato. Un delegato di Berlino annunciò: "Bisogna rallegrarci del fatto che noi oggi possiamo proclamare di esserci liberati dal torpore autoritario dei nostri capi" [16]. Predominava la volontà che il nuovo partito divenisse qualcosa di totalmente diverso dalla socialdemocrazia tedesca. La maggioranza dei delegati rifiutava l'adesione ai sindacati e la partecipazione alle elezioni per il parlamento. Quale oratore di questa maggioranza, Otto Rühle indicò la necessità che la classe operaia si creasse un organo proprio, contrapposto all'assemblea nazionale [17]. Ma certamente tutti i delegati erano d'accordo nella convinzione che fosse appena cominciato un processo rivoluzionario nel corso del quale sarebbero crollate tutte le vecchie istituzioni.

In questa esaltazione originaria della sensazione di vivere l'avvento di una nuova epoca, l'ammonimento di Rosa Luxemburg, che il congresso rappresentava solo una piccola minoranza della classe operaia, passò inosservato. Riguardo all'apparato dello Stato ancora minacciato proprio dai consigli degli operai e dei soldati, Karl Liebknecht già in quel momento a dire il vero poté constatare che "il vecchio apparato burocratico era stato di nuovo ripristinato nelle sue funzioni" [18]. Sconfitto da questo apparato, il nuovo partito ritornò alle tradizionali forme del movimento operaio, e nel suo secondo congresso nell'ottobre del 1919 la maggioranza che persisteva nella sua concezione antiparlamentare e antisindacale fu espulsa dal partito. La sua concezione rimase che l'idea del sistema dei consigli dovesse esprimersi anche nelle forme organizzate del movimento operaio ed esigesse una totale separazione di quest'ultimo dallo Stato borghese e dai suoi organi. Come portavoce di questa concezione, Otto Rühle scrisse: "Il proletariato, organizzato nei luoghi di produzione, costituisce a partire dalle fabbriche una organizzazione unitaria. Dall'organizzazione di fabbrica, mediante delegati destituibili, vengono costituiti delegati locali e del Land. Questa organizzazione serve tanto alla preparazione della rivoluzione quanto all'assunzione del potere nell'economia e nello Stato" [19].

La tensione rivoluzionaria nella repubblica di Weimar continuò a sussistere fino all'estate del 1923, punto finale della grande inflazione. Ma la minoranza della classe operaia, che credeva ancora ad uno sviluppo rivoluzionario, stava sotto l'influenza di Mosca quale Mecca della rivoluzione. Il movimento anti-autoritario si disperse a poco a poco, si frantumò in numerosi gruppi, che si combattevano l'un l'altro e si assottigliavano in piccole sette [20].

Il punto di vista comune delle organizzazioni comuniste dei consigli era stato formulato dopo il 1918 da una serie d'intellettuali che provenivano dal movimento operaio, soprattutto dagli olandesi Pannekoek e Gorter. Rühle però, dopo che il movimento era fallito nella prassi concreta, intraprese l'elaborazione d'una teoria che comprendesse la visione di un movimento di massa antiautoritario e l'utopia d'un nuovo ordine sociale scaturente da esso.

Rühle partiva dalla rappresentazione marxiana del ruolo storico del proletariato, concezione che era stata messa da parte dalla socialdemocrazie e che contrastava con la teoria e la prassi dei bolscevichi. Rühle poteva raffigurarsi il sorgere d'una società socialista solo come il risultato dell'azione collettiva e autocosciente del proletariato. Questa autocoscienza di dui aveva bisogno per la sua autoliberazionje, il proletariato doveva però prima conquistarsela. Marx ed Engels avevano espresso questo pensiero nelle Tesi su Feuerbach: "La dottrina materialistica che gli uomini sono prodotti dell'ambiente e dell'educazione, e che pertanto uomini mutati sono prodotti d'un altro ambiente e di una mutata educazione, dimentica che sono proprio gli uomini che modificano l'ambiente, e che l'educatore stesso dev'essere educato. Essa perciò giunge necessariamente a scindere la società in due parti, una delle quali sta al di sopra della società..." [21].

Ma era proprio questa scissione a costituire il principio fondamentale della teoria dell'organizzazione e della prassi leninista; Rühle volle contrapporle un'alternativa.

Se il proletariato in quanto classe aveva il compito storico di rovesciare la realtà, la sua azione doveva partire da dove esso esisteva realmente in quanto classe, dalla fabbrica. Qui il proletariato era organizzato dalla forza delle cose stesse e non aveva bisogno d'un apparato burocratico. I dirigenti potevano uscire solo dalle sue proprie file e non sarebbero diventati con questo dirigenti di professione.

Se si trattava di creare una società socialista in cui  

 



 

 

 

 

 




Henry Jacoby



[A cura di Ario Libert]

LINK all'opera integrale "Il coraggio dell'utopia" edizione italiana del 1972:


LINK allo scritto in lingua francese:

LINK all'opera originale in lingua italiana:

NOTE
 
[1] Will-Eric, Peukert, Die grosse Wende, Hamburg 1948, p. 252.
[2] Hans Conrad Peyer, "Soziale Unruhen im Spatmittelalter", Neue Zürcher Zeitung, 22 gennaio 1967.
[3] E. J. Hobsbawm, Primitiva Rebels, Manchester 1959 (trad. it.: I ribelli, Torino 1966).
[4] George Woodcock, Anarchism. A History of libertarian Idea and Movements, Cleveland-New York 1962 (trad. it.: L'Anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari, Milano 1969). Lo stesso si può dire anche in riferimento alla IWW (Lavoratori dell'industria del mondo), questa organizzazione autinoma e dotata di propria volontà, che comprendeva un ceto operaio non ancora inquadrato nella società industriale americana.
[5] Nicolas Berdiaev, The Russian Idea, New York, 1948, pp. 142 sgg.
[6] Th. G. Masaryk, Zur russischen Geschichts und Religionsphilosophie, Vol. II, Jena 1913, p.34.
[7] Georeg Woodcock, op. cit., p. 469.
[8] Michail Bakunin, Confession, Annotations de Max Nettlau (Confessione, La Fiaccola, Ragusa, 1977), Parigi 1932, pp. 169 sg, 210 e appendice.
[9] Ibidem, p. 200.
[10] Ibidem, Appendice. 
[11] Con spirito di veggente Bakunin scrisse nel 1868 al suo seguace Chatssin: "...la combinazione più infelice che si potrebbe avere sarebbe che il socialismo si collegasse con l'assolutismo; le aspirazioni del popolo alla liberazione economica e al benessere materiale con la dittatura e la concentrazione di tutti i poteri politici e sociali nello stato. Ciò che è vivo e umano non può crescere al di fuori della libertà, e un socialismo che la scacciasse dal suo centro o non l'accogliesse come base e come unico prioncipio creativo, ci condurrebbe dritti alla schiavitù e alla bestialità...".
 [12] Gli anarchici non cercavano affatto nella realtà dei punti d'aggancio per le loro mete, bensì ritenevano che la realtà dovesse un giorno adeguarsi alle loro belle idee, e se no, così si espressero con Max Nettlau, "tanto peggio per la povera umanità, se si sa figurare con tanta lentezza la possibilità di felicità e libertà".
[13] Gli anarchici fecero sentire ben presto le loro lamentele sull'"aristocrazia operaia" e l'"integrazione della classe operaia". Già nel 1873 Bakunin scriveva che l'Italia possedeva un potenziale rivoluzionario, poiché "là non ci sono- come in molti altri paesi europei - strati operai particolari, che siano già in parte privilegiati grazie ad alti salari, che facciano un qualche conto della loro formazione letteraria e che siano fino a tal punto compenetrati delle idee, delle aspirazioni e delle vanità borghesi, che gli operai che ne fanno parte si distinguono dai borghesi solo per le loro condizioni d'esistenza, ma non per le loro tendenze" (Étatisme et Anarchie, Archives Bakouinine, Leiden 1967, p. 206).
[14] Anche Karl Korsch aveva constatato che "... decisiva per l'orientamento del pensiero di milioni di proletari in tutti o paesi europei (fu) essenzialmente... la più tarda forma ideologica di essa (cioè della dottrina di Marx), riaccomodata da Kautsky e da altri" (Archiv für die Geschichte des Sozialismus der Arbeiterbewegung, XIV, 2, 1929, p. 278).
[15]
[16]
[17]
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30 aprile 2014 3 30 /04 /aprile /2014 05:00

La lotta contro il fascismo comincia con la lotta contro il bolscevismo

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Otto Rühle

 

I

 

Dobbiamo porre la Russia al primo rango tra gli Stati totalitari. E' stata la prima ad adottare il nuovo principio di Stato. E' essa ad aver spinto più a fondo la sua applicazione. E' stata la prima a stabilire una dittatura costituzionale, con il sistema del terrore politico ed amministrativo che l'accompagna. Adottando tutti le caratteristiche dello Stato totalitario, diventò per ciò stesso il modello per tutti i paesi costretti a rinunciare al sistema democratico per volgersi verso la dittatura. La Russia è servita da esempio per il fascismo.

Non si tratta affatto di un incidente, né di un brutto scherzo della storia. La similitudine dei sistemi lungi dall'essere apparente, è reale. Ogni cosa dimostra che abbiamo a che fare con delle espressioni e delle conseguenze di identici principi applicati a differenti livelli di sviluppo storico e politico. Che ciò piaccia o meno ai partiti "comunisti", rimane il fatto che lo Stato così come il modo di governare in Russia non differiscono in nulla da quelli dell'Italia e della Germania.

Essi sono essenzialmente simili. Si può parlare di uno "Stato sovietico" rosso, nero o bruno, così come di un fascismo rosso, nero o bruno. Anche se esistono tra questi paesi, alcune differenze ideologiche, l'ideologia non svolge mai un ruolo determinante. Per di più le ideologie sono mutevoli e questi cambiamenti non rivestono forzatamente il carattere e le funzioni dell'apparato di Stato. Inoltre, la conservazione della proprietà privata in Germania e in Italia non è che una modificazione secondaria. L'abolizione della proprietà privata soltanto non garantisce il socialismo. La proprietà privata può essere abolita anche nel quadro del capitalismo. Ciò che nei fatti determina una società socialista è, oltre all'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, la gestione da parte dei lavoratori dei prodotti del loro lavoro e la fine del sistema salariale.

Sia in Russia, quanto in Italia o in Germania, queste due condizioni non sono esistenti. Benché, secondo alcuni, la Russia sia più vicina al socialismo degli altri paesi, non ne consegue che il suo "stato sovietico" abbia aiutato il proletariato internazionale ad avvicinarsi ai suoi obiettivi di classe. Al contrario, poiché la Russia si fa chiamare uno stato socialista, inganna i lavoratori del mondo intero.

Il lavoratore cosciente sa cos'è il fascismo, e lo combatte; ma per quel che riguarda la Russia, è troppo spesso incline ad accettare il mito della sua natura socialistica. Questa illusione ritarda la rottura completa e definitiva, perché ostacola la lotta principale contro le cause, le condizioni e le circostanze che - in Russia, così come in Germania ed Italia, hanno portato allo stesso sistema di Stato e di governo. Così il mito russo si trasforma in arma ideologica della controrivoluzione.

Nessuno può servire due padroni. Uno Stato totalitario nemmeno. Se il fascismo serve gli interessi del capitalismo e dell'imperialismo, non può soddisfare i bisogni dei lavoratori. Se, malgrado ciò, due classi apparentemente opposte sostengono lo stesso sistema statale, è evidente che qualcosa non va e che una delle due si sbaglia. Nessuno può pretendere, riducendo il problema a una semplice questione di forma, che esso non sia di nessuna importanza e che, benché le forme politiche siano identiche, i loro contenuti possano variare considerevolmente.

Tutto ciò equivarrebbe ad una auto-mistificazione. Per un marxista, le cose non sono così, la forma e il contenuto sono indissociabili. Dunque, se lo Stato sovietico serve da modello al fascismo, deve avere con esso delle caratteristiche strutturali e funzionali comuni. Per determinare quali esse siano dobbiamo tornare all'analisi del "sistema sovietico", così come fu instaurato dal leninismo, che è l'applicazione dei principi bolscevichi alle condizioni russe.

E se si può stabilire un'identità tra il bolscevismo e il fascismo, allora il proletariato non può al contempo combattere il fascismo e sostenere "sistema sovietico" russo. Al contrario, la lotta contro il fascismo deve cominciare con la lotta contro il bolscevismo.

 

II

 

Sin dall'inizio Lenin concepì il bolscevismo come un fenomeno puramente Russo. Nel corso dei suoi numerosi anni di attività politica, non tentò mai di erigere il sistema bolscevico al livello delle forme di lotta utilizzati negli altri paesi. Era un socialdemocratico, secondo cui Bebel e Kautsky restavano i leader geniali della classe lavoratrice, ed ignorava l'ala sinistra del movimento socialista tedesco che si opponeva proprio ai suoi eroi e contro tutti gli opportunisti. Ignorando questa sinistra, rimase dunque isolato, circondato da un piccolo gruppo di emigrati russi, e rimarrà sotto l'influenza di kautsky, persino quando la "sinistra" tedesca, diretta da Rosa Luxemburg, era già impegnata apertamente nella lotta contro il kautskysmo.

La Russia era la sola preoccupazione di Lenin. Il suo obiettivo era di porre fine al sistema feudale zarista e di conquistare il massimo di influenza politica per il suo partito socialdemocratico nel quadro della società borghese. Tuttavia, la forza della Rivoluzione del 1917 condusse Lenin ben oltre i suoi presunti obiettivi e il partito bolscevico assunse il potere su tutta la Russia. Tuttavia, questo partito sapeva che non poteva rimanere al potere e far progredire il processo di socializzazione se non alla condizione di poter scatenare la rivoluzione proletaria mondiale. Ma la sua attività in questo campo ebbe dei risultati piuttosto infelici. Contribuendo a far tornare i lavoratori tedeschi nei partiti, nei sindacati, nel parlamento, e a distruggere il movimento dei consigli tedesco, i bolscevichi diedero man forte allo schiacciamento della nascente rivoluzione europea.

Il partito bolscevico, formato da rivoluzionari professionisti e da ampie masse arretrate, rimase isolato. Non poteva sviluppare un vero sistema sovietico durante gli anni della guerra civile, degli interventi stranieri, di declino economico, di sconfitta nei tentativi di socializzazione, e di creazione di un'armata rossa improvvisata.

Benché i soviet, sviluppati dai menscevichi, siano estranei allo schema bolscevico, è tuttavia grazie ad essi che i bolscevichi giunsero al potere. Una volta assicurata la stabilità del potere e avviato il processo di ricostruzione economica, il partito bolscevico non sapeva più come coordinare il sistema dei soviet, che non era roba sua, con le sue attività e decisioni. Tuttavia, realizzare il socialismo era anche il desiderio dei bolscevichi, e per la realizzazione di questo obiettivo era necessario l'intervento del proletariato mondiale.

Per Lenin, era essenziale guadagnare i proletari del mondo ai metodi bolscevichi. Era dunque molto fastidioso costatare che gli operai degli altri paesi, malgrado il grande trionfo ottenuto dal bolscevismo, mostrassero poca inclinazione per la sua teoria e pratica bolscevica, ma erano piuttosto attratti dal movimento dei consigli, che apparvero allora in molti paesi, e soprattutto in Germania.

Questo movimento dei consigli non poteva più essere di alcuna utilità a Lenin in Russia. Negli altri paesi europei, esso mostrava una tendenza accentuata ad opporsi ai sollevamenti di tipo bolscevico. Malgrado l'enorme propaganda intrapresa da Mosca in tutti i paesi, l'agitazione condotta da quel che è stata chiamata "ultrasinistra", per una rivoluzione fondata sul movimento dei consigli svegliò, così come lo stesso Lenin ha evidenziato, un'eco ben più ampia di quanto non facessero tutti i propagandisti inviati dal partito bolscevico. Il partito comunista tedesco, seguendo l'esempio del bolscevismo, rimaneva un piccolo gruppo isterico e chiasso, formato soprattutto da elementi proletarizzati della borghesia, mentre il movimento dei consigli attirava a sé gli elementi più determinati della classe operaia. Per far fronte a questa situazione, si doveva rafforzare la propaganda bolscevica, si doveva attaccare l'"ultrasinistra" e rovesciare la sua influenza a favore del bolscevismo.

Poiché il sistema dei soviet aveva fallito in Russia, come poteva sperare la "concorrenza" radicale di provare al mondo che là dove il bolscevismo stesso aveva fallito in Russia, si poteva farcela altrove facendo facendo a meno di esso? Per difendersi, Lenin scrisse il suo libello "L' Estremismo, Malattia Infantile del Comunismo", dettato dalla paura di perdere il potere e dall'indignazione di fronte al successo degli eretici.

Il libello apparve dapprima con il sottotitolo "Saggio di esposizione popolare della strategia e della tattica marxiste", ma successivamente questa frase ambiziosa e stupida fu soppressa. Era davvero troppo. 

Questa bolla papale aggressiva, rozza e odiosa era un vero colpo di fortuna  per ogni controrivoluzionario. Di tutte le dichiarazioni programmatiche del bolscevismo,era quella che meglio rivelava il suo reale carattere. Era il bolscevismo messo a nudo. Quando nel 1935 Hitler in Germania soppresse tutta la letteratura socialista e comunista, la pubblicazione e la diffusione del libello di Lenin rimasero autorizzate.

Per quanto concerne il contenuto del libello, non ci occupiamo di ciò che esso sostiene in relazione alla Rivoluzione russa, alla storia del bolscevismo, alla polemica tra il bolscevismo e le altre correnti del movimento operaio, o alle circostanze che hanno permesso la vittoria bolscevica. Il nostro unico scopo sarà di analizzare i principali argomenti che, all'epoca della controversia tra Lenin e l' "ultrasinistra" illustravano le differenze decisive tra i due avversari.

 

III

 

Il partito bolscevico, originariamente sezione socialdemocratica russa della II Internazionale, non si costituì in Russia, ma nell'emigrazione. Dopo la scissione di Londra nel 1903, l'ala bolscevica della socialdemocrazia russa si ridusse ad una piccola setta personale. Le "masse" che lo appoggiavano non esistevano che nel cervello dei suo capi. Tuttavia, questa piccola avanguardia era un'organizzazione strettamente disciplinata, sempre pronta per le lotte militanti e sottoposta continuamente a delle purghe per mantenere la sua integrità. Il partito era considerato come l'accademia militare dei rivoluzionari professionisti.

I suoi principi pedagogici salienti erano l'autorità indiscutibile del capo, un rigido centralismo, una disciplina di ferro, il conformismo, il militarismo e il sacrificio della personalità agli interessi del partito. Ciò che Lenin sviluppò in realtà, era un'élite di intellettuali, un nucleo che, gettato nella rivoluzione, si impadronisse della direzione e si impadronisse del potere. E' inutile tentare di determinare logicamente e astrattamente se una tale preparazione alla rivoluzione sia giusta o sbagliata. Il problema deve risolversi dialetticamente. Si devono innanzitutto sollevare altre domande: quale genere di rivoluzione era in gestazione? Quale ne era lo scopo?

Il partito di Lenin lavorava, nel quadro della tardiva rivoluzione borghese in Russia, al rovesciamento del regime feudale zarista. In questo genere di rivoluzione, più la volontà del partito dirigente è centralizzata e orientata verso uno solo scopo, più il processo di formazione dello stato borghese a delle possibilità di successo, più la posizione del proletariato nel quadro del nuovo Stato sarà promettente. Tuttavia, ciò che possiamo considerare come una felice soluzione dei problemi rivoluzionari in una rivoluzione borghese, non può passare al contempo per la soluzione dei problemi della rivoluzione proletaria. La differenza strutturale fondamentale tra la società borghese e la nuova società socialista esclude una tale ambivalenza.

Secondo il metodo rivoluzionario di Lenin, i capi sono il cervello delle masse. Possedendo l'educazione rivoluzionaria appropriata, essi sono in grado di valutare le situazioni e dirigere le forze combattenti. Sono dei rivoluzionari professionisti, i generali del grande esercito civile. Questa distinzione tra il cervello e il corpo, gli intellettuali e le masse, gli ufficiali e i soldati semplici corrisponde alla dualità della società di classe, all'ordine sociale borghese. Una classe è educata a comandare; l'altra a ubbidire. E' da questa vecchia formula di classe che sorse la concezione leninista del partito. La sua organizzazione non è che una semplice replica della realtà borghese. La sua rivoluzione è oggettivamente determinata dalle stesse forze che creano l'ordine sociale borghese, fatta astrazione dagli scopi soggettivi che accompagnano questo processo.

Chiunque cerchi di fondare un regime borghese, troverà nel principio della separazione tra il capo e le masse, tra l'avanguardia e la classe lavoratrice, la preparazione strategica a una tale rivoluzione. Più la direzione è intelligente, istruita, e superiore, più le masse sono disciplinate e obbedienti, più una tale rivoluzione ha delle opportunità di riuscire. Cercando di portare a termine la rivoluzione borghese in Russia, il partito di Lenin era dunque il più adatto al suo obiettivo.

Quando, tuttavia, la rivoluzione russa cambiò di natura, quando le sue caratteristiche proletarie divennero evidenti, i metodi tattici e strategici di Lenin persero il loro valore. Se egli vinse in fin dei conti, non fu per via della sua avanguardia, ma per via del movimento dei soviet, che egli non aveva affatto incluso nei suoi piani rivoluzionari. E quando Lenin, una volta che la rivoluzione fu assicurata dai soviet, decise di farne a meno ancora una volta, con essi ogni carattere proletario scomparve dalla rivoluzione russa. Il carattere borghese della rivoluzione occupò di nuovo la scena, trovando il suo esito naturale nello stalinismo.

Malgrado la sua preoccupazione per la dialettica marxista, Lenin era incapace di concepire dialetticamente l'evoluzione storica dei processi sociali. Il suo pensiero rimaneva meccanicistico, seguendo degli schemi rigidi. Per lui, non esisteva che un solo partito rivoluzionario - il suo; una sola rivoluzione - quella russa; un solo metodo - il bolscevismo. E ciò che era riuscito in Russia doveva riuscire anche in Germania, Francia, America, Cina e Australia. 

Ciò che era giusto per la rivoluzione borghese russa, lo era anche per la rivoluzione proletaria mondiale. L'applicazione monotona di una formula scoperta una volta per tutte che si evolve in un circolo egocentrico in cui non vengono prese in considerazione né l'epoca né le circostanze, né i livelli di sviluppo, né le realtà culturali, né le idee né gli uomini. Con Lenin, si aveva l'avvento del macchinismo in politica: egli era il "tecnico", l'"inventore" della rivoluzione, il rappresentante dell'onnipotente volontà del capo.

Tutte le caratteristiche fondamentali del fascismo esistevano nella sua dottrina, nella sua strategia, nella sua "pianificazione sociale" e nella sua arte di manipolare gli uomini. Non poteva afferrare il profondo significato rivoluzionario del rifiuto da parte della sinistra della tradizionale politica del partito. Non poteva comprendere la vera importanza del movimento dei soviet per l'orientamento socialista della società.

Ignorava le condizioni richieste per la liberazione dei lavoratori. Autorità, direzione, forza esercitate da una parte, organizzazione, inquadramento, subordinazione dall'altra, - questo era il suo modo di ragionare. Disciplina e dittatura sono le parole che ricorrono più frequentemente nei suoi scritti. Si capisce dunque facilmente perché non poteva né accettare né apprezzare le idee e le azioni dell'"ultrasinistra", che rifiutava la sua strategia e richiedeva ciò che, in tutta evidenza, era indispensabile alla lotta rivoluzionaria per il socialismo,  cioè che i lavoratori prendessero una volta per tutte il loro destino nelle proprie mani.

 

IV

 

Il prendere nelle proprie mani da parte dei lavoratori della loro liberazione - problema centrale del socialismo - questo era l'oggetto fondamentale di tutte le polemiche tra l'ultrasinistra e i bolscevichi. Il disaccordo sulla questione del partito trovava il suo parallelo nel disaccordo sui sindacati. l'ultrasinistra riteneva che non vi era più posto per i rivoluzionari all'interno dei sindacati; che era al contrario necessario per essi costruire i propri quadri organizzativi all'interno delle fabbriche, dei luoghi di lavoro comuni. Tuttavia, grazie alla loro autorità usurpata, i bolscevichi erano riusciti sin dalle prime settimane della rivoluzione tedesca a convincere i lavoratori a ritornare nei sindacati capitalisti reazionari. Per combattere le ultrasinistre, per denunciarle come controrivoluzionarie, Lenin utilizzò ancora una volta nel suo libello le sue formule meccanicistiche.

