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16 dicembre 2016 5 16 /12 /dicembre /2016 06:00

MARX LIBERTARIO

Maximilien Rubel

Nel centenario della morte di Marx questo saggio, pubblicato dieci anni fa, avrebbe bisogno di una revisione, per rinforzarne la tesi centrale: la fondazione da parte di Marx di una teoria politica dell'anarchismo [1].

Se si astrae dalla tradizionale critica di carattere puramente formale, di cui questa teoria è oggetto da parte di ideologi anarchici e libertari, occorre ammettere che il vero dibattito sui modi di transizione delle società dominate dal capitale e dallo Stato è molto lontano dall'essere iniziato. Di massima, il verbalismo prende il posto di argomento privilegiato nei due campi, anarchico e marxista, senza che sia preso realmente in considerazione l'insegnamento del principale interessato. Il fatto che la quasi totalità delle risoluzioni "politiche", redatte da Marx per i successivi congressi dell'Internazionale operaia, abbiano ottenuto l'accordo unanime dei delegati, basta, tuttavia, per riconoscere l'inanità delle critiche sedicenti antiautoritarie. In realtà gli "antiautoritari" non erano certo meno "marxisti" dei loro oppositori, poiché, votando queste risoluzioni di cui essi probabilmente ignoravano l'autore, rendevano omaggio all'autorità di quest'ultimo [2].

E che dire del voto unanime, da parte dell'insieme delle sezioni dell'A.I.T., a favore dell'indirizzo sulla guerra civile in Francia, in cui il "vero seguito" della natura della Comune è rivelato in questi termini: "Essenzialmente è un governo della classe operaia, il risultato della lotta della classe dei produttori contro la classe degli accaparratori, la forma politica infine disvelata sotto la quale si compirà l'emancipazione economica del lavoro" [3].

Come fare a non stupirsi di una fraseologia "antiautoritaria" sempre rifiorente, quando si sa che questa concezione del carattere politico della Comune fu condivisa senza riserve sia dagli adepti di Proudhon sia da quelli di Bakunin, il quale, poco tempo dopo, si è ingegnato a diffondere fra i suoi compagni di lotta alcuni libelli in cui Marx è trattato da "rappresentante del pensiero tedesco", da "ebreo tedesco", da "capo dei comunisti autoritari della Germania", come chi si comporta da "dittatore-messia", da partigiano fanatico del "pangermanesimo" [4]. Che dire di quei "Documenti probanti" in cui Marx è descritto, da una parte come un "economista profondo... appassionatamente votato alla causa del proletariato", come "l'iniziatore e l'ispiratore principale della fondazione dell'Internazionale" e, d'altra parte, come un dottrinario che "è giunto a considerarsi molto seriamente come il papa del socialismo, o piuttosto del comunismo?". Il che significa in altri termini, che, "per l'intera sua teoria, egli è un comunista autoritario, che vuole come Mazzini... l'emancipazione del proletariato attraverso la potenza centralizzata del proletariato". Che cosa pensare di un "anarchico" o di un "comunista rivoluzionario" che crede ed afferma che l'ebreo Marx è circondato da una "folla di piccoli giudei", che "tutta questa gente ebrea", questo "popolo sanguisuga" è "intimamente organizzato al di là di ogni differenza sul piano delle opinioni politiche", che esso è "in gran parte a disposizione di Marx, da un lato, e di Rothschild dall'altro?" [5].

Come prendere sul serio un "anarchismo" che, "anti-autoritario" per essenza e per proclama, attribuisce proprio a Marx il glorioso merito di aver redatto "le così belle e profonde considerazioni degli statuti", e d'aver "dato corpo alle aspirazioni istintive, unanimi del proletariato in quasi tutti i paesi d'Europa col concepire l'idea e proporre l'istituzione della Internazionale negli anni 1863/1864", dimenticandosi dunque o fingendo di dimenticarsi che la Carta dell'Internazionale fu un documento politico, un manifesto che conferisce alla lotta politica della classe dei produttori il carattere di un imperativo categorico, condizione assoluta e mezzo ineludibile dell'emancipazione umana [6].

Non Marx, ma Bakunin praticava il principio della liberazione "dall'alto verso il basso", esaltando la costituzione di un'autorità centralizzata e segreta, di un'élite avente per missione l'esercizio di una "dittatura collettiva ed invisibile" al fine di far trionfare "la rivoluzione ben diretta" [7].

Confidando nel movimento reale degli operai, Marx sottolineava l'importanza dei sindacati, delle cooperative e dei partiti politici in quanto creazioni "dal basso verso l'alto", mentre Bakunin, al contrario, ripercorrendo magistralmente la traiettoria di Mazzini, eroe delle spedizioni al margine della vita reale delle masse, progettava per i rivoluzionari italiani, chiamati a coordinare una "grande rivoluzione popolare", un piano d'azione per sollevare e spingere alla rivoluzione i contadini "necessariamente" federalisti e socialisti. Il programma prevedeva la formazione di un "partito attivo e potente", un'avanguardia, in realtà, che marciava "parallelamente" ai mazziniani, guardandosi bene dal congiungersi con loro e sorvegliando che essi non si infiltrassero nel nuovo partito, ecc. Non era certamente Marx che, di fronte alle persecuzioni dei governi e delle polizie di cui era vittima l'Internazionale in tutti i paesi del continente europeo, consigliava la creazione, "dentro le sezioni" di "nuclei" composti dai membri più sicuri, più devoti, più intelligenti e più energici, in una parola "i più intimi", con la "doppia missione" di formare "l'anima ispiratrice e vivificante di quest'immenso corpo che si chiama Associazione Internazionale dei Lavoratori in Italia, come altrove... Essi formeranno il ponte necessario fra la propaganda delle teorie socialiste e la pratica rivoluzionaria". Non era Marx che raccomandava agli Italiani così reclutati di formare "un'alleanza segreta" che "non avrebbe accettato nel suo seno che un piccolissimo numero di individui i più sicuri, i più devoti, i più intelligenti, i migliori, poiché in questo tipo di organizzazioni, "non è la quantità ma la qualità che occorre ricercare"; non occorreva imitare mazziniani e "reclutare soldati per formare piccole armate segrete, capaci di tentare colpi di mano", poiché, per la rivoluzione popolare, l'armata è il popolo. Non era certo Marx che suggeriva di formare "stati-maggiori", una "rete ben organizzata e ben ispirata di capi del movimento popolare", un'organizzazione per cui "non è assolutamente necessario avere una grande quantità di individui iniziati nell'organizzazione segreta" [8].

Si può immaginare quest'uomo, come la personificazione del "comunismo-autoritario", che si rivolge nel modo prima descritto ad una rete segreta di compagni o che impiega i suoi talenti di uomo di scienza e di militante per "convertire l'Internazionale in una specie di Stato, ben regolamentato, ben disciplinato, che obbedisce ad un governo unitario e di cui tutti i poteri sarebbero concentrati nelle sue mani [nel testo di Marx] [9]? Come spiegare il fatto che, per suffragare il loro dogma "antiautoritario", i sedicenti anarchici non possono fare altro che ricorrere all'invocazione ripetuta incessantemente, di alcuni passi del Manifesto Comunista od alla citazione di estratti di lettere private, così come, naturalmente, al richiamo delle manovre, ambigue e subdole, di Marx ed Engels, per far escludere Bakunin ed i suoi fedeli dall'Internazionale? Se è facile comporre un'antologia di scritti giacobini e blanquisti-babeuvisti a partire dall'opera di Bakunin, una simile impresa si rivela impossibile se tesa alla dimostrazione del "comunismo di Stato  ipoteticamente esaltato da Marx.

La storia di Marx s'inscrive, da un capo all'altro, in un processo di militanza contro l'autorità. Lo Stato e la Chiesa di Prussia furono il principale ostacolo che il "dottore in filosofia" si trovò di fronte, ormai giunto alle soglie della professione di insegnante universitario: fu il primo insuccesso ma anche il primo stimolo a combattere contro l'autorità politica. Da allora la vita di Marx si confonde con una lotta politica condotta in tutti i luoghi d'esilio così come nel paese natale, dove egli poté tornare nel 1848, non come cittadino tedesco, ma come apolide. Ad eccezione dell'Inghilterra, luogo di relativa libertà, i paesi dove Marx ha soggiornato hanno sempre messo la polizia alle sue calcagna. Godendo del diritto di libera espressione in Gran Bretagna, egli non si astenne mai dal praticare un giornalismo schiettamente anti-autoritario ed a cercare contatti nell'ambiente del cartismo, allora senza grandi prospettive politiche. A Colonia, a Parigi, a Bruxelles ed a Londra, egli militò secondo le sue convinzioni socio-politiche, non come un avventuriero che fomentava cospirazioni di nessun effetto contro l'ordine stabilito, ma a viso scoperto, là dove le libertà borghesi erano assicurate, e nella clandestinità, quando la borghesia doveva ancora fronteggiare le vestigia dell'assolutismo feudale. In breve, la sua lotta era sempre diretta contro i regimi reazionari e, dunque, autoritari.

Un insieme di principi non merita di chiamarsi "teoria", se non sviluppa tesi empiricamente verificabili determinandone le norme di realizzazione in modo razionalmente formulabile. La teoria marxiana dell'anarchismo riunisce queste due caratteristiche: essa, da una parte, analizza i fenomeni storico-sociali nel loro sviluppo, col suffragio di testimonianze verificate e verificabili, dall'altra parte, formula pronostici relativamente credibili in funzione dei comportamenti umani e delle tendenze trasformatrici della realtà sociale. Analitica e normativa, questa teoria non può eguagliare l'esattezza delle scienze naturali, anche se l'epistemologia moderna rimette in questione i presupposti deterministici delle scienze cosiddette esatte, assicurando in qualche modo il trionfo postumo di quel principio del "rischio", chiave dell'atomismo epicureo (che fu il tema della tesi dello studente Marx, candidato al dottorato in filosofia). In opposizione alla maggioranza dei pensatori che si richiamano all'anarchismo od all'individualismo nichilista (Max Stirner!), scarsamente preoccupandosi, però dei mezzi pratici che possono condurre a norme di comunità liberate da quelle istituzioni di classe che favoriscono, invece, lo sfruttamento e la dominazione dell'uomo sull'uomo, Marx ha cercato di conoscere i modi di trasformazione rivoluzionaria delle società nel passato, per dedurre da queste esperienze storiche, insegnamenti generali. Quando egli affermava di aver assegnato alle sue ricerche l'obiettivo ambizioso di "rivelare la legge economica del movimento della società moderna", aveva già, dietro sé, quasi tre decenni di studi in molteplici campi del sapere. Non è dunque come specialista dell'economia politica che egli si poneva, nella pretesa di rivaleggiare con Adam Smith o David Ricardo ed i loro epigoni. L'originalità del suo metodo doveva esercitarsi nell'analisi dei rapporti umani che sottendono i cosiddetti fenomeni economici, tanto nella loro espressione teorica che nella loro manifestazione pratica. Separare il critico dell'economia politica dal teorico della politica rivoluzionaria, vuol dire precludersi la comprensione del senso profondo della sua opera, ma anche misconoscere l'influenza drammaticamente costrittiva delle condizioni "borghesi", più esattamente di quella "miseria borghese" che ha segnato tutta la sua carriera di paria intellettuale.

Abbiamo a disposizione molti indici per poter affermare che il Libro sullo Stato previsto nel piano dell'"Economia", definito da Marx nella Prefazione alla Critica dell'economia politica (1859), doveva esporre anche una "Teoria dell'Anarchismo". Quando, per commemorare il centenario della morte di Marx, un cronista si rammarica che l'economista abbia avuto la meglio sul teorico della politica, egli sembra proprio fondarsi su questo progetto che, però, a Marx non fu concesso di portare a compimento [10].

Ora, l'autore della "Critica" afferma di disporre di "materiali" destinati a cinque "rubriche" o "Libri"; parla anche di "monografie" suscettibili di modificarsi, con l'aiuto delle circostanze, in scritti elaborati conformemente allo schema delle due triadi da cui facilmente emerge il rapporto con il metodo dialettico di un Hegel precedentemente "raddrizzato" [11].

L'alone di leggenda che circonda l'opera di Marx ha finito per raggiungere un grado di mistificazione mai toccato, e bisogna necessariamente ammettere che "libertari" ed "anti-autoritari" hanno contribuiti per una parte non trascurabile a questo, facendosi anche complici, spesso involontari, degli ideologi liberali e democratici arruolati al servizio degli interessi del capitalismo vero contro quel socialismo, falso, che si cela sotto il vessillo del demone totalitario.

Per la verità, è proprio "il politico" che attraversa da un capo all'altro l'intera opera di Marx, rimasta frammentaria per ragioni evidenti. Per ciò che riguarda la "monografia" menzionata fra i materiali parzialmente redatti come testo provvisorio del "Libro", essa potrebbe essere ricostruita a partire da elementi sparsi ma numerosi in quasi tutti gli scritti, pubblicati e inediti, ormai accessibili, grazie alle edizioni e riedizioni di cui fu iniziatore Engels. Queste riedizioni si scaglionano, fin dalla sua comparsa, per più di otto decenni, all'inizio dei quali la questione posta da Kautsky a Marx nell'aprile del 1881 sembra infine ricevere una risposta definitiva grazie all'impresa editoriale più recente, la "Marx-Engels-Gesamtausgabe" [12].

 

[SEGUE]

 

[Traduzione di Marco Melotti]

 

NOTE

[1] Vedi Louis Janover e Maximilien Rubel, Materiali per un lessico di Marx - Stato, Anarchismo. Studi di Marxologia, “Quaderni dell’I.S.M.E.A.”, n. 19-20, gennaio/febbraio 1978, pp. 11/161.

[2] M. Rubel, La carta della Prima Internazionale. Saggio sul "marxismo" nella Associazione Internazionale dei lavoratori, in Marx critico del marxismo, Cappelli, Bologna 1981, pp. 67/68. Il Rapporto del Consiglio Centrale dell’A.I.T., redatto da Marx per il Congresso di Ginevra (1866), contiene, sotto il punto “Lavoro dei giovani e dei fanciulli – dei due sessi”, un paragrafo in cui è detto fra l’altro: “la parte più illuminata della classe operaia comprende benissimo che il suo avvenire come classe, e conseguentemente il futuro dell’umanità dipende dalla formazione della generazione che cresce. Sa che soprattutto i bimbi e i giovani lavoratori devono essere tenuti lontani dagli effetti distruttori del sistema presente. E ciò può essere realizzato soltanto attraverso la trasformazione della ragione sociale in forza sociale: e, nelle circostanze presenti, non possiamo fare ciò se non mediante leggi generali, che vengono attuate tramite il potere dello Stato. Facendo introdurre tali leggi, la classe operaia non accrescerà la forza del potere governativo. Come vi sono leggi per difendere i privilegi della proprietà, perché non ne dovrebbero esistere per impedirne gli abusi? Al contrario tali leggi trasformerebbero il potere diretto contro di esse in loro proprio agente. La classe operaia allora, tramite una misura generale, farà quanto essa tenterebbe invano di compiere con un numero altissimo di sforzi individuali”. A.I.T. “Resoconto del Congresso di Ginevra”, pubblicato nel “Corriere internazionale”, Londra 1867; cfr. G. M. Bravo, La Prima Internazionale, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 176. Votando a grande maggioranza questo rapporto, i delegati, indubbiamente, non si sono accorti di aderire alla teoria del “comunismo di Stato”, costruito più tardi dall’ostinata propaganda di Bakunin e dei suoi amici.

[3] Cfr. K. Marx, La guerra civile in Francia, in K. Marx, Scritti sulla Comune di Parigi, a cura di Paolo Flores d’Arcais, La Nuova Sinistra / Samonà e Savelli, Roma 1971, p. 53.