La sua argomentazione contro la posizione della sinistra non si riferisce ai sindacati tedeschi, ma alle esperienze sindacali dei bolscevichi in Russia. E' generalmente ammesso che ai loro inizi i sindacati svolsero un ruolo importante nella lotta di classe proletaria. I sindacati in Russia erano recentissimi ed essi giustificavano l'entusiasmo di Lenin. Tuttavia, la situazione era differente negli altri paesi. Da utili e Utili e progressisti che essi erano ai loro inizi, i sindacati si erano trasformati nei vecchi paesi capitalistici in ostacoli per la liberazione dei lavoratori. Essi erano diventati degli strumenti della controrivoluzione, e la sinistra tedesca aveva tratto le conclusioni di questa evoluzione.

Lenin stesso si vide obbligato di constatare che con il tempo si era costituito uno strato di "aristocrazia operaia esclusivamente corporativa, arrogante, sostegno dell'imperialismo, piccolo borghese, corrotta e degenerata". E' questa gilda di corruzione, questa direzione di criminali che è oggi alla testa del movimento sindacale nel mondo e vive sulle spalle dei lavoratori. Era a questo movimento sindacale che si riferiva l'ultrasinistra quando essa chiedeva ai lavoratori di abbandonarlo.

Lenin, tuttavia, avanzava demagogicamente l'esempio del giovane movimento sindacale russo che, non aveva condivideva le caratteristiche dei vecchi sindacati degli altri paesi. A partire da un'esperienza specifica, corrispondente a un dato periodo e a delle particolari circostanza, stimava possibile trarre delle conclusioni applicabili su scala mondiale. Secondo la sua argomentazione, il rivoluzionario, deve sempre essere là dove si trovano le masse. Ma dove sono esse realmente? Negli uffici del sindacato? Alle riunioni degli aderenti? Agli incontri segreti tra dirigenti sindacali e rappresentanti del Capitale?

No, le masse sono nelle fabbriche, nei loro posti di lavoro; ed è là che è necessario rendere efficace la loro cooperazione e rafforzare la loro solidarietà. L'organizzazione di fabbrica, il sistema consiliare, è l'organizzazione autentica della rivoluzione, che deve sostituire tutti i partiti e tutti sindacati.

Nelle organizzazioni di fabbrica non c'è posto per i professionisti della direzione, non vi è nemmeno separazione tra capi e subordinati, di distinzione tra intellettuali e semplici militanti. E' un quadro che scoraggia le manifestazioni di egoismo, lo spirito di rivalità, e il filisteismo. Qui i lavoratori devono prendere nelle proprie mani il loro destino.

Ma per Lenin le cose stavano diversamente. Voleva preservare i sindacati; trasformarli dall'interno; sostituire i membri permanenti socialdemocratici con dei membri permanenti bolscevichi; sostituire una burocrazia buona a una cattiva. Quella cattiva si manifesta nella socialdemocrazia, quella buona nel bolscevismo.

Nel frattempo vent'anni di esperienza hanno dimostrato l'inanità di una tale concezione. Seguendo i consigli di Lenin, i comunisti hanno tentato in tutti i modi possibili di riformare i sindacati. Il risultato è stato nullo. Nulla anche il loro tentativo di costituire propri sindacati. La concorrenza sindacale tra socialdemocratici e bolscevichi era una concorrenza nella corruzione. In questo stesso processo, le energie rivoluzionarie dei lavoratori si sono esaurite. Invece di concentrare le loro forze per lottare contro il fascismo, i lavoratori hanno pagato le spese di un'esperienza assurda e inutile a vantaggio delle diverse burocrazie.

Le masse hanno perso fiducia in se stesse e nelle "loro" organizzazioni. Si sono sentite ingannate. I metodi propri del fascismo: dettare ogni passo ai lavoratori, impedire il risveglio dell'iniziativa, sabotare ogni embrione di coscienza di classe, demoralizzare le masse con delle sconfitte ripetute, e renderle impotenti, tutti questi metodi erano stati già provati nel corso di vent'anni di lavoro svolti nei sindacati secondo i principi bolscevichi. La vittoria del fascismo fu tanto più facile in quanto i dirigenti operai nei sindacati e nei partiti avevano già modellato per esso il materiale umano adatto ad essere fuso nello stampo.

 

V

 

Anche sulla questione del parlamentarismo, Lenin appariva come il difensore di un'illusione politica superata, diventata un ostacolo per all'evoluzione politica e un pericolo per l'emancipazione proletaria. Le ultrasinistre combattevano il parlamentarismo in tutte le sue forme. Rifiutavano di partecipare alle elezioni e non rispettavano le decisioni parlamentari. Lenin, tuttavia, dedicava molte energie alle attività parlamentari e vi accordava una grande importanza. L'ultrasinistra dichiarava il parlamentarismo storicamente superato, anche come semplice tribuna d'agitazione, e non ci vedeva che una perpetua fonte di corruzione sia per i parlamentari sia per i lavoratori.

Il parlamentarismo addormentava la coscienza rivoluzionaria e la determinazione delle masse, mantenendo l'illusione di riforme legali. Nei momenti critici, il parlamento si trasformava in arma della controrivoluzione. Si doveva combattere la tradizione parlamentare, nella misura in cui essa svolgeva ancora un ruolo nella presa di coscienza proletaria.

Per provare il contrario, Lenin operò un'astuta distinzione tra istituzioni storicamente superate e istituzioni politicamente superate. Certamente, egli argomentava, il parlamentarismo è storicamente superato, ma non lo era politicamente, ed era un fatto con il quale si doveva fare i conti. Si doveva partecipare al parlamento perché svolgeva ancora un ruolo politico.

Che argomento! Il capitalismo stesso non è storicamente superato. Secondo la logica di Lenin, non è dunque possibile combatterlo in modo rivoluzionario. Converrebbe piuttosto trovare un compromesso. L'opportunismo, il mercanteggiamento, l'intrigo politico, questi sarebbero le conseguenze della tattica di Lenin.

La monarchia stessa svolge anch'essa un ruolo politico. Secondo Lenin, i lavoratori non avrebbero il diritto di sopprimerla ma dovrebbero elaborare a una soluzione di compromesso.

La stessa cosa varrebbe per la Chiesa, alla quale per di più appartengono ampi strati del popolo. Un rivoluzionario, insisteva Lenin, deve essere là dove sono le masse. La coerenza lo obbligava dunque a dire: "Entrate nella Chiesa, è il vostro dovere rivoluzionario!". E infine, c'è il fascismo. Giorno verrà, in cui il fascismo stesso, sarà un anacronismo storico ma non politico. Cosa fare allora? Accettare l'evidenza e realizzare un compromesso con  il fascismo. 

Seguendo il ragionamento di Lenin, un patto tra Stalin ed Hitler, proverrebbe soltanto che Stalin è in realtà il miglior discepolo di Lenin. E non sarebbe affatto sorprendente che in un futuro prossimo, gli agenti bolscevichi glorifichino il patto tra Mosca e Berlino come la sola vera tattica rivoluzionaria. La posizione di Lenin sulla questione del parlamentarismo non è che un'ulteriore prova della sua incapacità di comprendere le necessità e le caratteristiche fondamentali della rivoluzione proletaria.

La sua rivoluzione è interamente borghese; è una lotta per conquistare la maggioranza, per assicurarsi le posizioni governative e mettere le mani sull'apparato legislativo. Egli riteneva realmente importante guadagnare quanti più voti possibili durante le campagne elettorali, avere una potente frazione bolscevica nei parlamenti, contribuire a determinare la forma e il contenuto della legislazione, di partecipare alla direzione politica. Non si accorgeva affatto che il parlamentarismo dei nostri giorni non è che un semplice inganno, un illusione, e che il reale potere della società borghese si trova in sfere del tutto diverse; che, malgrado tutte le sconfitte parlamentari possibili, la borghesia deterrebbe ancora dei mezzi sufficienti per imporre la sua volontà e i suoi interessi nei settori non parlamentari.

Lenin non vedeva gli effetti demoralizzanti del parlamentarismo sulle masse, non notava l'effetto debilitante della corruzione parlamentare sulla morale pubblica. I politici parlamentari corrotti temevano per i loro redditi. Vi fu un periodo nella Germania prefascista, in cui i reazionari potevano far passare al parlamento non importa quale legge minacciando semplicemente di provocare la sua dissoluzione.

Cosa poteva esservi di più terribile per i parlamentari di tale minaccia che implicava la fine delle loro facili entrate.! Per evitare una tale eventualità essi erano pronti a tutto. E le cose vanno diversamente oggi in Germania, in Russia, in Italia? I burattini parlamentari non hanno alcuna opinione, nessuna volontà, non sono altro che i servi dei loro padroni fascisti.

Non vi è alcun dubbio che il parlamentarismo è del tutto degenerato e corrotto. Ma perché il proletariato non ha posto termine al deterioramento di uno strumento politico che aveva un tempo utilizzato ai suoi scopi. Sopprimere il parlamentarismo attraverso un atto di eroismo rivoluzionario sarebbe stato molto più utile e istruttivo per la presa di coscienza proletaria di quanto non sia la miserabile commedia alla quale è approdato il parlamentarismo nella società fascista.

Ma un tale atteggiamento era del tutto estraneo a Lenin, come lo è oggi a Stalin. Lenin non era interessato a liberare i lavoratori dalla loro schiavitù mentale e fisica; non era preoccupato dalla falsa coscienza delle né dalla loro auto-alienazione in quanto esseri umani. Il problema, per lui, si riconduceva a un problema di potere. Come un borghese, ragionava in termini di guadagni e perdite, del più e del meno, di credito e di debito; e tutte le sue valutazioni di uomo d'affari non riguardavano che dei fenomeni esterni, numeri di membri, numero di voti, seggi in parlamento, posti di direzione.

Il suo materialismo è un materialismo borghese, che ragiona di dei meccanismi, e non su esseri umani. Lenin non è capace di pensare realmente in termini socio-storici. Per lui il parlamento è il parlamento; un concetto astratto nel vuoto che riveste lo stesso significato in tutti i paesi, in tutte le epoche.

Certo, riconosce che il parlamentarismo attraversa diverse fasi evolutive, e lo segnale nella sua argomentazione, ma non applica questa constatazione né nella sua teoria né nella sua pratica. Nelle sue polemiche a favore del parlamento, brandisce l'esempio dei primi parlamenti del periodo ascendente del capitalismo, per non restare a corto di argomenti. E se attacca i parlamenti degenerati, è dal punto di vista dei parlamenti di recente creazione, tuttavia superati da lungo tempo. In breve, decide che la politica è l'arte del possibile, quando per i lavoratori la politica è l'arte della rivoluzione.

 

VI

 

Rimane da analizzare la posizione di Lenin sulla questione dei compromessi. Durante la guerra mondiale la socialdemocrazia tedesca si vendette alla borghesia. Tuttavia, malgrado essa, ereditò dalla rivoluzione tedesca. Ciò fu possibile in ampia misura grazie alla Russia, che ebbe la sua parte di responsabilità nell'eliminazione del movimento tedesco dei consigli. Il potere che era caduto nelle mani della socialdemocrazia fu del tutto sprecato in pura perdita.

La socialdemocrazia si accontentò di riallacciarsi alla sua vecchia politica di collaborazione di classe, soddisfatta di condividere il potere con la borghesia spalle sulle dei lavoratori durante il periodo di ricostruzione del capitalismo. I lavoratori radicali tedeschi opposero a questo tradimento lo slogan: "Nessun compromesso con la controrivoluzione".

Si trattava di un caso concreto, di una situazione specifica, che richiedeva una decisione netta. Lenin, incapace di riconoscere la vera posta in gioco, fece di questa questione concreta un problema astratto. Con l'atteggiamento di un generale e l'infallibilità di un cardinale, tentò di convincere le ultrasinistre che i compromessi con gli avversari politici sono, in ogni circostanza, un dovere rivoluzionario. Leggendo oggi i passaggi sul libello di Lenin che trattano dei compromessi, non ci si può impedire di avvicinare le osservazioni fatte da Lenin nel 1920 e l'attuale politica di compromessi condotta da Stalin. Non vi è uno solo dei difetto mortali della teoria bolscevica che non sia diventato una sotto Stalin.

Secondo Lenin, le ultrasinistre avrebbero dovuto essere pronte a firmare il Trattato di Versailles. Tuttavia, il partito comunista, sempre in accordo con Lenin, conclude un compromesso con gli hitleriani e protestò contro questo stesso trattato. Il "nazionalbolscevismo" propugnato in Germania nel 1919 dall'oppositore di sinistra Lauffenberg, fu criticato da Lenin come "un'assurdità manifesta". Ma Radek ed il partito comunista - seguendo sempre i principi di Lenin - conclusero un compromesso con il nazionalismo tedesco, protestarono contro l'occupazione del bacino della Rühr e celebrarono l'eroe nazionale Schlageter.

La Società delle Nazioni era, per riprendere i termini di Lenin, "una banda di ladri e banditi capitalisti", che i lavoratori dovevano combattere fino allo stremo delle forzeEppure, Stalin, seguendo la tattica di Lenin, elaborò un compromesso con questi stessi banditi e l' U.R.S.S. entrò nel 1934 nella Lega delle Nazioni. Il concetto di "popoli" è per Lenin una concessione criminale fatta all'ideologia contro-rivoluzionaria della piccola borghesia.

Questo non impedì ai leninisti Stalin e Dimitrov di realizzare di realizzare un compromesso con la piccola borghesia per l'assurdo movimento dei "Fronti popolari". Agli occhi di Lenin, l'imperialismo era il più grande nemico del proletariato mondiale, e contro di esso si dovevano mobilitare tutte le forze. Ma Stalin, da perfetto leninista, ancora una volta, è molto occupato a raffazzonare un'alleanza con l'imperialismo hitleriano.

È necessario offrire altri esempi? L'esperienza storica ci insegna che tutti i compromessi conclusi tra la rivoluzione e la controrivoluzione non possono favorire servire che quest'ultima. Ogni politica di compromesso è una politica di bancarotta per il movimento rivoluzionario. Ciò che era iniziato come un semplice compromesso con la socialdemocrazia tedesca, è approdato a Hitler. Ciò che Lenin giustificava come un compromesso necessario è approdato a Stalin. Diagnosticando come "malattia infantile del comunismo", il rifiuto rivoluzionario del compromesso Lenin soffriva endo della malattia senile dell'opportunismo, di pseudocomunismo.

 

VII

 

Analizzata dal punto di vista, la descrizione del bolscevismo delineata nel libello di Lenin, presente le seguenti principali caratteristiche:

 1. Il bolscevismo è una dottrina nazionalista. Concepita in origine essenzialmente per risolvere un problema nazionale, si vide elevata al rango di una teoria e di una pratica di portata, internazionale, e di una dottrina generale. Il suo carattere nazionalista è messo in evidenza anche dal suo sostegno alle lotte per l'indipendenza nazionale condotte dai popoli oppressi.

 2. Il bolscevismo è un sistema autoritario. Il vertice della piramide sociale è il centro di decisione determinante. L'autorità è incarnata nella persona onnipotente. Nel mito del leader, l'ideale borghese della personalità trova la sua più perfetta espressione.

3. Organizzativamente, il bolscevismo è altamente centralizzato. Il comitato centrale detiene la responsabilità di ogni iniziativa, istruzione o ordine. I dirigenti dell'organizzazione svolgono il ruolo della borghesia; l'unico ruolo dei lavoratori è di obbedire agli ordini.

4. Il bolscevismo è una concezione attivistica del potere militante. Interessato esclusivamente dalla conquista del potere politico, esso non si differenzia dalle forme di dominio borghese tradizionale. All'interno stesso dell'organizzazione, i membri non usufruiscono dell'autodeterminazione. L'esercito serve al Partito come modello organizzativo.

5. Il bolscevismo è una dittatura. Utilizzando la forza bruta e metodi terroristici, orienta tutte le sue funzioni verso l'eliminazione delle istituzioni e delle correnti non bolsceviche. La sua "dittatura del proletariato" è la dittatura di una burocrazia o di una sola persona.

6. Il bolscevismo è un metodo meccanicistico. l'ordine sociale che sostiene è fondato sulla coordinazione automatica, la conformità ottenuta attraverso la tecnica e il totalitarismo più efficiente. L'economia "pianificata" centralmente riduce scientemente le questioni socio-economiche a problemi tecnico-organizzativi.

7. La struttura sociale del bolscevismo è di natura borghese. Non abolisce affatto il sistema salariale e rifiuta l'appropriazione da parte del proletariato del prodotto del suo lavoro. Così facendo, esso resta fondamentalmente nel quadro delle relazioni di classe borghese, e perpetua il capitalismo.

8. Il bolscevismo non è un elemento rivoluzionario che nel quadro della rivoluzione borghese. Incapace di realizzare il sistema dei soviet, è per ciò stesso incapace di trasformare radicalmente la struttura della società borghese e della sua economia. Non instaura il socialismo, ma il capitalismo di stato.

9. Il bolscevismo non è una tappa di transizione che approderebbe alla società socialista. Nel sistema dei soviet, senza la rivoluzione totale e radicale degli uomini e delle cose, non può esaudire l'esigenza socialista primordiale, che è di porre fine all'alienazione umana generata dal capitalismo. Rappresenta l'ultima tappa della società borghese, e non il primo passo verso una nuova società. 

 

Questi nove punti fondano una irriiconciliabile tra il bolscevismo e il socialismo. Illustrano con tutta la chiarezza necessaria il carattere borghese del movimento bolscevico e la sua stretta relazione al fascismo.

 

Nazionalismo, autoritarismo, centralismo, dittatura del leader, politiche di potere, regno del terrore, dinamiche meccanicistiche, incapacità a socializzare - tutte questi tratti fondamentali del fascismo esistevano ed esistono nel bolscevismo. Il fascismo non è che una semplice copia del bolscevismo. Per questa ragione, la lotta contro il fascismo deve cominciare con la lotta contro il bolscevismo.

 

Otto Rühle

 

[Traduzione di Ario Libert]

 

LINK ad una grande opera in italiano di Otto Ruhle:

Il coraggio dell'utopia (1935) 

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15 marzo 2014 6 15 /03 /marzo /2014 06:00

L’anarchismo e la rivoluzione spagnola

Sim, 02

Helmut Wagner

 

I

Barcellona 1936, 04L'eroica lotta degli operai spagnoli contro i fascisti è una pietra miliare nello sviluppo del movimento internazionale di classe del proletariato: ha arrestato il corso finora ininterrotto del fascismo vittorioso e, nello stesso tempo, ha iniziato un nuovo periodo di espansione della lotta di classe. Ma questa non è la sola ragione della grande importanza che riveste per il proletariato la guerra civile spagnola. Il suo significato risiede anche nell'avere messo alla prova le teorie e le tattiche dell’anarchismo e dell’anarco-sindacalismo. La Spagna è sempre stata classicamente la terra dell’anarchismo. L'enorme influenza che le dottrine anarchiche vi hanno acquisito può essere compresa soltanto in relazione alla particolare struttura di classe del Paese. La teoria proudhoniana degli artigiani individuali e indipendenti, come l’applicazione fatta da Bakunin di questa teoria alle fabbriche, hanno trovato un appassionato sostegno tra i piccoli contadini, gli operai agricoli e quelli industriali. Le dottrine anarchiche sono state abbracciate da ampie frazioni del proletariato spagnolo e a questa adesione si deve la sollevazione spontanea degli operai contro l’insurrezione fascista.

collettivizzazione, cooperativa di distribuzioneNon vogliamo dire, comunque, che lo sviluppo della lotta sia stato determinato dall’ideologia anarchica, o che rifletta l’aspirazione degli anarchici. Al contrario, mostreremo subito che costoro sono stati costretti a rinunciare a molte delle loro vecchie e consuete idee e ad accettare in cambio dei compromessi della peggior specie. Analizzando questo processo, dimostreremo che l’anarchismo è incapace di risolvere i problemi della lotta di classe rivoluzionaria. Le tattiche da esso impiegate in Spagna erano inadatte a fronteggiare la situazione, non perché il movimento fosse troppo debole per ammetterne un’applicazione pratica, ma perché i metodi anarchici di organizzazione delle differenti fasi della lotta erano in contraddizione con la realtà oggettiva.

collett, 04Questo livello di sviluppo mostra delle somiglianze sorprendenti con i bolscevichi russi del 1917. Come questi ultimi vennero costretti ad abbandonare una dopo l’altra le loro vecchie teorie finché, in conclusione, dovettero sfruttare gli operai e i contadini secondo i metodi capitalistico-borghesi, così gli anarchici in Spagna sono ora obbligati ad accettare misure da loro stessi denunciate in passato come centralistiche e oppressive. Lo sviluppo della Rivoluzione russa ha dimostrato che le teorie bolsceviche non erano valide per risolvere i problemi posti dalla lotta di classe proletaria; egualmente, la guerra civile spagnola rivela l’inadeguatezza delle dottrine anarchiche.

Giornate di maggioCi sembra abbastanza importante rilevare gli errori commessi dagli anarchici, soprattutto perché la loro valorosa lotta ha indotto molti operai – che vedevano chiaramente il ruolo di traditori svolto dai rappresentanti della Seconda e della Terza Internazionale – a credere che, dopo tutto, essi avessero ragione. Dal nostro punto di vista, ciò è un grosso pericolo, poiché tende ad accrescere la confusione già dilagante nella classe operaia. Consideriamo sia nostro dovere dimostrare, a partire dall’esempio spagnolo, che la posizione antimarxista degli anarchici è sbagliata; al contrario, è la dottrina anarchica ad avere fallito. Quando si tratta di comprendere una certa situazione, o di indicare vie e metodi in una data lotta rivoluzionaria, il marxismo serve ancora da guida ed è in netto contrasto allo pseudo-marxismo dei partiti della Seconda e della Terza Internazionale.

collettivizzazioni, 03La debolezza delle teorie degli anarchici è stata messa in evidenza dalle loro organizzazioni, anzitutto, sulla questione del potere politico. Secondo la loro teoria, la vittoria rivoluzionaria sarebbe assicurata e garantita ponendo il funzionamento delle fabbriche in mano ai sindacati (unioni). Gli anarchici non hanno mai tentato di togliere il potere al governo di Fronte Popolare, e nemmeno hanno lavorato in vista dell’organizzazione di un potere politico dei soviet. Invece di propagandare la lotta di classe contro la borghesia, hanno predicato l’armonia tra le classi a tutti i gruppi aderenti al fronte antifascista. Quando la borghesia ha cominciato a limitare il potere delle organizzazioni operaie, si sono uniti al nuovo governo, il che costituisce una notevole deviazione dai loro principì di base. Gli anarchici hanno tentato di spiegare questo gesto con la scusa che, grazie alla collettivizzazione, il nuovo governo di Fronte Popolare non avrebbe rappresentato più, come prima, un potere politico, ma un mero potere economico giacché i suoi membri sarebbero stati rappresentativi dei sindacati, al quale, tuttavia, appartengono anche membri dell’Esquerra piccolo-borghese.

Ribes, 02Gli anarchici sostengono che, poiché il potere è nelle fabbriche, e le fabbriche sono controllate dai sindacati, allora il potere è nelle mani degli operai. Vedremo poi cosa accade realmente. Mentre gli anarchici partecipavano al governo, è stato emanato il decreto di scioglimento delle milizie. L’incorporazione delle milizie, la costituzione di un esercito regolare, la soppressione del POUM a Madrid, sono stati decretati con la loro approvazione. Gli anarchici hanno contribuito a organizzare un potere politico borghese ma non hanno fatto niente per la formazione di un potere politico proletario.

Ballester, 02Non è nostra intenzione renderli responsabili dello sviluppo seguito dalla lotta antifascista e della sua deviazione in un vicolo cieco borghese. Altri fattori vanno denunciati, in particolare l’atteggiamento passivo degli operai degli altri Paesi. Ciò che critichiamo piu severamente è il fatto che gli anarchici hanno smesso di lavorare a un’autentica rivoluzione proletaria e si sono identificati con l’attuale sviluppo della lotta. Così hanno offuscato l’antagonismo tra gli operai e la borghesia, e hanno dato corso a illusioni ch’essi stessi, temiamo, pagheranno assai duramente. Le tattiche degli anarchici spagnoli hanno trovato un certo numero di critici nei gruppi libertari stranieri; alcuni li accusano persino di tradimento degli ideali anarchici. Ma siccome questi critici non comprendono la reale situazione che affrontano i loro compagni spagnoli, le loro critiche restano negative. Ma non poteva andare altrimenti. Semplicemente, le dottrine anarchiche non possono rispondere alle questioni sollevate dalla pratica rivoluzionaria.

Poum-04.jpgNessuna partecipazione al governo, nessuna organizzazione del potere politico, sindacalizzazione della produzione: questi sono gli slogan anarchici basilari. Con tali parole d’ordine è impossibile essere effettivamente in sintonia con gli interessi della rivoluzione proletaria. Gli anarchici spagnoli sono ricaduti nelle pratiche borghesi perché sono stati incapaci di sostituire i propri irrealizzabili slogan con quelli del proletariato rivoluzionario. Proprio per questa ragione, i critici e i consiglieri libertari di altri Paesi non possono offrire alcuna soluzione per tali problemi, risolvibili soltanto sulla base della teoria marxiana. La posizione più estrema tra gli anarchici stranieri è quella degli olandesi (a eccezione degli anarco-sindacalisti olandesi del NSV – (Netherlands Syndikalist Vuband). Gli "intransigenti" anarchici d’Olanda rifiutano ogni scontro che impieghi armi militari, poiché una tale lotta sarebbe in contraddizione con l’ideale e il fine anarchici; negano l’esistenza delle classi e nello stesso tempo non possono impedirsi di esprimere la loro simpatia per le masse in lotta contro il fascismo. In realtà, la loro posizione equivale a un sabotaggio della lotta. Essi denunciano ogni azione avente lo scopo di aiutare gli operai spagnoli, come ad esempio l’invio di armi. Il fondo della loro propaganda è questo: fare qualsiasi cosa pur di evitare l’estensione del conflitto ad altri Paesi europei. Essi raccomandano la "resistenza passiva" alla Ghandi, la cui filosofia, tradotta nella realtà oggettiva, significa la resa dei lavoratori indifesi ai carnefici fascisti.

spagna--08.jpgGli anarchici di opposizione ritengono che il potere centralizzato nelle mani della dittatura del proletariato o di uno Stato Maggiore militare, condurrebbe a un’altra forma di repressione delle masse. In risposta, gli anarchici spagnoli sottolineano di stare lavorando non per un potere politico, ma al contrario, per favorire la sindacalizzazione, che escluderebbe lo sfruttamento dei lavoratori; credono sul serio che le fabbriche siano nelle mani degli operai e che non sia necessario organizzarle tutte su di una base centralistica e politica. L’attuale sviluppo, tuttavia, ha già dimostrato che la centralizzazione della produzione sta prendendo piede e gli anarchici sono costretti ad adattarsi alle nuove condizioni, anche contro la propria volontà. Ovunque gli operai anarchici non si curano di organizzare il proprio potere politicamente e in maniera centralizzata, nelle fabbriche e nelle comuni, se ne fanno carico i rappresentanti dei partiti capitalistico-borghesi (inclusi il Partito socialista e quello comunista). Ciò significa che i sindacati, invece di essere controllati direttamente dagli operai nelle fabbriche, saranno diretti in base a leggi e decreti emanati dal governo capitalistico-borghese.

II

Spagna--Blum.jpgDa questo punto di vista si pone la questione seguente: è vero che in Catalogna gli operai detenevano il potere nelle fabbriche dopo la sindacalizzazione della produzione operata dagli anarchici? Per rispondere, ci basta citare qualche paragrafo dell’opuscolo Cosa sono la CNT e la FAI? (pubblicazione ufficiale della CNT-FAI). "La direzione delle imprese collettivizzate è nelle mani dei Consigli di fabbrica che vengono eletti nell’assemblea generale di fabbrica. Questi Consigli contano da cinque a quindici membri. La partecipazione al Consiglio può durare fino a due anni…. I Consigli di fabbrica sono responsabili di fronte all’assemblea generale di fabbrica e al Consiglio della categoria d'industria. La produzione è regolata dal Consiglio di fabbrica insieme al Consiglio di categoria. Inoltre, essi regolano le questioni della retribuzione, delle condizioni sanitarie ecc.".

"Ogni Consiglio di fabbrica designa un direttore. Nelle imprese che occupano piu di 500 operai, questa nomina dev’essere approvata dal Consiglio di categoria. In accordo con gli operai della fabbrica, ogni impresa delega uno dei membri del Consiglio di fabbrica al Consiglio economico della Generalitat. I Consigli di fabbrica riferiscono con regolarità circa i loro lavori e i loro piani tanto all’assemblea generale che al Consiglio di categoria. In caso d’incompatibilità o di rifiuto nell’applicazione delle decisioni prese, i membri del Consiglio di fabbrica possono essere destituiti sia dall’assemblea generale sia dal Consiglio di categoria. Se un membro del Consiglio di fabbrica viene dimissionato dal Consiglio di categoria contro il parere degli operai, questi hanno diritto di fare ricorso davanti al Consiglio economico della Generalitat, che decide sentito la relazione del Consiglio economico generale antifascista…

"Il Consiglio economico generale delle varie categorie d’industria è composto da 4 rappresentanti dei Consigli di fabbrica, 8 rappresentanti dei diversi sindacati (secondo le proporzioni delle differenti tendenze politiche) e 4 tecnici, nominati dal Consiglio economico generale antifascista. Questo comitato è presieduto da un membro del Consiglio della Generalitat. Il Consiglio economico generale svolge i seguenti compiti: organizzazione della produzione, calcolo dei costi, eliminazione della concorrenza tra le imprese, studio della domanda di prodotti industriali, così come dei mercati interni ed esteri…, aumento della redditività e consolidamento delle fabbriche, riorganizzazione dei metodi di produzione, fissazione delle tariffe doganali, edificazione di mercati centrali, acquisizione degli strumenti di lavoro, delle materie prime e dei crediti, installazione di laboratori tecnici, elaborazione di statistiche per la produzione e il consumo, programmazione della sostituzione di materiali stranieri con prodotti spagnoli ecc".

Non c’è bisogno di scervellarsi per rendersi conto che queste proposte pongono tutte le funzioni economiche nelle mani del Consiglio economico generale [CEG]. Come abbiamo visto, il ceg è costituito da 8 rappresentanti dei sindacati: 4 tecnici nominati dal Consiglio economico generale antifascista e 4 rappresentanti dei Consigli di fabbrica. Il Consiglio economico generale antifascista venne organizzato all’inizio della rivoluzione e si compone di rappresentanti dei sindacati e della piccola borghesia (Esquerra catalana ecc.). Soltanto i quattro delegati del Consiglio di fabbrica possono essere considerati come rappresentanti diretti degli operai. Notiamo, inoltre, che in caso di sospensione dei rappresentanti del Consiglio di fabbrica, il Consiglio d’industria della Generalitat e il Consiglio economico generale antifascista hanno un’influenza decisiva. Il ceg può destituire gli oppositori nel Consiglio di fabbrica; contro questa misura gli operai possono fare appello al Consiglio della Generalitat ma la decisione spetta, in ultima istanza, al Consiglio economico generale antifascista. I Consigli di fabbrica organizzano le condizioni di lavoro; sono responsabili non soltanto di fronte ai lavoratori dell’impresa ma anche al Consiglio di categoria. Il Consiglio di fabbrica può designare un direttore, ma per le imprese più grandi, il consenso del Consiglio di categoria è necessario. In breve si può dire che attualmente gli operai hanno ben poca voce in capitolo sull’organizzazione e sul controllo delle fabbriche. In realtà, governano i sindacati. Vedremo in seguito cosa ciò significhi.

Considerando i vari fatti citati, non riusciamo a condividere l’entusiasmo della CNT a proposito dello "sviluppo sociale". "Negli uffici pubblici, pulsa la vita di una rivoluzione veramente costruttiva", scrive Rosselli in Che cosa sono la CNT e la FAI (pp. 38-39, ed. tedesca). Secondo noi, il polso di una rivoluzione autentica, non si sente negli uffici amministrativi, ma nelle fabbriche. Negli uffici batte il cuore di una vita differente, quella della burocrazia. Non critichiamo i fatti. I fatti, la realtà, sono determinati da circostanze e condizioni che sfuggono al controllo dei singoli gruppi; il fatto che gli operai di Catalogna non abbiamo instaurato la dittatura del proletariato non è una loro mancanza. La vera ragione risiede nella confusa situazione internazionale che contrappone gli operai spagnoli al resto del mondo. In tali condizioni, è impossibile per il proletariato spagnolo liberarsi dai suoi alleati piccolo-borghesi. La rivoluzione era condannata ancora prima di essere realmente cominciata. No, non critichiamo i fatti.

Critichiamo, tuttavia, gli anarchici per aver considerato socialiste le condizioni esistenti in Catalogna. Tutti quelli che parlano agli operai di socialismo in Catalogna, in parte perché attualmente ci credono, in parte perché non vogliono perdere il contatto e l’influenza sullo sviluppo del movimento – impediscono ai lavoratori di vedere quanto sta accadendo in Spagna. Non capiscono niente dei principi rivoluzionari, rendendo così più difficile lo sviluppo di lotte radicali. I lavoratori spagnoli non possono permettersi di lottare effettivamente contro il ruolo dei sindacati, giacché ciò porterebbe a un collasso completo del fronte militare. Essi non hanno altra alternativa: devono lottare contro i fascisti per salvarsi la vita, devono accettare qualsiasi aiuto senza guardare da dove proviene. Non si chiedono se il risultato di questa lotta sarà il socialismo o il capitalismo; sanno soltanto che devono lottare fino alla fine. Solo una piccola frazione del proletariato è coscientemente rivoluzionaria. Finché i sindacati organizzeranno la lotta militare, i lavoratori li sosterranno; non si può negare che ciò comporti dei compromessi con la borghesia, ma è considerato un male necessario. La parola d’ordine della CNT: "Innanzitutto la vittoria sui fascisti, poi la rivoluzione sociale", esprime il sentimento prevalente tra i militanti operai. Ma questo sentimento può anche essere spiegato con la generale arretratezza del Paese, la quale non solo rende possibile, ma addirittura costringe il proletariato a compromessi con la borghesia. Risulta, così, che il carattere della lotta rivoluzionaria subisce enormi cambiamenti e che al posto di tendere al rovesciamento della borghesia essa conduce al consolidamento di un nuovo ordine capitalista. 

 

L'aiuto straniero strangola la rivoluzione

La classe operaia in Spagna non lotta soltanto contro la borghesia fascista, ma contro la borghesia del mondo intero. I Paesi fascisti – Italia, Germania, Portogallo e Argentina – sostengono i fascisti spagnoli in questa lotta con tutti i mezzi a loro disposizione. Questo basta a rendere impossibile la vittoria della rivoluzione in Spagna. L’enorme potere degli Stati nemici è troppo forte per il proletariato spagnolo. Se i fascisti spagnoli, nonostante il loro tremendo potere, non hanno sinora vinto, venendo anzi sconfitti su vari fronti, ciò dipende dalle forniture di armi dall’estero di cui ha goduto il governo antifascista. Mentre il Messico ha dato fin dall’inizio il suo appoggio, seppur limitato, con armi e munizioni, la Russia ha cominciato solo dopo cinque mesi di guerra. L’aiuto è giunto dopo che le truppe fasciste, equipaggiate con moderne armi italiane e tedesche, e inoltre aiutate in ogni modo dai Paesi fascisti, hanno fatto indietreggiare le milizie antifasciste. L’aiuto sovietico ha permesso di proseguire la lotta. Un’altra conseguenza è stata che la Germania e l’Italia sono state spinte a inviare ancora piu armi e anche truppe. In tal modo, questi Paesi sono divenuti sempre piu influenti sulla situazione politica.

Con un tale sviluppo degli eventi, la Francia e l’Inghilterra, preoccupate per le relazioni con le proprie colonie, non potevano rimanere indifferenti. È così che la lotta in Spagna ha assunto il carattere di un conflitto internazionale tra le grandi potenze imperialiste che, apertamente o segretamente, partecipano alla guerra per difendere antiche posizioni di dominio o per conquistarne di nuove. Da entrambe le parti, i fronti antagonisti in Spagna sono ora sostenuti con armi e con altri aiuti materiali. Non si può ancora sapere quando e dove questa lotta finirà. Nello stesso istante in cui i lavoratori spagnoli vengono salvati da questo aiuto straniero la rivoluzione riceve il colpo di grazia. Le moderne armi straniere hanno reso possibile la lotta sul piano militare e, di conseguenza, il proletariato spagnolo è stato soggiogato agli interessi imperialisti e, prima di tutto, agli interessi russi.

L’Unione Sovietica non aiuta il governo spagnolo per portare avanti la rivoluzione, ma per impedire la crescita dell’influenza italiana e tedesca nella zona mediterranea. Il blocco delle navi russe e il loro sequestro, mostra chiaramente all'URSS ciò che l’aspetta qualora lasciasse la vittoria alla Germania e all’Italia. La Russia tenta d’insediarsi in Spagna. Indicheremo come, in seguito alla pressione ch’essa esercita, gli operai spagnoli stiano perdendo gradualmente la loro influenza sullo sviluppo degli eventi; come i comitati della milizia siano dissolti, il POUM escluso dal governo, e vengano legate le mani alla CNT. Da mesi, si rifiutano armi e munizioni al POUM e alla CNT sul fronte di Aragona. Tutto ciò prova che il potere, da cui dipendono materialmente gli antifascisti spagnoli, dirige anche la lotta degli operai di Spagna. Questi ultimi, se possono provare a liberarsi dall’influenza della Russia, non possono fare a meno del suo aiuto e, in ultima istanza, devono accondiscendere a ogni sua richiesta.

Finché gli operai all’estero non si rivolteranno contro le loro proprie borghesie, dando così un sostegno attivo alla lotta rivoluzionaria in Spagna, gli operai spagnoli dovranno sacrificare il proprio fine socialista. La causa reale del fallimento interno della rivoluzione spagnola sta nel fatto che gli operai spagnoli hanno dipeso dall’appoggio materiale dei Paesi capitalisti (in questo caso, il capitalismo di Stato russo). Se la rivoluzione si estendesse su un’area sufficientemente ampia, se, per esempio, si effettuasse in Inghilterra, Francia, Italia, Germania, Belgio, allora le cose assumerebbero un altro aspetto. Soltanto se la controrivoluzione nelle regioni industriali più importanti dell’Europa fosse schiacciata, così come lo è ora a Madrid, in Catalogna, nelle Asturie, il potere della borghesia fascista verrebbe spezzato. Le guardie bianche nelle zone reazionarie potrebbero certamente mettere in pericolo la rivoluzione; ma alla lunga non batterla. Truppe che non siano sostenute da una struttura industriale adeguata perdono presto ogni potere. Se nelle principali regioni industriali europee si realizzasse la rivoluzione proletaria, i lavoratori spagnoli non dipenderebbero oltre dal capitale straniero. Potrebbero impadronirsi di tutto il potere. Così, ancora una volta, sosteniamo che la rivoluzione proletaria può essere vittoriosa soltanto se è internazionale. Se resta confinata a una piccola regione, sarà o schiacciata dalle armi, o snaturata dagli interessi imperialisti. Se la rivoluzione proletaria è sufficientemente forte su scala internazionale, allora non ha più motivo di temere di degenerare in direzione di un capitalismo di Stato o privato. Nella parte seguente, tratteremo delle questioni che si porrebbero in tali circostanze.

 

La lotta di classe nella Spagna "rossa"

Benché nella parte precedente abbiamo mostrato come la situazione internazionale costringa gli operai spagnoli a dei compromessi con la borghesia, non ne abbiamo concluso che la lotta di classe nella Spagna «rossa» sia terminata. Al contrario, essa continua dietro la facciata del Fronte Popolare antifascista, come è dimostrato dagli assalti della borghesia contro ogni roccaforte dei comitati operai, e dal continuo rafforzamento della posizione del governo. Gli operai della Spagna «rossa» non possono rimanere indifferenti a questi sviluppi, devono tentare di conservare le posizioni conquistate per evitare ulteriori sconfinamenti da parte della borghesia e per dare una nuova direzione rivoluzionaria agli eventi. Se gli operai in Catalogna non si battono contro le nuove avanzate della borghesia, la loro totale sconfitta è certa. Se il governo frontista eventualmente battesse i fascisti, utilizzerebbe tutto il proprio potere per ricacciare indietro il proletariato. La lotta tra la classe operaia e la borghesia continuerebbe ma in condizioni ben peggiori per il proletariato; perchÈ la borghesia democratica», dopo la vittoria contro i fascisti riportata dai lavoratori, userebbe in seguito tutte le loro forze in una battaglia antiproletaria. La disintegrazione sistematica del potere degli operai va avanti da mesi; e nei comizi di Caballero si può già intravedere cosa devono aspettarsi i lavoratori dall’attuale governo, una volta assicuratagli la vittoria. Abbiamo detto che la rivoluzione spagnola non può essere vittoriosa se non diventa internazionale. Ma gli operai spagnoli non possono aspettare che la rivoluzione cominci in altre parti d’Europa; non possono attendere quell’aiuto rimasto finora soltanto un pio desiderio. Devono ora, subito, difendere la loro causa, non soltanto contro i fascisti, ma contro i propri alleati borghesi. L’organizzazione del loro potere è dunque, nella presente situazione, una necessità urgente. Ma come risponde a tale domanda il movimento degli operai spagnoli?

 La sola organizzazione a dare una risposta concreta è il POUM, che propugna l’elezione di un congresso generale dei Consigli, da cui dovrebbe uscire un governo realmente proletario. A ciò rispondiamo che il fondamento di una tale proposta non esiste ancora. I cosiddetti "Consigli operai", nella misura in cui non sono ancora stati liquidati, sono per la maggior parte sotto l’influenza della Generalitatche esercita un controllo serrato sulla loro composizione. Peraltro, l’elezione del congresso non garantirebbe il potere degli operai sulla produzione. Potere sociale significa più che mero controllo del governo. Soltanto se il potere proletario permea l’intera vita sociale, può mantenersi. Il potere politico centrale, per quanto grande possa esserne l’importanza, è semplicemente un anello del potere che ha le proprie radici in ogni ambito della vita sociale. Se gli operai vogliono organizzare il proprio potere contro la borghesia, devono cominciare dal basso. Innanzitutto, devono liberare le proprie organizzazioni di fabbrica dall’influenza dei partiti e dei sindacati ufficiali, giacchÈ questi legano gli operai al governo attuale e, con ciò, alla società capitalista. Attraverso le proprie organizzazioni di fabbrica, i lavoratori devono provare a influenzare ogni aspetto della vita sociale. Soltanto su questa base è possibile costituire il potere proletario; soltanto su questa base, le forze della classe operaia possono lavorare in armonia.

 

L’organizzazione economica della rivoluzione

Le questioni dell’organizzazione politica ed economica sono indissociabili. Gli anarchici che negano la necessità di un’organizzazione politica, non possono dunque risolvere i problemi dell’organizzazione economica. C’è interrelazione tra il problema del collegamento del lavoro nelle differenti fabbriche e quello della circolazione dei beni, nella misura in cui è in causa la formazione del potere politico operaio. Il potere operaio nelle fabbriche non può essere mantenuto senza l’instaurazione di un potere politico dei lavoratori, e quest’ultimo non può mantenersi come potere dei lavoratori se non è radicato in un’organizzazione di Consigli di fabbrica. Così, una volta dimostrata la necessità di un potere politico, ci si può interrogare sulla forma del potere proletario, su come integri la società e si radichi nelle fabbriche. Supponiamo che gli operai delle principali zone industriali, per esempio in Europa, abbiano preso il potere e perciò spezzato il potere militare della borghesia in una vasta area. La piu grave minaccia esterna alla rivoluzione sarebbe dunque superata. Ma gli operai, in quanto proprietari collettivi delle officine, come devono rimettere in moto la produzione per soddisfare i bisogni della società? Occorrono le materie prime; ma da dove provengono? Una volta fabbricato il prodotto, dove mandarlo? E chi ne ha bisogno? Non si può risolvere nessuno di questi problemi se ogni fabbrica funziona isolatamente. Le materie prime destinate alle fabbriche vengono da ogni parte del mondo, e i prodotti ottenuti da tali materie sono consumati ovunque. Come faranno a sapere, gli operai, dove procurarsi queste materie prime? Come faranno a trovare consumatori per i loro prodotti, che non possono essere fabbricati a caso? Gli operai non possono fornire prodotti e materie prime senza sapere se verranno utilizzati in maniera appropriata. Affinché la vita economica non si fermi immediatamente, occorre mettere a punto modalità per l’organizzazione della circolazione dei beni. La difficoltà sta qui. Nel capitalismo, questo compito è svolto dal libero mercato ed è mediato dal denaro. Sul mercato, i capitalisti, in quanto proprietari dei prodotti, si affrontano reciprocamente; è qui che si accertano i bisogni sociali. Il denaro ne è la misura. I prezzi esprimono il valore approssimativo dei prodotti. Nel comunismo, queste forme economiche, che derivano dalla proprietà privata e vi sono legate, scompariranno. La questione che si pone è quindi: come si devono accertare, determinare, i bisogni sociali nel comunismo? Sappiamo che il libero mercato può svolgere il suo ruolo in maniera molto limitata; ciò che misura non è determinato dai bisogni reali degli individui ma dal potere d’acquisto dei possidenti e dall’ammontare dei salari operai. Nel comunismo, per contro, conteranno i bisogni reali delle masse e non il contenuto dei portafogli. È chiaro ora che i bisogni reali delle masse non possono essere accertati da alcun tipo di apparato burocratico, ma solo dagli stessi operai. La prima questione sollevata da tale constatazione è quindi non tanto di sapere se gli operai siano capaci di realizzare questo compito, ma chi debba disporre dei prodotti della società. Permettendo a un apparato burocratico di determinare i bisogni delle masse, si crea un nuovo strumento di potere sulla classe operaia. Per questo è essenziale che gli operai si uniscano in cooperative di consumatori e creino così l’organismo che esprimerà i loro bisogni. Lo stesso principio vale per le fabbriche; gli operai, uniti nelle organizzazioni di fabbrica, fissano la quantità di materie prime necessaria alla produzione. Non c’è che un mezzo nel comunismo per accertare i bisogni reali delle masse: l’organizzazione dei produttori e dei consumatori; l’organizzazione degli operai in Consigli di fabbrica e in cooperative di consumo. Tuttavia, non basta che gli operai sappiano di cosa hanno bisogno per la propria sussistenza, né è sufficiente che le officine conoscano la quantità di materie prime necessarie. Le fabbriche si scambiano i prodotti; c’è una trasformazione materiale, i prodotti passano per fasi e fabbriche diverse, prima di entrare nella sfera del consumo. Per rendere possibile questo processo, è necessario, non soltanto accertare delle quantità, ma anche gestirle. Così, arriviamo alla seconda parte del meccanismo che deve sostituirsi al libero mercato; cioè alla «contabilità» sociale generale, che deve includere rendiconti provenienti dalle varie fabbriche e cooperative di consumatori, per dare un quadro chiaro che consenta una conoscenza completa dei bisogni e delle possibilità della società. Se non s’istituisce una contabilità centrale, allora tutta la produzione sarà sommersa dal caos dopo l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e, con essa, del libero mercato. Questo non può essere abolito prima che la produzione e la distribuzione dei beni siano state organizzate dalle cooperative dei produttori e dei consumatori, e prima della creazione di una contabilità centrale. La Russia ha mostrato come si sia mantenuto il «libero mercato» malgrado tutte le misure soppressive dei bolscevichi, giacché gli organi che avrebbero dovuto sostituirlo non funzionarono. In Spagna, l’impotenza delle organizzazioni nel dar vita a una produzione comunista è chiaramente dimostrata dall’esistenza del libero mercato. La vecchia forma di proprietà ha ora un altro aspetto. Al posto della proprietà personale dei mezzi di produzione, i sindacati giocano in parte il ruolo degli antichi proprietari, in una forma leggermente modificata. La forma è cambiata, ma il sistema rimane. La proprietà, in quanto tale, non è abolita. Lo scambio delle merci non scompare. Ecco il grande pericolo che la rivoluzione spagnola affronta al suo interno. Il compito degli operai è trovare una nuova forma di distribuzione dei beni. Se mantengono le forme attuali, gli operai non faranno che spalancare le porte a una restaurazione completa del capitalismo. Nel caso realizzassero una distribuzione centrale dei beni, certamente avrebbero da mantenere sotto il proprio controllo tale apparato centrale. Creato ai soli fini di registrazione e di statistica, questo apparato ha in sÈ la possibilità di impadronirsi del potere e di dotarsi di uno strumento di coercizione utilizzabile contro gli operai. Un tale sviluppo sarebbe il primo passo nella direzione del capitalismo di Stato.