[4] Ci asteniamo qui dal produrre un florilegio di asserzioni razziste e germanofobe che la figura di Marx ha ispirato a Bakunin. Si possono trovare, fedelmente riportate ma scarsamente commentate, negli Archivi Bakunin, Vol.I, Michail Bakunin e l'Italia 1871-1872, 2a parte: “La prima Internazionale in Italia e il conflitto con Marx”, Leiden 1963. La prevenzione “antiautoritaria” dell’editore, A. Lehning, non favorisce un giudizio equilibrato e chiarificatore sul fondamento teorico d’un conflitto il cui studio dovrà essere ripreso fin dall’inizio, stante la confusione degli epigoni di entrambi i campi, “marxista” e “antimarxista”.

5) M. Bakunin, Rapporti personali con Marx. Documenti probanti n. 2, op. cit., pp. 124 e segg. “Ciò può sembrare strano. … Ah! E’ che il comunismo di Marx vuole la potente centralizzazione dello Stato, e là dove c’e centralizzazione dello Stato deve esserci necessariamente una Banca centrale dello Stato, e là dove esiste una simile Banca, la natura parassita degli Ebrei, speculando sul lavoro del popolo, troverà sempre modo di esistere” (ibid. p. 125).

6) Vedi la Lettera agli internazionalisti della Romagna, del 23-1-1972, Archivi Bakunin, Vol.I, 1963, op. cit. pp. 207/228. Bakunin qui fa il suo mea culpa per aver contribuito ad allargare i poteri del Consiglio generale dell’A.I.T. durante il Congresso di Basilea (1869) e aver rafforzato in tal modo l’autorità della “setta marxista”.

7) Michail Bakunin, Lettera ad Albert Richard, 1° aprile 1870, Archivi Bakunin, op. cit., p.XXXVI e segg. A. Lehning riassume, nella sua introduzione, le attività di Bakunin che tendono a “dare alle masse una direzione veramente rivoluzionaria”, moltiplicando le organizzazioni segrete.

8) M. Bakunin, Lettera a Celso Ceretti, del 13-27 marzo 1872, Archivi Bakunin, op.cit., pp.251 e segg.

9) M. Bakunin, Lettera agli internazionalisti della Romagna, cit., p. 220. Prima di usare l’espressione “marxista” per designare gli amici di Marx, Bakunin parlava di “marxiani” e di “nucleo marxiano”.

10) Cfr. Jacques Jullard, Marx morto e vivo, in “Le nouvel Observateur”, 25-31 marzo 1983, p. 60: Marx avrebbe “trascurato la teoria politica” a vantaggio di una “teoria dello sfruttamento economico [ … ] per nostra sfortuna”.

11) K. Marx, Opere, Pléiade-Gallimard, Tomo I.

[12] Questa edizione è dovuta all'iniziativa congiunta degli Istituti del Marxismo-leninismo di Mosca e di Berlino.

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30 novembre 2016 3 30 /11 /novembre /2016 11:02

 Karl Korsch un amico marxista dell'anarchismo

A. R. Giles-Peters

Karl Korsch (1886-1961), che è oggi riscoperto dalla "nuova sinistra", era uno dei maggiori teorici del comunismo di sinistra. Dei tre maggiori teorici del marxismo degli anni 20 – Gramsci, Lukacs e Korsch – Korsch è immediatamente quello che presenta maggior interesse per gli anarchici e anche, io credo, il marxismo superiore.

I marxisti degli anni 20 hanno un interesse per gli anarchici che è di un ordine molto differente da quelli di tutti gli altri periodi. La ragione è che, per un breve periodo dopo la prima guerra mondiale, il marxismo fu una teoria rivoluzionaria come non lo era più stato dopo Marx e come non lo è più stato in seguito (lasciando da parte il suo uso come ideologia per delle rivoluzioni, essenzialmente, di contadini nazionalisti).

Durante questo breve periodo, la rivoluzione russa servì da punto di allineamento per degli intellettuali di sinistra di tutte le sfumature del rosso e del nero e quest'ultimi si unirono a dei lavoratori anarchici e socialisti di una tempra sindacalista per formare le basi dei nuovi partiti della Terza Internazionale.

Con l'eccezione della Spagna, le organizzazioni anarchiche e sindacaliste persero ovunque del terreno di fronte a questi nuovi partiti che evolsero rapidamente verso delle organizzazioni socialiste di Stato burocratiche interessate attraverso il controllo del movimento della classe operaia.

Durante questa evoluzione gli anarchici, i sindacalisti e i socialisti di sinistra che avevano considerato come vera la promessa iniziale della Rivoluzione Russa furono isolati, eliminati e scartati dall'organizzazione superiore del Partito dall'accesso alla classe operaia che sola poteva sostenere un movimento rivoluzionario. Karl Korsch fu una delle vittime di questo processo.

Benché Gramsci sia stato un sostenitore dei consigli operai, e che in prigione abbia avuto tendenza ad associarsi con dei sindacalisti, egli non divenne un oppositore di sinistra al Komintern. Le ragioni sembrano essere, innanzitutto, che il problema italiano non era la rivoluzione ma la difesa contro il fascismo; in secondo luogo, che Gramsci era opposto all'estremismo astratto di Bordiga che era collegato con l'ultra-sinistra tedesca; e in terzo luogo, che la prigionia di Gramsci lo ha tenuto al sicuro e isolato dalle convulsioni del movimento internazionale.

I casi di Korsch e Lukacs sono più chiari. Lukacs era membro di un gruppo borghese marginale, l'intelligentsia ebraica, in un paese semi-feudale, l'Ungheria. Prima del 1917 i suoi centri d'interesse erano soprattutto la letteratura benché sia stato influenzato da Szabo, un intellettuale che traeva il suo sindacalismo da Sorel.

Non è sorprendente che la sua posizione iniziale in quanto rivoluzionario sia stata utopistica e astrattamente di ultra-sinistra, più tardi la sua evoluzione verso una posizione di “destra”, quasi socialdemocratica (“Tesi di Blum”, 1929) era molto ragionevole dato che l'Ungheria smise di essere feudale soltanto nel 1945. Da un'altra parte, il suo compromesso con lo stalinismo, del tutto parziale e “non sincero” come ha preteso che sia stato, è duro da perdonare.

La conoscenza del movimento operaio da parte di Korsch era, alla fine della guerra, di un tutt'altro ordine di quello di Lukacs. Formato in diverse università in economia, diritto, sociologia e filosofia, divenne dottore in giurisprudenza nel 1911 e andò in Inghilterra dove raggiunse la società Fabiana e studio i movimenti sindacalisti e quello delle associazioni socialiste.

Era già opposto all'ortodossia marxista che definiva il marxismo come una negazione del capitalismo attraverso la nazionalizzazione, vedeva l'avvento del socialismo come inevitabile e concepiva il marxismo come una pura “scienza” separata dalla pratica del movimento operaio.

La sua opposizione a questa ortodossia orienta l'attenzione di Korsch verso la preoccupazione Fabiana per la preparazione degli individui al socialismo attraverso l'educazione e verso l'accento sindacalista posto sull'attività cosciente dei lavoratori come base al contempo della rivoluzione e della gestione di una economia socialista.

Sin dai suoi primissimi articoli pose l'accento sul ruolo della coscienza nella lotta per il socialismo e sull'importanza dell'auto-attività della classe operaia.

Dopo la guerra sviluppò le sue idee mettendo a punto dei progetti per la socializzazione associato al controllo operaio.

All'inizio della prima guerra mondiale, Korsch fu arruolato nell'esercito tedesco e andò al fronte, ma era contro la guerra e, benché ferito due volte, non portò mai delle armi.

Accolse favorevolmente la formazione del movimento socialista anti-guerra e aderì dopo la guerra al Partito Socialista Indipendente (USPD).

Sempre opposto al marxismo “ortodosso” o “revisionista”, credeva durante quest'epoca che una terza corrente, il “socialismo pratico”, era stato formato ed era rappresentato da Luxemburg e Lenin. Per questa tendenza la transizione al socialismo era un “atto umano cosciente”.

Korsch divenne sufficientemente leninista nel 1924 per vedere l'atto rivoluzionario come quello di un partito rivoluzionario di massa ma vedeva sempre il partito come un mezzo per approdare a una democrazia diretta dei consigli operai.

Benché si unisse con la maggioranza della USPD il Partito Comunista (KPD), argomentò contro le 21 condizioni di affiliazione di Mosca; in particolare si oppose alla richiesta di un'organizzazione parallela illegale che sarebbe stata fuori dal controllo delle masse del partito. Malgrado le sue riserve, Korsch divenne rapidamente un leader del KPD. Diventò l'editore del giornale del partito e deputato al Reichstag.

Dovette ciò alla sua superiorità teorica dovuta al fatto che, benché abbia sempre respinto il “marxismo” socialdemocratico, che era stato portato nel corso dei suoi studi di diritto a vedere la società e l'economia come le basi dei sistemi legali e, durante la breve liberazione del marxismo dall'ortodossia, i suoi studi filosofici, sociologici ed economici precedenti gli furono molto utili.

Tuttavia la situazione cambiò presto; dopo il 1923 era evidentemente nell'ala sinistra del KPD; nel 1924 il suo libro del 1923, Marxismo e filosofia, fu denunciato alla riunione dell'esecutivo dell'Internazionale Comunista ed egli fu allontanato dal suo posto editoriale nel 1925; nel 1926 fu escluso dal KPD.


Secondo Mattick, Korsch aveva sempre una posizione critica verso lo Stato russo emergente ma agli inizi della rivoluzione russa, quando tutte le forse della reazione erano dispiegate contro di esso, credeva che un rivoluzionario doveva sostenerlo.

Inoltre, benché la rivoluzione russa doveva essere una rivoluzione capitalista (la sua missione era quella di sviluppare il capitale e il proletariato nella Russia sottosviluppata), ciò aveva ancora un significato rivoluzionario se la breccia nel sistema mondiale poteva essere esteso verso ovest, in Germania.

Non appena la Russia ebbe raggiunto il suo compromesso con la Germania e altri poteri capitalisti ed ebbe trasformato L'Internazionale Comunista in uno strumento della politica estera per i suoi obiettivi nazionali, un rivoluzionario doveva rompere con la Russia.

Così nel 1926 egli raggiunse la “Sinistra Risoluta” - un gruppo di estrema sinistra opposto alla nuova burocrazia russa e al suo alleato tedesco lo SPD.

Era stato in contatto con Sapronov del gruppo “Centralismo democratico” all'interno del Partito russo che credeva che il proletariato russo doveva rompere con i bolscevichi.

Nella sua opera del 1923, Marxismo e filosofia, Korsch tentava di “restaurare” la posizione marxista su questo argomento allo stesso modo, e per gli stessi obiettivi rivoluzionari, in cui Lenin aveva restaurato la posizione marxista sullo Stato in Stato e rivoluzione (un libello denunciato come “anarchico” dagli altri bolscevichi).

Di fatto ciò che egli fece fu di dimostrare come il marxismo era diventato un'ideologia del movimento operaio: per Korsch il marxismo, sia quello di prima del 1848 nella sua forma filosofica o dopo il 1848 nella sua forma “scientifica”, non fu né una scienza né una filosofia, era la coscienza teorica di una pratica rivoluzionaria proletaria oppure un'ideologia “marxista” non collegata a una pratica oppure dissimulante una pratica contro-rivoluzionaria.

Tutto questo era posto in un contesto di violento attacco contro il marxismo ortodosso di Kautsky, e di conseguenza, diceva Korsch, era contro la seconda Internazionale e a favore della terza Internazionale. Sostenendo queste cose, Korsch calpestava del tutto questa ortodossia marxista, tedesca o russa, socialdemocratica o bolscevica, prendendo ciò molto a cuore.

Nel 1930, quando Korsch si pose il problema di scrivere un'anti-critica, era ben al corrente di quanto era accaduto nel frattempo. A sua insaputa, era stato ritenuto “colpevole” di deviazione nei confronti dell'ortodossia marxista-leninista emergente, basata su Kautsky e Plekhanov.

Per i russi esisteva quindi una filosofia marxista materialista (esposta in Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin) e anche una scienza marxista che, seguendo Kautsky, doveva essere apportata al proletariato dall'esterno da parte di intellettuali borghesi (come esposto nel Che fare? di Lenin). Così ciò che Korsch aveva pensato fosse una nuova, terza corrente nel marxismo era giusto una nuova variante ideologica della vecchia ortodossia marxista.

Le caratteristiche speciali del bolscevismo erano semplicemente un riflesso dei compiti speciali che l'ideologia aveva da compiere nella Russia sottosviluppata. La scoperta della natura ideologica della teoria comunista e la rovina di tutti i movimenti operai marxisti rivoluzionari di fronte alla controrivoluzione implicavano una rivalutazione del marxismo.

Per Korsch la teoria marxista era l'espressione generale del movimento rivoluzionario esistente. Durante i periodi controrivoluzionari il marxismo poteva essere ulteriormente sviluppato nel suo contenuto scientifico ma non appena il marxismo era sviluppato come una pura scienza separata dalla sua connessione con il movimento proletario, esso tendeva a diventare un'ideologia.

Così il legame tra la teoria e la pratica non aveva nulla a che vedere con l'applicazione di una scienza ma significava semplicemente che la teoria la coscienza articolata di un movimento rivoluzionario pratico.

Ristabilire il legame richiedeva l'esistenza di un movimento rivoluzionario proletario e la depurazione dal marxismo di tutti i suoi elementi ideologici e borghesi.

Il solo movimento che rispondeva alla descrizione nell'Europa degli anni 30 era il movimento anarchico spagnolo, così Korsch, continuando il suo lavoro sulla teoria marxista, studiò anche Bakunin e il movimento anarchico.

Nella sua opera del 1923, Korsch aveva insistito sul fatto che il marxismo primitivo era una continuazione, in un nuovo contesto, della teoria rivoluzionaria della borghesia, sopratutto della tradizione idealistica tedesca.

Nelle sue “Tesi su Hegel e la rivoluzione” del 1930, tornò su questa questione e rivalutò allo stesso tempo le teorie hegeliane e marxiste. La filosofia hegeliana non era che la filosofia rivoluzionaria della borghesia; era la filosofia della fase finale della rivoluzione e dunque anche una filosofia della restaurazione.

Così il metodo dialettico non è il principio puramente rivoluzionario immaginato dai marxisti. Così anche la creazione di una teoria della rivoluzione proletaria sulla base di una dialettica “materializzata” è soltanto una fase transitoria del movimento operaio.

Il marxismo non è la teoria di una rivoluzione proletaria indipendente ma la teoria di una rivoluzione così come essa si sviluppa al di fuori della rivoluzione borghese e questa teoria mostra le sue origini: essa è ancora impregnata di teoria rivoluzionaria borghese, e cioè di giacobinismo.

Ciò significa che la politica marxista rimane all'interno dell'orbita della politica borghese.

Come dice Korsch nelle sue “Dieci tesi sul marxismo oggi”, scritto nel 1950, il marxismo aderisce incondizionatamente alle forme politiche della rivoluzione borghese. La rottura con la politica borghese è stata portata soltanto dai movimenti anarchici e sindacalisti nella forma della rottura con la politica in quanto tale.

Soltanto questi movimenti erano ancora rivoluzionari nella pratica. Per Korsch la loro importanza consisteva nel fatto che essi conservassero ancora l'ideale, sacrificato ovunque, della solidarietà di classe al di là degli interessi materiali immediati e che si basassero essi stessi sull'auto-attività della classe operaia come espressa nel principio dell'azione diretta.

Quando la guerra civile spagnola esplose nel 1936, Korsch sostiene i tentativi dei militanti della CNT per introdurre l'autogestione operaia in opposizione con la linea politica dei socialisti di destra, degli stalinisti e dei repubblicani borghesi.