 

L’assunzione della produzione da parte dei sindacati 

 In Spagna, questa tendenza è chiaramente ravvisabile. I funzionari sindacali sono in grado di disporre dell’apparato di produzione e hanno anche un’influenza decisiva sulle formazioni militari. L’influenza degli operai sulla vita economica non va al di là di quella che hanno i loro sindacati. La sua limitatezza è dimostrata dal fatto che le misure sindacali hanno fallito nel condurre un serio attacco alla proprietà privata. Se gli operai s’incaricano della regolazione della vita economica, uno dei loro primi atti dovrà essere diretto contro i parassiti. Il potere magico del denaro, capace di aprire tutte le porte e di comprare tutto, scomparirà. Uno dei primi atti dei lavoratori sarà, senza dubbio, la creazione di una sorta di buoni-lavoro. Questi buoni potranno essere ottenuti solo da chi compie un lavoro utile. (Misure speciali, concernenti gli anziani, i malati, i bambini ecc., saranno certamente necessarie.) In Catalogna, questo non è successo. Il denaro resta il mezzo di scambio dei beni. Anche se è stato introdotto un certo controllo sul movimento delle merci, ciò non ha risparmiato ai lavoratori di dover portare i propri miseri averi al monte di pietà, mentre i proprietari mobiliari, ad esempio, ricevevano rendite garantite del 4% circa («L’Espagne antifasciste», 10 ottobre). È innegabile che i sindacati siano incapaci di prendere altre misure, se non a rischio di mettere in pericolo il fronte unito antifascista. Il carattere libertario della cnt dovrebbe garantire la sicurezza che riavranno ciò che hanno perduto, dopo la vittoria degli antifascisti e la realizzazione di tutte le riforme necessarie. Chi ragiona così commette gli stessi errori delle varie specie di bolscevichi, sia di destra sia di sinistra. Le misure realizzate finora dimostrano chiaramente che agli operai manca ancora il potere. Come si può sostenere che lo stesso apparato sindacale che oggi domina gli operai, dopo la sconfitta del fascismo, metterà volontariamente il proprio potere nelle loro mani? Certamente la cnt è libertaria. Ma anche supponendo che i funzionari di questa organizzazione siano pronti a disfarsi del potere quando la situazione militare lo permetterà, che cosa cambierà realmente con ciò? Il potere non sta nelle mani di questo o quel leader, ma appartiene al grande apparato, composto da innumerevoli Çpezzi grossiÈ che detengono le posizioni chiave così come i posti secondari. Costoro sono in grado, nel momento in cui li si allontana dai loro posti privilegiati, di far crollare l’intera produzione. Ecco sollevato lo stesso problema che ha giocato un ruolo così decisivo nella Rivoluzione russa. L’apparato burocratico sabotò l’intera vita economica, mentre gli operai controllavano le fabbriche. Lo stesso vale per la Spagna. Tutto l’entusiasmo che la cnt mostra per l’idea del diritto all’autodeterminazione delle fabbriche, non toglie che siano le centrali sindacali, in realtà, ad assumersi la funzione dell’imprenditore e che, di conseguenza, siano costrette al ruolo dello sfruttatore del lavoro. In Spagna, il sistema del salariato è mantenuto. Soltanto un aspetto è mutato: prima al servizio del capitalista, il lavoro salariato è ora al servizio dei sindacati. A mo’ di dimostrazione citiamo da un articolo de «L’Espagne antifasciste», n. 24, 28 novembre 1936, intitolato La Révolution s’organise elle-même: «Il plenum provinciale di Granada, riunitosi a Cadice dal 2 ottobre al 4 ottobre, 1936, ha adottato le seguenti risoluzioni: 5. Il comitato delle unità sindacali controllerà l’intera produzione (compresa l’agricoltura). A questo scopo, tutto il materiale necessario alla semina e alla mietitura del raccolto sarà messo a sua disposizione. 6. Come base per lavorare con altre regioni, ogni comitato deve rendere possibile lo scambio dei beni comparando i valori dei prodotti in base ai prezzi correnti. 7. Per facilitare il lavoro, il comitato deve censire tutti gli abili e inabili al lavoro, al fine di sapere su quale potenziale lavorativo può contare, e come dev’essere razionato il cibo in funzione della dimensione delle famiglie. 8. La terra confiscata è dichiarata proprietà comune. Tuttavia, l’appezzamento di chi ha capacità fisiche e professionali sufficienti, non può essere diviso. Questo per ottenere la massima redditività.È (Inoltre, la terra dei piccoli proprietari non può essere confiscata. Alla divisione devono essere presenti organi della cnt e dell’ugt.) Queste risoluzioni vanno considerate come una sorta di piano con cui il comitato delle unità sindacali organizzerà la produzione agricola. Ma, allo stesso tempo, notiamo chiaramente che la direzione delle piccoli aziende, così come di quelle grandi Ð in cui va garantita la massima redditività Ð resterà nelle mani dei vecchi proprietari. Il resto della terra sarà destinato a scopi comunitari. Ciò vuol dire che dev’essere posta sotto il controllo dei comitati sindacali. Inoltre, il comitato delle unità sindacali (UCC) ottiene il controllo sull’intera produzione. Ma non una parola indica il ruolo che debbono svolgere i produttori stessi in questo nuovo ordine produttivo. Tale problema non sembra esistere per l’ugt. I suoi membri vedono come proprio compito unicamente la formazione di un’altra leadership, e cioè quella della UCC, che rimarrà la base del lavoro salariato. Così, la questione del mantenimento del lavoro salariato determina il corso della rivoluzione proletaria. Se gli operai, come prima, rimangono lavoratori salariati, anche posti al servizio di un comitato preposto dal loro sindacato, la loro posizione nel sistema di produzione resta immutata. La rivoluzione sociale sarà allontanata dalla direzione voluta dagli operai a causa dell’inevitabile lotta che sorgerà tra i partiti o i sindacati per l’influenza sull’economia. Ci si può allora domandare: fino a che punto il sindacato può essere considerato come il reale rappresentante dei lavoratori? In altri termini, che influenza hanno gli operai sui comitati centrali dei sindacati che dominano l’intera vita economica? La realtà ci insegna che gli operai perdono ogni influenza o potere su queste organizzazioni; anche nel migliore dei casi, se tutti fossero organizzati nella cnt o nell’ugt e se eleggessero loro stessi i propri comitati. Questi ultimi gradualmente si trasformano se funzionano come autonomi organi di potere. I comitati fissano tutte le norme della produzione e della distribuzione senza esserne responsabili di fronte agli operai che li hanno eletti, ma che non possono revocarli quando vogliono. I comitati hanno il diritto di disporre di tutti i mezzi di produzione necessari al lavoro, così come di tutti i prodotti, mentre l’operaio riceve solo l’ammontare del salario in base al lavoro erogato. Il problema per gli operai spagnoli consiste, dunque, al presente, nel salvaguardare il proprio potere sui comitati sindacali che dirigono la produzione e la distribuzione. Qui si vede chiaramente che la propaganda anarco-sindacalista produce l’effetto opposto: gli anarco-sindacalisti ritengono che tutti gli ostacoli siano superati con la direzione sindacale della produzione. Vedono il pericolo della formazione di una burocrazia solo negli organi statali, ma non nei sindacati; ritengono che il credo libertario renda impossibile un tale sviluppo. Ma al contrario, si è dimostrato – e non soltanto in Spagna – che il credo libertario è stato subito messo da parte dalle necessità materiali. Anche gli anarchici confermano lo svilupparsi di una burocrazia. L’Espagne antifasciste, nel primo numero di gennaio, contiene un articolo tratto da "Tierra y Libertad" (organo della FAI), da cui citiamo: "L'ultimo plenum della Federazione Regionale dei gruppi anarchici della Catalogna ha [...] messo in chiaro il punto di vista dell’anarchismo rispetto alle domande del presente. Ne pubblicheremo le conclusioni con brevi commenti. La citazione seguente è tratta da queste risoluzioni commentate: «4. È necessario abolire la burocrazia parassitaria, ampiamente sviluppatasi a tutti i livelli negli organi dello Stato». Lo Stato è l’eterna culla per una determinata classe: la burocrazia. Oggi, la situazione è divenuta tanto critica da trascinarci in una corrente che minaccia la rivoluzione. La collettivizzazione delle imprese, la costituzione di Consigli e di comitati diventa un suolo fertile per lo sviluppo di una nuova burocrazia di origine operaia. Trascurando i compiti del socialismo e separandosi dallo spirito della rivoluzione, questi elementi, che dirigono i luoghi di produzione o le industrie al di fuori del controllo sindacale, agiscono spesso come burocrati dotati di autorità assoluta, e si comportano come nuovi padroni. Negli uffici dello Stato e nelle amministrazioni locali, si può osservare la crescita di questi «virtuosi della poltrona». Un tale stato di cose deve finire. È il compito dei sindacati e degli operai erigere uno sbarramento contro questa corrente di burocratismo. È l’organizzazione sindacale che deve risolvere questo problema. «I parassiti devono sparire dalla nuova società. Il nostro dovere piu urgente è cominciare la lotta con le nostre armi più affilate e senza più attendere oltre. Ma scacciare la burocrazia coi sindacati è come voler scacciare il demonio con Belzebù, perché sono le condizioni del potere, e non i dogmi idealistici, a determinare lo sviluppo degli eventi. Gli anarcosindacalisti spagnoli, nutriti delle dottrine anarchiche, si dichiarano per il libero comunismo e contro tutte le forme di potere centralizzato; il loro potere è già concentrato nei sindacati, che sarebbero perciò lo strumento con cui realizzare il «libero» comunismo.

 

L’anarco-sindacalismo

Abbiamo visto, così, che la pratica e la teoria degli anarco-sindacalisti spagnoli sono tra loro completamente differenti. Questo era già evidente quando la CNT e la FAI, per consolidare le proprie posizioni, dovettero rinunciare un po’ alla volta al loro precedente atteggiamento anti-politico, e lo stesso si riflette ora nella «struttura economica» della rivoluzione. In teoria, gli anarco-sindacalisti si considerano l’avanguardia del «libero» comunismo. Tuttavia, per far funzionare le «libere» imprese nell’interesse della rivoluzione, sono costretti a privarle della loro libertà e a subordinare la produzione a una gestione centralizzata. La pratica costringe all’abbandono della teoria, e ciò significa che la teoria non è adatta alla pratica. Troveremo una spiegazione per tale discrepanza analizzando il ruolo di queste teorie del «libero» comunismo che, in ultima istanza, sono le concezioni di Proudhon adattate da Bakunin ai moderni metodi di produzione.

  Le concezioni socialiste avanzate da Proudhon un centinaio di anni fa, altro non sono che le concezioni idealiste della piccola borghesia, che vedeva nella libera concorrenza tra le piccole imprese il fine ideale dello sviluppo economico. La libera concorrenza avrebbe dovuto sopprimere automaticamente tutti i privilegi derivanti dal monopolio bancario del denaro e dall’effettivo monopolio fondiario dei grossi proprietari terrieri. In questo modo, il controllo dall’alto diventava superfluo: i profitti sarebbero scomparsi e ciascuno avrebbe ricevuto il «frutto integrale del proprio lavoro», giacché, in accordo con Proudhon, i profitti derivavano solo dal monopolio dei grandi affari. Non ha intenzione di sopprimere la proprietà privata, ma di socializzarla; cioè, di ridurla in piccole imprese e privarla del suo potere».

Proudhon non condanna i diritti di proprietà in quanto tali; egli vede la «libertà reale» nella libera disposizione dei frutti del lavoro e condanna la proprietà privata solamente in quanto privilegio e potere, in quanto diritto del padrone (Gottfried Salomon, Proudhon et le socialisme, p. 31). Ad esempio, per eliminare il monopolio del denaro, Proudhon aveva in mente la costituzione di una banca centrale di sconto per il mutuo credito dei produttori, sopprimendo così il costo del denaro. Questo ci ricorda l’affermazione che segue, tratta da L’Espagne antifasciste del 10 ottobre: «Il sindacato CNT degli impiegati bancari di Madrid propone la trasformazione immediata di tutte le banche di sconto in istituti di credito gratuito per la classe operaia, ossia, con un interesse annuo del 2%…».

 Comunque, l’influenza di Proudhon sulla concezione degli anarco-sindacalisti non si limita a tali questioni relativamente secondarie. Il suo socialismo è fondamentalmente alla base dell’intera dottrina anarco-sindacalista, con lievi modifiche dovute alle condizioni moderne altamente industrializzate. Nella sua prospettiva di un «socialismo della libera concorrenza», la CNT considera le imprese semplicemente come unità indipendenti. È vero che gli anarco-sindacalisti non vogliono il ritorno alla piccola impresa; propongono di liquidarla, o meglio di lasciarla morire di morte naturale quando non funzioni in modo abbastanza razionale. Tuttavia, basta sostituire i termini proudhoniani "piccole imprese" e "artigiani" rispettivamente con "grandi imprese" e "sindacati operai", per avere un’immagine del socialismo della CNT.

 

La necessità della produzione pianificata

In realtà, queste teorie sono utopistiche e particolarmente inapplicabili alle condizioni spagnole. La libera competizione a questo stadio di sviluppo non è più possibile, men che meno in un contesto di guerra e caos come in Catalogna. Dove un certo numero di imprese o di intere comunità si sono liberate e rese indipendenti dal resto del sistema di produzione, in realtà solo per sfruttare i propri consumatori, la CNT e la FAI devono ora subire le conseguenze delle proprie teorie economiche. Sono costrette a questo passo perché una lotta di tutti contro tutti appare altrimenti inevitabile, il che sarebbe molto pericoloso in un momento in cui la guerra civile esige l’unione di tutte le forze. Gli anarco-sindacalisti non conoscono altra via d’uscita che quella già adottata dai bolscevichi e dai socialdemocratici: l’abolizione dell’indipendenza delle imprese e la loro subordinazione a una gestione economica centrale.

Che a realizzare tale gestione siano i loro sindacati, non diminuisce in nulla la portata di un tale atto. Un sistema di produzione centralizzato, in cui gli operai non sono altro che dei salariati è, a dispetto della CNT, nient’altro che un sistema funzionante in base a principi capitalistici. Questa contraddizione tra la teoria e la pratica degli anarco-sindacalisti, è dovuta in parte alla loro incapacità di trovare una soluzione al problema principale della rivoluzione proletaria nell’ambito dell’organizzazione economica: in che quantità, e come, sarà determinata la quota di prodotto totale spettante a ogni membro e partecipante del sistema produttivo? In base alla teoria anarco-sindacalista, questa ripartizione dovrebbe essere determinata dalle imprese indipendenti, o dai liberi individui, mediante l’impiego del "libero capitale": con la produzione per il mercato e il ritorno del valore integrale al produttore attraverso lo scambio. Questo principio venne mantenuto anche quando, anni addietro, la necessità di una produzione pianificata e di conseguenza di una contabilità centrale – era ovvia. Gli anarco-sindacalisti riconoscono la necessità di pianificare la vita economica e ritengono che ciò non sia fattibile senza una contabilità centrale, ossia un’organizzazione statistica dei fattori produttivi e dei bisogni sociali; tuttavia, tralasciano di dare una base effettiva a queste necessità statistiche. È un fatto che la produzione non può essere contabilizzata statisticamente né organizzata su di una base pianificata senza applicare un’unità di misura ai prodotti.

 

Modo di produzione bolscevico contro modo di produzione comunista

Comunismo significa produzione sulla base dei bisogni delle grandi masse. Il problema della determinazione delle quantità destinate al consumo individuale e del volume di materie prime e di prodotti semilavorati da distribuire tra le diverse fabbriche, non può essere risolto per via monetaria come nel capitalismo. Il denaro è l’espressione di determinati rapporti di proprietà privata e assicura una certa parte del prodotto sociale al suo detentore: ciò vale per gli individui singoli come per le imprese. Benché nel comunismo non esista proprietà privata dei mezzi di produzione, nondimeno, ogni individuo godrà di una parte della ricchezza sociale per il proprio consumo, e ogni fabbrica disporrà delle materie prime e dei mezzi di produzione necessari.

Alla domanda su come tutto ciò sarà realizzato, gli anarco-sindacalisti rispondono soltanto vagamente, riferendosi ai metodi statistici. È questo un problema molto difficile per la rivoluzione proletaria. Se gli operai, per determinare la propria quota, si affidassero semplicemente a un "ufficio statistico", creerebbero in tal modo un potere di cui perderebbero il controllo. D’altra parte, una produzione regolata non è possibile se i lavoratori nelle fabbriche hanno diritto a una quantità qualsiasi di beni. Siamo alle prese con il problema: com’è possibile unire, mettere d’accordo, questi due principi che a prima vista sembrano contraddittori, cioè: tutto il potere agli operai, – che implica un federalismo concentrato –, e la regolazione pianificata della produzione – che coincide con una centralizzazione estrema?

Possiamo risolvere questo paradosso solo considerando le basi reali della produzione sociale totale. I lavoratori non danno alla società che una stessa e identica cosa: la propria forza-lavoro. In una società senza sfruttamento, come quella comunista, solo la forza-lavoro erogata da ciascuno potrà fungere da misura per ricevere dalla società i mezzi di esistenza. Nel processo di produzione, le materie prime sono trasformate in beni di consumo con l’applicazione di forza-lavoro. Un ufficio statistico sarebbe oggigiorno totalmente incapace di determinare la quantità di lavoro incorporato in un dato prodotto. Il prodotto è passato attraverso molte mani; inoltre, una quantità gigantesca di macchine, strumenti, materie prime e prodotti semilavorati è stata impiegata nella sua fabbricazione.

Se un ufficio statistico centrale è in grado di raccogliere i dati necessari per comporre un quadro chiaro di tutti i settori dell’intero processo di produzione, allora le singole imprese o le fabbriche sono in una posizione migliore per determinare la quantità di lavoro cristallizzato nei prodotti finiti, mediante il calcolo del tempo di lavoro incorporato nelle materie prime e di quello necessario alla produzione di nuovi beni. Quando tutte le imprese sono interconnesse nel processo produttivo, è facile per ciascuna determinare la quantità totale di tempo di lavoro necessario per realizzare un prodotto finito sulla base dei dati disponibili. Meglio ancora, è facilissimo trovare il tempo di lavoro sociale medio dividendo la quantità del tempo di lavoro erogato per la quantità dei prodotti.

Questo è il fattore finale determinante per il consumatore. Per poter ottenere un prodotto, questi dovrà semplicemente dimostrare di aver dato alla società, benchè in una forma differente, la stessa quantità di tempo di lavoro cristallizzata nel prodotto che desidera. Ciò esclude lo sfruttamento. Ciascuno riceve per ciò che ha dato, ciascuno dà per ciò che riceve: la stessa quantità di tempo di lavoro sociale medio. Nella società comunista non c’è posto per un ufficio statistico centrale libero di determinare la «spettanza» delle differenti categorie dei lavoratori. La quantità destinata al consumo di ogni operaio, non è determinata "dall’alto"; ciascuno stabilisce da sé, tramite il proprio lavoro, quanto può chiedere alla società. Non c’è altra possibilità nel comunismo, almeno non durante il primo stadio.

Gli uffici statistici possono servire solo a fini amministrativi. Ad esempio, possono calcolare i valori sociali medi in base ai dati ottenuti dalle singole fabbriche; ma tali uffici vanno considerati come imprese, allo stesso titolo delle altre; non hanno privilegi. Il comunismo non può esistere dove un ufficio centrale esercita funzioni esecutive; in tali circostanze, possono esistere soltanto lo sfruttamento, l’oppressione, il capitalismo. Vogliamo qui sottolineare due punti: 1) Se s’instaurasse un’altra dittatura, questa non potrebbe essere separata dai fondamentali principi di produzione e di distribuzione prevalenti nella società. 2) Se il tempo di lavoro non è la misura diretta della produzione e della distribuzione, ma l’attività economica è regolata soltanto da un «ufficio di statistica» che determina la "razione" per i lavoratori, allora questa situazione comporta un sistema di sfruttamento combinato.

 Gli anarco-sindacalisti sono incapaci di rispondere adeguatamente alla questione della distribuzione. Questo punto è affrontato solo in un’occasione, nella discussione sulla ricostruzione economica apparsa in "L’Espagne antifasciste" dell’11 dicembre 1936: "In caso s’introduca un mezzo di scambio – che non potrà avere alcuna somiglianza con il denaro attuale e che servirà soltanto a semplificare lo scambio –, sarebbe amministrato da un ‘Consiglio del credito’".

La necessità di un’unità di conto – che permetta la valutazione dei bisogni sociali e che serva in tal modo anche da misura del consumo e della produzione – è completamente ignorata: i mezzi di scambio hanno solo la funzione di semplificare il processo di scambio. Come ciò si realizzi, resta un mistero. Nessun cenno è fatto circa la misura necessaria per esprimere il valore dei prodotti con tali mezzi di scambio; non s’indica alcun criterio per accertare i bisogni delle masse, se attraverso i Consigli di fabbrica o le organizzazioni di consumatori, oppure attraverso i tecnici degli uffici amministrativi. Per contro, l’equipaggiamento tecnico dell’apparato produttivo viene descritto in dettaglio. Così, gli anarco-sindacalisti convertono i problemi economici in problemi tecnici.

 In proposito c’è una stretta relazione tra gli anarco-sindacalisti e i bolscevichi; il loro interesse principale è incentrato sull’organizzazione tecnica della produzione. La sola differenza tra le due concezioni è la maggiore ingenuità dei primi. Gli uni e gli altri tentano di eludere la questione dell’elaborazione di nuove leggi economiche. I bolscevichi sono in grado di rispondere concretamente soltanto alla questione dell’organizzazione tecnica, che significa una centralizzazione assoluta sotto la direzione di un apparato dittatoriale. Gli anarco-sindacalisti, d’altra parte, nel loro desiderio «d’indipendenza della singola impresa», sono pur essi incapaci di risolvere questo problema. In realtà, quando tentano di farlo, sacrificano il diritto all’autodeterminazione degli operai. Il diritto all’autodeterminazione degli operai nelle fabbriche e nelle imprese, da un lato, e dall’altro una gestione centralizzata della produzione sono incompatibili finché i fondamenti del capitalismo – il denaro e la produzione di merci – non saranno stati aboliti e un nuovo modo di produzione, basato sul tempo di lavoro sociale medio, non li avrà sostituiti. Per realizzare questo fine gli operai non devono contare sul’aiuto dei partiti ma soltanto sulla propria azione autonoma.

 

Helmut Wagner

 
[A cura di Ario Libert]

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28 febbraio 2014 5 28 /02 /febbraio /2014 06:00

Marx, pensatore dell’anarchia secondo Rubel

rubel01.jpg

 

Rubel evidenzia gli aspetti libertari del pensiero di Marx. Di colui il cui nome è associato ai peggiori regimi autoritari può anche rinnovare e arricchire la riflessione anarchica.

 rubel01.gifLa riflessione di Marx è solitamente opposta alle idee anarchiche. Marx e il marxismo incarnano l’autoritarismo, la burocrazia, l’ortodossia rigida, il tutto associato ai regimi detti comunisti e al dispotismo politico. Maximilien Rubel presenta l’opera di Marx insistendo su un’etica libertaria e spezza tutto un insieme di luoghi comuni che associano Marx al marxismo.

 

Il pensiero libertario di Marx

 Per Maximilien Rubel, il pensiero di Marx si distingue dal marxismo che si sviluppa mentre gli scritti del teorico rivoluzionario non sono ancora accessibili. Il marxismo diventa un’ideologia di Stato mentre Marx ritiene che non sono le idee ma le forze materiali e umane che fanno avanzare la storia. Ma Rubel va più in là nella riabilitazione di Marx considerandolo come un pensatore anarchico perché preconizza la sparizione dello Stato. Sotto il termine di comunismo, Marx elabora una teoria dell’anarchia.

Il giovane Marx attacca il denaro e lo Stato e si solidarizza con il proletariato che deve abolire queste due istituzioni sociali. L’auto-emancipazione del proletariato deve dunque permettere un’emancipazione umana totale. Marx intraprende allora una “anatomia della società borghese” attraverso la critica dell’economia, ma aveva anche il progetto di elaborare uno studio critico della politica e dello Stato.

 

Marx anarchico

Per Rubel, Marx è più vicino all’anarchia di Proudhon la cui critica della proprietà non rimette in causa i rapporti sociali di produzione del sistema economico borghese. Proudhon conserva salario, prezzo, banca, credito, valore, concorrenza, profitto, interesse e altre nozioni capitaliste. “La vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismo di classe fa posto a un'associazione in cui la libera manifestazione di ognuno è la condizione della libera manifestazione di tutti" sostiene Marx in Il Manifesto comunista.

 Per Rubel, l’URSS non ha nulla di comunista. “L’industrializzazione del paese è dovuto alla creazione e allo sfruttamento di un immenso proletariato e non al trionfo e all’abolizione di quest’ultimo” precisa Rubel.

 Marx arricchisce l’anarchismo utopica attraverso “la comprensione dialettica del movimento operaio considerato come auto-liberazione etica inglobante l’intera umanità”. In compenso, nella sua attività politica, Marx non cerca di armonizzare i mezzi e i fini. Marx studia, attraverso il capitalismo, la schiavitù economica e la servitù politica. Marx osserva il bonapartismo e esprime una critica radicale dello Stato all’origine di tutti i mali sociali e “mostruoso aborto della società”. I proletari “devono rovesciare lo Stato per realizzare la loro personalità” scrive Marx nella Ideologia tedesca. In compenso Engels distingue l’azione di classe del proletariato e la politica del partito. Rubel realizza in seguito un ritratto di Bakunin come autoritario e dimostra che è facile falsificare un pensiero selezionando alcuni estratti.

 

Il pensiero eterodosso di Rubel

Louis Janover, uno dei collaboratori più vicini di Rubel, rintraccia il percorso del marxologo in un articolo pubblicato in Les Temps Maudits, rivista della CNT. Maximilien Rubel è dapprima influenzato da un umanesimo privo di ogni dimensione sociale. Ma contribuisce in seguito a riscoprire Marx contro tutti i marxismi autoritari. Il pensiero di Rubel si rifà all’anarchismo e al comunismo dei consigli. Si rifà alla spontaneità rivoluzionaria e all’auto-emancipazione del proletariato contro le mediazioni dei partiti e delle ideologie. L’opera di Rubel, rifiutata dai comunisti autoritari così come dagli anarchici dogmatici, influenza i marxisti critici come Guy Debord.

Rubel si rifà all’etica del comportamento rivoluzionario e tenta di conciliare l’utopia del fine con l’utopia dei mezzi. Marx “ha portato avanti la ricerca scientifica e il postulato libertario”, pone in risalto Rubel.

 

Anarchia e comunismo 

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Louis Janover si rifà alla lettura marxiana di Maximilien Rubel. Marx critica anche l’alienazione e la rappresentazione politica, dunque lo Stato.

Tuttavia, l’etica libertaria di Marx si distingue dall’individualismo anarchico. Tiene in considerazione le causalità economiche, sociali e politiche dell’alienazione. “Tutti i movimenti del passato sono stati il prodotto di minoranze, o fatti nell’interesse di minoranze. Il movimento proletario è il movimento autonomo dell’immensa maggioranza” pone in rilievo Marx in Il Manifesto. “La vecchia società borghese, con le sue classi e i suoi conflitti di classe, fa posto a un’associazione in cui il libero sviluppo di ognuno è la condizione del libero sviluppo di tutti” precisa lo stesso testo. Il pensiero di Marx appariva come una sintesi dei grandi movimenti di emancipazione dell’inizio del XIX secolo.

Nella critica dell’URSS, gli anarchici si rifanno a una necessaria denuncia morale, mentre Rubel e i marxisti critici elaborano un’analisi in termini di classi sociali per osservare lo sviluppo di una nuova borghesia o di una classe dominante burocratica. Dei pensatori come Rosa Luxemburg, Anton Pannekoek, Karl Korsch, Paul Mattick, o Pierre Souyri si iscrivono nella riflessione di Marx contro tutte le varianti del marxismo autoritario e falsificato.

Ma, se Rubel permette una riabilitazione libertaria dell’opera di Marx, il pensiero anarchico non deve accontentarsi di riprendere le idee del teorico comunista. La critica delle relazioni del potere e di tutte le forme di autoritarismo deve attingere a molteplici fonti. La rivolta di Bakunin, la critica radicale della vita quotidiana e le diverse testimonianze degli esperimenti rivoluzionari storici possono anch’essi permettere di delineare i sentieri dell’emancipazione umana. Soprattutto, per riprendere Marx, la critica delle armi deve accompagnarsi con le armi della critica. Le teorie devono alimentarsi con le lotte sociali che permettono di pensare delle situazioni concrete allo scopo di cambiare il mondo.


[Traduzione di Ario Libert]


LINK al post originale:

Marx, penseur de l'anarchie selon Rubel

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14 febbraio 2014 5 14 /02 /febbraio /2014 06:00

Oskar Panizza e la psychopathia criminalis

Grosz-funerali-Oskar-Panizza-1917.jpgGeorges Grosz - I Funerali di Oskar Panizza, 1917.


Eduardo Colombo

 

"Liberiamoci da tutto ciò che è  sacro, diventiamo senza fede e senza legge, ed i nostri discorsi lo saranno anch'essi" [1]

 

Affermazione di Max Stirner che esige, per realizzarsi, una formidabile rivolta sociale. L'oppressione e l'alienazione tendono a far riflettere nell'individuo ogni volontà di liberazione- a condizione che una tale volontà esista- e lo obbligano a trovare rifugio nella sua ultima difesa: la follia. L'ironia di Oskar Panizza non deve ingannarci: "Chi può dirmi chi è pazzo e non lo è, se non un precettore?" Perché come scriveva un contemporaneo di Stirner, J. Jacobi: "Quando la follia diventa endemica, si chiama ragione".

Il 30 aprile 1895, Panizza compare davanti al tribunale reale di Monaco per aver scritto Il Concilio d'amore, opera teatrale che segnò il trionfo letterario dell'autore in tutta Europa, ma che fu rappresentata per la prima volta nel 1969!

In quell'anno di fine secolo quasi nessuno lesse l'opera. La polizia incaricata di sequestrare il testo non tovò nelle librerie di Monaco che due esemplari. Tutt'al più una ventina di esemplari erano stati venduti in una cerchia ristretta di intellettuali. Ma la stampa gridò allo scandalo, e la comunità cattolica fu offuscata da un'opera che metteva in scena Dio, senile e reumatico, la Vergine, civettuola e frivola ed un Gesù un po' idiota ed ecolalico. Non vi è che il diavolo ad essere intelligente ed umano, e lo sa: "Eppure vali meglio questo! Meglio di queste marionette celesti stravaccate nella loro beatitudine! Sei al centro del mondo, tu! È nella tua testa che giacciono i pensieri della Terra e quando sei là, solitario, con il tuo odore terrestre e che il tuo spirito si illumina, allora sgorga da questa testa dolorante, malgrado la disperazione, una scintilla- forza o veleno- che si slancia, come il fulmine, attraverso il mondo, tonante, sputando fuoco, e che fa tremare queste teste vuote, lassù tra le loro nuvole! [2].

Panizza fu condannato ad un anno di prigione, che trascorse ad Amburgo. Alla sua uscita, si rifugia a Zurigo per sfuggire a un mandato di cattura dopo il sequestro del suo libello Addio a Monaco (Zurigo, 1896) e fa richiesta della nazionalità svizzera, che non gli sarà mai accordata.

Durante il suo soggiorno a Zurigo scrive e pubblica per la propria casa editrice la satira politica Psychopathia Criminalis (1898), "dove prendeva in giro i procuratori tedeschi, arrabbiati da persecuzioni, inventando una malattia politica che si sarebbe impadronita del popolo tedesco" [3].

Dopo un breve periodo come medico generico, Panizza comincia a lavorare all'asilo per alienati mentali dell'Alta Baviera in qualità di psichiatra; partecipa a delle ricerche anatomiche sul cervello. Allo stesso tempo, scrive delle poesie e dei romanzi come il Diario di un cane e L'immacolata concezione dei papi. Dopo il 1896 abbandona la medicina per dedicarsi esclusivamente alla letteratura.

L'alienista Panizza aveva dal 1891 espresso le sue opinioni sullal malattia mentale, che erano troppo avanzate in rapporto alla clinica psichiatrica del suo tempo e che quest'ultima non poteva accettare, come ad esempio l'idea che la follia non può essere isolata dalle condizioni sociali della sua espressione. In una conferenza, affermò che "noi siamo incapaci di dare un giudizio obiettivo sugli stati mentali... La sola cosa che possiamo dire è che essi sono incompatibili con la vita sociale e culturale del nostro tempo". Dopo questa conferenza il suo titolo di "aspirante medico" gli fu ritirato.

Ciò che egli denuncia, innanzitutto come alienista e poi come scrittore nel suo Psychopathia Criminalis, gli è applicato nel processo del 1895. Durante il processo due avvocati contattati da Panizza si ricusarono, un terzo accettò, si chiamava Joseph Popp. Quest'avvocato della difesa (sic) scrisse sulla stampa: "Panizza farfuglia nel lordume, quest'opera teatrale scritta da un malato mentale è un orribile messa in guardia del destino. Il suo autore non può essere che un fauno della specie più ripugnante che, vittima di un'immaginazione mostruosa, non cerca che un'orgia".

Nell'ottobre 1898, è espulso dalla Svizzera, accusato di aver avuto rapporti sessuali con una prostituta di quindici anni, il che Panizza nega nella sua Autobiografia.

A partire da questo momento cominciano le difficoltà economiche che lo conduranno alla miseria e, obbligato a lasciare Parigi dove si era installato, si vede costretto a presentarsi davanti al tribunale reale di Monaco. Sarà imprigionato ancora una volta per quattro mesi e trasferito successivamente sei settimane all'asilo degli alienati dove era stato psichiatra vent'anni prima.

All'uscita, si esilia ancora una volta a Parigi dove cominciano i sintomi psicologici che raddoppiano nel suo spirito, la persecuzione di cui era oggetto in una interpretazione delirante. Raddoppiamento di cui Panizza è sicuramente cosciente. Dopo un soggiorno a Losanna, torna a Monaco e decide di farsi ospedalizzare per provare la realtà della persecuzione da lui provata. In seguito ad alcune vicissitudini, fa in modo di essere arrestato di nuovo il 19 ottobre 1904; qui comincia la sua seconda ospedalizzazione che durerà sino alla sua morte nel 1921.

Il tribunale che decide della sua alienazione lo priverà di tutti i suoi diritti e lo porrà sotto tutela. L'argomento del tribunale, così come degli esperti psichiatri, è riassunto nella frase di uno di loro, S. Ungemach: "Colui che insulta l'imperatore e la patria a dispetto di una buona educazione non può che essere pazzo".

I suoi due principali tutori, durante questi quindici anni, furono il già menzionato Joseph Popp ed il pastore Lipert; quest'ultimo era stato scelto proprio dalla madre di Panizza, eterna persecutrice, perché pensava che un ecclesiasitico sarebbe in grado di liberare Oskar dal suo demone, dai suoi pensieri anarchici "e di ricondurlo alla religione".

Trascriviamo, qui di seguito, alcune pagine della Psychopathia Criminalis che trattano una delle forme della follia: la paranoia.

 

Panizza prende come punto di partenza la seguente definizione:

"Il nucleo centrale di questo vasto gruppo di malattie (paranoia) è un trauma primario della vita rappresentativa che assume la forma di un'inibizione o di un'incitazione del gruppo dell'io con appercezione allegorizzante", scrive Schüle (Klinische Psychiatrie, 3a edizione, Lipsia, 1886, p. 131). Notevole analisi! Cosa vogliono allora le persone con i loro io? Vedete come si incita in questi mesi, nelle diete e assemblee popolari, nei concorsi di tiro e le conversazioni intorno a bicchieri di birra, come li si spinge e dilata sempre all'infinito, arrivando sin a reclamare per essi delle indennità - e, per finire, queste persone non sono più capaci di percepire correttamente, per non dir nulla della loro facoltà di appercezione.

"Essi costruiscono delle allegorie totalmente false - l'"io sovrano", il popolo sovrano", "nostra madre la Germania", "la Germania al di sopra di tutto", ecc. - mentre dei gruppo di idee superiori come "Dio", "principe", "diritto di grazia reale", "sovranità", "diritto divino", "nobiltà consacrata", franchigia postale della corte", ecc., che hanno bisogno per costituirsi di un'appercezione senza difetto, vanno perdendosi. Queste persone non sono naturalmente più capaci di orientarsi nel mondo esterno monarchico, e resta altra cosa da fare se non consegnare il più presto possibile al manicomio degli individui così pesantemente deviati?"(pp. 68-69).

[...]

"Ora  è importante che il giovane medico, il giurista, il funzionario di polizia si familiarizzino con l'habitus così come all'insieme della struttura psicologica di questi individualisti, di questi "io allargati", "uomini dell'anima" estremamente pericolosi per lo Stato monarchico. Abbiamo ancora in memoria le descrizioni dei "democratici arabbiarti" del 1848 con le loro energiche barbe, i loro cappelli da venditori ambulanti, i loro insolenti giubbetti... [a queste gente, si sono annesse successivamente] delle persone di due diverse origini, ognuna avente la sua peculiare fisionomia particolare: da una parte dei compagni proletari, fabbri dallo sguardo arrogante, falegnami dall'aspetto astuti, sarti dagli occhi brillanti d'intelligenza, ecc. - dei valorosi aventi, fatta ogni debita proporzione, enormemente letto e assimilato tutto il materialismo degli anni sessanta e, dall'altra, quei dottori, professori, giornalisti, redattori e ricercatori indipendenti che sono altrettanti disperati che credono di aver un nuovo sistema filosofico completo o un ordine economico mondiale in fondo al loro calamaio. Davanti al giudice, è sempre la stessa storia" (pp. 70-71).

[...]

"Ora, vogliamo provare - ponendoci con ciò stesso al più alto livello d'umanità - che queste persone non sono dei criminali, ma dei malati (parliamo naturalmente degli accusati!). Chiunque, partendo da un'idea qualsiasi - da Platone a Smith, da List o da Lassalle, da Campanella o da Marx - e richiamandosi ad essa, ne conclude al limite, la riduzione, l'abbassamento, persino all'inutilità delle monarchie tedesche (compreso il Liechtenstein) volute per tutta l'eternità da Dio e dunque da lui soltanto stabilite, è a priori malato. Il dolus criminis læsae majestatis è in lui senza che egli lo noti come un pungolo nella carne e basta questa semplice conclusione per fare di lui un criminale, senza nemmeno che il signor Presidente abbia bisogno di dire una parola. Ma, in questa fine di secolo e in considerazione dell'idea - di cui non si sa ancor bene se sia di origine divina come il diritto dei sovrano -, lo Stato moderno consente di collocare queste persone nei menicomi, ospedali, stabilimenti per idee. È quindi compito del tutto naturale del giovane medico e del funzionario di polizia identificare  il più presto possibile  i primi sintomi di questi stati mentali invisibili, deleteri e criminali, che sii insinuano e si propagano molto spesso attraverso il canale dei libri. Così essi non avranno da operare a lungo per mezzo di dispense di servizio, di destituzioni o di trattamenti idroterapici ma saranno in grado di fare beneficiare il più rapidamente possibile il malato della calma che regna dietro le mura dei manicomi provinciali.

"Non è sempre facile confondere queste persone sul campo nel foro. La testa farcita di una massa di conoscenze nocive, essi sommergono spesso il presidente con citazioni tratte dal "Simposio" di Platone o dalle "Upanishad", il che può avere come risultato di trascinarlo in terribili catalessi. Credono davvero, con il pretesto che un Muzio Scevola o un Guglielmo Tell sono esistiti o che uno Schiller ha scritto "I Masnadieri", che sia permesso loro delle opinioni su tutto *.


"Posto di fronte a un caso simile, il presidente dovrà semplicemente rifiutare di ascoltare  ogni chiacchiera universitaria inutile, non lasciandosi sussumere sotto un paragrafo del codice penale, e procedere alla verifica delle opinioni monarchiche dell'accusato. Se per esempio noto che quest'ultimo non appartiene né a un'associazione di combattenti né a un club di ufficiali di riserva o che manca di entusiasmo nell'emettere degli Hurrà, fatto facilmente verificabile con l'aiuto delle autorità di polizia locale per i precedenti dell'accusato, si potrà vedere subito come stanno le cose e il fondo della sua anima. E quando si sarà stabilito chiaramente presso il comparente un'insufficienza di struttura monarchica dei gangli cerebrali - e cioè del suo sostrato intellettuale -, si andrà dritto allo scopo. C'è sempre qualcosa che va di traverso in queste persone - anche se si comportano valorosamente su tutti gli altri punti durante il confronto. Sono mal pettinati oppure la loro riga non è dritta, i loro indumenti sono sfrangiati o hanno dei bottoni allentati, addirittura mancanti (cosa usuale presso i professori tedeschi), i loro occhiali sono tagliati in modi ineguale e lo sguardo ha quella convergenza infame che agisce come dell'acque regale su alcuni machiavelismi; il lobo di un orecchio è aderente o il naso schilleriano, come quello del suo originario proprietario, non è in asse con il viso - Lombroso indica una serie di sintomi di quest'ordine per questi casi e si troverà sempre un segno di degenerazione antimonarchica qualunque tra le numerosissime possibilità. E se ciò non riuscirà in re ipsa, riuscirà ex adjuvantibus. L'anima tedesca immortale essendo  ad ogni modo originariamente predisposta alla follia, così come l'abbiamo disposto in dettaglio in precedenza, sarebbe strano che non se ne trovasse presso un professore, presso un universitario, un proletario pensante, un democratico tanto arrabbiato quanto ostinato, un giornalista scrittore che si rode le unghie o un teologo liberale, la dose necessaria per poter considerare come giuridicamente date le condizioni della comparsa della psychopathia criminalis e permettere il transfert nell'instaurazione dello Stato salvatore" (pp. 72-73-74-75).

[...]

"Il numero dei pensatori malati, negli anni trenta e quaranta di questo secolo - ne abbiamo appena evocati alcuni - di cui lo Stato dovette, in mancanza di manicomi adatti, sbarazzarsi in fortezze e con il patibolo, è straordinariamente elevato. Troviamo tra di loro i nomi più "brillanti", il che significa che questi nomi e quelli che li portavano"brillarono" agli occhi del pubblico e apparvero come delle fiaccole del pensiero soltanto perché lo Stato non interruppe in tempo il corso dei loro pensieri criminali. Infatti, un'attività intellettuale, un'idea diventata manifesta non può più, una volta che essa è penetrata per contagio nel popolo e vi è stata ripensata, esserne estirpata - se non facendo cadere in massa le teste; essa vi dimora in quanto tale, con tutto il diritto all'evidenza dell'idea, quest'attività autoctonoma dello spirito. È per questo che è necessario che coloro che sono i primi a entrare in contatto con i delinquenti del pensiero - i medici, i giuristi, gli psichiatri, i tutori, i funzionari dell'amministrazione, i ministri - abbandonino tanto per cominciare l'idea che il pensiero sarebbe qualcosa di privato che converrebbe rispettare e non toccare, oppure anche qualcosa di cui si dovrebbe per così dire verificare il disinteressamento o il carattere ideale. Nulla di ciò! Le idee sono come i caschi a cingolo o le parti di un'uniforme: le si sopprime, le si proibisce o le si colora. Le si divide in idee per i sudditi e idee per i padroni e si dà a ognuna di esse quelle che corrispondono al suo rango. Se succede che un individuo isolato, che fa sopratutto professione di occuparsi di pensare, nutra delle idee da padroni (mentre non è un suddito) e pretende divulgarle tra il popolo tra i suoi simili, è evidente che egli soffre di un "allargamento dell'io" (Schüle). Si deve allora, in tutti i casi, cominciare a osservarlo. Se accade che la sua malattia, abbia già raggiunto lo stadio del "salto nell'oggettivo", della "oggettivizzazione della sua interiorità nel mondo esterno" (Schüle), riveste un carattere antimonarchico tendente al rovesciamento del dogma stabilito del "carattere del diritto divino dei principi tedeschi (compresi quello del Liechtenstein)", si ha evidentemente a che fare con la psychopathia criminalis. Non si deve allora permettere senza alcun pretesto all'individuo in questione - se si vuole evitare che il popolo subisca un profondo danno morale - di continuare a scrivere e pubblicare tranquillamente i suoi libri. Egli dovrà - che si chiami Kant, Lassalle o Bruno Bauer - essere trasferito nelle vasche a temperatura regolabile di un istituto di alienati di Stato, la cui amministrazione piena di sollecitudine lo tratterrà per tutta la durata del regime esistente" (pp. 78-79-80).

 

 

Data la virulenza ben nota delle affezioni cerebrali politiche, non arrestiamoci qui e proseguiamo con la lettura dei paragrafi seguenti:

"Da quanto precede, si capisce come i fattori più attivi di questa idea anarchica (tranne alcune eccezioni come Ibsen, Reclus, Merlino, Malatesta e Kropotkine) per la maggior parte criminali o pazzi, alcune volte l'una e l'altra. Se ne ha una prova molto netta nel quadro di fisionomie tratte dal mio Crimine politique, dove si vedono dei regicidi come Fieschi, Kammerer, Reinsdorf, Hoedel, Stellmacher, e dei Feniani [4] come Brady e Fitzharris con il tipo di criminale completo; è anche il tipo di feroci pazzi criminali del 89 in Francia come Marat [...] mentre veri rivoluzionari come Charlotte Corday, Mirabeau, Cavour, e la maggior parte dei nichilisti [...] presentano un tipo perfettamente normale, superiore anche al normale come estetica. Un giudice, il distinto avvocato Spingardi, che mi ha fornito una grande quantità di materiale per questo studio, mi diceva: "Per conto mio, non ho mai visto un anarchico che non fosse segnalato come zoppo, gobbo o dalla faccia asimmetrica".

 [...]

 

"Ad esempio, non sono un avversario assoluto della pena di morte, per lo meno quando si tratta di criminali nati, la cui esistenza è un pericolo continuo per la gente onesta [...]. Da una parte, credo che la pena capitale, o delle pene gravi, o soltanto infamanti, non convengono per i crimini e i delitti degli anarchici in generale. Innanzitutto, molti tra di loro sono degli alienati, e per costoro è il manicomio e non la morte o le le prigioni che conviene loro. Bisogna anche tener conto, presso alcuni di questi criminali, del loro grande altruismo che li rende degni di alcuni riguardi".

 

Queste due ultime citazioni non appartengono più alla letteratura ma alla "scienza", poiche non sono tratte da un testo dell'ironico Panizza, esse sono state scritte dallo scienziato Lombroso [5].

 

 

* È, sia detto di passaggio, uno scandalo che va contro l'ordine pubblico far leggere ai giovani che frequentano i licei e gli istituti d'insegnamento classico in un'epoca in cuila psiche dell'adolescente è cos ricettiva e suggestionabile delle storie come quella di Muzio Scevola e simili senz'alcun commento - senza spiegare ad esempio che ci si deve far bruiare le mani che a profitto del principe istituito da Dio per regnare sul proprio paese e non a profitto della repubblica! Come potrà non nascere una certa confusione non nascerebbe nel loro spirito quando essi diventeranno funzionari? Sarebbe davvero più vantaggioso per questi giovani leggere non importa quale di quegli eccellenti manuali di storia degni di essere proposti come esempio come l'Eroica Storia di un grande imperatore del professor Oncken.

Per quel che concerne la prosa di Schiller, tutto ciò che egli ha scritto prima della sua conversione ai valori morali eterni - sino al 1790 circa - dovrebbe essere sistematicamente proibito nelle scuole. Una nazione in cui la prima innocente anima di bambino venuta può procurarsi I Masnadieri per venti pfennigs non può che andare dritta alla sua perdizione. 

 

Eduardo Colombo

 

[Traduzione di Ario Libert] 


 

LINK al post originale:

Oskar Panizza et la psychopathia criminalis

 

NOTE

[1] Stirner, Max: L'Unico e la sua proprietà.

[2] Panizza, Oskar: Il Concilio d'amore, éd. Jean-Jacques Pauvert, Paris, 1969, pp. 57-98.

[3] Panizza, Oskar: Autobiografia, in Le Concile d'amour, op. cit.,p. 177.

[4] Feniani o Fratelli repubblicani irlandesi: membri della soceità nazionalista e insurrezionale creata simultaneamente a New York e a Dublino nel 1858.