Questo sviluppo di una posizione sindacalista opposta alla posizione dell'ortodossia socialista marxista era parallela a una reinterpretazione del marxismo.

Benché Korsch rimase un marxista, la sua visione del marxismo diventava sempre più critico.

Nel 1960 aveva completamente respinto il marxismo come sola teoria della rivoluzione proletaria e aveva fatto di Marx uno, tra gli altri, dei numerosi precursori e promotori del movimento socialista operaio.

Nel 1961 stava lavorando a uno studio su Bakunin e credeva allora che la base di un atteggiamento rivoluzionario durante l'epoca borghese moderna sarebbe dovuto essere un'etica che Marx avrebbe respinto come “anarchica”.

Nelle sue “Dieci tesi” del 1950 aveva criticato anche la sopravvalutazione dello Stato come strumento della rivoluzione e la teoria del socialismo in due fasi attraverso la quale l'emancipazione reale della classe operaia è rimandata a un futuro indefinito.

Così egli respingeva esplicitamente gli elementi del marxismo che separavano quest'ultimo dall'anarchismo. L'opera della sua vita è allo stesso tempo un'esposizione e una critica del marxismo da una posizione politica vicina all'anarchismo. Benché, come Korsch stesso l'abbia dimostrato, il marxismo non sia sufficiente per un movimento rivoluzionario moderno, uno studio del marxismo di Korsch permette di preservare i migliori elementi dell'eredità del movimento operaio classico. 

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5 ottobre 2016 3 05 /10 /ottobre /2016 05:00

La Comune asturiana

Tra le personalità appartenenti alla reazione spagnola, il più avveduto era sicuramente Gil Robles. Il leader della CEDA comprese che la problematica spagnola non era di tipo politico ma sociale e che il pericolo imminente di una profonda rivoluzione proletaria era pronto a concretizzarsi in qualsiasi momento. E la ragione di ciò stava nel fatto che, anche se la CNT non era riuscita con la sua linea radicale a scatenare la rivoluzione, aveva però saputo alimentare un clima prerivoluzionario permanente.

Tutta la strategia politica di Gil Robles era tesa proprio a interrompere questo processo facendolo abortire e proprio questo fu ciò che fece il 5 ottobre, ponendo il Partito socialista di fronte al dilemma tra l'accettare il ministero cedista o lo scendere in piazza. L'accortezza di Gil Robles si tradusse nel saper scegliere il momento giusto in cui provocare la rivoluzione in Spagna, senza mettere in pericolo i privilegi della classe dirigente. Su che cosa contava Gil Robles rischiando di attizzare situazioni sicuramente molto difficili da manovrare? Sulla stessa complessità spagnola, che aveva creato i suoi supposti nemici, trasformando un problema sociale in un problema politico. Così facendo, coloro che si ritenevano avversari di Gil Robles diventavano di fatto suoi alleati oggettivi.

I baschi, riducendo il loro problema a una questione di competenze, allontanavano il progetto rivoluzionario perché neutralizzavano l'azione delle masse operaie. Identico fenomeno, ma più grave, avvenne nella regione catalana, e abbiamo visto in quale maniera operasse la Generalitat de Catalunya nei riguardi del movimento operaio, ossia della CNT. Quanto al Partito socialista, frenando la sua base operaia e impedendo la formazione di un'autentica alleanza tra la CNT e la UGT, creava le condizioni per la logica sconfitta proletaria.

L'epicentro del pericolo per Gil Robles stava nelle Asturie, perché in quella regione esistevano proprio le condizioni di base per una rivoluzione proletaria: un socialismo più rivoluzionario che nel resto della Spagna, una CNT non logorata da movimenti sovversivi e l'unione di forze operaie in un'alleanza che specificava chiaramente che il suo obiettivo rivoluzionario, essendo nel fondo essenzialmente sociale, comprendeva quello politico di sostituire il sistema capitalista e statale con un sistema socialista basato sulla democrazia operaia diretta. Il concretizzarsi delle condizioni rivoluzionarie nelle Asturie obbligava Gil Robles a fare abortire questa insurrezione, per evitare che, per contagio, si andassero creando nel resto della Spagna situazioni simili. La tattica impiegata dai socialisti e dai catalanisti favorì il compito della reazione di soffocare la rivoluzione asturiana. Tutte le chiacchiere riguardo al fatto se a Barcellona, dopo la sconfitta catalanista, la CNT poteva essersi impadronita della situazione, rimasero semplici chiacchiere. I rivoluzionari autentici erano stati collocati dal potere della Generalitat di fronte a tre possibilità: rimanere al di fuori della rivolta (ed era quello che voleva la Generalitat); prendervi parte, come auspicava il manifesto del Comité regional (ma questo implicava, dopo lo scontro tra la polizia di Dencàs e i lavoratori del Sindicato de la Madera, aprire il fuoco contro i catalanisti per poter poi attaccare le forze dell'esercito nelle caserme); oppure, dopo la sconfitta, lanciarsi avventurosamente contro un esercito che già teneva strategicamente il capoluogo, rafforzato da unità scelte, richiamate dall'Africa e sbarcate a Barcellona il pomeriggio del 7 ottobre. La CNT optò di fatto per la prima alternativa e, dopo la resa dei catalanisti, mise in salvo la maggior quantità di armi possibile, cercando di evitare che si producesse un massacro tra i lavoratori, che era l'obiettivo di Gil Robles in Catalogna.

La profonda rivoluzione che si scatenò nelle Asturie il 5 ottobre deve essere interpretata come la prova generale di quello che avrebbe potuto essere la rivoluzione in Spagna sotto l'alleanza rivoluzionaria delle forze operaie. Nonostante la sconfitta militare dei lavoratori asturiani, fu una grande vittoria proletaria che ebbe enormi ripercussioni nel movimento operaio spagnolo.

Gli effetti della rivolta socialista in Spagna rimasero ben presto limitati a nuclei e propositi che non furono raggiunti neppure in parte. A Bilbao, il Partido nacionalista vasco (PNV) predicò l'astensione. Il suo organismo sindacale, la STV, consigliò agli operai di andare al lavoro solo se non incontravano difficoltà o pericoli. Insisteva che nessuno si impegnasse in iniziative non concordate con la STV. A Bilbao venne indetto lo sciopero più o meno generale, ma passivo. Nelle località vicine - Portugalete, Hernani, Eibar, ecc. - si costituirono dei comitati rivoluzionari e si giunse a scontri armati.

A Madrid lo sciopero fu generale: chiusero i negozi, i giornali non uscirono e la circolazione stradale si fermò del tutto. Il 5 e il 6 la città visse momenti di tensione: i dimostranti si scontrarono con la polizia nei quartieri proletari - Cuatro Caminos, Tetuán, Atocha, Delicias, ecc. - e tentarono di assaltare le Poste centrali e la stessa Dirección general de Seguridad, il che provocò sparatorie sulla Gran Via, in calle de Alcalá e alla Puerta del Sol. Ma, come era sempre accaduto in precedenza ai socialisti in tutte le loro rivolte, appena cominciò la lotta il loro stato maggiore venne catturato, questa volta nello studio del pittore socialista Luis Quintana, dove avevano stabilito il quartier generale. Con quell'arresto l'insurrezione rimase acefala e il moto rivoluzionario poteva dunque considerarsi ormai fallito. Tuttavia, le notizie che arrivavano dalle Asturie parlavano di violenti combattimenti e il governo cominciò a prendere le sue misure a riguardo.

Alle 21, il ministro degli Interni, Eloy Vaquero, parlò per radio diffondendo il consueto comunicato caratteristico di tutti i governi in situazioni simili: «La tranquillità regna sulla Spagna»; il che non impedì che il governo si riunisse frettolosamente alle 23 per studiare la situazione. La prima disposizione fu di instaurare la censura sulla stampa e il presidente del Consiglio dichiarò ai giornalisti «che si era in presenza di una sollevazione rivoluzionaria, che costringeva il governo a dichiarare nelle Asturie lo stato di guerra».

Il giorno 6 il governo di Lerroux estendeva lo stato di guerra su tutta la Spagna e ordinava al generale Batet di soffocare i disordini catalanisti a Barcellona. Per dare maggior forza alle cose, Lerroux parlò per radio annunciando che sarebbe stato implacabile contro gli anarchici asturiani e i separatisti catalani. Il ministro della Guerra del gabinetto Lerroux, Diego Hidalgo, diede incarico al generale Franco di preparare un piano di attacco alle Asturie. E alle due del mattino del 7 ottobre, dopo aver conferito col generale Batet che gli annunciò che per le sei del mattino la rivolta catalana sarebbe stata liquidata, il ministro della Guerra se ne andò a dormire, lasciando al generale Franco e al tenente colonnello Yagüe il compito di studiare la maniera più efficace per liquidare la rivolta asturiana.

Nella giornata del 7 ottobre, Lerroux ricevette numerose persone che gli offrirono il loro incondizionato appoggio in quei momenti difficili. Tra di essi c'era José Antonio Primo de Rivera, per il quale Lerroux provava «vivissima simpatia». Nella notte, il governo si riunì di nuovo e il ministro della Guerra, a conclusione del Consiglio dei ministri, dichiarò che «nelle Asturie gli sforzi uniti degli eserciti di terra e di mare stavano per raggiungere i loro obiettivi». Il ministro degli Interni, da parte sua, affermò che «la totale sottomissione dei ribelli asturiani era questione di ore».

Il pomeriggio del 9 si riunirono le Cortes, in assenza dei deputati della sinistra. Il governo ricevette i complimenti per la sua rapidità d'azione. E in quel luogo si disse, tra le quinte, che quello stesso giorno a Barcellona Manuel Azaria era stato arrestato e rinchiuso su una nave ormeggiata nel porto di quella città. La rivolta organizzata dal Partito socialista, senza guida fin dall'inizio, si poteva considerare fallita, ma ciò che era fallito nel resto di Spagna aveva subito assunto nelle Asturie le proporzioni di una profonda rivoluzione proletaria. La rivolta era iniziata alle tre del mattino del giorno 5, con l'attacco da parte di un gruppo di lavoratori con candelotti di dinamite a tutte le caserme della Guardia Civil della regione mineraria. Verso mezzogiorno erano cadute nelle mani dei lavoratori 23 caserme della Guardia Civil con tutte le loro armi. La caserma di Mieres si arrese con le sue 45 guardie e il 6 ottobre capitolarono le caserme della Rebolleda, Santullano e Sama.

A Oviedo gli operai non erano riusciti a impadronirsi della città, ma si lottava contro la Guardia Civil e l'esercito. Il comandante militare decretò lo stato di guerra e cominciò a inviare truppe nella zona dove i rivoluzionari resistevano o addirittura erano completamente padroni della situazione. Vennero così inviate Guardias de Asalto a Manzaneda, occupata dai rivoluzionari, ma non poterono raggiungere il loro proposito in quanto glielo impedì una colonna di lavoratori che si difendeva a Armatilla, a Pico del Castillo e dall'altra parte della valle, a Santianes.

Nel frattempo, le colonne operaie che si erano rapidamente organizzate avanzavano su Oviedo per entrare nel capoluogo. A Gijòn si combatteva per le strade e i lavoratori riuscirono a controllare completamente il quartiere di Cimadevilla, erigendo barricate alle sue entrate.

Ad Avilés i rivoluzionari erano padroni della situazione e occuparono le officine del gas e la centrale elettrica.

A La Felguera, nella cui fabbrica di armi lavoravano tremila operai, in maggioranza appartenenti alla CNT, si ordinò alla Guardia Civil di arrendersi e al suo rifiuto si mise sotto assedio la caserma, che cadde nelle mani dei minatori allo scoccare della mezzanotte. Gli abitanti, padroni della situazione, diffusero un manifesto, intestato CNT-FAI e firmato dal Comitato rivoluzionario, che diceva:

La rivoluzione sociale ha vinto a La Felguera; il nostro dovere è di organizzare la distribuzione e il consumo nella dovuta forma. Chiediamo a tutti buonsenso e prudenza. Esiste un Comitato di distribuzione, a cui si deve rivolgere chiunque abbia necessità [1].

In tutta la valle di Turón venne proclamata la Repubblica socialista, che assunse caratteri antiautoritari nelle zone a orientamento anarchico e carattere burocratico in quelle a orientamento marxista; in questo senso, la rivoluzione asturiana gettò le basi della coesistenza dei due sistemi. Uno studio accurato dei rapporti che si stabilirono nei quindici giorni di vita di questa Repubblica socialista sarebbe di notevole importanza come esperienza inedita di convivenza rivoluzionaria.

Il 5 il governo, da Madrid, aveva ordinato al generale Bosch, comandante militare di León, di partire con le sue truppe verso le Asturie. Poiché il trasferimento dei soldati non poteva avvenire col treno, perché il ponte di Los Fierros era stato fatto saltare, si dovettero utilizzare dei camion; ma, al suo arrivo, la truppa composta da due reggimenti di fanteria venne bloccata a Vega del Rey dalla resistenza operaia che, ben protetta, creò in quella località un fronte che tenne per due settimane. La stessa cosa accaduta al generale Bosch accadde al generale López Ochoa che, partendo dalla Galizia verso le Asturie, verrà fermato dalla resistenza operaia nella gola di Peñaflor.

Il giorno 8 le colonne operaie che accerchiavano Oviedo si lanciarono all'attacco e una di esse entrò attraverso il quartiere di San Lázaro, dopo aver sgominato una compagnia di Guardias de Asalto, al Caño del Aguila. Occupata la collina del convento de las Adoratrices, vennero accolti con grida di entusiasmo dalle donne di quei quartieri operai. Da un altro settore della città entrarono gruppi di minatori che, aprendosi il passo con candelotti di dinamite per le calles Fierro, Santo Domingo e Guillermo Estrada, si impadronirono alle due e mezzo del pomeriggio del Comune. Per le calles Leopoldo Alas e Arzobispo Guisasola, i carabineros tentarono di fermare l'avanzata di una colonna di minatori al comando del sergente Diego Vázquez, ma furono travolti dai candelotti di dinamite e dalle grida di "Viva la Rivoluzione sociale!". Alle tre del pomeriggio, questa colonna era completamente padrona del quartiere e occupava l'ospedale. La riunificazione di tutte le colonne di minatori impegnate nell'attacco a Oviedo fece indietreggiare i suoi difensori, che si rifugiarono nella caserma Pelayo e nella cattedrale. Caduta nelle mani dei minatori, la fabbrica di armi rivelò il suo contenuto: 21.000 fucili, trecento fucili mitragliatori e numerose mitragliatrici.

Nelle Asturie, mentre ancora si combatteva, i rivoluzionari cominciarono immediatamente a organizzare la vita sotto forme differenti, ossia secondo un socialismo caro alla popolazione, che aboliva la proprietà privata dichiarandola collettiva. I centri metallurgici erano caduti nelle mani dei lavoratori e così la fabbrica di armi di Trubia, le fabbriche di La Felguera e altre intensificarono la produzione, soprattutto di munizioni, riuscendo a fabbricare trentamila cartucce al giorno a La Felguera. Tuttavia, ben presto sarebbe emersa l'insufficienza della produzione per le migliaia di combattenti che erano pronti a morire per la Comune asturiana.

A Oviedo si installò il Comitato provinciale rivoluzionario, che teneva i contatti coi diversi comitati rivoluzionari dei paesi, ma nel costituirlo nacque già il primo screzio tra socialisti e anarchici. L'alleanza firmata tra UGT e CNT stabiliva, naturalmente, che la direzione della lotta spettasse a entrambe le organizzazioni, mentre la Federación socialista asturiana, approfittando della situazione, costituì il Comitato provinciale in base alla sua sola rappresentanza, estendendola poi al Partito comunista, che non era né firmatario del patto rivoluzionario né rappresentativo nella regione. Le preoccupazioni che gli anarchici di La Felguera avevano riguardo alla sincerità rivoluzionaria dei socialisti, venivano confermate. Alla vigilia dell'insurrezione, si era tenuto un plenum confederale a Gijón, nel corso del quale si erano scontrati i punti di vista dei militanti locali e di quelli di La Felguera. I primi, ferventi sostenitori dell'Alianza, credevano fermamente nella sincerità rivoluzionaria dei socialisti; i secondi ne dubitavano; e si pronunciarono contro ogni patto o impegno precedente. Il loro punto di vista era l'unità sulla base del fatto rivoluzionario compiuto.

Il comitato rivoluzionario di Gijón, considerando che il neonato Comitato provinciale di Oviedo costituiva il tallone d'Achille della Comune asturiana, vi inviò dei rappresentanti, per stabilire il contatto col Comitato provinciale e ottenere armi e munizioni, «con risultati nulli», scrive Peirats [2].

Nei paesi, i comitati rivoluzionari si costituirono in due modi differenti: nei luoghi di influenza libertaria vennero nominati mediante assemblea; mentre in quelli di influenza socialista furono i comitati del partito a fungere da esecutivi. Anche i bandi e i proclami dei paesi avevano significato differente: i libertari chiamano la popolazione alla solidarietà e alla concordia per portare avanti la lotta; i socialisti "ordinavano e comandavano", annunciando misure draconiane per chi non si sottometteva alle direttive del comitato. Nonostante queste differenze, l'ondata rivoluzionaria, sospinta dall'entusiasmo collettivo, dilagò in tutta la regione, senza entrare in troppe discussioni, considerate inutili di fronte ai gravi pericoli che già nascevano e crescevano nella regione rivoluzionaria.

A Madrid, le notizie che giungevano al Ministero della Guerra erano disastrose: il generale Bosch non avanzava di un passo e anche il generale López Ochoa era bloccato. Per fortuna (pensavano al governo) il generale Franco, prevedendo tali difficoltà, aveva impartito l'ordine di imbarco per Gijón alle truppe della Legione straniera e ai regulares di stanza in Marocco. Il Marocco, ancora; cancro della Spagna. Appena proclamata la Repubblica, il 14 aprile 1931, i movimenti marocchini avevano chiesto la loro autonomia e un'amministrazione propria, ma la delegazione inviata da Tetuàn a Madrid non riuscì a convincere delle sue giuste richieste il governo social-repubblicano. E questo governo mise in pratica, se possibile, una politica di colonizzazione ancor più brutale di quella che aveva realizzato la monarchia appena deposta... Di che cosa potevano lagnarsi in ottobre i socialisti se Franco faceva rientrare le truppe dal Marocco e se tra queste c'erano truppe indigene che si accanivano, e con ragione, contro gli spagnoli? Non erano forse gli spagnoli a mantenere la colonizzazione in Marocco? Il generale Franco utilizzava, dunque, per la repressione, ciò che la Repubblica aveva lasciato in piedi. Non era quindi Franco il responsabile dell'istituzionalizzazione della repressione con truppe marocchine, ma tutto ciò era conseguenza della politica dei socialisti e dei repubblicani che avevano istituzionalizzato la colonizzazione.

Le navi da guerra Libertad, Jaime I e Miguel de Cervantes, cariche di truppe africane, fecero rotta per Gijón. Il primo ad arrivare fu l'incrociatore Libertad, che iniziò il 7 ottobre un intenso cannoneggiamento, proteggendo così lo sbarco di un battaglione di fanteria della Marina. Gli abitanti di Gijón, ben fortificati, fermarono l'avanzata dei soldati a Serin. Ma mancavano di armi e munizioni e il Comitato provinciale non pareva allarmarsi per la grave situazione di Gijón. Il Comitato rivoluzionario si mise in contatto con La Felguera, chiedendo munizioni, armi e uomini, ma nonostante il rapido aiuto ricevuto, dinanzi all'intenso cannoneggiamento e agli sbarchi delle truppe (regulares del Marocco, Legione straniera e 8° Battaglione di Cazadores de Africa), il 10 ottobre, dopo tre giorni e tre notti di battaglia infernale, Gijón dovette cedere. Da quel momento, perduta la zona del litorale cantábrico, come avevano previsto quelli di Gijón, la Comune asturiana aveva le ore contate. López Ochoa, fermato a Grado, deviò la sua marcia verso Avilés per piombare su Oviedo. Truppe da sbarco, composte dal Tercio e da regulares, passarono attraverso El Musel sotto la protezione della flotta.

Come conseguenza della caduta di Gijón e dell'avanzata delle truppe controrivoluzionarie, il giorno 11 venne ordinata, su decisione del Comitato provinciale rivoluzionario, la ritirata generale, dando per fallita la rivolta; ordine che incontrò una viva opposizione da parte dei combattenti. Da quella data si cominciò a concedere un certo credito alle forze della CNT. José Maria Martínez, ispiratore dell'Alianza nelle Asturie, morì in missione per il Comitato provinciale rivoluzionario, a Sotiello, il 12 ottobre.

Le truppe controrivoluzionarie, visto il ravvivarsi della resistenza, vennero assistite dall'aviazione, che cominciò con dei bombardamenti che provocarono un tremendo massacro. Gli aerei gettarono anche dei volantini che invitavano alla resa:

Ribelli delle Asturie, arrendetevi! È l'unico modo per salvarvi la vita: la resa senza condizioni e la consegna delle armi entro ventiquattr'ore. La Spagna intera, con tutte le sue forze, è contro di voi, disposta a schiacciarvi senza pietà, come giusta punizione per la vostra criminale pazzia [...]. Tutto il danno che vi hanno inferto i bombardamenti e le armi delle truppe non sono altro che un semplice avvertimento di quanto avrete, implacabilmente, se prima del calare del sole non avrete rinunciato alla ribellione e consegnato le armi. Dopo di che, vi attaccheremo fino a distruggervi senza tregua né perdono3.

Nonostante queste minacce, i rivoluzionari asturiani continuarono a combattere fino al giorno 18, quando il Comitato provinciale rivoluzionario mise fine alla resistenza con un manifesto in cui si dice che, «dopo aver dimostrato la capacità delle masse lavoratrici [...], si ritiene necessaria una pausa nella lotta». Ma si dichiara anche: «Questa ritirata è considerata onorevole, perché è un'interruzione del cammino», visto che «il proletariato si può sconfiggere, ma mai vincere». Lo spirito di questo manifesto è impregnato delle parole scritte da Karl Liebknecht, alla vigilia del suo assassinio: «Vi sono sconfitte che sono vittorie e vittorie che sono più disonorevoli delle sconfitte».

La vittoria che il governo riportò sui rivoluzionari asturiani fu la più vergognosa delle vittorie, perché non seppe neppure rispettare la sola e unica condizione che i minatori avevano posto prima di arrendersi: che le truppe mercenarie non occupassero la regione asturiana. E il generale Arande, dopo aver dato la sua "parola d'onore", offrì le Asturie come bottino di guerra con "carta bianca" alla Legione straniera e ai regulares...

NOTE

[1] J. PEIRATS, La CNT nella rivoluzione spagnola, cit.

[2] Ibid.

[3] Per la rivoluzione nelle Asturie, si possono consultare le seguenti opere: M. VILLAR, El anarquismo en la revolución de Asturias, Barcelona, «Solidaridad Obrera», 1935 [nuova ed.: Madrid, Fundación de estudios libertarios A. Lorenzo, 1994. N.d.C.]; S. DE MADARIAGA, España, cit.; A. RAMOS OLIVEIRA (autore socialista), Historia de España, siglos xixy XX, Barcelona, Grijalbo, 3 voli.; V. ALBA (simpatizzante del POUM), La Alianza Obrera. Historia y análisis de una táctica de unidad en España, Madrid, Júcar, 1978; F. SOLANO PALACIO (anarchico), La revolución de Octubre. Quince días de comunismo libertario, Barcelona, «Tierra y Libertad», 1936 [nuova ed.: Madrid, Fundación de estudios libertarios A. Lorenzo, 1994. N.d.C.] e il socialista R. LLOPIS, Octubre 34. Estampas de la revolución española. Ciudad de Mexico-Parigi, Tribuna, s.d.

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30 settembre 2016 5 30 /09 /settembre /2016 05:00

Maximilien Rubel, marxista anti-bolscevico

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(Necrologia uscita sul Socialist standard di giugno 1996).

 

Risultati immagini per maximilien rubel livresMaximilien Rubel è morto alla fine di febbraio, non era semplicemente uno specialista di Marx, era anche qualcuno che ha voluto il socialismo nel vero senso di una società di proprietà comune e di controllo democratico nella quale, come Marx lo concepiva, le due grandi espressioni dell'alienazione umana, il denaro e lo Stato, sarebbero sparite.

Ha così identificato e denunciato nei suoi scritti i dirigenti della Russia capitalista di Stato e i loro ideologi così come i grandi deformatori delle idee di Marx.

Risultati immagini per maximilien rubel marx without mythLa sua ambizione, sul piano accademico, era di produrre un'edizione definitiva degli scritti di Marx purgata dalle deformazioni e commenti tendenziosi delle edizioni provenienti da Mosca e Berlino est.

A differenza di molti altri, Rubel non è stato sotto la cappa del regime capitalista di Stato in Russia. In altri termini, non è mai stato un membro o simpatizzante del partito comunista. Di fatto, egli proveniva dalla tradizione marxista della vecchia minoranza nella socialdemocrazia europea.

Rubel era nato nel 1905 a Czernowitz, che faceva allora parte dell'impero austro-ungarico (e più tardi, regione della Romania, dell'impero russo e ora dell'Ucraina), ed è in Austria che incontrerà la prima volta le idee di Marx. Ricevette l'influenza di Max Adler che, prima della prima guerra mondiale, era stato di quei socialdemocratici che cercavano di completare la critica del capitalismo con una dimensione morale basata sull'imperativo "categorico" di Kant: il socialismo era qualcosa che gli operai dovevano instaurare per delle ragioni morali piuttosto che qualcosa che andavano inevitabilmente instaurare per delle ragioni economiche. Era una posizione controversa ma Rubel l'ha optata e l'ha espressa nei suoi propri scritti. Nel 1931 si è trasferito a Parigi dove ha vissuto il resto della sua vita.

Risultati immagini per Maximilien RubelRubel era l'autore di molti libri e articoli su Marx, soprattutto in francese ma alcuni in inglese. Sono tutti interessanti, anche se la loro lettura è a volte difficile. Raccomandiamo in particolar modo i testi scelti di Marx e di Engels che ha edito insieme a Tom Bottomore (Karl Marx: Selected Writing in Sociology and Social Philosophy; edito presso Penguins) e la sua biografia di Marx che egli ha scritto insieme a Margaret Manale Marx Without Myth. Ha anche contribuito a Non-Market Socialism in the 19th & 20th Centuries edito insieme a John Crump.

In francese vi è la raccolta dei suoi articoli editi nel 1974 con il titolo Marx critique du marxisme (tr. it.: Marx critico del marxismo, Cappelli, 1981), Rubel argomenta sul fatto che Marx non era un marxista. In due sensi. In primo luogo, le proprie concezioni di Marx erano in conflitto con ciò che si è generalmente chiamato il "marxismo" (bolscevismo, leninismo, stalinismo, trotskysmo, ecc.). Rubel ha combattuto energicamente contro "il mito della rivoluzione socialista d'Ottobre" che ha visto, non come la conquista del potere politico attraverso l'auto-attività della classe operaia, preludio al socialismo, ma come la conquista del potere politico da parte del partito bolscevico, preludio allo sviluppo del capitalismo in Russia sotto gli auspici dello Stato.

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La seconda ragione che faceva dire a Rubel che Marx non era un marxista era che Marx non aveva fondato una scuola di pensiero che si richiamava a lui, perché un corpus che si richiamava a un individuo era contrario a tutto il suo approccio e alla sua analisi. Ironicamente, benché Rubel si sia sempre rifiutato di considerarsi un marxista, i suoi scritti hanno espresso le concezioni di Marx con maggior precisione da parte di coloro che si sono detti marxisti.

Rubel ha evidenziato che sin dai suoi primi scritti socialisti della metà degli anni 40 del XIX secolo, Marx aveva considerato il denaro e lo Stato come due espressioni dell'alienazione umana, e aveva auspicato la loro sparizione come una caratteristica determinante della società libera che era l'alternativa al capitalismo.

Marx, ha detto Rubel, ha visto questa società senza denaro, senza patrie, senza classi come realizzabile da parte dell'auto-attività indipendente degli stessi operai, il che includerebbe la trasformazione del voto come strumento di emancipazione; in altri termini, la posizione di Marx era che lo Stato, in quanto strumento di classe posto al di sopra della società, dovrebbe essere soppresso dall'azione politica democratica. Marx non era contro la partecipazione dei socialisti alle elezioni.

Risultati immagini per maximilien rubel libriSi tratta in tutta evidenza di un'interpretazione di Marx molto vicina alla nostra. Rubel conosceva il SPGB, aveva partecipato ad alcune delle nostre riunioni, era in relazione epistolare con alcuni dei nostri membri ed era abbonato al Socialist standart. Era apparentemente affascinato dalla nostra esistenza in quanto gruppo che aveva collegato molto strettamente la concezione di Marx del socialismo e della rivoluzione socialista. Non era d'accordo con la nostra posizione di concentrarsi esclusivamente su ciò che William Morris chiamava la "formazione dei socialisti" [1], e, influenzato dall'argomento specioso del "male minore", aveva votato alle elezioni presidenziali del 1981 in Francia.

Inutile dire che un anno dopo le elezioni il governo di Mitterand congelava i salari e riduceva le prestazioni sociali secondo le leggi economiche del capitalismo nelle quali i profitti e la ricerca dei profitti sono posti sopra ogni cosa. Non vi è male minore sotto il capitalismo, soltanto un grande male, il capitalismo stesso, come Rubel avrebbe dovuto sapere.

Rubel era nella tradizione di ciò che Paul Mattick ha chiamato il "marxismo anti-bolscevico" o "marxismo non leninista" e, attraverso i suoi scritti, contiunuerà a contribuire alla comprensione socialista necessaria prima che una società veramente socialista possa essere instaurata.

 

Adam Buick

 

[Traduzione di Ario Libert]

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28 settembre 2016 3 28 /09 /settembre /2016 05:00

La scintilla

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Gabriel Culioli

 

Maggio 68... Già vent'anni! Ah, li vedo, lo sento, quelli che, in nome di se stessi stanno per appropriarsi dei resti gloriosi del movimento: filosofi che non avevano visto nulla ma capito tutto, giornalisti che non avevano capito nulla ma visto tutto; poliziotti superati da un presente affrettato, scavarsi un passaggio nella Storia con il manganello sollevato in aria; e i qui presenti militanti, dimentichi del tempo e dei luoghi, installati ora nei salotti benestanti della società, che scrivono senza fine su una generazione che essi modellano, triturano, torturano per meglio farle sposare le forme scatologiche della loro ambizione e della loro buona coscienza...

In questo corteo funebre si troveranno, fianco a fianco per meglio abbracciare la sua spoglia, tutti quelli che sconvolgevano l'esaltazione di quel mese di maggio, il suo galloppo da cavallo pazzo, e quelli che si sfiatarono a volerlo seguire.

E infine, vi saranno quelli che amo, che conserveranno queste giornate di primavera soleggiate così come sono, senza cercare di accappararsi. Tutti quelli per cui esse resteranno il simbolo dell'assoluta libertà, uno spirito del tempo, un gusto di ciliegia, una macchia rossa su una realtà grigia... Tre lettere e due cifre, quasi una matricola e tuttavia un'apertura verso il cielo per un Icaro resuscitato...