[5] Lombroso, Cesare: Les Anarchistes, Flammarion, Paris, 1897 (tradotto dalla seconda edizione italiana dai dottori M. Hamel e A. Marie, medici dei Manicomi pubblici della regione di Parigi), p. 41 e p. 181 e 182.

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1 gennaio 2014 3 01 /01 /gennaio /2014 06:00
L'anarchismo in Cina dal 1949 al 1981
 

Wieberalski

Il movimento anarchico cinese apparve all'alba del XX secolo. È in origine un movimento puramente intellettuale, soprattutto influente tra gli studenti, particolarmente tra quelli all'estero. Il movimento parteciperà a tutte le scosse della tormentata storia della Cina di quest'epoca. Riesce ad impiantarsi tra gli operai, ma resterà marginale e debole perché non ha influenza tra i contadini, che formano la schiacciante maggioranza della popolazione del paese. Alla fine della seconda guerra mondiale, il movimento anarchico conta secondo sue proprie stime, circa 10.000 membri (gruppi di studenti, sindacati operai e cooperative). A quell'epoca già convive male con i comunisti: rifiuta di unirsi al Fronte Popolare formato e dominato dal PC ed i maoisti qualificano i sindacati anarchici come "nidi di serpenti". È in questa atmosfera che i comunisti prendono il potere nel 1949 [1].

cina--Chiang-Kai-shek.jpgPoco dopo la vittoria maoista, gli anarchici entreranno in clandestinità, dopo un breve periodo di corrispondenza con l'estero. Vi fu anche una resistenza anarchica a Changsha. Meltzer parla di due posizioni adottate a quest'epoca di fronte al nuovo regime dagli anarchici. Gli operai, già abituati alla clandestinità dal tempo della dittatura di Chiang-Kai-shek, possono continuare nella loro grande maggioranza la loro attività nelle fabbriche senza troppi problemi di adattamento. Gli intellettuali al contrario sono numerosi ad allinerasi. Questi anarchici "morbidi" (in opposizione agli altri qualificati come "duri") occupano dei posti nell'insegnamento dove non hanno bisogno di fare l'elogio al regime, che in quanto ad esso ha troppo bisogno di personale durante quest'epoca per non chiedere altra cosa che un allineamento di facciata. La rivoluzione culturale in compenso colpirà molto duramente questi anarchici "morbidi" [2].

cina--Pa-Kin.jpgIl più noto tra di loro è lo scrittore Pa Kin. Il suo caso può senz'altro riassumere tutto il loro dramma. Scrittore famoso sin dalla fine degli anni venti, Pa Kin è anche il più conosciuto dei militanti anarchici cinesi. Traduce Kropotkin, Bakunin, Malatesta e si occupa negli anni quaranta di una casa editrice anarchica. Nel 1949, dopo la vittoria maoista, cessa la sua attività militante e nessuno suo scritto viene pubblicato sulla stampa libertaria internazionale benché non fosse rara prima di questa data. Scrittore celebre e popolare, il regime lo adula: è eletto deputato del Sichuan al congresso nazionale dei popoli, appartiene a molte società letterarie o artistiche, va all'estero a rappresentare la Cina. Le sue opere complete vengono edite, si trae un'opera teatrale molto eseguita dal suo romanzo "Famiglia", e dei film vengono girati ripresi dai suoi romanzi "Famiglia", "Autunno", "Notti gelide" e "Riunione" [3].

Ma deve comunque pagare questi onori ufficiali e fare atto di fedeltà al regime. A partire da questo momento, se non dimostra di essere un maoista molto attivo, è il meno che si possa dire, non fa più nessun riferimento all'anarchismo. Nei suoi romanzi, ogni allusione a militanti anarchici come Emma Goldman e Bakunin sono cancellati, i loro scopi giudicati troppo pessimisti sono riscritti. Pa Kin non scrive d'altronde più nulla e le sue opere di quest'epoca sono minori. Victor Garcia parla a questo proposito di "suicidio letterario". [4].

Quando arriva la rivoluzione culturale, tutti gli intellettuali in alto loco o in vista dell'epoca sono travolti nella tormenta. Nell'agosto del 1966, è posto ai margini e trattato come eminentemente reazionario. Il 26 febbraio 1968, un articolo del quotidiano "Wen Hui Bao" di Shangai lo attacca violentemente: è denunciato come un tiranno letterario e come il più noto e vecchio anarchico cinese, è accusato di aver attaccato Stalin e l'Unione Sovietica nel 1930 e di voler colpire in tal modo il Partito Comunista cinese [5]. A Nanchino appaiono degli dazibao che lo trattano come traditore della patria. Le guardie rosse invadono la sua casa e distruggono i suoi oggetti d'arte cinese e la sua biblioteca che conteneva numerosi libri anarchici. Dal 1966 al 1970, è costretto a fare numerose autocritiche per scritto o alla televisione [6]. Il 20 giugno 1968, è accusato allo stadio popolare di Shangai come un nemico di Mao e un traditore e deve fare la sua autocritica in ginocchio, ripreso dalla televisione [7].

All'inizio della rivoluzione culturale diventa spazzino all'Associazione degli Scrittori, poi è spedito in un campo di rieducazione (scuola dei quadri del 7 maggio) nel 1970 dove coltiva dei legumi. Nel 1973 la sua situazione migliora e può fare delle traduzioni di autori russi (Turgeniev, Herzen). Alla caduta della banda dei Quattro, è riabilitato, torna in primo piano ed è di nuovo colmato di onori [8]. Ma deve di nuovo mostrare la sua sottomissione al regime: è nella linea del presidente Mao, ma è stato la vittima della banda dei quattro, questa è la versione del suo periodo di disgrazia, e il lato anarchico delle sue opere è sempre cancellato. In un articolo recente un giornalista sostiene anche la tesi che Pa Kin non era anarchico, ma democratico [9].

black-flag.jpgLa personalità di Pa Kin e il suo comportamento hanno suscitato delle reazioni contrastanti nel movimento anarchico internazionale. Si può separarle in due tendenze: la condanna e l'indulgenza. Coloro che condannano, come gli anarchici cinesi di Hong-Kong della rivista Minus, dicono che Pa Kin non è più anarchico e che si è definitivamente allineato al regime comunista come mostrano i suoi testi più recenti. Coloro che sono indulgenti pensano che non si può rimproverare nulla a Pa Kin perché bisogna capire ciò che ha subito. Essi pensano anche che il suo allineamento non sia che di facciata e che in fondo è sempre anarchico. Ritroviamo ad esempio, tra questi indulgenti, il giornale inglese Black Flag e Victor Garcia [10].

Tutto il dramma degli anarchici "morbidi" è riassunto nel destino di Pa Kin, che ne uscirà meglio degli altri perché è famoso. Quella rivolta teleguidata che è stata la rivoluzione culturale spazzerà via tutta l'élite intellettuale e con essa  numerosi altri anarchici "morbidi". Un altro caso ci è noto, quello del professor K. C. Hsiao, militante anarchico di lunga data inattivo dal 1949. A 80 anni, è obbligato a spingere delle carrette di letame come forma di rieducazione. Decide di suicidarsi, e lascia una lettera per spiegare il suo gesto. Scrive che non considera come degradante di dover trasportare letame, al contrario per disprezzare il trasportatore di letame, non c'è che da chiamarlo professore. Ritiene di aver trasportato abbastanza letame nelle classi, che la sua vita giunge al suo termine e che davanti a questa tirannia, non gli resta che il suicidio [11]. Un altro professore (a meno che non sia lo stesso?),  Pi Shiou Sho, si suicida per gli stessi motivi. Prima del 1949, aveva tradotto Élisée Reclus in cinese [12]. Secondo Meltzer, gli operai delle fabbriche intervennero in alcuni casi per difendere contro gli studenti e per aiutare materialmente degli intellettuali anarchici che a volte riuscivano a sopravvivere soltanto grazie ad essi [13].

Sugli anarchici "duri", nessuna informazione giunge in Occidente negli anni cinquanta e la prima metà degli anni sessanta. Per stabilire di nuovo il contatto con il movimento tradizionale, bisogna aspettare il 1965 e una lettera pubblicata in "Freedom". Essa è stata scritta da un vecchio anarchico di prima del 1949 che descrive brevemente lo stato del movimento. Distingue due gruppi: quello della "Bandiera Nera" e quello chiamato "Verso le Comuni libere". La "Bandiera Nera" è composta soprattutto da studenti. Poiché nella Cina Popolare gli studenti provengono da tutte le regioni e da tutte le classi sociali, le idee anarchiche sono anch'esse diffuse in tutto il paese, dove dei gruppi anarchici appaiono in numerose province. "Verso le Comuni libere" è un gruppo che opera all'interno dell'apparato dello Stato, soprattutto tra la Gioventù Comunista. Infatti è impossibile uscire dall'ingranaggio del partito senza diventare sospetti, e si è dunque costituita un'opposizione anarchica sotto il naso della burocrazia. È impossibile calcolare la forza effettiva di questa organizzazione. Poi questo corrispondente parla del bisogno che si fa sentire di avere una tipografia e evoca l'idea di una stamperia gestita da anarchici inglesi a Hong-Kong ma funzionante per gli anarchici della Cina Popolare. Poi parla della difficoltà di avere dei contatti con l'esterno, e cita quelli esistenti: con gli anarchici di Corea, con quelli del Giappone (raramente) ed è tutto. Questo testo firmato C. S. è stato pubblicato nel maggio del 1965 da "Freedom" ed è dunque anteriore agli sconvolgimenti della rivoluzione culturale che iniziò nel novembre di quello stesso anno [14].

Questo documento, se non sembra essere falso, è forse ampiamente esagerato. In ogni caso non è confermato che da un solo altro testo, apparentemente della stessa provenienza. È un rapporto sul movimento anarchico cinese pubblicato nel 1968 sul bollettino preparatorio al congresso anarchico internazionale di Carrara. È contemporaneo alla rivoluzione culturale. Parla della "Bandiera nera degli Anarchici", gruppo che edita dei volantini e degli opuscoli e che è composto di lavoratori e intellettuali, soprattutto medici e dal movimento "Verso le Comuni Libere" qualificato come anarco-sindacalista e che recluta tra i lavoratori del tessile. Questo movimento ha creato dei "consigli operai" contro il Partito e la polizia. Esistono altri gruppi nel paese ma non sono in relazione tra di loro perché ciò è impossibile nelle condizioni dittatoriali del regime. Infine veniamo a sapere che in molte città in cui la polizia era stata posta allo sbando dai lavoratori un settimanale , "La Bandiera Nera" era stato diffuso. Il bollettino non pubblica "per delle ragioni di sicurezza che degli estratti di questo rapporto che conteneva "altre informazioni molto importanti" [15].

Questi due testi sono autentici? Nulla permette di porre in dubbio la loro autenticità: il primo è stato scritto da un militante prima del 1949 che è andato in Inghilterra e che conosceva la redazione di "Freedom" (parla di una foto  in cui è in compagnia del gruppo "Freedom") e che è appartenuto a un gruppo di studenti anarchici che pubblicò negli anni trenta un libro, "Sommario dei principi anarchici" di Harry J. Jones, in cinese a Shanghai. Tutte queste informazioni sono tratte dalla lettera. Esse ritagliano esattamente ciò che Meltzer dice di Chen Chang, medico e anarchico cinese con il quale è in corrispondenza e che qualifica come anarchico "duro". Parla anche a suo proposito di un aneddoto (una foto pubblicata sulla stampa cinese di una manifestazione a Londra in cui si vedono diverse bandiere di anarchici dimenticate dalla censura) che si trova in questa lettera firmata C. S. (Chen Shang probabilmente) [16]. Inoltre il secondo testo ricalca molto bene il primo. Ciò che fa dubitare di questi due testi, è l'immagine che essi danno del movimento anarchico cinese: Organizzato, importante, influente, in espansione. Probabilmente sulla base di un'attività anarchica reale, c'è stata esagerazione per eccesso di ottimismo e/o per difficoltà di informarsi bene, anche sul luogo. Ad ogni modo nessuna fonte ufficiale cinese corrobora con certezza queste informazioni, e quando il regime parla di anarchici, questa parola è lungi dall'avere nella maggior parte dei casi il senso che gli diamo.

Le informazioni sul movimento anarchico tradizionale si faranno sempre più rare. Il bollettino preparatorio del congresso di Carrara annuncia la creazione di una federazione anarchica cinese in esilio con il compagno Tien Cun Jun come segretario generale di quest'organizzazione. Nella lista delle organizzazioni aderenti al congresso anarchico internazionale di Carrara del settembre 1968, troviamo il Movimento Anarchico (Cina Comunista) e la Federazione Anarchica Cinese in esilio (Hong Kong), ma nessuna delle due sarà presente [17]. Nel 1969 una lettera di Li Cheou Tao di Hong Kong informa che aveva inviato nell'estate del 1968 i bollettini preparatori del congresso e i mandati di delegati ai compagni cinesi dell'interno. Non ha ancora potuto verificare se erano loro pervenuti, e precisa che è da tanto tempo che egli non ha nessuna notizia di loro. Teme inoltre che essi siano stati vittime di un'ondata di repressione. Sono le ultime informazioni che possediamo sul movimento dell'interno [18]. Nel 1971, ci sono ancora sulle liste delle organizzazioni con l'Internazionale delle Federazioni Anarchiche, il Movimento Anarchico della Cina Comunista e il movimento Anarchico Cinese in esilio di Hong Kong, ma nei fatti gli ultimi contatti con l'esilio datano al 1969 [19]. Nel 1977, gli anarchici della rivista Minus publicata a Hong Kong scrivono che essi non devono nulla al movimento anarchico cinese tradizionale totalmente inattivo laggiù quando il loro gruppo si costituisce nel 1974, ma alle loro iniziative personali, attraverso i testi francesi e inglesi che essi hanno letto, attraverso i contatti con degli "anarchici d'oltremare" e attraverso le loro discussioni con ex guardie rosse. La rottura è fatta, almeno a Hong Kong.

Le lettere pervenute in Occidente sull'attività clandestina degli anarchici cinesi non sono state sinora confermate da nessuna fonte ufficiale, articolo di giornale, discorso, resoconto di processi facenti allusione alle due organizzazioni citate. Eppure il potere ufficiale impiega molto spesso la parola "anarchico" Ma nel politichese burocratico c'è un senso molto più ampio di quello che gli diamo, Esso ricopre semplicemente tutti gli elementi radicali che il potere disapprova e combatte, e essere radicali in rapporto a un regime così reazionario quanto il regime cinese ciò non vuol dire essere anarchico o libertario, lungi da ciò. Il termine è dunque un insulto burocratico tra gli altri e il suo impiego non ha alcun significato reale: esso può applicarsi sia a dei veri anarchici quanto a persone che hanno dei comportamenti libertari senza esserne coscienti o a persone che si oppongono semplicemente alla burocrazia, senza che si possa molto spesso distinguere con certezza davanti a quale caso ci si trova.

È con la rivoluzione culturale e le agitazioni che essa provocherà che il termine viene usato su vasta scala. Bisogna dire che questo periodo che vede numerosi burocrati spazzati via da rivolte studentesche e operaie a volte controllate, a volte incontrollate, è propizio all'apparizione di un anarchismo spontaneo. I responsabili della propaganda non si sbagliano, ed impiegheranno abbondantemente il termine. È divertente notare che la principale vittima di questa intossicazione per mezzo della propaganda sarà la stampa libertaria internazionale che alla fine degli anni sessanta prenderà come oro colato gli atti eroici degli "anarchici". Il bollettino preparatorio del congresso di Carrara ad esempio riproduce degli estratti di un articolo del Figaro, che a sua volta cita Radio-Shanghai che a sua volta riprendeva un articolo del quotidiano maoista locale "Wen Hui Bao" (come si vede, le strade dell'informazione sono molto tortuose) che dimostrano che "l'anarchia guadagna terreno a Shanghai" e che "l’anarchismo minaccia di distruggere il potere e l'autorità del Comitato Rivoluzionario di Shanghai". È ovviamente una condanna delle lotte degli operaie e degli studenti che continuano ad agitarsi e ad opporsi al nuovo potere maoista instaurato nella città da un anno. Vi erano sicuramente degli anarchici a Shanghai come si vedrà tra poco, ma erano molto meno potenti di quanto potesse lasciarlo credere il giornale. Ad ogni modo il bollettino commenta questo articolo con una sola frase: "così i nostri compagni cinesi hanno iniziato una lotta a morte contro il totalitarismo maoista" [20]. Ma questa credulità nelle affermazioni della propaganda sparisce con la rivoluzione culturale, e sin dal 1970 affermazioni di questo genere sono commentate criticamente.

Con i disordini generalizzati della rivoluzione culturale, la parola conoscerà dunque una grande popolarità e sarà molto spesso utilizzata per condannare a posteriori le esplosioni di violenza che sfuggono al potere centrale. Così nel gennaio del 1967 a Shanghai, una lotta abbastanza oscura si svolge tra i maoisti che vogliono prendere il potere ed i burocrati in carica sullo sfondo degli scioperi operai. Gli operai sono organizzati in molti gruppi di cui uno, il "Liansé" (Quarto Quartiere di collegamento), è detto "anarchico". Un giornalista francese che intervista nel 1971 un operaio di Shanghai nel gennaio 1967 (legalmente, dunque è la versione ufficiale degli avvenimenti che egli ascolta) si vede rispondere che egli appartiene all'organizzazione "Liansé" che qualifica anche come organizzazione anarchica  che rifiuta ogni autorità. Tre mesi dopo gli scioperi di gennaio essa raccoglie la maggioranza degli operai della sua fabbrica ed è abbastanza potente da impedire la sua assunzione di controllo da parte dell'esercito, che non interverrà infine che in ottobre [21].

Al termine di questa "tempesta di gennaio" secondo il termine cinese, una campagna di stampa se la prende con i disordini, una frase tra le tante del ristabilimento dell'ordine, e l'anarchismo vi ha una grande parte. Il Quotidiano del Popolo (Renmin Ribao), equivalente cinese della Pravda, dell'8 marzo 1967 denuncia in un'importante articolo la "corrente anarchica" [22]. L'editoriale di questo stesso giornale del 26 aprile si intitola "Abbasso l'anarchismo" e sostiene tra le altre cose che "l'anarchismo nasconde, dissolve gli oggetti della nostra lotta e svia il suo orientamento generale". Pubblica l'11 maggio un altro articolo intitolato "L'anarchismo è il castigo dei deviazionisti opportunisti". Gli altri giornali riprendono queste condanne amplificandole a volte. Così il "Quotidiano di Tsingtao" di questo stesso 11 maggio accusa gli anarchici di ispirarsi a Liu Shiaoqi, ex secondo di Mao e principale vittima della rivoluzione culturale, "tra cui l'individualismo degenerato che raggiunge l'anarchismo reazionario" [23]. Dopo i disordini molto violenti di Pechino nell'agosto del 1967, che culminano con l'incendio dell'ambasciata britannica, Mao li condanna mettendoli sulla lista degli "elementi malvagi" e dell'"anarchismo" [24].

All'inizio del 1968, come abbiamo visto poco sopra, il quotidiano Wen Hui Bao di Shanghai accusa anche gli anarchici di mettere in pericolo il potere ufficiale di questa città. In un articolo del 6 febbraio 1968 dello stesso giornale (forse lo stesso articolo del precedente, ripreso da Le Figaro del 7 febbraio?) intitolato De la nature réactionnaire de l’anarchisme [Della natura reazionaria dell'anarchismo], vi è una lunga condanna degli anarchici cinesi. "Essi non ascoltano alcuna consegna, non obbediscono a nessun ordine... Quando delle istruzioni provengono dal Quartiere Generale del proletariato, non li eseguono se non è di loro gradimento, se non piace loro. Essi chiamano con fierezza questo atteggiamento 'indipendenza di giudizio'. Fanno ciò che più li diverte e lavorano solo se la cosa conviene loro. Hanno anche trovato una nuova massima 'ozia senza rimorsi!'". L'autore dell'articolo cita anche uno slogan degli anarchici da loro spesso impiegato apertamente: "Abbasso lo schiavismo", e per essi la disciplina è una forma di schiavitù. La posta dei lettori dello stesso numero reca la testimonianza di una persona i cui colleghi di lavoro sono conquistati dalla "ideologia anarchica". "Essi rimproverano ai loro compagni che osservano la disciplina di avere un 'atteggiamento da schiavi'". In un giornale di Pechino Hsinhua del 25 febbraio del 1968, un certo Yen Lihsin chiama alla riscossa i grandi maestri Lenin e Mao in un articolo intitolato L'anarchismo è un cammino politico che porta alla contro-rivoluzione". Si appoggia su delle citazioni per criticare l'anarchismo piccolo borghese che rifiuta la dittatura del proletariato e che si deve dunque combattere con "odio implacabile" [25].

Questi riferimenti sono stati trovati per caso in libri che trattano della rivoluzione culturale. Essi non sono affatto esaustivi e c'è da scommettere che effettuando una ricerca sistematica tra gli articoli disponibili della stampa cinese concernente questo periodo, il raccolto sarà abbondante. E c'è da scommettere anche che questi "anarchici" insultati e combattuti non sono molto spesso che degli operai o delle guardie rosse che non sono più controllati o manipolati dalle diverse fazioni del regime. Scioperando, insorgendo, manifestando, attaccando i burocrati in carica, vecchi o nuovi, senza averne l'autorizzazione, essi pongono in questione l'autorità di ogni apparato e contrastano le sapienti manovre delle diverse fazioni che non tollerano l'azione delle "masse" come essi dicono se non teleguidate. I burocrati che trattano da anarchici i cinesi che hanno cominciato a prendere i loro affari nelle loro mani senza obbedire agli ordini dall'alto e minacciando il sistema esistente hanno la stessa reazione dei borghesi del XIX secolo che pensavano di insultare i loro operai più radicali. Ma ciò non vuol dire che questi "anarchici" facciano proprie le idee libertarie che spesso essi dovevano ignorare. La stessa sorte è stata riservata agli scioperanti polacchi del 1970, 1976 e 1980 che sono stati abbondantemente trattati come anarchici senza aver mai posto in questione lo Stato, a parole almeno.

Se non si può dunque considerare come anarchiche tutte le persone classificate come tali dal regime, perché si conterrebbero a milioni, il tono e il contenuto di alcuni articoli provano che vi erano molti operai e studenti che avevano un comportamento realmente libertario. Le lunghe diatribe contro coloro che rifiutano ogni autorità e ogni disciplina proveniente dall'alto, che non sembrano considerare il loro lavoro come una cosa sacra da compiere sono molto significative di questo punto di vista. L'articolo del "Wen Hui Bao" del 6 febbraio 1968 soprattutto lascia pensare che quest'atteggiamento era relativamente diffuso a quell'epoca a Shanghai per meritare una condanna così violenta. Anarchismo spontaneo o influenza dei militanti anarchici "duri"? È difficile rispondere alla domanda dato lo scarso numero di documenti disponibili su questo soggetto. Se le informazioni raccolte sulle organizzazioni anarchiche tradizionali sono esatte o almeno soltanto esagerate, questi articoli possono provare che effettivamente gli anarchici sono stati attivi durante la rivoluzione culturale e se essi non hanno commesso tutto ciò di cui li si accusa e con cui li si opprime, hanno ottenuto dei risultati localmente, a Shanghai ad esempio. Ma poiché i fatti narrati in questi articoli e nelle lettere giunte in Occidente non sono del tutto verificate, essi non possono confermarsi tra di loro. Tutto al più si può dire che è probabile che il movimento anarchico tradizionale era sempre attivo allora senza che si potesse misurare la sua reale influenza.