Allora oggi, venti anni dopo, i capelli grigi e l'aspetto fiacco, mi sgolo ancora "Morte ai coglioni!" a tutti quelli che affermano, ma per il ricordo soltanto: "L'abbiamo tanto amata la rivoluzione". Evviva quelli che a piedi, a cavallo o in una (piccola) automobile, la faranno veramente la Rivoluzione. Merda ai gratta-sottigliezze che, in Francia e altrove non fanno incessantemente che annegare la fiamma della speranza lamentandosi che l'immaginazione deve abbracciare il ragionevole, che si devono uccidere i sogni che volano più in alto della realtà e far rendere l'anima all'utopia.

Di avvenire in avvenire, banda di ipocriti inamiditi nei vostri colletti duri tanto falsi quanto i vostri ricordi, la realtà raggiungerà il sogno e la si conquisterà, la Grande Sera [1]. L'alba, infine, cesserà di essere una tentazione. Anche il sole, compagni, si alza a calci in culo...

Ecco, ho scaricato la mia bile sugli inventori di generazione e i recuperatori di ogni genere. Strano preambolo per insegnarvi  come sono stato la miccia che ha scatenato l'esplosione di Maggio. Venni anni oramai, e sono il solo a conoscere la verità. Occupavo all'epoca una posizione allo stesso tempo mobile ed elevata... Ma vado troppo di fretta e brucio le tappe. Cominciamo dall'inizio e cioè dalla fine del movimento.

Il 21 giugno 1968 ebbe luogo una riunione di cui fui l'unico testimone, involontario è vero. Il futuro ministro dell'interno Marcellin aveva riunito molti informatori. Voleva sapere la verità sull'origine della rivolta, sulla scintilla che aveva incendiato la pianura, per dirla come i maoisti.

Chi non conosceva Marcellin si è perso molto. Fisicamente l'uomo era di una insignificanza rara, come molti di questi esseri dell'ombra di cui non ci si chiede a volte se non si facciano il bagno con l'impermeabile acrilico. Degli occhi semi nascosti da palpebre dagli ammortizzatori usati, una bocca molliccia prolongata da ina cicca sudicia, e soprattutto un'ossessione continua per il complotto comunista. Alla maniera delle bestie cornute, mugiva alla vista del rosso e caricava. La sua immensa ossessione del complotto ed il suo fascino per la cosa poliziesca erano bastati a rassicurare una borghesia vacillante sin nelle sue fondamenta per la rivolta di Maggio. Ma questo elemento mezzo Javert [2] fulminava: gli sfuggiva un elemento per capire la meccanica di Maggio, quell'elemento che avrebbe giustificato i suoi ditirambi collerici riguardanti il direttore d'orchestra.

Quel giorno, aveva riunito la cellula speciale che infiltrava i movimenti di estrema sinistra. I quattro ispettori coinvolti erano tutti presenti: Gardénal, che si occupava della Federazione degli Studenti Rivoluzionari [ ], tendenza "lambertista" [ ] della quarta Internazionale [ ]; Léon, dislocato presso la Gioventù Comunista Rivoluzionaria [ ], vicino alla quarta Internazionale; Schmidt, membro del Partito comunista; e Joseph incaricato della Unione delle Gioventù Comuniste marxiste-leniniste.

 

"Signori, cominciò Marcellin, dopo le mie informazioni, l'occupazione della Sorbona da parte delle forze dell'ordine è iniziata in seguito a un malinteso. L'ispettore Janvier, allora preposto al servizio di igiene della prefettura di Parigi, era stato inviato nel cortile della Sorbona, in civile. Aveva come misssione di sorvegliare il posto e di indicare se i luoghi potevano essere occupati senza incidente. Meno di dieci manifestanti e saremmo entrati, più di dieci e avremmo bloccato le uscite allo scopo di parlamentare con essi. L'ispettore doveva agitare due volte il suo fazzoletto rosso se l'operazione era realizzabile e non fare nulla se gli estremisti erano più numerosi.

"Alle ore quindici, l'ispettore agitò due volte il suo fazzoletto, poi l'agitò come un forsennato. Ritenendo che il segnale fosse chiaro, il commandante dei CRS ordinò un assalto massiccio e immediato della facoltà, e i nostri uomini si incontrarono faccia a faccia con più di cento individui armati di mazze da picconi.

"Quando gli fu chiesto di spiegare il suo gesto insensato, Janvier raccontòche un volatile aveva defecato sui suoi abiti e che aveva perciò preso il suo fazzoletto per asciugarsi. Comprendendo troppo tardi il suo errore, aveva allora cercato di porvi rimedio, attizzando così ancor più l'incendio che aveva appena acceso. Fu ovviamente retrocesso di grado. Ritrovammo le sue tracce durante la notte del 27 maggio, su una barricata. Pretendeva di trovarsi là per sgraffignare delle informazioni. Sperava di poter così riabilitarsi. Parlò di complotto, di caso, di destino crudele. Da parte mia, credo che quest'uomo fu uno dei personaggi determinanti del vasto complotto internazionale che ha provocato Maggio 68. Una pedina forse, ma che svolse il ruolo di detonatore. In effetti, come credere al caso, quando comonicia una rivoluzione mentre il presidente della Repubblica e il Primo ministro si trovano all'estero? Io accuso il comunismo internazionale e la sua strategia internazionale, accuso il SDS  [3] tedesco e la Tricontinentale [4] di averci attirato nel vespaio della Sorbona...

"Se vi ho riunito oggi, è per conoscere la vostra opinione, a voi che siete stati immersi in questo bagno putrido di lebbra e di caos, a voi ai quali rendo omaggio per il vostro senso dell'abnegazione e del sacrificio. Chi vuole la parola?".

 

Marcellin si raddrizzò e accese il suo vecchio mozzicone giallastro. Percorse il gruppetto e designò con il mento il poliziotto infiltrato presso i "lambertisti".

- Gardénal, cosa si racconta tra i vostri grandi dormitori?

Lo sbirro si grattò il cavallo dei calzoni con ostentazione. Indossava una giacca di cuoio nero e sotto nulla. Dei ciuffi di peluria sgorgavano dal collo. Spostò la sua gomma da masticare dall'altro lato della mandibola e tagliò viuolentemente l'aria con la sua mano sinistra sino a giustapporla alla sua mano destra:

- Io, signore, quel che credo, è che tutto questo è una gran cazzata. Si deve guardare piuttosto la verità in faccia. La giovinezza, voleva la rivolta. Voleva battersi. Avremmo potuto organizzare una manifestazione davanti al Palais Bourbon. E' ciò che chiedevano la FER e i gruppi Révolte: centomila giovani davantio il Parlamento. Invece di questo, i "pablisti" della Gioventù comunista rivoluzionaria hanno preferito diluire il movimento in uno sperpero piccolo borghese... E' per questo che i dirigenti della FER hanno preso le loro responsabilità e hanno domandato ai giovani di non partecipare alla notte delle barricate...".

Marcellin scosse la testa:

- Se ho ben capito, non è colpa vostra? Ne terremo conto più tardi. Ma Janvier?".

Gardénal spostò virilmente il suo congelatore genetico respirando rumorosamente:
- L'ispettore Janvier? Una cosa insignificante nella giostra della Storia. Non conosco. Andate piuttosto a vedere dalla parte dei "pabs" della JCR.

- Indicate il vostro collega, Léon, disse Marcellin. Léon, cosa dite? Ma soprattutto, cercate di parlare chiaramente, come tutti. A volte ho l'impressione di essere caduto in un agguato teso dagli estremisti. I vostri accenti e le vostre espressioni mi fanno venire i brividi alla schiena...

Léon, ispettore di seconda classe. Ventidue anni. Capelli lunghi alla Che Guevara... Voce alta e chiara...

- L'ispettore cardénal ha l'onestà di riconoscere che l'organizzazione da lui infiltrata non c'entra affatto con gli avvenimenti. Avrebbe potuto comunque evitare di andare a dormire, quella sera del 9 maggio. Avrebbe saputo molte cose rimanendo per la strada. Per quanto ne so, la JCR ha partecipato a fondo al movimento. Ognuno di voi conosce Bensaid, Krivine e compagnia. Ci hanno creduto fermamente. Ma da qui a considerarli come dei padrini... Credete veramente, signore, che basti schiacciare un bottone per fare scendere tutta la gioventù per la strada? Credete veramente che sia possibile scatevare lo sciopero generale attraverso la sola magia della manipolazione?..."

- Ma Janvier? Lo interruppe Marcellin.

- Sconosciuto al battaglione, rispose Léon. Mai sentito parlare. E anche ammettendo che l'ispettore sia stato la creazione di un vasto complotto, l'attore principale degli avvenimenti, fu per noi, la polizia!

- Non ho chiesto la vostra opinione, ma quella dell'organizzazione in cui siete infiltrato per conto dello Stato.

Léon sbuffò con irritazione:

- Lo so, signore, lo so. Mi atterrò dunque alla stretta relazione dei fatti. Il 3 maggio, avebndo saputo che gli studenti della Sorbona erano tra le nostre mani, dei liceali membri della JCR risalgono il boulevard Saint-Michel gridando "Liberate i nostri compagni!". Sono venti all'inizio, poi altri li raggiungono. Alla Sorbona, il servizio d'ordine studentesco è armato di manganelli, per difendersi contro il gruppo fascista Occident diretto dai signori Madelin, Longuet e Robert. Quando i nostri carri vogliono lasciare la Sorbona con gli studenti arrestati, è troppo tardi. La piazza è neradi folla. I veicoli sono attaccati e i nostri uomini reagiscono maldestramente. Sprangano con la durezza e la mancanza di discernimento appresi in Algeria. Il giorno seguente, tranne l'UNEF e la JCR, le organizzazioni politiche condannano l'azione degli studenti arrestati e sprangati. La solidarietà si organizza ovunque. E poi viene la notte delle barricate, dove tutto viene rovesciato... Di fronte all'ampiezza della repressione, i partiti e i sindacati

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Le Grand Soir.

http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/mots_0243-6450_1989_num_19_1_1467

[2] Javert è un personaggio del romanzo di Victor Hugo "I Miserabili" e nemico del protagonista Jean Valjean e che si suiciderà quando capirà che quest'ultimo è un uomo buono.

 

[3] SDS

 

[4] Tricontinentale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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30 giugno 2016 4 30 /06 /giugno /2016 11:57

Proudhon, Carl Schmitt e la sinistra radicale

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La posta in gioco intorno a una critica del liberalismo 
 

Edouard Jourdain

 

Evitare le aporie schmittiane con Proudhon

Proudhon, e questo molto prima di Schmitt, poneva il problema della resistenza del teologico-politico alla modernità malgrado la proclamazione del diritto umano che egli situa nel 1789 [15]: "Il grande valore delle costituzioni politiche, [...] sopratutto la separazione dei poteri, e cioè la distinzione di due nature, né più né meno, nel governo, natura legislativa e natura esecutiva, come nel Gesù Cristo, Dio, e l'uomo insieme: è sorprendente che nel fondo della nostra politica troviamo sempre la teologia" [16].

Questa denuncia della permanenza del teologico-politico si iscrive innanzitutto in una prospettiva di difesa del diritto al quale il governo può sottrarsi: "Il governo, istituito in apparenza e con una comune buona fede per servire da organo del diritto, possiede inoltre il privilegio di fare, in caso di necessità, astrazione dal diritto e di non essere diretto che dalla ragion di Stato; che così, mandatario della Giustizia, è superiore alla Giustiza; che di conseguenza, più invecchia, più, spinto dalla necessità, accumula sulla sua testa iniquità e avanza verso la sua rovina" [17].

Così lo Stato, in ciò che conserva di attributi teologico politici, rimane "un regime di dispensazioni, di eccezioni, di favoritismi, in cui la nozione del giusto e dell'ingiusto svanisce sotto il miracolo" [18].

Qui non è soltanto il diritto ad essere oltraggiato, è anche la morale che in Proudhon è in una certa misura legata a quest'ultima. Nel 1848, Proudhon fa l'esperienza dello stato d'assedio che egli critica in questi termini:"Lo stato d'assedio, è, tra altre cose, la sospensione della giustizia e delle garanzie legali, e la concentrazione di tutti i poteri nelle mani dell'autorità militare. Sospensione della giustizia e delle leggi! Ciò significa, Monsignori, sospensione della morale" [19].

Morale e politica non sono del tutto dissociabili in Proudhon, il che lo distingue dalla tradizione machiavellica, reinvestita in parte dai marxisti, o ancora dalle teorie come quella di Derrida per cui la Giustizia di dissocia dal diritto positivo. Se la Giustizia per Proudhon non può essere realizzata nella sua totalità, ciò non toglie che le istituzioni e il diritto sono chiamati a incarnarla progressivamente. Là dove Proudhon, dunque, di distingue dalla maggior parte degli autori radicali che riprendono Schmitt, è nella sua volontà di rompere con il teologico-politico, che esso sia di ordine contro-rivoluzionario o sedicente rivoluzionario nel senso in cui quest'ultimo conserva lo stesso schema assolutista. In effetti se presso gli autori in questione possiamo ritrovare una critica della trascendenza, ritroviamo raramente una critica dell'assoluto. Questo è particolarmente flagrante quando ci si occupa alla teorizzazione dell'assolutismo, con una forma che si vuole democratica, nella lettura di Spinoza fatta da Negri. In quest'ultimo, il rifiuto violento di ogni mediazione lo porta ad affermare l'"essere" o il "divino" come "produzione infinita di potenza", giustificando così l'arbitrio assoluto di una politica in cui le singolarità si fondono in una moltitudine che risulta da una negazione della pluralità. Come scrive Negri: "Il mondo è l'assoluto. Siamo schiacciati con felicità su questa pienezza, non possiamo frequentare che questa circolarità sovrabbondante di sensi e di esistenze". "Hai pietà di tutto perché tutto è a te, Signore amico della vita / Tu di cui il soffio imperituro è in ogni cosa" (Libro della saggezza, 11, 26 - 12,1) [...]. Questo è il contenuto dell'essere e della rivoluzione [20].

E' precisamente ciò che rimproverava Proudhon a Spinoza: partire da Dio, dall'assoluto, per fondare una politica il cui sostegno metafisico la predispone ad assumere una forma dispotica [21]. Questa critica dell'assoluto potrebbe avvicinare Proudhon alle tesi di Blumenberg che su questo punto è stato particolarmente virulento verso Schmitt. Anche l'assoluto, reinvestito dalla modernità in una logica immanente, si traduce politicamente nella "democrazia assoluta" che s'incarna soprattutto in un governo della moltitudine o delle masse che costituisce per Proudhon un pericolo fondamentale: Si confonde troppo spesso il governo della moltitudine, della massa (oclocrazia) con la Democrazia. Grave errore... L'oclocrazia, o governo della moltitudine, è quello che agita attraverso masse, attraverso suggestioni subitanee e collettive... Quando si sa di cosa le moltitudini sono capaci, ci si rivolge con disperazione verso l'aristocrazia o la monarchia... In Francia, sotto forme contrarie, è l'oclocrazia che, dal 1789, sotto il nome di opinione, corrente d'opinione, fa tutto il male... Questa sovranità della massa, escludendo ogni riflessione, ogni riserva, ogni discernimento, ogni discussione, è la più orribile delle tirannie" [22].

Qui senza dubbio risiede l'aporia sulla quale hanno urtato la maggior parte dei teorici di una democrazia sedicente "radicale", confondendo democrazia e governo delle masse la cui sola capacità politica è la mobilitazione e la lotta senza che sia pensato il principio di autonomia. Sono allora privilegiati gli scioperi o le manifestazioni ma molto meno le procedure di democrazia diretta come le aveva potuto sviluppare Hannan Arendt o anche Cornélius Castoriadis.

Questi due autori, che hanno sviluppato chiaramente una teoria politica antitotalitaria in rottura con il marxismo, restano in effetti sospetti agli occhi degli "schmittiani di sinistra" che li citano soltanto raramente (questo è il caso soprattutto di Castoriadis). Il fatto è che per Proudhon le nozioni di limite e di equilibrio delle forze sono concetti politici fondamentali per pensare la libertà (la qual cosa egli svilupperà soprattutto nella sua teoria del federalismo). Presso la maggior parte degli autori che riprendeono Schmitt, il conflitto e la violenza fondano il diritto senza che vi sia questione di contratto o di morale.

Questa tradizione intellettuale, scaturita al contempo dal marxismo e da un nietzschismo che ha segnato con la sua impronta la corrente filosofica detta "post-moderna", è suscettibile di incontrare Schmitt in un realismo in cui la violenza dei rapporti sociali costituisce la verità nascosta dietro le convenzioni liberali. Ora se Proudhon prende atto dei rapporti di forza e della violenza che strutturano il politico, non per questo egli non concepisce la possibilità di rompere con questa violenza non appena non la si considera come una violenza bruta ma come un fenomeno che si accompagna con le categorie del diritto, della morale e della giustizia; il che gli permette di considerare la possibilità del contratto a valle. Così, per Schmitt, l'interesse del socialismo risulta dal fatto che egli si è interessato particolarmente al problema della condivisione e della distribuzione, il che suppone che egli si pone la questione primordiale della "condivisione". Egli distingue tuttavia essenzialmente due dottrine che non hanno lo stesso valore ai suoi occhi: quella di Proudhon e quella di Marx. "Proudhon argomenta soprattutto per mezzo delle categorie del diritto e della giustizia, con un forte patos morale. E' per questo che il suo socialismo è essenzialmente una teoria della condivisione e della ripartizione" [23].

Marx, al contrario, si è attenuto a una concezione materialista della storia e dei rapporti di forza che lo hanno condotto a definire "lo sviluppo della società borghese come uno stato contraddittorio di divisione" [24].

Qui il vantaggio di Marx, secondo Schmitt, è nel suo realismo che lo porta a far succedere gli stati della appropriazione, della divisione e della produzione secondo un certo ordine, mostrando così il ruolo della violenza della storia e adattandovisi, potremmo dire, a motivo del solo fatto che essa costituisce una necessità di ordine teleologico. Così Schmitt, contro il moralismo di un Proudhon, afferma che "L'appropriazione, la divisione e la produzione il cui valore e posto variano secondo i casi strutturano ogni sistema economico, giuridico e sociale sino al momento in cui, durante delle trasformazioni spesso sorprendenti, ridiventano dei fenomeni violenti" [25].

Da questo momento, il pericolo di una tale analisi consiste nel giustificare la violenza da un punto di vista teleologico in cui la finalità politica risulta ineluttabilmente da una ascesa agli estremi di cui la guerra è l'orizzonte necessario: da Lenin a Schmitt non vi è dunque che un passo se si considera che la dialettica amico-nemico deve approdare a un'egemonia dell'uno sempre minacciato dall'esistenza dell'altro [26].

Il principio leninista secondo il quale non si può fare a frittata senza rompere le uova, ripreso da Zizek, non vuol dire che la rottura dei vasi sia inevitabile: le uova rappresentano la sostanza di una frittata che è tanto più bella quanto più uova si rompono. Proudhon prende la guerra sul serio allo stesso modo del fenomeno religioso, si distingue tuttavia da Hegel a cui rimprovera di non vedere in essa né moralità né immoralità ma soltanto un fatto storico e necessario [27].

Hegel ammirava Napoleone e la sua forza di conquistatore, la vedeva come una necessità, ma il patriottismo tedesco non poteva adottare questo punto di vista. Per Proudhon, la ragione della guerra non è la ragione della necessità, e la forza non costituisce tutto il diritto. Secondo lui, all'inizio, la guerra produce il Diritto perché la guerra è giustiziera, il guerriero è dunque "sacro per la difesa del diritto, per la punizione del crimine e la protezione del debole: questa è la prima forma della giustizia nella società" [28].

Il conflitto in senso ampio, superando la dimensione militarista votata a scomparire o per lo meno a restringersi considerevolmente sotto i colpi della Giustizia, suppone la lotta tra gli uomini, il che è da una parte "inevitabile" e dall'altra "bene": "Da una parte, ciò è inevitabile. E' impossibile, infatti, che due creature, in cui la scienza e la coscienza sono progressive, ma che non procedono alla stessa velocità; che, su ogni cosa, partono da punti di vista differenti, che hanno degli interessi opposti e lavorano ad estendersi all'infinito, siano mai del tutto d'accordo. La divergenza delle idee, la contraddizione dei principi, la polemica, lo scontro delle opinioni, sono l'effetto certo della loro vicinanza. D'altra parte, ciò è un bene. E' attraverso la diversità delle opinioni e dei pareri, e attraverso l'antagonismo che essa genera, che si crea, al di sopra del mondo organico, speculativo e affettivo un nuovo mondo, il mondo delle transazioni sociali, mondo del diritto e della libertà, mondo politico, mondo morale. Ma, prima della transazione, vi è necessariamente la lotta; prima del trattato di pace, il duello, la guerra, e ciò sempre, ad ogni istante dell'esistenza" [29].

Se ben compresa la legge dell'antagonismo, il conflitto non deve più approdare a un'ascesa agli estremi che avrebbe come conseguenza la formazione di un'egemonia che avrebbe come funzione la soppressione coercitaiva di ogni conflitto. Essa deve al contrario permettere la possibilità della formazione di una ragione pubblica in cui l'equilibrio delle forze [30], che suppone la riappropriazione da parte dei cittadini della cosa pubblica e da parte dei produttori e consumatori della cosa economica (attraverso ciò che Proudhon chiama la "democrazia industriale"), procede dall'eliminazione di ogni possibilità di assolutismo.

Così la pace non è definita negativamente come un'assenza di guerra ma come la ragione della guerra trasfigurata dalla Giustizia, dando in tal modo un contenuto positivo alla legge dell'antagonismo che non può più degenerare in distruzione e in massacro: "la pace non è la fine dell'antagonismo, il che vorrebbe dire in effetti la fine del mondo, la pace è la fine del massacro, la fine del consumo improduttivo degli uomini e delle ricchezze. Tanto e più della guerra, la pace, la cui essenza è stata sinora mal compresa, deve diventare positiva, reale, formale.

La pace, dando alla legge dell'antagonismo la sua vera formula e la sua alta portata, ci fa presentire anticipatamente ciò che sarà la sua potenza organica" [31].

Questa concezione della pace permette a Proudhon di affrontare al contempo una teoria della deliberazione, del contratto, della Giustizia, in altri termini del Diritto considerato in modo positivo. Proudhon, contrariamente alla maggior parte degli estremisti di sinistra che riprendono Schmitt, concepisce la possibilità del contratto e di una teoria e di una teoria della Giustizia valutando da una parte che la forza non fa del tutto il diritto, che la forza ben compresa suppone l'assenza del suo abuso e di conseguenza un equilibrio generalizzato dei poteri. Se considera la violenza originaria che tuttavia non è tutto, considera la possibilità di rompere con essa concependo un contratto a valle e non a monte così come esserlo sin da quando, come in Hobbes, è ridotto allo stato di mito. Prendendo coscienza delle loro difficoltà e dell'immanenza della Giustizia, sono gli esseri collettivi stessi che decidono della normalità, così l'ordine sociale secondo Proudhon  è il frutto di un costruttivismo giuridico che si oppone sia al decisionismo assolutista dello Stato sia a un normativismo universalista anch'esso trascendente. "Il diritto è per ognuno la facoltà di esigere dagli altri il rispetto della dignità umana nella sua persona; il dovere, l'obbligo per ciascuno di rispettare questa dignità negli altri" [32].

Diritto e dovere si inscrivono dunque in un rapporto di natura egualitaria, motivati da un'eguaglianza nello scambio che è la base di ogni relazione. Da questi rapporti risultano, a partire dal postulato dell'equivalenza della dignità umana, l'equivalenza delle condizioni di lavoro e l'equivalenza di accesso al politico. Così, "la ragione collettiva si riduce, come l'algebra, attraverso l'eliminazione dell'assoluto, a un sistema di risoluzioni e di equazioni, il che equivale a dire che non vi è veramente, per la società, sistema. Non è tanto un sistema, infatti, nel senso che si attribuisce ordinariamente a questa parola, quanto un ordine nel quale tutti i rapporti sono dei rapporti di eguaglianza; dove non esiste né primato né obbedienza, né centro di gravità o di direzione; in cui la sola legge è che tutto si sottopone alla Giustizia, e cioè all'equilibrio" [33].

Qui Gurvitch sviluppa la filosofia di Proudhon affermando che un rinnovamento del pensiero giuridico contemporaneo suppone innanzitutto la dimostrazione che l'autonomia dell'idea di diritto è staccata dai principi individualisti che "non rappresentano che una deformazione unilateralmente universalista" [34].

La reciprocità e le relazioni tra gli esseri collettivi costituiscono così lo spessore giuridico a partire dal quale è concepibile di concepire l'ordine sociale: "L'interdipendenza dei doveri e delle reciproche pretese forma nel suo intreccio l'ordine sociale. E' l'intreccio delle reciprocità giuridiche, supponendo la "realtà degli altri io", in quanto centri delle pretese e dei doveri interdipendenti, che danno al diritto in generale il carattere di un fenomeno essenzialmente legato alla vita sociale" [35].

Affinché questa vita sociale sia resa possibile, si deve dunque ammettere che ogni diritto è nella sua essenza positivo, e di conseguenza, che la forza obbligatoria dei diritti e dei doveri poggiano su delle autorità stabilite comuni (e non sulla diversità delle coscienze giuridiche). L'eccezione e l'arbitrio fanno così posto alla giustizia e all'autonomia in una prospettiva di rottura con il teologico-politico. Così il federalismo, politico o economico, è sempre più di un contratto, è una istituzione stabile che conduce una "vita giuridica propria, distinta dalle relazioni tra i suoi membri e regolata dal suo proprio diritto autonomo, il diritto sociale della totalità da essa costituita" [36].

Questa filosofia politica e giuridica non può inscriversi che in una filosofia della storia distinta da ogni messianesimo e da ogni teleologia, da ogni visione apocalittica, rivoluzionaria e contro-rivoluzionaria, e supera la contesa dei moderni e degli antimoderni, perché la giustizia rimane sempre in fondo a ogni civiltà e ogni epoca, approfondendo incessantemente se stessa. Allo stesso modo la rivoluzione non ha fini, essa realizza a poco a poco la giustizia il cui compimento totale è impossibile, in quanto l'uomo si pone sempre sempre più questioni di quanto possa risolverne.

 

Edouard Joudain

 

[Traduzione di Ario Libert]

 

NOTE

 

[15] La più grande opera di Proudhon, De la Justice dans la Révolution et dans l'Église, [Tr. it. parziale, Torino, Utet, 1968] è interamente dedicata a questa opposizione tra Diritto umano, consacrato dalla rivoluzione francese, e diritto divino, il cui principio è meglio incarnato dalla Chiesa cattolica.

[16] Proudhon, Confessions d'un révolutionnaire, 1848; 1997, p. 176.

[17] Proudhon, De la Justice dans la Révolution et dans l'Église, Tomo I, Garnier Frères, 1858, pp. 385-386.

[18] Ibid., pp. 439-440.

[19] Ibid. p. 442.

[20] Negri, Spinoza subversif, Paris, Kimé, 1992, p. 10.

[21] Sull'interpretazione marxista di Spinoza e le sue differenze con la teoria di Proudhon, vedere Daniel Colson, "Lectures anarchistes de Spinoza, in "Réfractions", n. 2, primavera 1998, disponibile in rete sul sito della rivista.

[22] Citato da Pierre Haubtmann in Proudhon (1849-1855), Beauchesnes, 1997, p. 229.

[23] Carl Schmitt, "Prendre/ Partager/ Paître. La question de l’ordre économique et social à partir du nomos", (1953), in: La guerre civile mondiale, Ere, 2007, p. 59.

[24] Ibid.

[25] Ibid., p. 61. A ciò egli aggiunge una nota a piè di pagina venendo a confermare le intuizioni di Marx insistendo sulla dimensione della "presa": "La storia universale è una storia del progresso - o forse soltanto della trasformazione - dei mezzi e dei metodi  della presa: della presa di terre dei tempi nomadici e feudali agrari e delle prese di mari dei secoli XVI e XVII, alle prese industriali dell'epoca industriale e tecnica con la loro distinzione tra regioni sviluppate, sino alle prese dello spazio aereo del presente. Il rigetto del colonialismo che riguarda oggi i popoli europei è il rigetto della presa, vedere a questo proposito il capitolo 24 del Capitale, in particolare la seconda osservazione su questo capitolo nel quale Karl Marx cita con piacere la "conversazione pedagogica" di Goethe:

Il maestro: Dimmi, ragazzo mio, da dove provengono queste ricchezze? Non puoi essertele procurate da solo.

- Il ragazzo: Esse provengono da Papa.

- Il maestro di scuola: E lui, da dove le ha prese?

- Il ragazzo: Dal nonno.

- Il maestro di scuola: Ma come! Da dove sono giunte a tuo nonno?

- Il ragazzo: le ha rubate" Ibid., p. 63.

[26] La differenza tra Lenin e Schmitt risulta tuttavia dalla differenza che Schmitt fa tra hostis e inimicus, cosa che Lenin non fa in quanto internazionalista per cui non vi è "esterno" per la Rivoluzione. Tuttavia questo accostamento ci sembra legittimo non appena trattiamo di politica interna dove in Schmitt questa differenza non esiste: lo Stato è sempre il prodotto di una guerra civile e deve prevenire ogni sedizione allo scopo di salvaguardare la sua esistenza.

[27] Proudhon al contrario, non disssocia mai la questione politica dalla questione morale di cui ci dice che "è la più grave di tutte e la più sublime". (De la Justice dans la Révolution et dans l'Église, Tomo III, p. 398).

[28] Proudhon, La guerre et la paix, tomo 1, Tops / Trinquier, 1961, 1998, p. 67.

[29] Ibid., p. 64.

[30] In ciò Proudhon si pone come avversario radicale di ogni dialettica hegeliana che sfocia in una sintesi, così come a ogni sua metamorfosi che si ritrovano in Marx con la dialettica della lotta di classe che sfocia nella dittatura del proletariato o in Schmitt con la dialettica amico-nemico che sfocia nella dittatura dello Stato: "I termini antinomici non si risolvono allo stesso modo in cui i poli opposti di una pila elettrica non si distruggono. Il problema consiste non nel trovare la loro fusione che sarebbe la loro morte, ma il loro equilibrio, incessantemente instabile, variabile secondo lo sviluppo della società" (Proudhon, Théorie de la propriété, Lacroix, 1866, p. 52).

[31] La guerre et la paix, op. cit., tomo 2, p. 167.

[32] Proudhon, De la Justice dans la Révolution et dans l'Église, Tomo 1, pp. 182-183.

[33] Proudhon, De la Justice dans la Révolution et dans l'Église, Tomo 2, p. 392.

[34] Georges Gurvitch, L'idée du droit social, estratti in Qui a peur de l'autogestion?, 10/18, 1978, p. 122.

[35] Ibid., p. 221.

[36] Ibid. p. 322.

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31 maggio 2016 2 31 /05 /maggio /2016 05:00

Il laboratorio popolare e i manifesti di maggio 68

Nei manuali scolastici, sulle riviste o nei numerosi libri pubblicati sugli avvenimenti, si trovano dei manifesti in cui il rosso e il nero dominano. La maggior parte sono delle serigrafie uscite dall'Atelier populaire (Laboratorio popolare) e cioè la scuola delle Belle Arti di Parigi, esse riprendono gli slogan della strada, diffondono le idee del maggio 68...