Un altro fatto può anche sostenere questa ipotesi. In un opuscolo pubblicato nel 1967 dai "ribelli rivoluzionari della sezione di filosofia e scienze sociali dell'Accademia delle Scienze di Pechino" (un'organizzazione di guardie rosse), un testo è dedicato alla condanna dell'anarchismo, a partire da parole d'ordine e rimproveri agli anarchici. Ecco i più significativi: "Noi, non riconosciamo nessuna autorità basata sulla fiducia", "Tutte le regole e tutte le costrizioni devono essere abolite", "Abbasso tutti i 'governanti', sopprimete tutto gli ostacoli", "Abbasso tutta la burocrazia, abbasso tutti i mandarini", "Negate ogni forma di potere", "Si deve realizzare l'anarchismo al più presto", "Chiunque obbedisce alle istruzioni dei dirigenti proletari ha una 'mentalità da schiavo'", "Abbasso tutti i capi", "Il mio cuore non è in pace perché la democrazia è oppressa". Essi sono in effetti chiaramente anarchici. Gli altri non citati sono vicini o più oscuri perché si rapportano a degli aspetti della situazione di allora che ci sono sconosciuti, come "Viva il sospetto verso tutto" che sembra avere a bersaglio Mao l'incriticabile. Infine alcuni slogan sono massimalisti come "Viva la parola d'ordine rivoluzionaria: ognuno a modo suo" [26]. Questi slogan sono stati trascritti con esattezza oppure deformati dai maoisti? Nulla ci permette di saperlo. In ogni caso, si può effettivamente qualificare come libertari quelli che li diffondevano, e dovevano avere un'influenza non trascurabile poiché hanno meritato quest'attacco. Ma qui ancora si pone un problema irrisolvibile, vista la mancanza di documenti: questi anarchici si ricollegano, oppure no, al movimento tradizionale? La lettera del 1965 parla del gruppo "Bandiera Nera" influente tra gli studenti, ma nulla permette di accostare i due fatti tra di loro. Ad ogni modo una cosa è certa: la rivoluzione culturale ha rivelato delle tendenze anarchiche importanti tra gli operai e gli studenti, senza che si possa conoscere la rispettiva importanza dell'apparizione spontanea e della propaganda clandestina se è esistita come si può supporlo. Il 14 ottobre 1972 il "Quotidiano del Popolo" denuncia ancora le conseguenze anarchiche della rivoluzione culturale  [27].

Dopo la rivoluzione culturale gli attacchi contro l'anarchismo e gli anarchici cessano, o per lo meno diventano molto più rari. Bisogna attendere il 1973 per ritrovarsi in presenza di un nuovo caso, molto importante, in cui interviene l'anarchismo. Nel settembre e ottobre di quell'anno dei processi hanno luogo in molte città della Cina, che pongono in causa più di 300 operai accusati di "grave vandalismo". Di fatto, si rimprovera loro di aver voluto riprendere il controllo dei loro comitati di fabbrica eleggendo liberamente i loro delegati. Questo movimento concerne soprattutto l'industria tessile. Nei processi di ottobre a Shanghai, il motivo dell'accusa è "deviazionismo anarco-sindacalista". Si legge agli operai accusati i testi marxisti-leninisti che attaccano l'anarco-sindacalismo; il Procuratore di Stato fa la lettura di Marx che denuncia Bakunin, soprattutto il passaggio in cui Marx denuncia le antinomie tra lo spirito rivoluzionario e la natura russa il che scatenò degli applausi fragorosi (i sentimenti anti-russi sono apprezzati in Cina) e la famosa "Confessione". Uno degli assistenti al processo, udendo gli attacchi contro Ba-Kou-Nin crede che è quest'ultimo ad aver tentato di impadronirsi dell'industria tessile di Shanghai e grida "La prigione è troppo poco per un tale bandito! Che lo si impicchi!". Un opuscolo su questo processo è stato anche diffuso all'estero (il suo titolo inglese è "Thus Far") ma è stato presto tolto dalla circolazione dal momento che in Occidente le condanne dell'autogestione operaia non sono comprese [28].

La pubblicità fatta intorno a questi processi mostra che essi stavano a cuore alle autorità per farne un esempio. A voler far credere che questa tendenza di volersi occupare dei loro propri affari era diffusa tra gli operai. Ad ogni modo il capo d'accusa particolare agli operai di Shanghai che facevano riferimento all'anarco-sindacalismo ha di che sorprendere. Se esso è riservato a una sola città mentre le altre ne hanno uno piuttosto banale, è perché a Shanghai i fatti hanno dovuto essere differenti. Le violente condanne di Bakunin da parte di Marx e Lenin interposte permettono di credere che un'influenza anarchica reale esistesse tra gli operai del tessile. Il rapporto giunto in Occidente nel 1968 indica che il movimento "Verso le Comuni libere" faceva proprio dei proseliti tra i lavoratori del tessile, che agiva a livello delle fabbriche e che gli anarco-sindacalisti sarebbero riusciti a creare dei consigli operai contro il partito e la polizia. Prima del 1949, Shanghai era uno dei bastioni del movimento anarchico. Anche su questo punto non vi è alcuna certezza, ma dei sospetti molto forti che dei militanti abbiano partecipato agli avvenimenti di Shanghai.

Lo spauracchio dell'anarchismo è periodicamente tirato in ballo nelle grandi campagne di propaganda. Così la rivista ufficiale diffusa all'estero "China Reconstruct" del marzo 1978 espone il caso di Fangyehlin, un operaio favorevole alla Banda dei Quattro che aveva "creato il caos, violato volontariamente la legge e l'ordine rivoluzionario, propagandato l'anarchismo e incitato le persone a combattere, a commettere dei saccheggi e a prendere tutto ciò che volevano". La storia termina bene poiché Fang, grazie all'appoggio dei suoi compagni di lavoro che lo aiutano a ravvedersi, fa la sua autocritica, "respinge l'anarchismo propagandato dalla Banda dei Quattro" e ottiene una condanna con sospensione condizionale della pena [29]. Come si può vedere, il termine è impiegato ora contro ogni verosimiglianza. Il suo carattere d'insulto si rafforza sempre più. Nel 1980 la stampa cinese effettua una campagna contro il teppismo e l'anarchia, assimilati qui come lo si fa correntemente nei paesi dell'Est [30].

 Poiché la propaganda è onnipresente in Cina, la parola è ora capita dalla maggioranza dei cinesi nel senso caricaturale in cui l'impiegavano i burocrati. Una prova flagrante di questo fatto si trova nell'impiego che fa della parola anarchico Mu Yi, un membro di "Exploration", la rivista più radicale della Primavera di Pechino. Egli risponde all'epiteto di anarchico che il potere incolla "a coloro che cercano la libertà" facendo un'analogia con il Kuomingtang che reprimeva già ogni opposizione compresa quella comunista con il pretesto di "anarchismo" (è lui a mettere le virgolette) e applicando "L'etichetta di 'anarchico' a Mao per aver posto in essere e diretto tutti questi movimenti che hanno messo in pericolo il paese (Movimento anti-destra, Grande Balzo in Avanti, Rivoluzione Culturale) così come i suoi compagnucci Lin Biao e Kang Sheng" [31]. Questi stessi redattori di "Exploration" precisano, in un testo diffuso dopo l'arresto di Wei Jingsheng, l'animatore principale di questo gruppo: "non vogliamo prendere alcun "ismo" come principio direttivo. Non ci inginocchiamo né davanti al "marxismo-leninismo-pensiero Mao Zedong" né davanti all'anarchismo" [32]. La parola anarchismo sembra sia stata profondamente sviata in Cina dalla propaganda burocratica. In ogni caso anche l'opposizione più libertaria come può esserlo "Exploration" (lo si vedrà più avanti) impiega il termine nel suo senso deformato.

 

* * * *

Dalla rivoluzione culturale, un numero abbastanza importante di testi d'opposizione sono giunti in Occidente. Questo numero è molto inferiore, ad esempio, a quello dei samizdat d'opposizione che passano quasi quotidianamente la cortina di ferro e che non hanno meno valore. Si ritrovano degli accenti libertari a volte molto pronunciati nei testi più radicali. Anche qui si ha una conferma dell'anarchismo spontaneo che impregna tutti i movimenti di opposizione cinesi da 15 anni, tuttavia con diverse gradazioni.

Verso la fine del 1967 nello Hunan, compare una nuova organizzazione di guardie rosse, sorta dalla fusione di una ventina di leghe particolarmente attive l'estate precedente. Lo "Shengwulian", abbreviazione di "Comitato d'Unione dei Rivoluzionari dello Hunan", appariva, attraverso i suoi testi che ci sono pervenuti, come la frazione della guardia rossa più estremista e più chiaroveggente in quanto alle concezioni di Mao. Il testo più violento e più pericoloso per il potere esistente è il manifesto "Dove va la Cina?".

Per lo "Shengwulian", la società cinese attuale è una società di classe, anche dopo due anni di rivoluzione culturale che avrebbe preteso di rovesciare l'antico ordine. La classe dominante è la burocrazia chiamata nuova borghesia. La sola soluzione per farla finita con questo potere marcio è la rivoluzione sociale. Il futuro potere sarà ricalcato sulla Comune di Parigi. Quest'allusione alla Comune è di Mao che l'ha lanciata come parola d'ordine all'inizio della rivoluzione culturale. Egli si ispirava sia direttamente, sia attraverso Lenin, a La guerra civile in Francia di Marx che è il suo libro più libertario. Per lo "Shengwulian", ciò significa che l'amministrazione passa tra le mani del popolo che gestisce da sé i propri affari senza dirigenti. I suoi rappresentanti sono liberamente eletti, revocabili e non hanno privilegi, come durante la Comune di Parigi.

Parlando della "tempesta di gennaio" del 1967 a Shanghai, scrive: "La società ha scoperto di colpo che senza i burocrati non soltanto essa continuava a vivere, ma che funzionava meglio, che si sviluppava più velocemente e più liberamente. Le cose non andavano come lo minacciavano i burocrati davanti agli operai prima della rivoluzione... La società si trovò in una situazione di "dittatura delle masse" analoga a quella della Comune di Parigi. La Tempesta rivoluzionaria di gennaio mostrò che la Cina si incamminava verso una società senza burocrati". Nel corso di questo mese di gennaio, il potere dei burocrati affondò sotto i colpi degli operai. "Nelle mani di chi il potere si trovò allora trasferito? Nelle mani del popolo che, animato da un entusiasmo senza limite, si era organizzato da se stesso e aveva assunto il controllo del potere politico, amministrativo, finanziario e culturale nelle municipalità, l'industria, il commercio, le comunicazioni, ecc." [33]. Se forse non è quanto accaduto realmente a Shanghai, questi passi hanno il merito di dirla lunga sulla concezione della società che volevano stabilire i membri dello "Shengwulian".

Tutto il testo è impregnato del pensiero e del linguaggio maoista. Però malgrado ciò e malgrado tutto l'apparente rispetto che tributa a Mao, lo "Shengwulian" lo critica in modo trasversale ma duramente. Di fatto riprende tutte le tesi più estremiste di Mao che quest'ultimo ha sviluppato sino a gennaio 1967, sino alla Comune di Shanghai. Dopo questa data, si allontana poco alla volta dalla sua linea estremista per sostenere il ritorno all'ordina. E il testo critica a lungo questa reazione che analizza come il ritorno al potere della classe burocratica, basandosi sui testi di Mao del 1966. Per il suo estremismo e le sue violente critiche dell'ordine stabilito, lo "Shengwulian" attirerà una violenta risposta dei burocrati che non trascureranno nulla per criticare le sue tesi: i più alti dignitari del regime come Zhou Enlai e la moglie di Mao parteciperanno attivamente alla campagna contro di esso. L'autore presunto dei testi, un liceano di Changsha di nome Yang Xiguang, è arrestato e imprigionato per molti anni. La sua personalità è poco conosciuta. Ma ecco cose ne dice in un'intervista Fang Kuo, uno dei suoi amici: "Non si può dire che Yang fosse un discepolo di Marx e di Lenin. Non si è immerso nel marxismo-leninismo. Dopo un esame dei suoi scritti, si sente che i suoi pensieri erano quelli di un anarchismo spontaneo. Non penso che capisse le condizioni reali della Comune di Parigi. Era semplicemente influenzato dallo spirito anarchico che dominava l'epoca" [34].

 

 

Nel 1974, un dazibao è affisso a Canton. Opera collettiva di tre vecchie guardie rosse unite sotto lo pseudonimo di Li Yi Zhe, fa parte della campagna anti-Lin Biao che si svolgeva all'epoca. Ma benché sia stato autorizzato ufficialmente, sarà presto ritirato e criticato per il suo estremismo. Nei fatti, sotto pretesto di criticare la cricca di Lin Biao e la politica da lui difesa, è un violento attacco della società cinese attuale e della burocrazia dominante. Anche qui, per ragioni evidenti, Mao è abbondantemente citato e adorato. Ma tutte le critiche che essi rivolgono a 

 

 

 

 

 

est copieusement cité et adoré. Mais toutes les critiques qu’ils adressent à Lin Biao s’appliquent au second degré à Mao. La critique de la classe bureaucratique est incisive. « L’essence des formes nouvelles de propriété de cette bourgeoisie n’est rien d’autre que, dans le cadre de la propriété socialiste des moyens de production, la transformation de biens publics en bien privés… Il est fréquent que certains dirigeants enflent les faveurs spéciales que le parti et le peuple leur accorde par nécessité ; ils les transforment en privilèges économiques, politiques et les étendent sans limites à leur parentèle, à leurs amis proches… De serviteurs du peuple, ils deviennent maîtres du peuple.»

 

 

Li Yi Zhe est aussi un partisan convaincu de la capacité du peuple à prendre ses affaires en mains et [pense] surtout que c’est là que réside la solution au problème de la bureaucratie : « Nos cadres ne doivent pas se prendre pour des mandarins ou des seigneurs, mais rester des serviteurs du peuple. Rien n’est plus corrupteur que le pouvoir. Il n’est pas d’occasion plus propice que la promotion d’un individu pour juger s’il œuvre pour les intérêts de la majorité ou pour ceux d’une poignée. Pour conserver l’esprit de serviteur du peuple, la vigilence personnelle est certes nécessaire, mais la surveillance révolutionnaire des masses populaires reste primordiale » [35]. Ce texte est moins dirigé contre l’État que le précédent car il est à l’origine officiel. Les trois auteurs du dazibao auront beaucoup d’ennuis et le plus radical des trois (il se réclame du marxisme révolutionnaire), Li Zhengtian, qui d’après lui a été le principal rédacteur du texte, sera jeté en prison pour plusieurs années. En 1979 peu après sa sortie, il participera activement au « Printemps de Pékin », mouvement d’opposition qui contrairement à son nom a atteint plusieurs régions de la Chine, dont Canton.

En effet fin 1978 à Pékin, puis dans toute la Chine, un vaste mouvement de contestation apparaît, profitant d’une brève période de relative tolérance de la part du pouvoir, et se développe assez rapidement avec la création de nombreuses revues. Le côté le plus spectaculaire de ce mouvement a été l’affichage libre de dazibao au « mur de la démocratie » à Pékin. Les opinions les plus diverses sont représentées dans ces revues et ces affiches : depuis le maoïsme critique jusqu’à l’antimaoïsme et l’antimarxisme les plus virulents. La revue la plus radicale est « Exploration ». Elle est fondée fin 1978 par un ouvrier électricien, Wei Jingsheng, qui sera aussi son théoricien le plus important et le plus radical. Âgé d’une trentaine d’années, ancien garde rouge et très marqué par cette expérience, il se fait connaître en affichant un dazibao qui aura un grand retentissement « La cinquième modernisation, la démocratie ». Sa thèse générale est que pour que la Chine devienne un pays moderne, il lui faut la démocratie. À partir de là il développe une analyse de la société chinoise en rejetant le marxisme et en dénonçant les méfaits sanglants de Mao et de sa pensée. Wei Jingsheng lui aussi dénonce la bureaucratie comme une classe parasite responsable de bien des malheurs du peuple chinois, et pour lui aussi la solution réside dans la prise de leurs affaires en mains par les gens eux-mêmes, directement. C’est dans ses textes que l’on trouve les accents les plus libertaires. Les extraits qui suivent sont d’ailleurs parlants. « Qu’est-ce que la démocratie ? La véritable démocratie c’est la remise de tous les pouvoirs à la collectivité des travailleurs… Qu’est-ce qu’une véritable démocratie ? C’est un système qui permet au peuple de choisir à son gré des représentants chargés d’administrer pour lui, en conformité avec ses volontés et ses intérêts. Le peuple doit en plus conserver le pouvoir de démettre et de remplacer à tout moment ces représentants pour empêcher que ceux-ci ne viennent à abuser de leurs fonctions pour se transformer en oppresseurs… Sans un tyran pour vous chevaucher l’échine, craignez-vous donc de vous envoler ? À ceux qui nourrissent ce genre d’apréhension, laissez-moi seulement dire très respectueusement ceci : nous voulons devenir maîtres de notre propre destinée… Je suis fermement convaincu de ceci : si elle est mise sous la gestion du peuple lui-même, la production ne pourra que se développer, car les producteurs produirons dans leur propre intérêt ; la vie deviendra belle et bonne car tout sera orienté vers l’amélioration des conditions d’existence des travailleurs ; la société sera plus juste car tous les droits et pouvoirs seront détenus de façon démocratique par l’ensemble des travailleurs» [36].

La société pour laquelle se bat Wei Jingsheng est tout à fait semblable à celle préconisée depuis plus d’un siècle par les anarchistes. Il y a dans son texte de fréquentes allusions aux démocraties occidentales que Wei Jingsheng prend pour modèles. Il ne faut pas croire par là qu’il ne veut qu’une simple démocratie bourgeoise : mal informé sur ce que sont réellement les démocraties de nos pays, il les croit semblables au système qu’il décrit. Wei est beaucoup plus qu’un démocrate, c’est un révolutionnaire. La classe dirigeante chinoise ne s’est pas méprise sur le danger que représentait pour elle « Exploration » et son animateur. Il est arrêté en avril 1979, et après un procès retentissant à l’automne de cette même année, il est condamné à 15 ans de prison. Son arrestation a marqué le début d’une vaste opération visant à liquider le « Printemps de Pékin ». « Exploration » a cessé de paraître depuis deux ans maintenant.

Les opposants dont nous venons de parler ont tous un point commun : ils étaient ou ils ont été gardes rouges, et cette expérience les a marqués. On peut se demander dans quelle mesure cet anarchisme spontané qui imprègne leurs textes ne vient pas thèses de Mao les plus radicales, et les plus libertaires, qui lui ont permis de soulever la jeunesse et de la lancer à l’assaut des bureaucrates qui s’opposaient à lui au début de la révolution culturelle. Ses appels à la révolte, ses discours contre la bureaucratie ont peut-être fait leur chemin dans bien des têtes, avec des résultats inattendus. Mais c’est aussi une constante dans tous les pays très autoritaires, les oppositionnels prennent souvent des attitudes très libertaires par opposition au régime qu’ils combattent.

* * * *

Ce bref panorama de l’anarchisme en Chine depuis 32 ans laisse beaucoup de questions en suspens. Le peu de documents disponibles ne permettent pas de cerner avec certitude quelle a été l’influence du mouvement traditionnel et combien de temps cette influence a survécu (avec une question annexe : est-elle encore une réalité aujourd’hui). J’ai donné mon opinion sur le sujet dans cet article, mais chacun peut s’en faire une en lisant les textes eux-mêmes, et il est fort probable qu’elles seront très diverses. Il faudrait trouver de nouveaux documents s’il en existe pour les années cinquante et le début des années soixante, bien des choses s’éclaireraient probablement. Il faudrait aussi savoir ce que cachent exactement les diverses attaques et procès contre les « anarchistes ». Mais là c’est à Pékin qu’il faut chercher la solution, et pour l’instant c’est totalement impossible. Mais les idées libertaires sont toujours vivantes en Chine, l’opposition de ces dernières années nous l’a montré. C’est d’ailleurs là que se trouve à mon sens le véritable avenir de l’anarchisme en Chine.

 

 

Wiebieralski

 

[Traduzione di Ario Libert]

NOTE

 

[1] "Origins of the Anarchist Movement in China", Albert Meltzer Cienfuegos Press Anarcist Review no4, 1978.

 [2] Meltzer, op. cit.

[3] Introduction à "Famille" de Pa Kin, éditions Flammarion 1979.

[4] "Il suicidio dell'anarchico cinese Pa Kin", Victor Garcia, Volontà de janvier 1969

[5]  Black Flag n° 19, avril 1975.

[6] Introduction à « Famille » op. cit.

[7] Black Flag n° 19, avril 1975

[8] Introduction à « Famille », op. cit et « La longue marche de Pa Kin », Agora n°3, mars 1980..

[9] « Wen-Hsueh Ping-Lun » (La Revue Littéraire) n°2, 1979, article de Li Towen, cité par la revue japonaise « Libero International, Osaka, n°5, mars 1980.

[10] Pour avoir une vue de ces deux positions, voir la revue Minus 7 de septembre-octobre 1977 qui présente deux textes récents de Pa Kin pour montrer qu’il n’est plus anarchiste, et la réponse à leur introduction dans Black Flag n°3, février 1978 qui défend Pa Kin.

[11] Meltzer, op cit.

[12] Bulletin préparatoire du congrès anarchiste de Carrare, n°8 mars 1968.

[13] Meltzer, op cit.

[14] « Lettra dalla Cina », L’Adunata dei Refrattari du 26 juin 1965, reprenant exactement, introduction à la lettre comprise, le texte paru dans Freedom du 29 mai 1965 que nous n’avons pas pu nous procurer.

[15] Bulletin préparatoire du congrès international anarchiste de Carrare, n°8, mars 1968

[16] Meltzer, op cit.

[17] Bulletin préparatoire du congrès anarchiste international de Carrare, n°10 août 1968.

[18] Bulletin préparatoire du congrès de Paris de l’Internationale des Fédérations Anarchistes (IFA), n°3 1969.

[19] Bulletin préparatoire du congrès de Paris de l’IFA n°9, 1971.

[20]  Bulletin préparatoire du congrès anarchiste international de Carrare, n°8, 1968)

[21]  Informations Rassemblées à Lyon (IRL) n°4, octobre-novembre 1974.

[22] « Les habits neufs du président Mao », Simon Leys, Bibliothèque Asiatique, Paris 1971.

[23] « « Le Parti Communiste Chinois au pouvoir », Jacques Guillermaz, Paris 1972.

[24] « Chine Rouge, Page Blanche », Pierre Illiez, Paris 1973

[25] « Pékin et la nouvelle gauche », Klaus Mehnert, Paris 1971.

[26] Menhert, op cit.

[27]  Commune Libre, revue de la CNTf, n°1, décembre 1972.

[28] Black Flag 1974 reprenant un article de l’« Anarchist Black Cross Bulletin » n°7 de janvier 1974, Chicago, intitulé « Workers on trial in China ».

[29]  Black Flag n°4 vol. 5, mai 1978.

[30]  Black Flag n°4 vol. 6, septembre 1980.

[31] « Qu’est-ce que la pensée spécifiquement chinoise, Mu Yi in « Un bol de nids d’hirondelle ne fait pas le printemps de Pékin », Bibliothèque Asiatique, Paris 1980.

[32]  Le Monde libertaire n°330novembre 1979.

[33] « Où va la Chine ? in « Révol. Cul. en Chine Pop », Bibliothèque Asiatique, Paris 1974.

[34]  Minus 7 de juin 1977.

[35] « Chinois si vous saviez… », Li Yi Zhe, Bibliothèque asiatique, Paris 1976.

[36] « La cinquième modernisation : la démocratie », Wei Jingsheng in « Un bol de nid d’hirondelle… » op cit.

 

 

 

LINK:

L'anarchisme en Chine de 1949 à 1981

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16 dicembre 2013 1 16 /12 /dicembre /2013 06:00

PAUL MATTICK: La Rivoluzione fu una bella avventura. Dalle strade di Berlino ai movimenti radicali americani (1918-1934).

 

 

mattick-libro02Edizione francese del libro di Paul Mattick

 

 

Il militante e teorico marxista Paul Mattick (1904-1981 [1]) non ha scritto un’autobiografia, ma quest’opera uscita da poco, a partire da un’intervista che egli aveva concessa nel 1976, colma in qualche modo questa lacuna. È una narrazione molto viva, di una grande franchezza, che Mattick fa della sua giovinezza nella Germania della guerra, poi della rivoluzione, e delle sue esperienze militanti in questo paese e poi negli Stati Uniti. La forma orale, ben restituita, ne rende la lettura molto fluida. L’opera beneficia anche di numerosi documenti fotografici legati al testo.

 

Figlio di un operaio sindacalista e socialista, Paul Mattick è sin da giovane in contatto con il movimento operaio. A proposito della sua infanzia, racconta le pene corporali alla scuola, e la loro conseguenza: “la paura ci impediva di pensare e di imparare”, frase che merita di essere meditata, e che potrebbe essere applicata alla situazione sociale attuale. Parla anche delle devastazioni dell’alcol, anche su suo padre. Trattando della prima guerra mondiale, Mattick descrive gli effetti del blocco militare subito dalla Germania: dei bambini – tra cui egli stesso- costretti a rubare il cibo per mangiare, e numerosi sono coloro che moriranno per via della degradazione delle condizioni materiali di vita: “dopo il 1917 e il 1918, vi furono grandi epidemie di tubercolosi. Nel nostro palazzo, più della metà dei bambini che vi vivevano ne sono morti”.