Questi manifesti sono in qualche modo i documenti che testimoniano il meglio dell'effervescenza libertaria di questo momento storico. Chi sono gli artisti che hanno realizzato questi manifesti? Come funzionava l'Atelier populaire? Quali sono le tecniche impiegate?

La Scuola delle Belle Arti, la saggia, l'addormentata è investita dagli studenti il 14 maggio 68. Per due giorni, delle assemblee generali riorganizzano la scuola che assume il nome di Atelier populaire. Contrariamente alle idee ricevute, questo periodo è caratterizzato da una reale organizzazione, necessaria alla produzione in massa di manifesti. Le prime assemblee definiscono i nuovi orientamenti dell'istituzione: riorganizzare il sistema educativo, stabilire un legame con gli scioperanti e utilizzare l'arte come uno strumento di propaganda.


 
 

Si decide di affiggere all'ingresso della scuola il seguente testo: "Lavorare nell'Atelier populaire, è sostenere concretamente il grande movimento dei lavoratori in sciopero che occupano le loro officine contro il governo gaullista anti-popolare. Mettendo tutte le sue capacità al servizio della lotta dei lavoratori, ognuno in questo Atelier lavora per essa, perché si apre attraverso la pratica al potere educatore delle masse popolari".

Il primo manifesto è una litografia intitolata: U sines - U niversités - U nion (Fabbriche, Università, Unione).

La litografia, vecchia procedura di riproduzione non permetteva tuttavia di produrre rapidamente e con un alto numero di copie dei manifesti. Durante l'asssemblea del 14 maggio, l'artista Guy de Rougemont propone di utilizzare la serigrafia. Quasi del tutto sconosciuta in Francia, questa tecnica non era considerata abbastanza nobile e precisa da numerosi artisti che preferivano la litografia o l'incisione.

In cosa consiste la serigrafia?

Il libro Atelier populaire, présenté par lui-même pubblicato da UUU nel 1968 spiega concretamente le diverse tappe allo scopo senz'altro di diffonderne la tecnica al maggior numero possibile.

Per semplificare il discorso, la serigrafia si ispira allo stencil. Consiste nel coprire le parti che non si vogliono stampare di una seta (in origine durante il magio 68 si utilizzava il nylon molto meno costoso). La seta si tende su un telaio di legno e un raschietto serve a stendere l'inchiostro che attraversa e si spande nei luoghi non otturati. I Manifesti di maggio 68 avrebbero quasi tutti utilizzato questa tecnica contraddistinta dalla sua semplicità: assenza di sfumature, mono o bicromia (la maggior parte delle volte)... impomgono un'estetica un pò ingenua alla produzione. Si hanno molti manifesti che non sono altro di fatto che del testo... il che li imparenta ai graffiti che si moltiplicano sui muri di Parigi durante questo periodo.

Molto rapidamente i laboratori producono molte migliaia di manifesti al giorno.

Come sono riusciti gli studenti a produrre così tanti manifesti?

 

L'Atelier populaire si compone di fatto di un laboratorio in cui si concepiscono i manifesti e molti altri in cui li si realizzano: laboratori di serigrafia (il più importante), di litografia, di stencil e una camera oscura.

Un'assemblea generale composta da militanti e artisti si riunisce quotidianamente. Durante quest'assemblea generale, si scelgono i progetti democraticamente dopo dibattito.

I progetti di manifesti sono generalmente fatti in comune dopo un'analisi della situazione politica e degli avvenimenti della giornata o dopo delle discussioni alle porte delle fabbriche. Due domande sono poste in genere: l'idea politica è giusta? ll manifesto tramette bene quest'idea?

Poi i progetti accettati sono realizzati dai gruppi degli Atelier che si riuniscono notte e giorno. Si sono anche costituite decine di gruppi di affissatori, a cui si devono aggiungere quelli dei comitati d'azione di quartiere e dei comitati di sciopero delle fabbriche.

Le responsabilità all'interno dei laboratori non doveva essere che provvisoria e dunque variabile a secondo della necessità. Così l'Atelier populaire divenne un'istituzione aperta e democratica che attirò più di 300 artisti e migliaia di studenti che davano una mano più o meno puntualmente.

(Foto tratte dal libro Mai 68, les mouvements étudiants en France e dans le monde, BDIC,1988)

Chi sono gli attori di questa formidabile produzione?

 

E' difficile citare dei nomi poiché la maggior parte dei manifesti non sono firmati. Questa cosa non era nello spirito dei tempi. Sventura all'artista che avesse avuto la tracotanza di firmare la sua opera. Citeremo alcuni artisti che più tardi hanno attestato la loro partecipazione in questa esperienza abbastanza unica:Gérard Fromanger, Guy de Rougemont, Julio le Parc (membro del GRAV: groupe de recherche et d'art visuel)...

Degli artisti cechi parteciperanno anch'essi a questi laboratori... essi saranno secondo, secondo Fromanger) all'origine dei manifesti che denunciarono l'invasione sovietica nell'agosto 1968.

Esiste un'estetica peculiare ai manifesti di maggio 1968?

Come abbiamo già detto, i limiti tecnici della serigrafia avevano influenzato profondamente la forma di questi manifesti.

Eppure, emerge da questa produzione concentrata in un luogo, in un tempo e da un gruppo di artisti (che discutono molto), una specie di vera e propeia unità originale.

I manifesti sono per la maggior parte delle volte testuali e manoscritti. Gli slogan, i messaggi che sono ritrascritti sono caratterizzati da una profonda spontaneità scaturita indubbiamente in parte dagli slogan scanditi per le strade. Fromanger racconta anche che gli operai, gli studenti venivano agli AG per proporre o far valutare le loro idee. I manifesti afferrano così la freschezza del movimento e diffondono rapidamente le parole d'ordine così come le tematiche: De Gaulle, i CRS e la loro violenza, la libertà, gli scioperi nelle fabbriche, ecc...

Analizzando la maggior parte dei manifesti, si constatano dunque delle ricorrenze: un'immagine che colpisce accoppiata ad un testo breve e vigoroso. Si gioca con delle forme, dei disegni semplici con colori uniformi. Il testo si trova in alto o in basso all'immagine. L'aspetto elementare della realizzazione, e l'umorismo o la ferocità degli slogan contribuiscono a dare un'impressione di forza e di efficacia dei messaggi veicolati. In tal modo i manifesti hanno svolto un ruolo nella mobilitazione e nella diffusione delle idee risolutamente libertarie di quelle settimane.

 

Quelle immagini efficaci e belle oggi pullulano non più sui muri delle nostre città ma sui siti e i blog della rete. Non dubitiamo che di qui a poco il marchandising vi ficcherà il naso con la costruzione di tazze, magliette, cartelle scolastiche per i nostri liceali alla ricerca di icone e messaggi un po' sovversivi ma non troppo!


 
 
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30 aprile 2016 6 30 /04 /aprile /2016 05:00

La dichiarazione anarchica di Londra (aprile 1916)


Risposta del Gruppo anarchico internazionale di Londra al Manifesto dei Sedici

 

Presto saranno due anni che si è abbattuta sull'Europa il più terribile flagello che la storia abbia registrato, senza che nessuna azione efficace sia venuta a ostacolare la sua marcia. Dimentichi delle dichiarazioni di un tempo, la maggior parte dei capi dei partiti più avanzati, compresi la maggiora parte dei dirigenti delle organizzazioni operaie, alcuni per codardia, altri per mancanza di convinzioni, altri ancora per interesse, si sono lasciati assorbire dalla propaganda patriottica, militarista e bellica, che, in ogni nazione belligerante, si è sviluppata con un'intensità che basta a spiegare la situazione e la natura del periodo che attraversiamo.

In quanto al popolo, nella sua grande maggioranza, di la cui mentalità è formata dalla Scuola, la Chiesa, il reggimento, la stampa, e cioè ignorante e credulo, sprovvisto d'iniziativa, addestrato all'obbedienza e rassegnato a subire la volontà dei padroni che egli si dà, da quella del legislatore, sino a quella del segretario del sindacato, ha, sotto la spinta dei pastori dell'alto e del basso riconciliati nella più sinistra delle esigenze, marciato senza ribellione verso il mattatoio, trascinando con la forza della sua inerzia anche i migliori che si trovavano tra loro, che evitavano la morte per fucilazione rischiando la morte sul campo della carneficina.

Tuttavia, sin dai primi giorni, sin da prima della stessa dichiarazione di guerra, gli anarchici di tutti i paesi, belligeranti o neutri, tranne qualche rara eccezione, in numero così infimo che si poteva considerarli come trascurabili, prendevano nettamente posizione contro la guerra. Sin dall'inizio, alcuni dei nostri, eroi e martiri che si conosceranno più tardi, hanno scelto di essere fucilati, piuttosto che partecipare alle uccisioni; altri scontano, nelle carceri imperialiste o repubblicane, il crimine di aver protestato e tentato di svegliare lo spirito del popolo.

Prima del 1914, gli anarchici lanciavano un manifesto che aveva raccolto l'adesione di compagni del mondo intero, e che i nostri organi nei paesi in cui ancora esistevano. Questo manifesto mostrava che la responsabilità dell'attuale tragedia incombeva su tutti i governanti senza eccezione e sui grandi capitalisti, di cui sono gli emissari, e che l'organizzazione capitalista e la base autoritaria della società sono le cause determinanti di ogni guerra. E venivano a dissipare l'equivoco creato dall'atteggiamento di alcuni "anarchici sostenitori della guerra", più rumorosi che numerosi, tanto più rumorosi in quanto, servendo la causa del più forte, il loro nemico di ieri, il nostro nemico di sempre, lo Stato, era loro permesso, a loro soltanto, di esprimersi apertamente, liberamente.

Passarono dei mesi, trascorse un anno e mezzo e questi rinnegati continuavano tranquillamente, lontano dalle trincee, a lanciare appelli all'omicidio stupido e ripugnante, quando, il mese scorso, un movimento a favore della pace cominciò a precisarsi, i più noti tra di loro giudicarono di dover compiere un atto clamoroso, al contempo allo scopo di fungere da contrappeso a questa tendenza che voleva imporre ai governanti la cessazione delle ostilità, e perché si potesse credere, e far credere, che gli anarchici si erano allineati all'idea e al fatto della guerra.

Vogliamo parlare di quella dichiarazione pubblicata a Parigi, in La Bataille del 14 marzo firmata da Christian Cornelissen, Henri Fuss, Jean Grave, Jacques Guérin, Hussein Dey, Pierre Kropotkine, A. Laisant, F. Leve, Charles Malato, Jules Moineau, A. Orfila, M. Pierrot, Paul Reclus, Richard, S. Shikawa, M. Tcherkesoff, e alla quale ha applaudito naturalmente la stampa reazionaria.

Sarebbe facile ironizzare a proposito di questi compagni di ieri, addirittura indignarci per il ruolo svolto da loro, che l'età o la loro situazione particolare, o ancora la loro residenza, pone al riparo dal flagello e che, tuttavia, con una incoscienza o una crudeltà che anche alcuni conservatori dell'ordine sociale attuale non hanno, osano scrivere, allora che da ogni parte si vede la stanchezza e l'aspirazione alla pace, osano scrivere dicevamo, che parlare di pace nel momento attuale sarebbe l'errore più disastroso che si possa commettere e che sentenziano: Con coloro che combattono, riteniamo che non può esserci questione di pace. Ora sappiamo, ed essi stessi non lo ignorano, ciò che pensano coloro che combattono. Sappiamo ciò che desiderano coloro che vanno a morire per dirla meglio; pur non nascondendoci che le cause che generano la loro debolezza, li trascineranno forse a morire senza che essi abbiano tentato il gesto che li salverebbe. Noi, lasciamo i compagni di ieri ai loro nuovi amori.

Ma ciò che vogliamo, ciò a cui teniamo essenzialmente, è protestare contro il tentativo che essi fanno, di inglobare, nell'orbita delle loro povere speculazioni neo-statiste, il movimento anarchico mondiale e la filosofia anarchica stessa; è protestare contro il loro tentativo di solidarizzare con il loro gesto, agli occhi del pubblico non illuminato, l'insieme degli anarchici rimasti fedeli a un passato  che essi non hanno alcuna ragione di negare, e che credono, più che mai, alla verità delle loro idee.

Gli anarchici non hanno dirigenti, e cioè dei condottieri. Inoltre, ciò che abbiamo qui affermato, non è soltanto che questi sedici firmatari sono un eccezione e che noi siamo la maggioranza, il che non ha che un'importanza relativa, ma che il loro gesto e le loro affermazioni non possono in alcun modo rapportarsi alla nostra dottrina di cui essi sono, al contrario, la negazione assoluta.

Non è qui il luogo di analizzare dettagliatamente, frase per frase, questa dichiarazione, per analizzare e criticare ognuna delle sue affermazioni. D'altronde essa è nota. Cosa vi troviamo? Tutte le stupidità nazionaliste che leggiamo, da quasi due anni, in una stampa prostituta, tutte le ingenuità patriottiche di cui un tempo si facevano beffe, tutti i luoghi comuni di politica estera con i quali i governi addormentano i popoli. Eccoli denunciare un imperialismo che ora scoprono unicamente presso i loro avversari. Come se fossero a conoscenza dei segreti dei ministeri, delle cancellerie e degli stati maggiori, essi i destreggiano con le cifre d'indennità, valutano le forze militari e rifanno, essi stessi, questi ex detrattori dell'idea di patria, la carta del mondo sulla base del diritto dei popoli e del principio delle nazionalità. Poi, avendo giudicato pericoloso parlare di pace, finché non si è, per impiegare la formula d'uso, schiacciato il solo militarismo prussiano, essi preferiscono guardare il pericolo in faccia, lontano dalle pallottole. Se consideriamo sinteticamente, piuttosto, le idee che la loro dichiarazione esprime, constatiamo che non vi è nessuna differenza tra la tesi che vi è sostenuta e il tema abituale dei partiti dell'autorità raggruppate, in ogni nazione belligerante, in Sacra Unione. Anch'essi, questi anarchici pentiti, sono entrati nella Sacra Unione per la difesa delle famose libertà acquisite, e non trovano nulla di meglio, per salvaguardare questa pretesa libertà dei popoli di cui si fanno i campioni, che di obbligare l'individuo a farsi assassino e a farsi assassinare per conto e a beneficio dello Stato. In realtà, questa dichiarazione non è opera di anarchici. Essa fu scritta da degli statisti che si ignorano, ma da degli statisti. E conseguenza di quest'opera inutilmente opportunista, nulla differenzia più questi ex compagni dai politici, dai moralisti e dai filosofi governativi, contro i quali essi avevano dedicato tutta la vita a combattere.

Collaborare con uno Stato, con un governo, nella sua lotta, foss'anche essa stessa priva di violenza sanguinaria, contro un altro Stato, contro un altro governo, scegliere tra due modi di schiavitù, che non sono che differenti superficialmente essendo il risultato dell'adattamento dei mezzi di governo allo stato evolutivo a cui è giunto il popolo che vi è sottomesso, ecco, certo, chi non è anarchico. A maggior ragione, quando questa lotta riveste l'aspetto particolarmente ignobile della guerra. Ciò che ha sempre differenziato l'anarchico dagli altri elementi sociali dispersi nei diversi partiti politici, nelle diverse scuole filosofiche o sociologiche, è il ripudio dello Stato, centro di tutte gli strumenti di dominio, centro di tutte le tirannie; lo Stato che è, per vocazione nemico dell'individuo, per il trionfo di chi l'anarchismo ha sempre combattuto, e di cui è fatto così buon mercato nell'attuale periodo, da parte dei difensori del diritto anch'essi situati, non lo dimentichiamo, da ogni lato della frontiera. Incorporandosi ad esso, volontariamente, i firmatari della dichiarazione hanno, allo stesso tempo, rinnegato l'anarchismo.

Noi, che abbiamo coscienza di essere rimasti nella linea retta di un anarchismo la cui verità non può essere cambiata per l'avvento di questa guerra, guerra prevista da lungo tempo, e che non è che la manifestazione suprema dei mali rappresentati dallo Stato e il capitalismo, ci teniamo a desolidarizzarci da questi compagni che hanno abbandonato le loro idee, le nostre idee, in una circostanza in cui, più che mai, era necessario proclamarle alte e fermamente.

Produttori della ricchezza sociale, proletari manuali e intellettuali, uomini dalla mentalità affrancata, siamo, di fatto e per volontà, dei senza patria. D'altronde, patria non è che il nome poetico dello Stato. Non avendo nulla da difendere nemmeno delle libertà acquisite che lo Stato non saprebbe darci, ripudiamo l'ipocrita distinzione delle guerre offensive e delle guerre difensive. Non conosciamo che delle guerre fatte tra governi, tra capitalisti, a prezzo della vita, del dolore e della miseria dei loro sudditi. L'attuale guerra ne è l'esempio evidente. Finché i popoli non vorranno procedere all'instaurazione di una società libertaria e comunista, la pace non sarà che la tregua utilizzata per preparare la guerra successiva, la guerra tra popoli che è in potenza nei principi d'autorità e di proprietà. Il solo mezzo per porre fine alla guerra, di prevenire ogni guerra, è la rivoluzione espropriatrice, la guerra sociale, la sola alla quale possiamo, in quanto anarchici, dare la vita. E ciò che non hanno potuto dire i sedici alla fine della loro dichiarazione, noi lo gridiamo: Viva l'Anarchia!

 

Il Gruppo internazionale anarchico di Londra

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7 marzo 2016 1 07 /03 /marzo /2016 06:00

Lucy Parsons, la ribelle

Risultati immagini per albert parsonsSi ricorda troppo spesso Lucy Parsons come "moglie di" Albert Parsons, una delle vittime della repressione del caso di Haymarket Square, giustiziato l'11 novembre 1887. Ora la sua lunga vita di lotta non testimonia che la nascita di un potente movimento sociale e sindacale negli Stati Uniti. Ne fu infatti un'attrice di primo ordine, sviluppando un anarco-sindacalismo che associava anticapitalismo, antirazzismo e antisessismo.

Nascita di una militante anarchica

Lucy è nata nel 1853 nel Texas. Meticcia, secondo la sua testimonianza, di un padre indiano Creek e di una madre messicana, senza dubbio anch'essa di origini afro-americane. Orfana a tre anni, un'infanzia da schiava. Incontra Albert Parsons nel 1870, un vecchio soldato confederato pentito. Si sposano illegalmente - le leggi razziste del Texas proibiscono il matrimonio "interrazziale". Militante contro il razzismo, Albert è esposto: è minacciato di impiccagione, si prende una pallottola nella gamba. Sua moglie e lui temono per la loro vita e fuggono Waco per Chicago, nel 1873.

Una città in cui impersa la miseria, la disoccupazione e in cui, di fronte all'ascesa delle rivendicazioni sociali, si esercita una repressione poliziesca spietata. Albert diventa tipografo ma il suo coinvolgimento nell'anarchismo pacifista lo porta a essere licenziato. Lucy apre una piccola bottega di sartoria per allevare i due bambini. Insieme alla sua amica Lizzie Swank, ospita delle riunioni di lavoratrici dell'indumento. Si impegna anche politicamente contro l'esclusione: quella dei senzatetto, dei disoccupati, dei mutilati... durante il Natale del 1885, guida una manifestazione di miserabili suonando le campane delle case borghesi. Si orienta verso il socialismo rivoluzionario e redige i suoi primi articoli (Socialist, Scribner's Magazine).

The first issue of Scribner's Magazine.

Nel 1883, lei e suo marito fondano l'International Working People’s Association (IWPA), e sviluppano l'anno successivo l'anarco-sindacalismo. Si arruolano l'anno seguente nei Knights of Labor, dove lavorano al federalismo delle lotte. Organizzano delle assemblee per la giornata di otto ore e contro le condizioni degradanti del lavoro. Scrivono numerosi articoli, sopratutto su The Alarm, l'organo del IWPA (fondato da Albert nel 1884. Lucy si differenzia dalle posizioni pacifiste di suo marito. Nell'articolo "To tramps", chiama i senzatetto all'azione diretta contro i ricchi. Sviluppa l'idea, allora molto sovversiva, che la donna deve emanciparsi dalla morsa sociale di casalinga attraverso la lotta sociale.


La svolta di Haymarket Square
Il 1° maggio 1886, Lucy ha mobilitato numerose lavoratrici e guida il corteo insieme ad Albert. Ne segue una brutale repressione. Il 4 maggio, durante la giornata di protesta, una bomba esplode e la polizia ne approfitta per arrestare sette anarchici. Per solidarietà con i suoi compagni e per denunciare l'ingiustizia che li colpisce, 
Albert si consegna alla polizia. Lucy, molto sorvegliata, è interrogata ma non incolpata. La "giustizia" pensa forse che la presenza diu una donna in tribunale può discolpare tutti gli altri. Lucy organizza allora la difesa degli incriminati, con un giro di conferenze (43 nel solo mese di febbraio, in 17 Stati!), dove rivelka un talento di oratrice eccezionale. Attira delle folle immense benché i poliziotti le interdicano - quando ci riescono - l'accesso alla tribuna. Nel proclamare l'innocenza degli incolpati, afferma la legittimità delle loro idee anarchiche, che contribuisce a popolarizzare.

Il processo, per ammissione del procuratore, è politico. Albert e quattro altri anarchici vengono impiccati venerdì 11 novembre 1887 (black Friday). Lucy porta i suoi figli a vedere Albert un'ultima volta ma viene arrestata, spogliata e gettata nuda insieme ad essi in una cella glaciale. Verrà liberata dopo l'esecuzione , malgrado le contestazioni.

Questo omicidio di Stato scatenò una immensa ondata di proteste nel movimento operaio e annunciò altre tragedie (come la sparatoria di Fourmies, il 1° maggio 1891 in Francia), ma anche delle vittorie decisive successivamente.

La lotta a tutto campo

Dopo un periodo di stagnazione, la determinazione rivoluzionaria di Lucy riprende il sopravvento. La sua vita si divide tra il suo duro lavoro di sarta, i suoi due figli e una lotta sociale e sindacale instancabile. Lucy scrive una biografia su Albert e degli articoli sui giornali libertari. Nel 1892, fa uscira il breve mensile anarco-comunista Freedom.

Sollecita un sindacalismo di base, di classe e di massa. Vede in esso l'alternativa necessaria all'illusione delle elezioni e del ricorso allo Stato. Denuncia come un'illusione le concessioni di rappresentatività accordate (soprattutto ai sindacati del mattatoi) nel 1888-1889. Di ritorno dall'Inghilterra dove ha incontrato la Lega socialista, milita per la libertà d'espressione che tanto manca in America. La polizia di Chicago, che non smette di proibirle la tribuna, la ritiene "più pericolosa di mille rivoltosi".

Nel 1905, Lucy Parsons è la seconda donna ad aderire alla International Workers of the World (IWW), sindacato in cui sviluppa l'azione diretta di massa, l'autogestione, lo sciopero generale, la revocabilità dei delegati. Collabora al Liberator, un organo di stampa. La sua influenza è determinate nello sviluppo dell'anarco-sindacalismo e nell'implicazione crescente delle donne nelle lotte sociali.

I successivi dieci anni sono soprattutto dedicati alle lotte contro l'esclusione. Organizza delle marce impressionanti per i senzatetto (nel 1914 a San Francisco) e i poveri (senzatetto e disoccupati, nel 1915 a Chicago). Nel 1916, partecipa alla campagna per Tom Mooney e Warren Billings (due sindacalisti ingiustamente accusati di un attentato dinamitardo, che saranno discolpati).

Si dedica anche, msoprattutto negli anni 1920-1930, alla lotta contro le discriminazioni razziali: denuncia i linciaggi negli Stati del sud, partecipa attivamente alla campagna vittoriosa contro l'esecuzione dei ragazzi di Scottsboro (nove giovani neri ingiustamente accusati dalle autorità giudiziarie di aver stuprato due giovani donne). Questa lotta accanita contribuisce a politicizzare i militanti neri d'America e prefigura i movimenti per i diritti civili che si svilupperanno più tradi.

Divergenze tra anarchici

Gli anni novante del XIX secolo in cui Lucy Parsons, persuasa dell'imminenza di una rivoluzione, si coinvolge a fianco dei lavoratori, sono anche paradossalmente quelli che la separano poco a poco da altre figure saleinti dell'anarchismo. Lotta contro il condizionamento sociale della donna ma difende anche il matrimonio e la famiglia. Pensa l'oppressione sessista all'interno della coppia come una conseguenza dello sfruttamento economico capitalista. Secondo lei, le riflessioni degli anarchici sul libero amore, a quei tempi molto di moda negli anni 90 del XIX secolo - e soprattutto difese da Emma Goldman – sono delle riflessioni delle classi medie e la priorità deve essere la lotta di classe che condiziona tutto.

Emma Goldman, che sviluppa un femminismo più radicale, accusa Lucy Parsons di aver costruito la sua popolarità sul suo solo marito e non la ricorda nelle sue Memorie che come "una giovane mulatta" comme « une jeune mulâtre » (a young mulatto) sposata da Albert Parsons, nata in una famiglia razzista del sud. Lucy accusa, quanto a lei, Emma Goldman, senza figli, di non capire la condizione delle donne povere, per la maggior parte madri.

Le si rimprovera anche di aver aderito nel 1927 alla International Labor Defense, un movimento originatosi dal Partito comunista che milita contro il razzismo, e di collaborare con la National Association for the Advancement of Colored People, che difende l'eguaglianza tra neri e bianchi, organizzazione anch'essa emanazione dei comunisti. Lucy, che esortava già i neri nel 1886 a sbarazzarsi dei partiti politici così come delle chiese, si dichiarava anarchica e non aveva cura dei petegolezzi. Ma gli anarchici americani, ancora poco impegnati nelle lotte antirazziste, capiscono male questa prossimità di fatto con il PC. Il fossato si amplia.

La storiografia ritiene che Lucy avrebbe infine aderito al Partito comunista nel 1939, alla vigilia della guerra, delusa dalla mancanza di organizzazione e coesione degli anarchici. Per far fronte all'ascesa del fascismo e del capitalismo. Tuttavia, alla morte di Lucy Parsons, il Partito comunista saluterà la militante senza dire che fosse membro del PC… il che, vista la sua popolarità, è per lo meno strano. Ma indubbiamente questa questione non ha molta importanza per capire la figura, molto pragmatica, di Lucy Parsons che diffidava delle etichette. Per lei, contavano soltanto le lotte concrete, contro tutte le oppressioni.

Lucy continua a partecipare a delle assemblee sino al 1941 dove difende, malgrado una vista in declino sino alla cecità, la libertà di espressione.

 

Una tragica fine


Lucy muore nell'incendio della sua abitazione di Chicago, il 7 marzo 1942, all'età di 89 anni. La nostra mancanza di conoscenza della sua opera non si spiega con il suo riserbo nel parlare di sé né attraverso le incomprensioni con alcuni anarchici americani.

La colpa è soprattutto della polizia, che ha fatto sparire la totalità delle sue numerose carte e 1500 libri, sequestrati nella sua abitazione prima della sua morte. Non avendo potuto farla tacere quando era viva, non restava che cancellare la sua memoria.

Le sue spoglie riposano vicino allo Haymarket Monument a Chicago, dove un parco porta il suo nome da molti anni.

La sua lotta rimane e non morirà mai. Lucy non diceva forse, nel 1937, all'età di 84 anni: "Oh, Miseria, ho bevuto alla coppa del dolore sino alla feccia, ma rimango una ribelle!".

 

Jean, gruppo Pavillon noir.

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15 febbraio 2016 1 15 /02 /febbraio /2016 06:00

Maximilien Rubel

Maximilien Rubel è morto il 28 febbraio 1996. Era un comunista libero e iconoclasta, che conosceva perfettamente i testi di Karl Marx - di cui ha curato una gran parte in quattro volumi per La Bibliothèque de La Pléiade.

Sostenitore, come Marx, della auto-emancipazione, è stato durante il corso della sua vita stravolto dalla politica antimarxista di numerosi "marxisti" (in realtà dei leninisti). Si era impegnato nel ricercare, sotto le deformazioni e falsificazioni, il pensiero originale di Marx. E' per questo che passò dei decenni a pubblicare i testi di Marx basandosi sui manoscritti originali. Rubel considerava che "In Marx, l'adesione al comunismo, è innanzitutto l'adesione alla causa dell'emancipazione dei lavoratori che si identifica con la causa umana universale" [1].

In quanto comunista, Maximilien Rubel combatteva tutte le forme di alienazione. Ciò lo portava naturalmente a combattere il regime dell'URSS, che analizzava come "un'economia che si ritrova, secondo la teoria marxiana, al primo stadio dell'accumulazione capitalista" [2]. Per un sostenitore del socialismo  e del comunismo, la condanna era doppia: da una parte perché era come tutti gli altri regimi mondiali una società in cui il potere era detenuto da una infima minoranza (al contrario dei principi della democrazia che implicano il potere al popolo stesso) e in cui regnava lo sfruttamento attraverso il salariato, da un'altra parte perché l'URSS viveva su di una mistificazione, una menzogna permanente che assimilava l'oppressione capitalista al... socialismo! Rubel scriveva così nel 1965: "Non vi è socialismo nel mondo attuale. Ciò che si chiama così, per abuso di linguaggio, non è in realtà che una nuova forma dello sfruttamento e dell'oppressione dell'uomo sull'uomo [...]; lo si dovrebbe chiamare: capitalismo di Stato" [3]. Maximilien Rubel aveva già sviluppato quest'analisi in un articolo del 1957: La Croissance du capital en URSS [Lo sviluppo del capitale in URSS), ripubblicato in Marx critique du marxisme [Marx critico del marxismo] articolo fondamentale in cui Rubel segnala che i principi di Marx hanno già condotto dei teorici marxisti a identificare il carattere capitalistico dell'URSS (Anton Pannekoek, Cornelius Castoriadis [4], Otto Rühle…).

Rubel ha così fatto parte dei comunisti che, nel corso del XX secolo, hanno semplicemente riaffermato che uno Stato capitalista e poliziesco era per forza l'opposto dei valori del movimento democratico ed egualitario come lo è il comunismo. Si ritrovava così una delle tesi del pensiero di Marx: non è il tipo di capitalismo crea l'alienazione e lo sfruttamento, ma il capitalismo stesso, l'organizzazione capitalista e gerarchica del lavoro e dei rapporti sociali.

Gli scritti di Rubel, soprattutto Marx critique du marxisme (raccolta edita nel 1974), sono degli appelli viventi e argomentati per l'autoemancipazione degli esseri umani, che necessita di abolire il capitalismo e le sue fondamenta (sfruttamento attraverso il salariato; culto del denaro, della competizione e della forma merce) così come di tutte le forme di dominio (e soprattutto gli Stati).

 

[Traduzione di Ario Libert]

 

NOTE

 

[1] Maximilien Rubel, Marx critique du marxisme, Payot, 1974 (2000), p. 355; tr. it. Marx critico del marxismo, Cappelli, 1981).

[2] Marx critique du marxisme, p. 323.

[3] Marx critique du marxisme, p. 415.

[4] Citato con lo pseudonimo dell'epoca, Pierre Chaulieu.

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Presentazione

  • : La Tradizione Libertaria
  • : Storia e documentazione di movimenti, figure e teorie critiche dell'esistente storico e sociale che con le loro azioni e le loro analisi della realtà storico-politica hanno contribuito a denunciare l'oppressione sociale sollevando il velo di ideologie giustificanti l'oppressione e tentato di aprirsi una strada verso una società autenticamente libera.
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