 

Adolescente, Paul Mattick entra come apprendista in una fabnbrica Siemens, e milita nella Gioventù socialista libera (Freie Sozialistische Jugend) a Charlottenburg, città limitrofa a Berlino (che in seguito vi è stata inglobata). A partire da novembre 1918, partecipa alla Rivoluzione tedesca, e si trova eletto in un consiglio operaio come rappresentante degli apprendisti.

 

Intraprende in seguito diversi piccoli lavori continuando a militare senza sosta, sfuggendo per poco alla morte durante il putsch di Kapp nel 1920. Attivista all’interno degli scioperi durante gli anni successive, viene incarcerato per un period. A livello organizzativo, Mattick è a partire dal 1920 militante del KAPD (Partito comunista operaio Tedesco), scissione “ultra-sinistra” del Partito comunista. Ma il racconto narra poco per ciò che concerne questa organizzazione, che in pochi anni cadrà da alcune decine di migliaia di aderenti a poche centinaia. La descrizione di questo periodo mostra anche, tra l’altro, che il riflusso rivoluzionario e la repressione possono trascinare alcuni militanti verso la criminalità.

mattick-libro.jpgEdizione tedesca del libro a carattere autobiografico di Paul Mattick

 

Nel 1926, Paul Mattick parte per gli Stati Uniti a lavorare come meccanico, poi come meccanico. Dapprima nel Michigan, vive in seguito a Chicago. Mattick milita allora con gli Industrial Workers of the World (IWW, organizzazione), pur essendo vicino al Proletarian Party. Partecipa in seguito a una scissione di questo partito, che prende il nome di United Workers Party puis Groups of Council Communists. Con il riflusso delle lotte sociali durante la seconda metà degli anni 30, questo gruppo sparirà.

 

Ma per Mattick, l’essenziale è nella lotta sociale diretta: in seguito alla crisi del 1929, “delle assemblee di disoccupati hanno iniziato a costituirsi, la maggior parte spontaneamente”. Partecipa a questi movimenti di disoccupati, che prendono in mano dei locali lasciati vuoti per via della crisi, e li utilizzano come luoghi di riunione e di solidarietà pratica. I disoccupati organizzati partecipano anche al sostegno attivo a favore dei lavoratori in sciopero, oragnizzando insieme dei picchetti di sciopero. Lottano anche contro le espulsioni dagli alloggi per affitti non pagati. Queste erano le azioni praticate da questi “consigli di disoccupati”: si capisce che Paul Mattick ne era entusiasta. Dice inoltre nel 1976, che fu “un periodo meraviglioso, un periodo a cui sogno ancora oggi”.

 

È nel 1934 che Paul Mattick lancia con i suoi compagni la rivista International Council Correspondence, che è legata con altri comunisti dei consigli nel mondo. Questa rivista è seguita a partire dal 1938 da Living Marxism, che diventa New Essays nel 1942. Difendendo un “marxismo vivente”, si tratta tra l’altro per Mattick do “opporsi alla teoria bolscevica, al capitalismo di Stato”. Queste riviste si iscrivono in una corrente marxista che è non soltanto antistalinista, ma anche antileninista, e che considera che l’URSS è stato sin dall’inizio una dittatura capitalista di Stato.

 

La narrazione di Mattick si interrompe qui, essendo la sua esistenza diventata molto meno agitata – benché sempre dedicata alla lotta contro l’oppressione capitalista [2].

 

Oltre che un semplice racconto di vita, questo libro ci mostra un movimento operaio rivoluzionario che milita per l’auto-emancipazione, e che è anche un mezzo per dei militanti di forgiarsi un’importante cultura. Paul Mattick è uno dei teorici operai autodidatti che, a partire dalla loro coscienza di classe e dalle loro esperienze nelle lotte, hanno saputo sviluppare delle analisi approfondite e lucide della società, conservando sempre la prospettiva di arrivare a una società liberata dallo sfruttamento e dall’alienazione.

 

[Traduzione di Ario Libert]

 

 

LINK al post originale:
La Révolution fut une belle aventure 


 

NOTE 

 

[1] Abbiamo in precedenza pubblicato delle recensioni a due sue opere: Marx et Keynes (Critique Sociale n° 8, novembre 2009) e  Marxisme, dernier refuge de la bourgeoisie? (Critique Sociale n°20, marzo 2012).

 

[2] Non si era ravveduto: un giorno a Boston, già verso il tramonto della sua vita, aveva risposto a un giornalista televisivo che gli aveva domandato per strada per chi avesse votato: “We don’t vote, we blow things up!”. 

 

Paul Mattick, La Révolution fut une belle aventure. Des rues de Berlin en révolte aux mouvements radicaux américains (1918-1934), L’échappée, 2013, 191 pagine, 17 euro. Prefazione di Gary Roth, postfazione di Laure Batier e Charles Reeve.

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30 settembre 2013 1 30 /09 /settembre /2013 05:00

Gerrard Winstanley

e i Veri Livellatori (Diggers)

Winstanley Portrait

Henry Noel Brailford

 

[Illustrazioni di Clifford Harper]

 

La domenica 1° aprile 1649, una dozzina di contadini senza terra si accamparono con le loro famiglie sulla collina di St. George, nel Surrey, e procedettero con le loro famiglie a zappare e concimare i terreni comuni. Li guidava William Everard, che aveva prestato servizio militare nel Nuovo Modello finché non ne era stato espulso a causa del suo radicalismo; ma per lui quell’atto voleva essere pacifico. Persa anche l’ultima fiducia sia nei possidenti imperanti alla camera dei Comuni, sia nei Grandi che comandavano l’esercito, i True Levellers (Veri livellatori) o Diggers (zappatori), come essi si chiamavano, erano decisi ad aprire una nuova campagna a favore della libertà, con le loro rudi zappe. Avrebbero rivendicato attraverso l’azione il diritto naturale dell’uomo di servirsi della terra e di goderne i frutti e lanciato una sfida al servile istituto della proprietà privata, che da secoli opprimeva gli inglesi.

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Mentre zappavano e coltivavano a squadre, essi intonavano un loro inno scagliandosi contro l’aristocrazia, contro la gentry, contro gli avvocati, contro il clero, ma i Diggers sono decisi a “vincerli con l’amore” perché la libertà non è mai stata conquistata con la spada. Con una fede che nessuna delusione o sconfitta poteva uccidere, gli Zappatori avrebbero tentato una nuova via per instaurare la “comunità dei possessi”. Il loro movimento era insieme il punto di arrivo della lunga guerra contro le enclosures e della quale i Veri Livellatori combatterono l’ultima battaglia incruenta perché essi erano ispirati da una semplice e chiara fede comunista e avevano ideato una tattica che avrebbe per sempre messo fine alle usurpazioni dei proprietari invadenti e instaurata una società senza classi.

Gli Zappatori, prima a St. George’s Hill, poi – quando ne furono cacciati - a Cobham, non esitarono a violare gli storici diritti dei signori di maniero, accampandosi sui terreni comuni per coltivarli, e facendovi legna. Allarmato da un rapporto del 16 aprile, il Consiglio di Stato prima convocò i leader del gruppetto, poi mandò dei reparti di cavalleria a disperderli. Cortese come sempre, Fairfax li ascoltò mentre gli spiegavano come, scacciato l’oppressore re Carlo, “la terra debba tornare nelle mani unite degli uomini comuni”, ma i signori di maniero non furono altrettanto larghi di idee e, con turbe di mercenari spalleggiati dalla cavalleria regolare, prima li scacciarono da St. George’s Hill, poi distrussero le baracche ch’essi avevano costruito a Cobham e mandarono il bestiame a pascolare nei campi che i Diggers avevano piantati a cereali; ma intanto la colonia era cresciuta a cinquanta persone, per un anno aveva tenuto testa ai signori, all’esercito e alla legge, e i loro emissari battevano le strade d’Inghilterra predicando il nuovo Vangelo di eguaglianza.

Il loro esempio fu seguito a Cox Hull nel Kent e a Wellingborough nel Northamponshire. In questa località, una sola parrocchia contava 1169 persone che vivevano di elemosina e da tempo chiedevano invano ai giudici di pace d’essere “messi al lavoro”, ma nulla era stato fatto per aiutarle. Gli Zappatori itineranti le organizzarono, e il fatto nuovo e interessante è che godevano di large simpatie in città, perché vi furono proprietari disposti a cedere pezzi di terreno e fittavoli pronti a fornire sementi; ma anche questa colonia venne infine dispersa.

V’era tra i Diggers un uomo eccezionale per originalità e per ingegno, Gerrad Winstanley, che lasciò in una lunga serie di scritti una vivida testimonianza della fede e delle idee che illuminavano questo movimento. Infatti, è probabile che sia stato Winstanley, fin dall’inizio, ad ispirare Everard. In quell’anno scrisse e pubblicò numerosi pamphlet indirizzandosi di volta in volta all’esercito, alla City of London, e al parlamento, e, nel linguaggio insieme della Bibbia e della vita quotidiana, diede una franca immagine di ciò che i Diggers avevano fatto e sofferto, ed espose i principi in base ai quali agivano.

Winstanley era nato nel 1609 a Wigan. Trasferitosi a Londra, si era dedicato al commercio dei panni e delle tellerie e, rovinato come tanti altri dalla guerra civile, si era ritirato in campagna nell’alta valle del Tamigi, dove certi conoscenti gli avevano fornito l’alloggio in cambio del governo del bestiame, e così gli avevano permesso di riflettere e meditare. Nel 1648, Winstanley pubblicò quattro pamphlet, dove, erano esposte ardite concezioni teologiche. Passando attraverso un misticismo panteistico, esse maturarono rapidamente in una visione che, in termini moderni, si potrebbe definire agnostica e secolare.

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In quello stesso anno, Winstanley cominciò a interessarsi di questioni politiche e scrisse il suo libro forse più indicativo The New Law of Righteousness [La nuova legge dell’equità], che è un Manifesto dei Comunisti nel linguaggio dell’epoca. Per tutto il biennio 1649-50 egli fu la mente e la penna del moto degli Zappatori, e al suo tramonto, dopo aver difeso le proprie idee in Fire in the Bush [Fuoco nel roveto], nel 1652 diede alle stampe la sua opera più matura, The Law of Freedom in a Platform [Il piano della legge della libertà]. Dedicata a Cromwell in una lettera semplice ed eloquente, essa lo invitava a gettare le basi di una repubblicacomunista. Il quadro di una società nuova e senza classi, esposto nei sei capitoli successivi, è un’interessante miscela della democrazia radicale professata dai livellatori, del comunismo predicato dalla Utopia di Thomas More, e del secolarismo proprio di Winstanley. Come Thomas More, egli propugnava un’economia non monetaria e non mercantile, organizzata intorno a magazzini pubblici ai quali ciascuno consegnerà i prodotti del suo lavoro e dai quali ciascuno attingerà il necessario per soddisfare i suoi bisogni.

Gerrard Winstanley Writing

Il libro, pur non avendo la grazia letteraria e la brillante immaginazione dell'Utopia, occupa un posto tanto più significativo nella storia del pensiero socialista in quanto nacque da un moto autenticamente proletario come programma strategico in vista dell’instaurazione pratica del comunismo. Fu questa l’ultima parola di Gerrard Winstanley: del resto della sua vita sappiamo unicamente che nel 1660 abitava a Cobham e che dopo aver raggiunto una certa floridezza, se poté intentare una causa a un mercante al tribunale della Cancelleria.

Come Winstanley giunse alle sue teorie? Nulla giustifica l’ipotesi che egli possedesse una cultura accademica e libresca: egli non cita nessuna opera che non sia la Bibbia, e neppure accenna all’Utopia, sebbene è chiaro che deve averla studiata. Narra di aver ascoltato da giovane molti sermoni, e di essere stato “immerso” come battista, ed è qui, a parer nostro, un primo e notevole punto di appoggio, perché il pensiero comunista già nel secolo XVI emanava da un doppio filone: la perseguitata ala sinistra dell’hussitismo boemo, e il movimento anabattista le cui dottrine erano predicate clandestinamente in Inghilterra dalla non meno perseguitata Famiglia d’Amore. Questa tradizione a sfondo pacifista filtrò in quasi tutte le sette radicali del periodo repubblicano, e vi fu mantenuta viva dalla parola orale: non a caso un brano caratteristico di Winstanley riecheggia quasi alla lettera uno dei sermoni rivoluzionari di Münzer, l’apostolo dei contadini tedeschi.

Diggers in a Hostelry

Decisiva su di lui fu pure l’influenza della letteratura polemica livellatrice. È probabile che Winstanley sia stato in contatto coi livellatori dei Chilterns e della valle del Tamigi, autori dei due pamphlet Light Shining in Buckinghamshire e New Light Shining in Buckinghamshire, il cui stile non permette di attribuirli a lui, ma dei quali egli può aver contribuito a comporre la trama.

Winstanley non fu, dunque, un pensatore solitario; ma se potessimo chiedregli dove attinse il suo comunismo, egli non citerebbe come fonti né la tradizione anabattista, né il movimento livellatore. Esso gli era venuto per diretta rivelazione di Dio. Tre volte, sia in stato di trance che a mente lucida, egli aveva udito una voce comandargli: “Lavorate insieme; mangiate il pane insieme; proclamate tutto questo nel mondo. Israele non deve né prendere né dare in affitto. Chiunque lavori la terra per una o più persone sollevate a dominare sul prossimo, e che non si considerino eguali agli altri nella creazione, su questo lavoratore la mano del Signore si poserà; io, il Signore, l’ho detto e io lo farò”.

Ubbidendo a questa Voce, egli andò a lavorare coi primi pionieri sulla collina di St. George. I suoi argomenti erano essenzialmente etici: per lui come per tutti gli uomini dai primordi del culto degli antenati, l’umanità è naturalmente, fu in origine, o divenne per ordine e promessa di Dio, una famiglia di uguali.

Tutti i movimenti contadini, dai tempi di John Ball, hanno condiviso questa fede. Winstanley seppe analizzare la società contemporanea con una lucidità di cui i mistici di rado danno prova. Egli non possiede termini tecnici. Più chiaramente che tutti i comunisti istintivi di epoche precedenti, egli riconobbe la fonte di ogni sfruttamento e della maggior parte delle miserie che lo circondavano nell’appropriazione privata dei mezzi di vita e di lavoro e cioè la terra. Egli non cessa di ripetere che il lavoro è la fonte di ogni ricchezza, e chi è ricco lo è divenuto solo appropriandosi i frutti del lavoro altrui.

Winstanley capì che l’istituzione della “proprietà particolare” è la fonte inevitabile di tutte le oppressioni e di tutte le guerre. Solo la spada, o la legge che in origine sanzionò le pretese feudali dei guerrieri al seguito “del Bastardo normanno”, possono conservare e proteggere la proprietà.

Winstanley comprese altresì, e disse chiaramente, che l’ineguaglianza economica degrada coloro che devono soggiacervi, perché ispira loro una morbosa coscienza di inferiorità congenita.

Quanto alla strategia rivoluzionaria, essa era prescritta a Winstanley dall’interiore “voce dello spirito” forse mentre rimuginava le confuse discussioni avute coi livellatori nella regione dei Chilterns. In un brano, egli scrive come Rousseau che nessuno dovrebbe tenere per sé un’estensione di terra superiore a quella che può coltivare con le proprie mani: ma il suo ideale non è la proprietà contadina, bensì la “comunità”. Il modo di realizzarla è duplice: uomini privi di terra si uniranno per zappare insieme i terreni incolti; ma soprattutto si metterà fine a ogni forma di lavoro salariato. In altri termini, egli invitava i lavoratori  agricoli a rifiutare la propria forza-lavoro all’impiego remunerato sulla terra, [essi] troveranno occupazione permanente nel coltivare per sé i campi d’uso collettivo. Winstanley non dimenticava certo che il Consiglio di Stato aveva alle spalle Fairfax coi suoi dragoni; ma credeva, e aveva ragione di credere, che una rivoluzione fosse in moto, e sapeva che molti di quegli stessi dragoni eraqno alla vigilia di ribellarsi.

Tuttavia, per capire il senso del suo comunismo, dobbiamo cercar di abbracciare l’insieme delal sua visione del mondo e della società umana. La difficoltà risiede nel fatto che il suo pensiero era in rapido e continuo moto. Le sue opere furono scritte, perlopiù in vertiginoso tumulto, nel giro di appena quattro anni. La sua intelligenza è più intuitiva che logica e organizzata.

Nei primi pamphlet di contenuto religioso, egli non aveva ancora raggiunto la posizione che poi lo distinse. Nel primo, egli si dichiara a favore dell’”universalismo”, l’eresia era allora pericolosissima secondo la quale nessuna anima può essere eternamente dannata, e grazie alla misericordia divina anche il malvagio sarà infine redento dall’inferno (al quale, più tardi, Winstanley cesserà di credere). Ma il pamphlet in cui sono esposte le linee più generali della sua concezione teologica è l’audace Truth Lifting Up its Head Above Scandals [La verità che leva la testa al disopra degli scandali], del 1648, scritto in difesa di Everard arrestato per sacrilegio. Qui abbandona l’idea di un Dio perdonale, riduce al minimo il significato del Cristo storico, e ci offre in cambio la concezione panteistica di un universo ordinato.

Egli comincia con l’avvertirci che nei suoi scritti intende usare “la parola Ragione invece della parola Dio”. In altri termini egli non riesce a distinguere Dio dall’universo. Per lui, la Ragione è “il vivente potere della luce, che è in tutte le cose”.

In lampi d’illuminazione egli aveva afferrato, prima che Newton scrivesse i suoi Principia, l’idea dell’ordine e dell’unità dell’universo. Per lui, Dio era appunto quest’ordine; era “l’incomprensibile spirito Ragione”.

E altrove egli parla della “legge della natura (o Dio)”, come poi Spinoza scriverà: “Deus sive natura”, mentre altri brani equivalgono alla negazione di un Dio personale.

Ciò non gli impedisce di usare spesso la parola Dio, e anche più di frequente usa il nome di Cristo come del “vero e autentico Livellatore”, e applica questo nome, fuori da ogni riferimento storico, allo spirito dell’amore, dell’ordine e della ragione nel cuore di tutti gli uomini – anzi, perfino degli animali.

L’agnosticismo sulla vita futura è ancor più esplicito nell’ultima opera di Winstanley, Il Piano della Legge della Libertà: la sopravvivenzas personale nell’al di là non è affatto sicura giacché “sapere quel che [Dio] farà dell’uomo dopo la morte oltre che scomporlo nelle essenze del fuoco, dell’acqua, della terra e dell’aria è un’impresa superiore alle possibilità e capacità dell’uomo, fintanto che egli vive nel corpo”. Altrove, l’intera mitologia ebraica e cristiana è liquidata come “inganno della fantasia e della saggezza e conoscenza carnale; essa insegna a basarsi sulla storia di cose avvenute senza di noi 6.000 e 1649 anni fa”.

Questo lato negativo del pensiero di Winstaley rappresenta un caso unico nell’Inghilterra puritana. Nel suo modo affatto personale, Gerrard era un’anima profondamente religiosa, che con tutta la sinistra puritana aveva in comune e professò con intensa convinzione la fede nel secondo avvento del Cristo, ma trasfigurò questo mito fino a renderlo quasi irriconoscibile.nella sua versione, Cristo invaderà le menti in un processo pacifico e indurrà gli uomini a cessar di concupire e di opprimere, e a realizzare in terra senza ricorrere alla spada la comunità dei possessi. Allora il governo come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi cesserà di esistere: nelle parole di Marx, lo Stato “deperirà”.

Nella sua vigile coscienza di classe, Winstanley preferisce i brani della Bibbia che annunciano il trionfo dei “disprezzati della terra” e “il pianto e le grida” dei ricchi.

È legge della natura umana che, prima di rischiare il tutto per il tutto, ogni rivoluzione raggiunga questa certezza della propria necessità e imminenza: gli uomini dei Seicento la derivavano dal libro della Rivelazione come quelli d’oggi la derivano dall’interpretazione marxista della storia. Ma, Gerrard Winstanley la attingeva dall’osservazione empirica non meno che dalla profezia. Egli aveva visto i potenti cadere dai loro troni: prima ch’egli lanciasse la sua sfida alla proprietà privata, una testa di re era rotolata davanti a Whitehall. La rivoluzione ch’egli sognava sarebbe stata il frutto di una metamorfosi operata dallo “Spirito Ragione” nel cuore degli uomini; ma ciò non gli impediva di studiare la tattica più intelligente per affrettare il processo della loro conversione.

Come i primi quaccheri, egli credeva che lo spirito della ragione e dell’amore si sarebbe rivelato all’anima che attende in silenzio. L’autodisciplina che prescriveva all’uomo era fatta “di azioni giuste e di paziente silenzio”; l’anima doveva cessare di concentrarsi sugli oggetti esterni, spogliarsi di quella cupidigia e smania di possedere, che è madre di tutte le oppressioni, praticare la regola aurea verso i propri simili come verso tutte le creature, e tendere a quell’amore universale che è il fondamento della “comunità” (o, in linguaggio moderno, del comunismo).

La dottrina della “luce interna” è spesso interpretata come l’espressione esterna dell’individualismo protestante. Per Winstanley, è invece un corollario del panteismo mistico: l’insieme ordinato dell’universo raggiunge la coscienza di sé e la sua espressione articolata nell’anima che vive secondo Ragione.

Le Scritture possono servire; ma la luce interna è un’autorità superiore, l’unica che possa interpretarle. Audacemente, egli elimina ogni forma di religione organizzata, le chiese, le “riunioni di preghiera” e, i sacramenti – inclusi il matrimonio, il battesimo, i riti funebri. Copre di sarcasmo sia le università, che pretendono “di possedere in proprio gli scritti degli Apostolo, sia il clero stipendiato che “vende parole per denaro, onde accecare il popolo ingannato”. Una forte coscienza di classe vibra in tutto ciò che Winstanley dice delle università e del clero: “Un contadino che non sia mai stato educato nelle loro scuole” può conoscere meglio la verità: i primi profeti e apostoli erano umili pastori e pescatori.

Il disprezzo del clero stipendiato era un atteggiamento comune ai livellatori e ad uomini, come Milton, estranei alla loro cerchia. L’anticlericalismo di Winstanley paragona alla stregoneria l’“immaginaria scienza” dei teologi, e allarga la polemica anticlericale in un’offensiva contro ogni religione soprannaturale. Soprattutto capisce che la religione organizzata è divenuta l’arma delle classi possidenti. Come si legge in un brano della Law of Freedom: “E invero l’astuto clero sa che, se riesce, grazie a questa dottrina teologica, a incantare il popolo facendogli aspettar ricchezze, paradiso e gloria dopo morto, allora sarà esso a ereditare facilmente la terra, e avrà al proprio servizio il popolo ingannato.

In quest’ultimo libro del 1652, pur disegnando la mappa di una comunità ideale, Winstanley tiene ben saldi i piedi  sulla terra. Lo stato d’animo di esaltazione è svanito, e il lungo conflitto interno fra la tradizione e il razionalismo si conclude nel trionfo di una nuova, moderna visione del mondo. Ma da Thomas More egli può aver tratto quell’entusiasmo per le scienze sperimentali, che brilla in tante pagine di Law of Freedom. Insofferente delle accademie che si occupano soltanto di parole e tradizioni, Winstanley propone di organizzare bensì lo studio dei segreti della natura ma di volgerlo soprattutto a scopi pratici.

Noi inglesi siamo davvero un popolo immemore ed ingrato. Pur contando allora una popolazione inferiore ai cinque milioni, l'Inghilterra non ha mai prodotto nel pensiero e nell'azione tanti e così arditi pionieri come nei giorni lontani del Commonwealtth, quando si rischiava tutto per un'idea e si viveva con un'intensità che i posteri non hanno mai più conosciuta. Fra questi pionieri, sebbene dimenticato, gerrard Winstanley brilla di luce propria - la luce di un raro coraggio, e di una chiara visione del mondo e della vita.

 

Originariamente apparso su: “The Plain View”, luglio 1945.

Ora come capitolo XXXIV di "I livellatori e la rivoluzione inglese", di H. Noel Brailsford, vol. II, Il Saggiatore, Milano, 1962.

 

[A cura di Ario Libert]

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